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TITOLO: Vita di Alberto Pisani
AUTORE: Carlo Dossi
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: Vita di Alberto Pisani
Centopagine - Einaudi - 1976 -
Giulio Einaudi Editore S.p.A. Torino
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 25 novembre 1999
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Marina De Stasio, [email protected]
Clelia Mussari, clely@tiscalinet.it
Claudio Paganelli, [email protected]
REVISIONE:
Marina De Stasio, [email protected]
Clelia Mussari, clely@tiscalinet.it
Claudio Paganelli, [email protected]
PUBBLICATO DA:
Alberto Barberi
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Carlo Dossi
Vita di Alberto Pisani
A Cletto Arrighi
che, primo, si accorse di me
Capitolo quarto
Degno di Paracèlso! È lo studio degli studi. Sente il tabacco, l'inchiostro e la
citazione latina. È a tramontana, a terreno; è a volta da cui die' in fuori l'umidità. Tien le
pareti, tutte a scaffali, con su spaventosi volumi in ramatina come il sospiro dei gatti. Ecco
i dieci schienali arabescati di oro della rarìssima òpera «de nùmero atomorum»; presso, è la
completa voluminosa sèrie delle gramàtiche (gramàtica, cioè a dire, il modo con cui si
apprende a piedi il montare a cavallo); poi, raccolta delle più massiccie disputazioni... e
quella sulla parola culex, e l'altra intorno alla lèttera e considerata siccome còpula, e la
arcifiera «sulla natura dell'aurèola del Monte Tàbor». Ed ecco, in un tratto dell'ùltimo
palco, il famoso trattato «de nuce beneventana» quaranta tomi in-octavo, vestiti di
pergamena, i quali, per il manco di uno, sèmbran dentiera priva di un dente occhiale; ecco
tagliando corto una infinita turba di libraccioni, e nelle scansìe e fuori... spècula,
theatra, convìvia, thesàuri... di astrologìa, teologìa, etimologìa, ed altre scienze in ìa
tutta marròca.
Ma st! c'è seduta. Avverti a que' seggioloni pesanti, in cerchio, alti della spalliera,
che quàdran le chiappe e intontìscon la nuca... Vuoti? eh! cnon toglie dà; barba facit
philòsophum, il seggiolone val l'acadèmico. Èrano, non è l'ora, occupati da sei polpettoni
eruditi; dei quali, i troppi tìtoli e i nomi, chi sa tenere a memoria? chiarìssimi peraltro, e
che, ronfando, si rifacèvano delle dotte fatiche.
E vuota è pur la poltrona dietro la tàvola. Vi si scriveva. Che? Stanno, sullo scrittojo,
pigne di calepini e di còdici, uno scannello, quaderni di carta involgi-salame, una bottiglia
d'inchiostro, e un moccichino tanè; sotto, due pantòfole. Sfido io a non vi si porre con
l'ànimo di fabricare un in-folio, grande, grosso, e zeppo di erudizione, cioè di roba furata;
sfido io a non attìngere da quella màchina di calamajo d'ottone, stopposo, con quelle penne
di oca scrizzanti, se non se dei perìodi indiavolati, che tèngono il capo, dove, naturalmente,
si mèttono i piedi, coi ragnateli in mezzo, fatti per disgustarci dal lèggere, oppure foggiati
ad una maniera, di tante lìnee, di tante parole, senza un chiarore un bujo, che pare
dìcano tutti la medèsima cosa, non c'invogliando di ricercarne altre.
Ma, giuraddiana! ove mai riuscimmo? Fallata ho la strada. Da capo!
Però, si faccia prima tonnina di questa gran tarabàccola d'ipocrisìa e di scienziata
idiotàggine; si abbàttano le illustrìssime sedie... dalle, allo scrittojo! una spinta, un'altra.
Senti una gamba che scricchia... cede... Alla larga! E lo scrittojo patatràcca giù; vanno
sossopra scartafacci e libroni; la boccia d'inchiostro si spezza... quante dissertazioni
abortite!... Gigio, vuoi che ti tenga la scala? Bùttami abbasso quel tarapatàm... Mi ti
raccomando la testa! S'ciàncami dalle loro coperte di cuojo, scarpe andate a male, tante
poltrone scritture. Che è questa? «Question moral si la bìbida del chocolate quebranta el
ayuno eclesiàstico»... al diàvolo! Gtai volumi, che nessuno più vuole, che fan starnutare
chi li apre! Solo, rispàrmiami le cartepècore... per le marene allo spìrito. Ma, non perdòno
a' scaffali! strappa; uno tràe l'altro; tutto è tarlato, muffito... Che svolazzo di tarme! che
còrrer briaco di topi! Quà, la stadera.
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E si ripari in un altro studio; ben grazioso, bellino, n'è vero? Quì, la scienza non teme
la luce; questa, entra a larghìssime onde. Sulle pareti, dalla tappezzerìa gris-perla
ammarezzata, vedi fotografìe con alto màrgine bianco, incorniciate leggermente d'oro... il
Partenòne... il Pandròsio... tutte cose che tèrgon la vista; sul lustro intavolato, sedie
dall'elegante profilo, fàcili a mòvere; sul tavolino, niente libri, bene una rosa non aperta
del tutto, in un bicchiere d'àqua. No, quì non ci ha perìcolo d'instupidirsi a furia di sgobbo,
quì bisogna pensare col proprio cervello, e quì i pensieri, passati a ingentilirsi nel cuore,
dèvono saltellare allegri giù dalle dita lungo quella cannuccia d'argento a penna d'acciajo,
dèvono rimanere prigioni senza penne sciupate, sopra il fogliuzzo di lùcida carta, innanzi
agli occhi di quell'Amorino di bronzo, il quale, sull'orlo del calamajo, si stà fregando il
nasuccio, tìntogli da un altro mariolo d'Amore dal di là della pozza.
Nè ci è manco a temere che le novelline idee si spaurìscan vedendo i freddi resti delle
loro antenate. I libri, nel nostro studiolo, chiusi in una breve scansìa di àcero rimpetto al
franclìno, son, quasi tutti, vivi, vivìssimi. Pochi, ma con i baffi. E vàlgono una biblioteca di
centomila volumi, se, a dire il vero, non la val l'abicì, che tien, fra il panetto e la mela nel
panierino, lo scolaruccio.
Oltredichè son tutti con il millèsimo dell'ottocento sonato, a carta quasi una panna, a
caràtteri nìtidi e svelti. Se clàssici, senz'una di quelle profonde dichiarazioni, che
appìccansi ai passi più chiari per rènderli oscuri, o note che màndan da Erode a Pilato.
Come, del pari, senza œneis ligneis figuris, sia nel testo, sia aggiunte. Alberto Pisani
non ne poteva soffrire, fòssero state di un Van Dyck. Per lui, gli illustratori erano gente,
che gli si volèvano imporre alla fantasìa, che, non chiamati, s'introducèvano là, dove
desiderava trovarsi col suo autore da solo a solo.
E, giacchè parliamo di libri, Alberto, fra le cento stranezze, ne contava parecchie
intorno alle legature e ai formati. Secondo lui, a Tàcito, a Machiavelli stava bene l'in-
quarto, il tomo ùnico, la coperta robusta, sèmplice, seria; Metastasio invece potèvasi
ròmpere a volumetti e a molti, caricare di fregi; Ortis dovèasi lasciare in camicia, molle,
pronto a sparire sotto ai quattr'occhi della signora maestra.
E ora, questo Alberto Pisani, che è un brunettino dal viso tanto quanto soffrente,
magro, e di un venti anni e coda, quantunque ne dia a vedere al più al più diciasette, stà in
pie' su 'na sedia alla libreriuccia aperta. Egli, coll'indice, scorre il dosso dei libri del
palchetto di mezzo. Si ferma a Parini, lo tràe di rango, pone sull'ùltimo piano. Sègue. Passa
l'epistolario di Ugo, insigne romanzo perchè non scritto a disegno, perchè di tale che
fieramente sentiva; passa il cigli-aggrottato e taciturno Alfieri, stoffa di Dante; e l'amoroso
professor di diritto, cui certo qual rugginume più spicco e malìa che non a Petrarca
l'addormentatrice scorrevolezza; passa «I Promessi» cìrcolo chiuso, adoràbile misto
d'ingenuità e malizia, lo stile appunto che Beccaria invocava e di nuovo si arresta.
Chi intoppa è il Boccaccio. Alberto delicatamente il rimove, lo lascia cadere vèr
terra. Poi, tira innanzi; e dècima.
Finita la strage, ridispone i supèrstiti.
Stavolta, Aleardi riesce accosto a Carducci; uno, poeta dai contorni nebbiosi, dal
tristo abbandono, che stringe alle làgrime; l'altro, risoluto nell'andatura, dai versi di acciajo,
che infiamma tutti e due, strènui. Così, Rovani, artista-scienziato, si appressa a Gorini,
scienziato-artista; Rovani, dall'ingegno settèmplice, rossiniano, che, dopo di averci, con
uno stile vastamente umorìstico, narrato cento degli ùltimi anni della vita del mondo
torna a crearsi e con un periodare togato, dissolvendo la Roma convenzionale delle
platee e dei panchi che spiega capponi non àquile, soffia potente vita in una Roma vera,
messa già insieme dall'antiquaria pazienza, completa forse, ma rimasta cadàvere; Gorini,
altìssimo genio, che sa forzar la materia a narrare le antiche vicende e a predir le venture, e
che nel sublime racconto ritrova i fili d'insospettate scoperte, nè, pago di èsser profeta di
splèndidi veri, splendidamente nuovo Galileo li annuncia.
Quì lo sguardo di Alberto cade sulla coperta della «Vita Nuova». Corrèvagli sempre
nell'incontrarla un trèmito di simpatìa; ora, non gli è possìbile oltrepassare, toglie il
mignone libruccio di mezzo ai vicini, e s'aggruppando sul màrgine dell'armadietto base alla
librerìa, i pie' sulla sedia, l'apre. Ecco Alberto entrare in quella spirìtica vita, dove òdonsi
bizzarri suoni, balùginano strani chiarori, illuminelli di specchi e riflessi di àqua; èccolo
dolcemente sorpreso da quella eròtica malinconìa sotto la quale l'adolescente Allighieri si
coricava, angosciato, in làgrime «come un pargoletto battuto».
Imbruniva. La mestìssima ora cullava il crescicore dei due giòvani amici. Alberto
tenea dietro con gli occhi umidamente appannati alle parole di Dante. Allorchè queste,
insieme all'ùltimo lembo di luce, infievolìrono, i pensieri di Alberto, a poco a poco, loro si
fùsero entro, poi continuàron da soli.
Fu la miràbile Beatrice, vera? e tutta vera? oppure Dante, dalla sua unicità
condannato a non trovare altri, che, pari a lui, sentisse, se la plasmò o compì nell'alta
fantasìa, poi illuso gioì e sofferse dell'ombra sua?... Ma, chèh! Dante a parte; quantùnque
da ognuno si dica che Amore ci è, chi veramente il travide? In questa folla che passa,
mai non cessando, e si traùrta come i pajoli, tingèndosi anche, i più, cioè il marame,
crèdono amore, cose che ponno avere altri nomi; i gentilìssimi, e pochi, sospìrano
inutilmente il loro secondo ed ùltimo tomo.
Quanto ad Alberto, nulla! Gli parea la vita, monòtona, stracca, come una strada
postale alla Bassa. Vedeva bene un nùvolo di giovanette, ma neppure una tirata su ad
amare; tutte di matrimonio, o di altro; poi, stesse maniere, spìrito uguale, una medèsima
aria di viso; di più, legate a questi cìnque palmi di terra da un nome, da una parentela, da
un patrimonio. No, no Alberto non ne voleva; troppo dense, troppo reali.
Alberto avrebbe invece voluto una semidiàfana amante. A notte chiusa i convegni.
Ella sarèbbegli apparsa vestita di abbagliante beltà, contornata da un filo nebuloso di luce.
Fianco a fianco, entro il lume lunare, avrèbbero passeggiata la solitaria campagna,
favellando de' cieli. Al rischiararsi di cui disciòltasi ella ne la ròsea nebbia Alberto,
gonfio di amore, fiero di tanto segreto, sarebbe tornato nel sòlito.
Così, egli avrebbe voluto che la sua strana amorosa entrasse, mentre stava scrivendo,
nello studietto, e lievemente gli sedesse di contra. Ed egli, alzando gli occhi, avrebbe
incontrato quelli di lei... nuotanti nella passione. Pure, non si sarèbber nemmeno toccati,
mai. Alberto credeva amore perfetto un fascio di desideri ardentìssimi, di cui si fuggisse
l'adempimento. Scopo raggiunto, amore finito.
E anche adesso, in questa ora grigia nella quale sentiva la fatica del vìvere, ella
pietosa dovea venire a lui; di dove, ben non sapeva, ma la dovea per quella porta dallato al
franclìno... Epperchè no? che ci ha d'impossìbile? Forse, ella ne era già dietro; forse,
posava la mano sulla maniglia...
E Alberto, inebriato dalle imàgini sue, riste', fiso alla porta, attendendo.
Passàrono alcuni momenti.
Trac; la maniglia diede un sobbalzo..
Ne sobbalzò egli pure...
Le imposte infatti si aprìvano.
Capitolo primo
Un dopo-pranzo di estate; il sole da trìpoli ancora alle gronde, e stelleggia i vetri a
Praverde. Praverde è una brigata di case attorno di un campanile su 'n monticello isolato.
Sotto di lui, la pianura. L'occhio, dall'alto, non si lascia mai di còrrere lungo le viti a
festone ed i filari di gelsi dalle seguaci ombrettine; di attraversare i verdi pratelli solcati di
rivoletti e i campi dalle ande quasi a riga e compasso; di girare e le cascine e i tuguri,
così puliti, così di pace... in distanza, saltando e risaltando canali, siepi, sentieri. È, come si
avesse innanzi una gran planimetrìa a colori.
Ma, da lontano, un rintrono. Che vi ha? Niun contadino astròloga il cielo. Vi ha un
temporale, ma è copia; quello dell'uomo; cattivo mille volte di più; mille di meno,
maestoso.
Cannone che tuona annuncia sempre malanno; dove ora rimbomba, quel medèsimo
sole, che quì a Praverde con un faccione padre-famiglia assàngua le uve e annera la barba
alle spighe, rischiara la via, rilievo al delitto. in fondo, venti miglia da quì, case
rubate, tralci schiantati, pozze di sàngue; in fondo o fraolìne infelici! migliaja di
poveretti, temerari per la paura, incalzàndosi, ammontonàndosi, sàlgono un colle, sotto la
scaglia che spazza.
Ma dileguata è la luce; il cannoneggiamento tàque.
A Praverde, su 'n terrazzino che riguardava la sanguinosa scacchiera, stàvano
abbracciate due donne; sòcera e nuora. Inondava il raggio lunare la piana, come un dolce
rimpròvero.
Mamma diceva con angoscia Arrighetta me l'hanno ucciso il mio Alberto...
Ma perchè interruppe donna Giacinta perchè tormentarti con queste nere
imaginazioni? Un ufficiale di Stato Maggiore non è poi tanto in perìcolo...
Ah le palle vanno lontano! sospirò la giòvane moglie Alberto ha troppo oro
sulla divisa
Si fece alla soglia un villano, di que' sgrossati a falcetto; spalle quadrate, viso da
pipa.
Le donne lo interrogàron col guardo.
Allegri! esclamò il cavallante (notate ch'egli appariva di mezza in mezz'ora)
I nemici sono picchiati a tutto picchiare. Corre voce, anzi è sicuro, che noi s'è preso un
cento cannoni. Prigionieri, tremila!... morti, altrettanti... Viva il rè!
E dei nostri?
Duecento, padrona... Viva il rè!
Oh Alberto! disse rabbrividendo Arrighetta. Il cavallante uscì. Elle rimàsero
silenziose, più strettamente abbracciate di prima.
Mia cara ripigliò donna Giacinta, accarezzando la nuora tu tremi. Fà a modo
mio, riposa. Se verranno notizie, te le darò. Ricorda Alberto, ma non scordare Albertino.
Oh! mai mormorò Arrighetta, e levossi. Poi, col moto ondulante delle fèmine
incinte, entrò nella stanza. Svestissi; mèglio, venne svestita.
Donna Giacinta stette alcun poco, fisa, presso di lei. Sentiva mano mano fuggirsi
quell'ombra di fede, che avea tentato partire con la giòvane nuora. Scoraggita del tutto,
cadde sull'inginocchiatojo, volse gli occhi ad un Cristo...
Il Cristo rimase ciliegia.
Verso quattr'ore si udì dalla strada, confusamente, un gran rumore di voci e di passi.
E Arrighetta, al pàllido lume dell'alba, vide donna Giacinta staccarsi dal seggiolone, su
dove, abbigliata, avea passato la notte, e camminare in punta di piedi verso la porta... In
quella, èccoti entrare, tutto sgomento, una fantesca:
I nemici si avànzano!
Zitto! fece la vecchia. Ma, troppo tardi! sua nuora era già balzata dal letto.
Fuggiamo! ella gridava Il mio Alberto è morto, fu ucciso! Ed ora gli
uccideranno anche il figlio... Mamma, per carità! Perchè mi tenete? Ajuto! mi lascia...
Voglio fuggire, devo E cadde in una tale eccitazione convulsa e tanto si dibattè, che
donna Giacinta dovette ordinare, a voce alta, che si attaccasse.
La carrozza ha rotta la sala osservò il cavallante, comparendo alla porta.
Fuggiamo! sclamò, quasi strozzata, Arrighetta. E cercava strapparsi dalle
robuste braccia della fantesca.
La vecchia era alla disperazione.
Se non c'è la carrozza disse i cavalli ci sono. Attàccali a una timonella,
attàccali a una carretta.
Presto! gridò la giòvane moglie.
Sùbito fe' il cavallante, e scomparve.
Arrighetta posò qualche poco. Vestissi sollecitamente, poi discese a terreno con
donna Giacinta.
S'era messa una pioggia fina fina: a mezzo il cortile alcuni paesani s'affacendàvano
intorno a due tarchiati ponies e a un calesso.
Dove si va? dimandò il cavallante.
E la vecchia: a Montalto.
Dio! come fanno adagio geme' la nuora battendo i denti.
Ma, infine, son nel calesso: il cavallante raùna le briglie, dà l'aìre ai cavalli.
Per toccare la strada che saliva a Montalto, era di necessità fare un due miglia su
quella che, più lontano, attraversava la scellerata campagna; due miglia, imaginate, di
spàsimo! Arrighetta stava nicchiata nel carrozzino, tenendo chiusi gli occhi, e
abbandonando una mano in una di donna Giacinta: tratto tratto, fievolmente chiedea
«vèngono?»
Ci fu un istante in cui la vecchia signora strinse più forte la mano alla nuora. Avea
veduto sul màrgine della via, contro di un paracarri, un mìsero tamburino, lungo e disteso,
con aperte le scarpe. Ivi, egli era stato raggiunto da colei che fuggiva... Fuori un lume di
più!
E, appresso, nuove deplorèvoli scene. I campi, di quà e didella strada, comìnciano
ad èssere sparsi di fantaccini abbattuti dalla fatica. Oh fòssero prima fuggiti! Poco manca a
svoltare, quando il cocchiere tràe i cavalli da lato, e ferma.
Èccoli fà con un dèbole grido Arrighetta, e cade in delìquio.
Ma, no; non è ancora il nemico; una cinquantina invece di nostri, stracciati, infangati.
Dio! Chi avrebbe in essi riconosciuto quegli arcigni sott'-ufficiali, che scrupolosi
contàvano ogni mattina i bottoni alla soldaterìa; o que' lucenti sopra-ufficiali, che si
atteggiàvan superbi e nelle sale e nei corsi? Passàrono alla rinfusa, avviliti, volgendo
sospettose occhiate al calesso.
Il quale, due ore dopo, entrava in Montalto. Assieme entrava quaggiù il nostro
Alberto Pisani. Egli nasceva, giallo come un limone, tinto dalla paura della sua mammina,
e, a pena salpato, pianse: forse, perchè sentiva di cominciare a morire, forse perchè, miglia
e miglia da lui, sull'orlo di un ruscelletto, giaceva intanto supino un uomo, toccato in fronte
dal piombo, con le spalline strappate e le saccoccie rovescie. E avvenne che il neonato fu
appeso alla poppa di una lagrimosa nutrice; una, cui il cielo, dopo molte preghiere, non
avea dato un figliolo che per potèrglielo tôrre. Dùnque, Albertino, tra per le sue e quelle
della nutrice, beve', più che non latte, làgrime: volea la provvidenza ch'ei se ne facesse una
scorta.
Chiare volte si diede una piantella più delicata di lui. A traverso della bambagia che
lo avvolgeva continuamente, segnava più che un baròmetro il rimbeltempire e il maltempo
o abbrividiva al suono di una voce angolosa. Ora, pensate a' suoi oscillanti nervetti in
mezzo a un casone, come quel di Montalto, già fraterìa, dalla mobiglia che e notte
stiantava, e di cui la più pìccola sala, poniamo l'abbigliatojo di donna Giacinta, avrebbe,
con tutta comodità, tenuto un grosso elefante!
Per la qual cosa, i primi ricordi di Alberto, quelli cioè, che, primi, hanno un deciso
profilo in quella nebbia di strane e mezze memorie, traccie di una pre-esistenza, suònano
vastità. Alberto ancor si rammenta di certo immenso scalone coi buchi da soffocare le faci,
ch'egli, rasente al muro, leggero, sotto lo spago di solleticarne gli echi, scendeva; come di
tal corritojo, che, nell'ora in cui le buone mammine rincàlzano le lenzuola ai loro cittelli,
egli, sejenne, affidato dall'ava alla bambinaja e abbandonato da questa, dovea passare da
solo; un corritojo, lungo come la vita de' frati, i quali, un sècolo prima, lo passeggiàvano; a
travi, dall'ammattonato su e giù, terrìbile tanto, sopratutto agli svolti.
E altro degli antichi ricordi di Alberto è una figura di donna, senza-sguardo e
sbattuta, cui lo si conduceva sovente. Essa pigliàvalo in grembo, accarezzava, baciava;
spesso però stringeva con tale grande passione da farlo strillare. Poi una volta ei si
svegliò atterrito fra abbracci che lo strozzàvano quasi, baci furiosi, morsicature e graffiate;
da quella volta non vide la pallidìssima donna che da lontano e rado, quando scendeva in
giardino. Un giardino, notate, alla italiana, cioè, tutto geometrìa salvo il buon senso, a soli
pini e mortella, perciò sempre verde, ma sempre di un verde senza speranza. Quanto ai
viali... ghiaja; i fiori, portulàca ed ortiche... Già, per fomento, non ci avea sotterra che frate.
E, nel giardino, il favorito luogo di Alberto era presso la casa, intorno a uno stagno,
pretta purèa di lenti. Per ore ed ore ivi egli stava seduto, giocando con le lumache, oppure
fisando una finestra a ramata, giusto di sopra ad una càmera sua e dell'ava. A quella si
affacciava talvolta la pallidìssima donna, ed è di che dovea anche venire quel gemitìo
che lo angustiava, la notte.
Inquantochè, o il mio Cletto, Alberto pigliava sonno a fatica. Bolliva sempre nel suo
pìccol cervello qualche panzana della bambinaja... carrozze che ribaltàvano, ladri di sorrisi
e di làgrime, streghe, sgranocchiaputtini... Berto tenèvasi allora aggruppato sotto le coltri,
spesso aggricchiando, con il respiro che gli moriva, ma non osando mèttere fuori il capo
per non incontrare faccie fosforescenti e fumose, tampoco voltarsi, come impietrito a
una schioppettata imminente.
A notti, ei non potea durarla; una, tra l'altre, sentèndosi orribilmente mancare la lena,
si die' coraggio e arrischiò dalle lenzuola la testa, a centellini, come se succhiellasse una
carta; fuori, sbarrò di colpo gli occhi...
Nulla! e si levò in mezza vita a rifiatar la paura.
Il raggio lunare, sfuggendo da male-unite imposte, attraversava ruscelletto
splendente tra il letto di lui ed il lontano dell'ava, lo spazzo. L'ava dormiva tranquilla; i
seggioloni, vuoti perfettamente.
Senonchè, il rammarichìo della stanza di sopra sembrava più lamentoso del consueto;
un gèmito, di tempo in tempo, ruggito. Berto, Dio sa da chi spinto, salta abbasso dal letto e
corre, i pie' nudi, sul pavimento di marmo; monta il gradino del finestrone, e, come gli
scuri hanno i serragli giù, àprene uno.
In quella, schianto di legni e squillo di vetri all'esterno, dinanzi a lui, di
dell'imposta, passa cadendo un gran fagotto di roba; tosto, un tonfo entro àqua... e,
accapricciando, egli sviene.
Quì, una malattìa. Berto non ne uscì fuori che per vestirsi di nero; non vestissi di nero
se non per salire, insieme alla nonna, un vagone... vèr la città.
Col quale nuovo scenario comincia l'atto secondo della vita di lui. Alla cit i suoi
nervettini quietàronsi. E, invero, si trovàvano in un appartamento, che avrebbe potuto
ballare in un salone a Montalto, e tappezzato e dipinto troppo di fresco per annidare
fantasmi; di più, un appartamento, nel quale, da ogni qualùnque stanza, era possìbil di
scrìvere la lista dei piatti fumanti nella cucina. A me credete! in fatto di nervi, gli effluvi
solo degli stufati ed arrosti vàlgono tanto quanto, anzi! il doppio delle àque di fiori-
d'-arancio, le camamille e gli aceti.
Ed è in questo raccolto appartamentino che Alberto si lasciò andare al vizio del
lèggere. Egli ne avea già imparata la strada a Montalto nei melancònici giorni quando
cadeva a pannilini la neve, ma non avea mai sentito il bisogno di ricercare oltre i confini
del sillabario. Toccàvanlo troppe emozioni dirette per dimandarne in impresto. Alla città,
invece, fu còlto da una vera lupa pei libri; leggeva ogni cosa; gli capitasse fra mani la
sanguinente carta del manzo, gli capitasse il dizionario de' verbi.
Smetti gli consigliava talvolta la nonna hai gli occhi tanto infiammati!
Berto, rinchiuso il libro, diceva:
Sì, se mi conti una istoria
Osservava donna Giacinta:
Che vuoi mai che ti conti? che può sapere di bello la tua pòvera nonna?
Oh! ne sai tante... nonnina!... Una...
Proprio? chiedeva con un sorriso la vecchia, posando nella cestella il lavoro.
Aspetta! esclamava Bertino, e si tirava con lo sgabello a suoi piedi. Poi
alzato quel tre-quattrini di faccia:
Conta
La nonna gli faceva una cara, e cominciava, a mo' d'esempio, così:
IL CODINO
Ti dirò una scenetta che accadde a mio fratello maggiore... morto anche lui! Me la contava
sovente, e come, nel ricordarla, si rischiarava il suo viso!
Quando la avvenne, io era in Francia, in collegio. Corrèvano tempi tristìssimi. Mio fratello
faceva gli studj nella paterna città presso una scuola di Barnabiti, se non eccellente, buona. È vero
che la malattìa rivoluzionaria l'avea tanto quanto intaccata, ma che poteva allora sfuggire a tal
malattìa? Era nell'aria. Infatti, i reverendi sequestràvano spesso ai loro scolari imàgini sediziose,
libri guasta-cervelli, e allorchè poi, a castigare, mettèvan mano alla sferza, gli zuffettini
pappagallàvano su certe ideone intorno alla dignità umana, e che so io! Mio fratello però, uno tra i
pochi, non avea peranco rizzata la cresta; tanto è vero, che il padre reggitore la scuola, pel quale
era sempre la terza posata sulla nostra tovaglia, affermava ogni dopo-pranzo a donna Francesca
mia madre, che il suo Carlomagnino avrebbe, senza alcun fallo, inscritto nel calendario la famiglia
Etelrèdi.
Senonchè, un giorno, il nostro futuro santuccio, tornato a casa da scuola... e quì, avverti...
èrano le prime volte ch'egli tornava da solo, avendo tòcchi i venti anni...
Alberto: ne ho sette io, e vado attorno senza nessuno, io.
La nonna: oggi s'è messo il vapore, si nasce con un sìgaro in bocca; allora, si
maturava più tardi...
... dùnque, tornato mio fratello da scuola, e, come l'etichetta ponea, recàtosi a baciare la
mano alla contessa mammina, parve straordinariamente rosso.
Che avete? ella chiese con il suo sòlito imperio.
Niente egli rispose turbato.
Eppure osservò mia madre siete di un tal colore sì acceso... Sembrate un villano!
Io? disse il contino ancora più arrossando.
Mia madre, che stava seduta, cominciò a tripillare per l'impazienza un ginocchio, e a dire: so
cosa avete
Don Carlomagno si spaurì.
Voi seguitò la contessa nell'additarlo con l'ìndice oggi... poco fà... udiste e forse
avete anche tenuti discorsi, mi duole d'insudiciarmi le labbra... rivoluzionari. No? allora leggeste
qualcuno di que' lùridi fogli scritti da quei pieni-di-pulci di republicani... gente che non usa le
brache, e si gloria!... canaglia...
Ma no, signora mammina interruppe don Carlomagno.
No? ribattè la contessa, studiàndolo con l'occhialetto Bene, andate
Don Carlomagno fe' un tondo inchino, e rimase.
Ho detto? esclamò la contessa.
Vado balbettò mio fratello e si allontanò a ritroso.
Mia madre se la sentì fumare. Balzò dalla sedia, e corse al contino. Quello, continuando a
indietreggiare, s'addossò contro il muro.
Oh il bel quadretto, Bertino! Là, mio fratello, un traccagnotto, alto come un granatiere di
Prussia, tutto tremante; quà, rimpetto a lui, mia madre, donnettina dell'India, gli occhi fuor dalla
testa, soffiando come una gatta.
Conte! ella esclamò si vòlti! e, senza dargli un momento, lo fe' girare sui tacchi.
Orrore! Don Carlomagno s'era tagliato il codino.
Imàgina la signora mia madre! Fu, come se le avèssero tolto un quarto di nobiltà; non
riuscendo a parlare, s'ajtò con le mani, e giù, una solenne guanciata al figliolo.
Ho dùnque in casa un ribelle? gridò, non appena potè rinviare la lìngua Ed io! sono
io che lo ha allattato! Cielo! che cosa ne avrebbe mai detto il vostro pòvero padre? Disonore degli
Etelrèdi! e quì, sulla seconda gota di mio fratello, poggiò un altro splèndido schiaffo, forse per
simmetrìa.
Il ragazzone, còlto dalla paura, non alzava nemmeno lo sguardo; si limitava a fregarsi con le
due palme le guancie.
O dove il metteste? dimandò imperiosa mia madre.
Il poveretto aguzzò le labbra quasi a impetrare pietà: l'ho in tasca disse con un filo di
voce.
Quà ordinò la contessa; e, come don Carlomagno traeva timidamente fuori il codino,
ella glielo strappò dalle mani e gliel misurò sulla faccia.
Ora conchiuse o creatura ingratìssima, andate! e Pietro vi serri nel camerino. Vi
resterete ad àqua, pane e formaggio... no, non meritate il formaggio... a solo pane e àqua quìndici
giorni. Obbedite!
Quel pampalugo di un mio fratello, se non più rosso e confuso, ben altro gonfio che non
all'entrare, uscì. Ch'egli ubbidisse, è certo: era abituato.
Quanto a mia madre, piangendo rabbia e dolore, serrò sotto chiave il codino. E lo tirava poi
oltre per castigar Carlomagno.
Ti piace?
Alberto: sì... ma nàrrane un'altra... seria
La nonna: incontentàbile!
Oh ne sai tante, tu!
Bene, alla seria!
ISOLINA
Ti ho detto che mi avèano messa in un collegio di Francia; aggiungo ch'ei si trovava in una
mezza città di provincia, Chateau-Mauvèrt. Là, mentr'io toccava i nove anni, corrèvano i giorni i
più vermigli della Rivoluzione. La tolle faceva la testa senza riposo. Giorni, ricorda bene, nei quali
per ottener l'eguaglianza si calpestava la fraternità, e, proclamando i diritti dell'uomo, legàvasi il
volume riformatore in pelle umana.
Il nostro collegio s'era fatto deserto. Non vi restàvano che quelle poche, le quali non avèan
potuto fuggire, cioè sei o sette bambine del tempo mio e una ragazza intorno ai diciotto, che noi
chiamavamo la grande. Quanto alle suore, due suora Clotilde e suor'Anna giòvani creature,
amorose, che la nostra innocenza, in quegli orrìbili tempi, più che tutt'altro, teneva in un contìnuo
sbàttito.
Una mattina, noi, raccolte in una pìccola sala, ascoltavamo suora Clotilde. Essa, con la sua
voce vellutata e soave, pingèvane le dolcezze della carità. Entra di pressa il giardiniere, e: suora
dice un commissario della Repùblica... il ciabattino Garnier
Suora Clotilde, impallidita oltre il suo abituale pallore, si alzò: ben venga disse.
Ma, a che il permesso? L'ex-tiraspaghi, in nome della onnipossente libertà, se l'era già
preso. Ecco apparire alla soglia un uomo dal viso tutto occhielli e bottoni, con la sòlita fascia dai
tre-colori, seguito da mezza dozzina di mascalzoni, sùcidi, a strappi, armati di picche.
Cittadina Beaumont! egli fece, nemmen toccando il berretto, chè cortesia non è
republicana virtù rispondi: ci hai quì una cotale Isolina, figlia di un sèdicente conte della
Roche-Surville, smoccolato a Parigi?
Suora Clotilde tremò: forse, le sue purìssime labra stàvano per proferire la prima bugìa.
Senonchè, i nostri occhiettini avèano di già tradita Isolina. Anzi, ella si avea da lei, sorgendo. Era
la grande. Oh la gentile figura! svelta, fràgile, come un bicchier di Muràno: poi, di certe manine!
mani sì bianche, sì trasparenti e voluttuose!...
Garnier proruppe la suora quasi piangendo non per pietà! per giustizia. Voi non
potete strapparci questa delicata fanciulla, innocentìssima. Ella ci venne affidata da' suoi genitori,
e i suoi genitori son morti. Fòssero anche stati i più malvagi del mondo, che ci può ella mai? e la
Repùblica nostra, gloriosa, come mai può temere una ragazza, tìmida, senza parenti amici,
pòvera...
Pòvera? ghignò il commissario Con quella miseria alle dita? e accennò a tre o
quattro anelli di lei, ùnica fortuna sua che or le tornava in disgrazia Intanto ciò vèr gli
straccioni alle terga noi, pòpolo, crepiamo di fame!... Cittadina Beaumont! guarda col tuo
parlare anticìvico di non obbligarmi a ritornare da te... guàrdati bene!
E lì il birbone venne alla giovinetta:
Isolina La Roche disse ti arresto! e allungò la mano su lei.
Largo! voi puzzate di vino disse arretrando la tosa.
Aristocràta! vociò il canagliume.
Così, ne fu condotta via un'amica: ed allorquando suora Clotilde, uscita dietro Isolina,
rincasò verso l'Ave-Maria, a noi che chiedevamo: e dùnque? venne solo risposto: pregate
S'andava chiudendo la sera. Prima di coricarci, noi usavamo entrare in una stanza dedicata al
Signore. Peraltro, non vi si vedea nessunìssimo segno della nostra salute. A mezzo allora di gente,
la quale imponeva la libertà del pensiero, tai segni, o per paura o pudore, si nascondèvano. Noi li
portavamo nel cuore.
E l'oratorio dava sur una viuzza perduta. Quando splendeva la luna, non vi si accendèvano
lumi. Quella sera, splendeva la luna.
Le suore s'inginocchiàrono senza dire parola; intorno di esse, noi; e pregammo.
Gemea la calma notturna. Per chi pregavamo, tu sai.
Ma, a un tratto, suono di vetri spezzati; e, a terra, il tonfo di cosa morta. E un grido: vive la
république!
Balzammo in pie' sbigottite... Dio! Sul pavimento giaceva tagliata una mano, bianca, ornata
ancora di anella...
Basta! quì esclamava Albertino, serràndosi all'ava. E rimanea pensoso il resto
della giornata. A notte, sognava e mani e mani spiccate, sotto il chiaro di luna, che
gocciolàvano sàngue, fine, bianchìssime, inanellate di topazi e smeraldi.
Capitolo secondo
Alberto, a furia di bèvere su, e dagli orecchi e dagli occhi, storie d'ogni gènere
musicorum, pensò che ne poteva mettere insieme egli pure. E cominciò a misurare dei
versi; sòlito cominciamento; foggia di esprìmersi la men naturale di tutti, e però la più
fàcile.
Ma il caso ora antivenne al volere. Poco sotto al natalizio di donna Giacinta,
Alberto stava sudando una di quelle lèttere d'augurio, che si ricòpiano poi in carta da torta,
e appunto avea già combinato:
Mia cara nonna
Essendo...
allorchè, giusto dopo l'essendo, cadde una gotta d'inchiostro. Ciò che una gotta
d'inchiostro può fare, non è prevedìbile; quì, fece un poeta.
Ròttosi, per l'accidente, il filo alle idee dello scrittore, e che era un filo da pozzo!
Alberto, a riappiccarlo rivolse l'occhio allo scritto. Mia cara nonna
essendo... Mia cara
nonna
essendo... dàgli e ridàgli, udì come un suono in cadenza, come un verso. E se
proprio? Alberto se ne commosse. Credeva il far versi cosa arcidìffìcile, un quid-sìmile
all'ingoiare coltelli, stoppa-accesa e turàccioli, abituale pasto de' bossolottaj. Nulladimeno
contò sulle dita... uno, due, tre, quattro, cinque, sei... sette! Per vero, non ne sapeva la
giusta misura; ma, poco su, poco giù, questo avea ben l'aria di èsserne uno. E ne azzarderà
egli un altro?.. Spìrito!
Mia cara nonna. Essendo
cotesto giorno quello...
Forza!
del nome tuo, e parendo-
mi, più degli altri, bello...
O sommo coro! già quattro. E così, continuando a tagliuzzare le frasi, che mano
mano gli venìvano sotto, e avvertendo che quà e consuonàssero (per evitare il che, in
prosa, c'è il suo da fare) giunse la fine. Rilesse. Grande fu lo stupore di lui nel trovare come
la istessa istessìssima cosa, scritta, invece che alla distesa a luccànica sembrasse, se
non un'altra, tre volte tanto di considerazione.
In quella, sopraviene don Romualdo, un corto e spesso di uno, il quale faceva il
prete di casa: don Romualdo, lui che regolava i camini e le stufe, montava gli orioli,
metteva lo zùcchero entro il caffè, sostituiva lo smoccolatojo; lui che teneva, e ciò per
qualùnque avventore, un magazzino di poesìe d'occasione, già bell'e pronte.
Va co' suoi piedi che il nèo-poeta chiedesse parere al navigato (forse, più che parere,
cercava un rampino per declamare le sue povere cose); e non altrimenti va che il
pretocchio ne paresse entusiasta. Que' versi, se non ambrosia, spiràvano odor di cucina.
Don Romualdo, maravigliàndone Alberto, disse ch'èrano dei settenari, e tutto insieme
costituìvano un'oda, parola che discendeva dal greco... nientedimeno!... cioè da odè, es, e,
intorno alla quale certi testoni, avèan composto volumi e volumi. Nè censurò che un manco
di classicismo (notiamo che il prete spolverizzava mitologìa anche sopra i sonetti da
chiesa) «ma il classicismo» aggiunse fiutando verso di Alberto «sento io, è in viaggio».
Intanto, amichevolmente si offriva a fornir la pestata di Giove, Giunone, e compagni.
Dopo, i due fratelli in Apollo tènner consulta circa il come produrre a donna Giacinta
la ode. Consegnàrgliela? No, era troppo alla buona: ai versi, via l'importanza, che resta?...
Lèggergliela? Bene; non peraltro, benìssimo. Lì ci volea la cosìdetta sorpresa.
Oh santolina! sclamò il reverendo trovato!
Cosa? dimandò Alberto.
Ma osservò il reverendo, accarezzàndosi il mento or che ci penso! mi
abbisognerebbe una tal quale idea del pranzo di gala...
Perchè?
Perchè fe' il prete misteriosamente se ci fosse un pasticcio... Giove
Barbetta! e finì con un'espressiva mìmica.
Alberto approvò a più riprese.
Per il pasticcio, stia certa... Ne parlerò io al cuoco.
E guarda raccomandò il reverendo ch'esso sia di Stràsburg. È la forma
indicata. Un'altra sminuirebbe l'effetto...
Stia certa
Lasciàronsi in questa intesa.
E Alberto riuscì a far porre nella minuta il pasticcio, e nel pasticcio la poesìa. Giunto
il dì natalizio, venuta l'ora tòpica, don Romualdo eseguì il taglio solenne, e:
Ooh!
Cosa c'è? chièsero i commensali.
Non so bene; sembra una carta rispose don Romualdo, guardando con un fare
d'Indiano entro il pasticcio anzi! è (quì la estrasse e spiegolla) Un'ode! per la cara
mia nonna... Santìssimi lanternari! di Alberto! proprio?... Lèggila dunque e la porse al
ragazzo.
E il ragazzo si alzò. Con la rubiconda vergogna nel viso, lesse.
Un successone!... Perfino l'ingegnere Gabuzzi, tànghero il quale portava ogni festa la
bocca in casa Pisani, cioè v'appariva insieme alle cìnque, mangiava a coscie di dindo, non
pausando che il tempo necessario per bere, poi, preso il caffè, dileguava non salutando
nessuno, esclamò «bravo!» È vero ch'egli tiràvasi giù, proprio allora, un fettone del
saporito inviluppo. Quanto alla nonna, pensate! Durante il dire di Alberto, seguì con un
sorriso mostoso e ninnolando la testa, la tiritèra dei versi; poi, uno s'ciàssero bacio al nipote
e un triplo buon-dì incartato; al domani, la ode, di sotto il vetro e in cornice, al capezzale di
lei.
Dùnque, la vocazione di Alberto s'era spiegata. Ne venne, Dio scampi noi! un diluvio
di versi, versi di ogni quantità e qualità. Chè, se, infiammato da Ariosto, incominciò a
rompicollo un poema zeppo di paladini dalla fatata e sguizzasole armatura, e dame tra le
ritorte, e incantamenti, e cavallieri
con armi e aspetto, che dicea mistero
i quali comparìvano all'improvviso sul finire del Canto, ed inventari di sculti marmi
od arazzi eterni, e profezie per l'anno nuovo, e singolari tenzoni, e combattenti che
andati in paniccia con un po' d'unguento bocchino èrano ai primi amori; còlto
dall'ombra d'Alfieri, il nostro amico abbandonò a mezza strada (canto quarantesimonono) il
suo «Don Galavrone di Papironda» per ingolfarsi in una di quelle tragedie che fanno
accapponare la pelle, greca, a stàbile scena, atti cìnque, e personaggi quattro in artìculo
mortis. Nulladimeno, Alberto non ne potè ammazzare che due; affilava lo scannatojo pel
terzo, quando incontrò Leopardi. E Leopardi gli fe' buttare il coturno nelle ciabatte. Giù
allora canzoni che puzzàvano il fràcido, giù sonetti sbattuti in chiaro di luna... Quìndici
giorni dopo, Leopardi non più! il nostro poeta, in Vittorelliato e in Frugoniato da capo a
piedi, sdrajàvasi arcadicamente in un paesaggio da parafoco, tra pastorelle alla Pompadour,
agnellini dal nastro rosso, zefiretti soavi, ed altra roba minuta in elli, in ini ed in etti,
cantando poesiuccie così gentili e verdi «da mèttere voglia di un'insalata indivia con
chiappe».
E un dì, o piuttosto una sera, mentre giocava con nonna, don Romualdo, e una serva
alla tòmbola, lesse i seguenti due versi su di una cartella:
Poeta senza amore,
giardino senza fiore.
Ne impensierì. Era egli poeta?
Altro! e perde' la quaderna.
Amava?
No e fallì la cinquina.
Dùnque, gli bisognava cercare.
Chè, nel capìtolo amore, non si potèvano porre le simpatìe da bimbo; una, ad
esempio, per la maestra di àbaco e di abicì, che nonna, piantando casa in città, gli avea
affibbiato. Pina Racheli era sui trenta, bella; faccia patita, tarmata, con due lagrimuccie
perenni, da formaggio di grana. Tuttavìa, come accarezzante il suo sguardo! e quale naso...
dolce! Oltredichè, teneva sempre in saccoccia o manuscristi o màndorle spaccherelle o
alla perlina. Amore, giusta l'Alberto d'allora, volea dir matrimonio; e matrimonio, giocare
agli sposi. Dicea dùnque alla Pina, che, fatto grande, egli l'avrebbe sposata. Ma lei, o
ingratìssima Pina! non aspettò. Un giorno fece tenere, in suo luogo, ad Alberto un
cartoccione di dolci. E lui? Lui sel spazzò di gran gusto.
Così, altra di sìmili fiamme, fiamme beninteso dipinte, gli era stata una cuoca; la
Giulia. Al primo servire, cotesta tosa parea più stagna di un materasso da campo. O che? A
poco a poco, innanzi ai fornelli di casa Pisani, le die' come in fuori la umidità; oggi le si
gonfiava una guancia; dimani, l'altra; dopo-dimani, un orecchio, poi una mano, poi un
occhio... E donna Giacinta la compassionava! Infine, la maligna flussione prese la Giulia
più a basso. Allora, donna Giacinta crede' conveniente di salutàrmela tanto; e Alberto
perdette colei che vestiva, sì premurosa e sì bene, le marionette.
Ma questi due, ripeto, ed altri della stessa portata, se anche amori, non èrano di quel
tale baràttolo or sospirato da Alberto. Dimando io! come mai un poeta che la pigliava sul
serio, poteva, per dolce obietto, avere o una pilatella di cuoca che sbuzzava pollastri, o una
maestra di prima, tanto paziente da far scappar la pazienza?
To... to... tòmbola! quì eruppe don Romualdo approfittando delle altrui
distrazioni.
E, dal mattino seguente, Alberto si diede ancora a cercare.
Già molte volte egli avea ceduto la dritta sui marciapiedi al capitano Balotta e alla
signorina sua figlia. Nel primo gli era sempre parso vedere un rispettàbile pensionato in
bene negli anni (e ciò a dispetto di un parrucchino rossastro) ma di legname
stagionatìssimo; nell'altra una sottile pivella quattordicenne, dal pellùcido viso (quasi di
madreperla, a due macchiuccie leggermente carmine) ed una buona massaja che orlava i
moccichini di babbo, ne mendava le calze, non pensava che a babbo...
Ora invece, messi i poètici occhiali, ecco l'ex-militare diventargli un tiranno dal
fèrreo cuore, il grugno di bronzo, lo sguardo d'acciaio, insomma una collezione de' più duri
metalli; ecco la giovanetta cangiàrsegli in una creatura di cielo, con treccie d'oro filato,
fronte spazïosa d'agata, due zaffiri per occhi, perle in cambio di denti, insomma una
bachèca di orèfice.
E Alberto risolve' tentare una lèttera, maravigliàtevi! in prosa; spicco, che gli fece
sudare una goccia ogni capello. Scritta, la ricopiò calligraficamente sopra lùcida carta,
pinta a svolazzi di ben pasciuti amorini, la insabbiò d'oro, poi, piegata e accomodata in una
busta a ricami, la chiuse con un rosso obbiadino dalla figura di cuore. Uscì. Sonava l'ora de'
pipistrelli. In tasca il prezioso viglietto, tenne verso le case di lei.
E tanto egli si era ubriacato del suo, che non esitò neppure un momento a
oltrepassarne la soglia e a entrare nella portinarìa.
Ma ristette confuso; colà sedeva la Giulia (ben sott'inteso, con la faccia bendata)
chiacchierando al portiere.
Oh! signor Albertino!
Tu quì?
Vede bene. Sono al servizio della famiglia Balotta. E sua nonna?
Alberto si smarriva, smarriva; uccello nella ragnaja, impaurito all'alzar degli stracci,
fuggì vèr le reti.
Giulia disse t'ho a confidare un segreto; vieni.
Un segreto? a me?
E la fantesca levossi, e il seguì: fermàronsi tutti e due in istrada sotto a un lampione.
Ivi il nostro poeta, dimenticàtosi affatto che un guatterino grembiale cingeva la Giulia, si
diede a sballarle una terrìbile storia d'amore; meglio, una quintessenza di storie. Ella
ascoltava con un sorriso di approvazione, dico cioè, non ne capiva una goccia.
E ne morrò, sai! conchiuse lui che narrava.
Vèrgine-madre! fece la cuoca che torlobòrlo!
E morirò avvelenato ripicchiò Alberto convinto...
Il Signore ne guardi! disse ancora la cuoca.
Quì, il disgraziato
trasse di seno l'amoroso foglio.
Per lei
Chi, lei? dimandò Colombina stupita.
Gigia! rispose Florindo con un lungo sospiro.
Taccuìni belli! esclamò la fantesca, soffogando a pena le risa la Balottina!
e, con un sùbito moto, s'impossessò del viglietto che, tragicamente, ma non senza
interno tremore, porgèvale Alberto.
Giusto il dì dopo, in sulle ùndici ore, violente scampanellata alla porta di casa Pisani.
Era qualcuno, il quale o avea diritto di entrare, o volea.
E la servetta, che sollècita accorse, aprì a un signore, tutto vestito di nero,
abbottonato da capo a pie', compresa la faccia, e col cilindro su 'n occhio.
C'è donna Giacinta Pisani? dimandò egli, sciutto come il pane di miglio.
Signore, sì disse la cameriera.
Bene, annunciate il capitano Balotta.
Balotta? sùbito
E il capitano venne annunciato e introdotto.
Donna Giacinta, dal suo seggiolone, lo riceve' con guardo interrogante.
Egli, in mano il cappello, fece un inchino, serio, ministeriale. E chiese:
Parlo io alla nòbil signora Pisani?
Proprio a lei rispose donna Giacinta Segga E gli indicò una poltrona
rimpetto quasi alla sua.
Il capitano fe' un altro inchino e siedette. Mise, tra le quattro gambe della poltrona, il
cilindro; fisò un istante la punta delle sue scarpe, quella delle sue mani guantate; aggrondò
i sopracigli; poi, battendo le palme sopra i ginocchi, alzò vivamente la testa, e...
Fu còlto da uno starnuto.
Salute! augurò donna Giacinta.
Grazie! ribattè egli instizzito, in cerca di un fazzoletto che non riusciva a
trovare. Ma, infine, il trovò; soffiossi replicatamente la cappa, e riprese contegno.
Badaba cominciò egli a dire col naso intasato il mio nome è Marc'Aurelio
Balotta ex-capitano effettivo. La mia divisa, posso assicurare a badama, è senza macchia, è!
(S'intende! avea e figliola e sapone.)
E la signora: me ne rallegro.
Senonchè aggiunse il Balotta con la voce in cantina un'onta, un'indicìbile
onta pende sopra i miei bianchi capelli (e si toccava il parrucchino rossastro)
Madama! io sono un ùnico padre... cioè, ho un'ùnica figlia, pianta educata con lungo
amore... mio solo tesoro e speranza. Ora, o madama, qualcuno è lì lì per strappàrmela!
Me ne dispiace osservò la nonna di Alberto.
Due seguì il capitano con un gelato sorriso non più di due, sono i cerotti a
sìmili piaghe. Lei capirà, credo, a che alludo. I Balotta, nòti, sono pòvera gente, ma certa
stoffa di gente, che non s'abbassa, corpo dell'uva! a nessuno, fosse il gran Kan della China!
A meraviglia! interruppe donna Giacinta ma, se non disgrada al signore,
dica; come ci posso io entrare in questi suoi interessi?
Come? gridò il capitano strabuzzando gli occhi Come?
La vecchia sogguardò il campanello.
Tenga egli disse disaccocciando un viglietto legga!
Donna Giacinta lo prese, e frugò per gli occhiali... Inutilmente!
Se lei, signore, volesse... mormorò ella nel riofferirgli il viglietto.
Il capitano lo ripigliò.
Cotesta lèttera disse fu intercettata e recata a me jeri sera. Senza la fedeltà,
non comune, di una fantesca, forse a quest'ora, i bia... i capelli di un pòvero padre èrano
contaminati per sempre!
(Ahimè! privo del bianco, il pensiero non valeva più nulla)
Oda!
E il capitano aperse il viglietto:
Angiolo del Paradiso!...
Dice la soprascritta: alla signorina Balotta
mia figlia. Che la sia un angiolo,
ammetto, ma devo dirlo io, non altri.
Angiolo del Paradiso!
I pàlpiti del cuor mio sono da un lustro per te
te sola. Io ti seguii, mille fiate, nei
variopinti giardini, nei devoti templi, alle armonìe; ora, assidèndomi sopra i marmòrei
seggi o di contorto legno o di ferro, che già tu avevi beato; ora, errando, desioso di
mèttere il piede nelle tue orme... (giravolte di tigre!)... Ma tu, o creatura azzurrina, non ne
lasciavi!
E, m'hai alcuna volta avvertito? Sovente le tue luci belle incontràron le mie, sovente
tu sfavillasti, guardàndomi, d'un celestiale sorriso. Quel riso, quell'angèlico sguardo
èrano essi d'amore? e, se d'amore, per me? (Gesuita!)
Io ti giuro innanzi a Giove e agli uòmini...
Quì grazia a madama d'una sfuriata d'esclamazioni anticristiane. Stia bene
attenta; èccoci al sugo
E lesse con accensione:
Ah! l'inimico fato dièdeti a genitore un sospettoso tiranno (io!) un geloso (io!) il
quale... Ma no, non voglio risovvenire le tue bàrbare pene. Coraggio, o sfortunata
donzella! c'è chi veglia su te. (altro! il lupo fà l'occhiolino all'agnello) Spera! attèndimi. Di
quì a tre notti, nell'ora in cui la luna è a mezzo della sua carriera, io fuggirò da' miei lari,
tu per sèrica scala da' tuoi, e uniti spiegheremo le vele verso la lìbera terra, figlia del
Gran Genovese...
la quale parafrasò il capitano salvo errore, è l'Amèrica... E in tal maniera
aggiunse irritato si tenta, a furia di vili calunnie e frasi ipocritamente melate, di
attossicare una candidìssima ànima, anzi! di rivoltarla contro a' suoi superiori, naturali e
leggìttimi. Per la croce di Dio! non soffrirò mai si calpesti il mio onore. È una riparazione
che esigo, pronta, completa. Che ne dice, madama?
Donna Giacinta, per vero, non sapeva che dire; ma già allungava la mano al
campanello.
E sa di chi è? fece l'ex-militare, squadràndole innanzi il viglietto. Ne
conosce il caràttere?
È inùtile... non ho gli occhiali disse la vecchia nojata.
Suo figlio! vociò il capitano.
Il mio ùnico figlio è morto oppose donna Giacinta.
Eh? chiese l'altro interdetto Ma e allora... questo Alberto Pisani?
Donna Giacinta stupì.
Infatti ella disse il nome è di un mio nipote.
Vede! sclamò trionfante il Balotta èccolo il seduttore.
Scusi! fece la nonna di Alberto non credo proprio sia lui. Diàmine!
comincerebbe un po' presto... Pur tuttavìa, quando verrà dalla scuola...
Scuola? dimandò il capitano con un sobbalzo che scuola?
Ei la terza-ginnasio rispose donna Giacinta. E ha solo dòdici anni!
aggiunse con compiacenza.
Marc'Aurelio Balotta si levò dalla sedia, pàllido, spaventato.
Accidenti! sclamò; e stette muto; poi: me l'hanno dunque accoccata? (e
dopo un altro silenzio:) me la pagheranno! Tolse, disotto dalla poltrona, il cilindro,
salutò secco, e partì.
I risultati del quale collòquio, per quel che riguarda la Giulia (che fu la burlona) non
so; circa ad Alberto, essi vènnero oltre in una lavata di capo in famiglia, e lavata solenne,
inquantochè avea la nonna a castigar nel nipote anche il di lei violente morbìno; caso, vero
riscontro a quello del gatto di una vecchia mia zìa, il quale, avendo nell'anticàmera
usufruito il nicchio di don Spiridione Badèrla per certo suo affare, ebbe tante più botte
dalla padrona, in quanto, ella tra sè, applaudiva a due mani lo spiritoso trovato.
Ma il nostro Alberto, che non potea vedere di nonna se non il difuori, addolorò del
rabbuffo: intanto, la stizza gli ritornava il Balotta, già pei cìnque minuti tiranno da teatro
diurno, in un pensionato con le cigne e le staffe; e la mira fanciulla in una qualùnque
popòla, che rattoppava camicie ed attaccava bottoni.
In conseguenza, la poesìa di lui si fe' disperata; e, come gli è vizio d'ogni scrittore...
che dico! d'ogni uomo, l'erìgere sè, in tutto, a unità di misura, così il nostro amico infilò
migliaja di versi per annunciare Virtù ed Amore riascesi in grembo ai celesti, il mondo...
fango, opra terrena... vana (epperchè scrìverlo allora?) ed in una certa canzona, lunga come
la broda de' Luoghi Pii, provò che mille e mille sciagure avèano fatto del cuore di lui una
pòmice, sì conchiudendo:
Giuro mai non alzar vecchio caduto;
Giuro restarmi muto
A chi mi chiederà pane o pietanza;
Giuro non piànger mai
Su vergin morta o spezzata fidanza:
Se manco, o Sol! per me avvelena i rai.
Ma, a gran fortuna, tai giuramenti rimati si mantèngono rado. Neppure un mese dalla
canzone di Alberto, uno strato di terra, alto a dir poco due metri, avea coperto la sopradetta
sua pòmice; e il sole, generosìssimo babbo, lungi dall'adontàrsene, era ancor pronto a
covargli e le carote e i fagioli.
Camilla di-Negro fu la nuova sua stella; una tosa che usciva allor di collegio, figlia a
una vèdova dama, amica di donna Giacinta. Camilla, la quale compiva i diciotto, era un bel
pezzo di Marcantonio, bionda, a pieni colori, soda e fresca come la dea Salute. Per vero,
non sembrava la bella conveniente a una musa sempre coi lucciconi come quella di
Alberto; il viso di lei era un libro, non solo sbarrato, ma un libro in cui si scorgèvano i
conti della cucina; tuttavìa, Camilla ascoltava con molto piacere le poesìe di Alberto (il che
gli è giulebbe a un poeta) e dimandàvagli continuamente libri in impresto.
Bene, una sera, il nostro carìssimo amico, da solo a solo con nonna, leggeva come di
consueto alla vecchia un non so quale romanzo.
A un tratto si ferma.
Cos'hai? donna Giacinta. E infatti quella fermata era fuori di tempo; lei
avea da calcolare i punti della calzetta; nè lui, starnutare.
Alberto si peritò a rispòndere.
Nonna poi disse con una voce sottàqua amo...
Hai fame? chiese donna Giacinta, spesso, come la più parte dei vecchi,
maliziosamente sorda.
Amo! ripetè, a forte, il ragazzo.
Ancora? sclamò ghignando la nonna E chi?
Camilla! arditamente egli fece Camilla, che sposerò
Donna Giacinta divenne pensosa.
Ma, sai disse o il mio caro Bertino, che ti sei scelta una eccellente
compagna? Bene, e poi bene! Manca che non dicessi di sì! Spòsala... spòsala sùbito...
Diàmine! Camilla è ricca; ti comprerà un arsenale di giochi. Camilla è grande; ti porterà in
braccio alla nanna...
Tàque, perchè Albertino piangeva.
Che l'indomani fosse domènica, senz'almanacco, anche senza memoria, sarèbbesi
detto: tutt'all'ingiro, quiete; nell'aria, note smussate di òrgano e leggier sentore d'incenso; da
lungi, rombo di campanoni e ìmpeti convulsi di tosse di qualche squilla crepa. O delizioso
odor di domènica!
E Alberto, nella càmera sua, in attesa della contessa di-Negro e Camilla, le quali
usàvano accompagnarsi a donna Giacinta e a lui per la messa, stava facèndosi bello innanzi
allo specchio.
Si udì uno scampanellìo.
Camilla! sclamò Alberto contento.
E sentì tutta la casa risvegliarsegli intorno. Difatti, quella ragazza era sett'ànime e un
animìno. Al suono giojoso della voce di lei mettèvansi a chiuccurlare tutti gli uccelli di
gabbia del vicinato, crocchiàvano i parrocchetti, il cane barbone abbajava, scappàvano
quasi scopati i mici; all'apparire della sua faccia da rosa-Bengàla sembrava che
doppiamente brillàssero e i cristalli e gli ottoni, sembrava che sorridèssero i muffi ritratti
dei nonni.
Dùnque Alberto, sotto l'allegra influenza di lei, finì di abbigliarsi; poi, guantato, in
una mano il berretto, il libro di messa nell'altra, lasciò la càmera sua e attraversò quella di
nonna vèr il salotto.
Nel quale, per schiùderne l'uscio, pàrvegli si ridesse. Aperto, nulla. Trovò invece
Camilla e la contessa e la nonna, che discorrèvano serie; troppo serie...
Ed egli ne insospettì. Girato lentamente lo sguardo su loro, comprese che spasimàvan
di ridere.
A che? Alberto crede' capire anche questo: per cui, cambiò il risolino del soddisfatto
amor-proprio in una smorfia di malumore.
Buon giorno cominciò egli gutturalmente, e stonò.
Non ci mancava proprio altro! La contessa di-Negro recò il fazzoletto alla bocca,
donna Giacinta il ventaglio: quanto a Camilla, giù, in uno scoppio di risa.
Il poverino imbragiò.
Oh mi verranno i baffi! disse infuriato.
Ma intanto gli venìvan le làgrime.
Capitolo terzo
Tutti gli sguardi si rivòlsero a lui...
Avverto che noi ci troviamo in un'àula del liceo Rovani. C'è un professore che
insegna non bene, ed una occhiata di giovanetti che ascòltano male. Il lui è Alberto. Saputo
dire alla commissione esaminatrice e quanti chiodi Noè adoperava per l'arca, e in che
maniera i Fenici aprìvano l'òstriche, e di qual pelo era Dante, egli, pochi innanzi, èravi
stato ammesso; ora, facea la sua prima comparsa.
E Alberto, rosso come un garòfano, salì alla càtedra e susurrò alcune parole al
professore. Il quale:
Ah? ella si chiama Alberto Pisani disse con la medèsima cantilena con cui
dottorava dell'istituto privato Rosmini?... Bene, vada e segga nel quarto panco a sinistra,
là, fra Caldarini e Tebaldi. Almeno la mi dividerà due ciarloni (risa) Non mi diventi
il terzo però (altre risa) Signori! prego e ripigliò la lezione.
Alberto, con l'aria la più spaesata, giunse al posto indicato, e siedette.
La lezione, filosofìa.
Il professore e cavaliere, s'intende era l'illustre Pignacca, un uomo di peso (nè
solo a stadera) il quale già avea commosso il mondo scienziato, il che viene a dire
quattr'uòmini e un caporale, per certa sua particolare suddivisione nella psicologìa,
quasichè la torta, con il variare del taglio, cangiasse. Inoltre, egli avea dato fuori un libro,
scritto come italiano filòsofo può, cioè in istile-droghiere, nel quale e' volea insegnare
scientificamente virtù... pensate voi! a fòrmole! come se matemàtica!... A buon conto, lui
non ne apprese; seguitò a tenere la moglie sotto chiave e lucchetto, allorchè non le stava,
tormento infernale alle coste; e ad incollare semenza nostrana su Giapponesi cartoni.
Pignacca poi, come ognuno della filòsofa cricca, avea il suo gergo; dal che, liti strappa-
capegli con chi, pur dell'istessa opinione, gergoneggiava diverso; e, come tutti gli altri
fùrfuris ejusdem, non educava già a fare, ma a dire, tanto a pensare con il capo nostro,
quanto con quello di lui.
Fortunatamente, nessuno degli scolari porgeva attenzione: era proprio la sua per
conservare il cosìdetto lìbero arbitrio, quel lagrimino cioè, che l'època, il luogo ed il corpo
in cui dobbiamo trarre una vita, pare ci làscino. Degli scolari, chi leggeva romanzi e chi
scolpiva od inchiostrava panchi, chi giocava a tresette, a smerelli, ed anche alla mòra... e si
fumava e rideva e barattàvansi pugni. Due stàvano attenti; èrano due margnucconi. Quanto
ad Alberto, uso alla quiete di una ccola scuola, tenea la testa intronata, allocca, da
veneziano sbalzato dalla sua morta laguna in una via di Londra.
E, pria ch'ei vi facesse l'orecchio, còrsero settimane; potè solo allora capire tra chi si
trovava.
Ei si trovava in mezzo a una turba di giovanetti con il prùrito nell'ànima. Qualcuno
avea intravisto cose non sospettate. Gli altri s'èrano affollati intorno allo scopritore,
cercando essi pure vedere, chiedendo l'un l'altro. E , nuove parole venìvano mormorate e
si stancàvano i dizionari più del dovere e circolàvano alla nascosa imàgini e libri, di que'
che vèndonsi con la mano sinistra.
E i giovanetti, allora, non ridèvano più alle ambìgue spiritosi de' babbi e de' zii;
invece, arrossìvano. A volte, alcuno, fuggìa il bacio di mamma.
Ma che ha il nostro Giorgetto? questa dicea al marito, la sera Come
ingiallisce, n'è? e ricordava il latte-e-vino fanciullo di due anni addietro.
Bah! rispondeva il grosso papà volgèndosi fra le coltri mali di giovinezza
Sogghignava un pochino, poi si metteva a russare.
O spose! - sospirava la mamma a che verginità e candore?
E intanto il Giorgetto imbalogiva vieppiù; avvelenava l'ànima sua e il sàngue de'
futuri figli.
Osserva il mio amico «tu calchi troppo la penna» Vero; ma quì non sono io che
pensa, è Alberto; e, in via morale, ciascuno, vede... quello ch'è predisposto a vedere.
In verità, ben pochi de' compagni di Alberto èrano quel che sembràvano o volèan
sembrare.
Per esempio, Rico Fiorelli! a sentirlo, una sbòrnia ogni dì; sempre ribotte, sempre
allegrìe; in fatto, si coricava a nov'ore e non si arrischiava, al caffè, oltre l'àqua di pomi. E
Peppino Milesi? Peppino, è vero, sul corso, in compagnìa d'altra lattuga d'orto novello,
avea risposto «va e lavora» a un pòver'omo sfinito che gli diceva «ho fame»; eppoi? poi
rifece la strada in sua traccia e pianse non rinvenèndolo più. Così, di Giannetto Campana, il
conte Ory, quel che a suo dire, eclissava il gran Turco: bene, v'accerto che le di lui
prodezze amorose restàvano sempre al di fuori delle vetrine delle modiste, e de' balconi
delle cantanti, come vi accerto che quella tal graffiatura alla mano ch'egli mostrava, segno
di amore geloso di una tra le cento sue belle, era di gatto, gatto con quattro gambe. E
aggiungo, che, navigato com'ei si vantava, un dì, saputo che nella stanza di mamma era una
certa cugina, da anni e anni non vista, la quale passava per una stella-Diana, ei non osò
uscir dalla sua.
Ma Alberto, caràttere rococò, s'è insospettito de' suoi novi compagni, e da lor si
dilunga. Egli credeva nel raccontino «le pere sane e la guasta» un buon avviso per chi
ripone la frutta, ma non pensava che ad ogni qualùnque credenza dèvesi unire un màrgine
largo per correzioni ed aggiunte.
Forse, avess'egli incontrato un amico, chissà che altro sarebbe avvenuto di lui! certo,
il non incontrarne, fu una disgrazia, chè la imaginazione di Alberto, a non soffocare, avea
d'uopo uno sfogo, e inquantochè, mentr'ei viaggiava col capo di delle nubi, era bisogno
che, quì, un amico tenèssegli d'occhio i piedi.
Secondo lui, i condiscèpoli suoi, bevèvano falso-Champagne in mancanza di
schietto: a ciò, ùnico scudo o rimedio, era un amore, fosse anche ideale. E Alberto, per la
seconda volta in sua vita, cercò; questa, non di maniera.
Ma di vivente, nulla. Non gli parea di abbàttersi se non in testiere da parruccajo o
cuffiara; talora, lusingàtosi còlto da qualche giòvane aspetto, com'esso gli dileguava, il
cuore di lui serbàvane traccia, quanto la tela, esauriti i vetri della lanterna màgica.
Quindi, si vide il nostro gòtico amico, per delle settimane alla fila, in volta nelle
pinacoteche, assaporando a centelli le gloriose bellezze, tra una santa indeciso, una regina e
una dea. Ma, chèh! Èrano quelle un po' troppo a chiùnque. Alberto avrebbe invece voluto
serrarle nella sua stanza, goderle egli solo. Poi, diciàmolo, la loro vita d'amore era già stata
compiuta, scritta, stampata; mancàvano d'un non so che... Cosa? (questo, Alberto, sentiva
senza osar di pensarlo) Fragranza di carne.
Così, egli usciva dalla pinacoteca, solo come all'entrare, o spesso, col cupo sfondo
del quadro nell'ànima.
E, a cibo del suo chiuso umore, lesse un mattino, di una tal stiratrice, che, piantata da
una birba di amante, avea ricorso al carbone. Alberto ne intenebrì. Ei sospirava un amore;
altri èrane stucco; a lui nessuna gentile pensava, per altri e indegno ecco una
poveretta, precipitarsi a cacciare dal suo stambugio il creatore soffio di Dio, a morirne i
sospiri con le spergiure lèttere; èccola destare smaniosa il fornellino che già le dava la vita;
poi nascosta quella Madonna, non mai nascosta per altro
buttarsi sul letticciolo, la
faccia contro i guanciali, attendendo... muta.
La fantasìa di Alberto infiammò. Quella mattina, ei passò oltre il liceo, tenne verso
una porta della città, passò quella pure, e giù, a traverso i campi ed i prati. Il cuore or gli
piangeva alla tristìssima fine della tradita; ora, avvampava geloso: oh! egli non sarebbe
stato sleale. E, d'ago in filo, sempre più conflagrando il cervello, si persuase che lei, la
suicìda, avèagli dato, per quella stessa mattina, un convegno.
Dove?
Ei rasentava un gruppo di piante incespugliate al pedale. Mò perchè non là dietro?
Le piante, sotto l'onda del vento, chìnan le cime come a rispòndere «sì»; Alberto,
agitato, s'apre la via in mezzo al cespuglio, guarda...
Paciaciòc salta in àqua un ranocchio.
E fu in questo giro di tempo, che l'odore di cera attraversò casa Pisani. La nonna s'era
partita dal seggiolone... Dio! un seggiolone senza nonna... Ma del resto tal morte,
non era stata improvvisa (e quale altra è?); tre quarti bene dell'ànima di donna Giacinta
s'èran da un pezzo, a poco a poco, annientati; l'ùltimo, dissolvèvasi ora con le molècole
stanche, tra la pelle incallita.
Un dì, si mormorò ad Alberto:
Pòvero signorino!
Che ho a dirvi? Alberto non tremò, impallidì; e nemmeno pianse, quantùnque
ereditasse.
Senonchè, morta ufficialmente la nonna, egli sentissi solo, più solo della tabacchiera
di lei. Di amici, sapete già, non ne avea: due o tre conoscenze e alcuni mezzi-parenti
facèvangli l'istesso effetto del sarto e del calzolajo. E non avea pure fastidi; ei,
maggiorenne; il suo patrimonio, se in miniatura, lìmpido come un cristallo; per soprassello,
una perla di servitore; uno, la cui fedeltà, intelligenza, ordinatezza, scampàvalo da quella
fitta di guaj casalinghi, la quale vince gli eroi.
Ma il nostro amico, in mancanza di altro, guardate un poco, invidiosi! si die' a
rancurarsi perchè tutto gli andava a ruote inoliate, a rangognare di non averne il di che.
E, via su questa strada, Alberto si cominciò a frugar la coscienza. Non dico già, che il
dare una occhiata ai nostri conti morali, di tanto in tanto, sia male... anzi! noi vi scopriamo
partite nuove o dimenticate; noi vi facciamo, e con frutto, un corso di ètiche. Tuttavìa,
calma! mai sottigliezze. Diversamente, si ponno errare le somme, scambiar le partite, e per
fuggire un abisso, caderci. Viva e viva colui, che tiene i suoi soldi in una schiera di ciòtole,
e spèndeli a occhio!
Dico adùnque, che Alberto si mise attorno a' suoi conti, e ci si mise con l'ànimo ancor
più a rampini del sòlito.
Buffata via una polve di convenzionale virtù, s'ebbe alla vista un pigio di vizi. In
prima, capì che il suo cuore era un tappo di sùghero. Eccome! Per esempio, il innanzi, a
un ragazzino, che offriva piagnucolando fiammìferi e che parea cascasse di fame, egli avea
risposto un «no» tagliente. È vero che già tenèane in tasca un due mazzi, ma! non importa;
egli avrebbe dovuto comperarne qualch'altro chèh! molti anzi! tutti. Per soprapiù,
quel medèsimo sostando nella portinarìa a due amorosi piccioni l'uno all'altro
accostati come gli si dimandava «le piàciono?» avea esclamato «arrosto!» Non nego,
èrano mìnime cose, ma è appunto da queste, perchè sùbiti moti, che la natura nostra si
svela. E poi! quante làgrime gli èran gocciate alla partenza di nonna? Nessuna. Pòvera
nonna! se non di quelle, che stùzzicano mille appetiti nei nipotini per il gran gusto di
soddisfarli, pur si trattasse di una fetta di luna, donna Giacinta ponea in lui molto amore, nè
mai s'era spassata di castigarlo, di costumarlo, come dicea una mia serva brianzola.
E il bello è, che invece avea pianto a salatìssime goccie la stiratora. Bene, che
signìfica ciò? Che noi ci lasciamo pigliare, spesso dall'apparenza, rado dalla sostanza; che
un brodo in tazza di porcellana ci par migliore di uno in iscudella di terra. Dite, avrebb'egli
pianto lo stesso, se la infelice si fosse, ignobilmente, appiccata?
In conclusione, ei si sentiva malvagio; se non ancora assassino ladro, in grazia
delle circostanze solo.
Nulladimeno, i malvagi, per la più parte, hanno talento; forse perchè, dovendo,
pòssano quella virtù aquistare che non fu loro donata. Ed egli? Avea la gobba sul naso
l'ingenii mons della fisiognomìa; ma, in verità, leggendo, egli stentava a capire. Le poesìe
di lui, regalarle ai camini, sarebbe stata superbia. Memoria? da penna d'oca. Tatto crìtico?
peggio che peggio; sempre si distaccava da un libro, da una sinfonìa, da un quadro, incerto
se e perchè piacèssegli o no. Quanto al discorso poi, mai botte risposte, mai lampi di genio;
parlava a lambicco, poco, e anche quel poco sconnesso, segno di roba mal digerita e di
pensieri informi.
E nemmanco avea in costa un marsupio di studi, sia ùtili, sia dilettèvoli, come vuol la
corrente è stùpida distinzione. Infatti, che sapeva egli a mùsica? Tamburellar con le dita e
fuori di tempo sui vetri. E a disegno? Non temperarsi un làpis. E a matemàtiche, istorie,
leggi, e via via? Bah! della parte maggiore il nome solo soletto; dell'altra, sottosopra lo
scopo, e non più. Infine! agli esercizi anche del corpo, nè adatto, nè uso. In nuoto, un pesce
di piombo; nelle ginnàstiche, sèmplice spettatore; in arte equestre, noto solo alle scope e ai
cavalloni di legno... Era palpàbile prova il suo pòvero corpo, malnato, male-cresciuto... Tè,
vedi.
E quì Alberto, tolto dal tavolino un candeliere acceso (chè, nota bene, egli usava
sperar le sue ova al chiaro di luna o a quello della candela) andò a piantarsi innanzi uno
specchio.
E il lume, battèndogli in viso da lato, gli riempì d'ombra le occhiaje e gli incavi delle
magrìssime guancie.
Ne impaurì. Sgocciolàndosi addosso la cera e singhiozzando, si lasciò cader su 'na
sedia... Egli senza talento! egli senza dottrina!... Cattivo... E brutto!
Capitolo quinto
«Trac la maniglia diede un sobbalzo...
Ne sobbalzò egli pure...
Le imposte infatti si aprìvano»... Vi ricordate? Se sì, voi, miei lettori, cui il
sopranaturale urto, non indispettite: polve di Pimpirlimpìna, in questo racconto, non ci
ha.
Certo, si apriva la porta, ma semplicemente a Paolino, il servo, con un candeliere
acceso ed un pacco.
Fu un verso sbagliato dopo una frotta di decasìllabi equisonanti nei pensieri di
Alberto. Il viso di cui pàrvene malgrazioso che Paolino, deposto senza dire parola ciò
che recava, sùbito se la battè in punta di piedi.
Alberto rimase dov'era, cioè seduto sul màrgine dell'armadietto sostegno alla librerìa.
E fisava l'involto.
Degli altri! Èrano clàssici, pesca minuta. Dio sa, come sciocchi! Ma e perchè allora
comprarli?
Anni già innanzi, gliene avea dato consiglio un professore di lèttere, il cavalier
Tamaròglio (conoscerete) quel chiarìssimo tale, che, com'ebbe scoperti i conti della cucina,
mille-e-duecentisti; di Cervellata Martelli fiorentino patrizio, li publicava nella raccolta de'
clàssici.
Ah! tu avea egli detto ad Alberto — leggesti l'Alfieri, il Fòscolo, il Manzoni, il
Rovani, ed altri del medèsimo sacco? Male, mio caro. Sono autori non puri, pericolosi; o
da non lèggersi mai, o solo allorquando non ponno più niente sulla nostra corazza di studi.
Conosci «il Pataffio»?
No.
Come? tu non conosci quell'inesaurìbile cava di schietti e nativi modi di dire? Ed
il Guittone d'Arezzo? e il Burchiello? e sopratutto quel prezioso librino publicato a mia
cura? No? Poffar l'Antèa! vuoi un consiglio d'amico? Va per la corta a pigliarli
Alberto era peranco arancino. Credendo agli occhiali, al barbone, e alla sapiente
sporcizia del professor Tamaròglio, di bella prima andò a comperarsi un mucchio di testi di
lingua. Bruciava di mangiàrseli tutti, come se avesse avuto dinanzi un piatto di dolci. Ma il
paragone val per metà (quale, val tutto intero?): que' libri èran cattivi al palato; bensì, a
somiglianza de' dolci, impiastràvan lo stòmaco.
Già pensava egli a tanta scioccàggine sono ancor troppo novizio per poterli
capire; mi abituerò; non ci si abìtua allo sìgaro? Forse, sono ancora il villano che,
innamorato della sua nigra sed non formòsa Madonna, guarda indifferente una di Raffaello
o Correggio. E, fòssero cotesti clàssici anche letame, non feconda il letame?
Così, cercando persuadersi a forza di metaforuccie che il male era sano, tirava
innanzi a inghiottire le più insulse scritture. Senonchè, quelle che riuscìvano ai palchi della
librerietta sua, èran poche; alcune, mèssevi a prova, ne venìvan rimosse prima dei quaranta
dì. E dalla mente di lui?
O beata ignoranza! sòlida volta che celi orrìbili abissi; per te si cammina sicuri, si
cade mai. Povertà non teme indugiarsi a ora tarda pei boschi; se chiude la porta, è solo in
riguardo dell'aria.
Mirate invece frutti del troppo studiare! dico in arte, intendete. Anzitutto, spendiamo
il terzo migliore della vita nostra, quello di amare e creare, nelle cantine e nei spazzacasa,
in busca di code di sorci e di capocchie di chiodi. Quando poi ci sovviene d'avere sul collo
una testa e nella testa un cervello, la nostra originalità (primo tesoro a ciascuno) è svanita;
noi, pensiamo secondo vuole la rima, facciamo a ricetta; oppure, incapati a seguire le orme
di qualche grand'uomo, gettiamo la rimanente vita senza alcun prò. Per fare il Manzoni,
èccoci Carcanini!
E alcuna volta si apprende, dopo un lunghìssimo rigirìo, che, fiori, sìmili a quegli
essiccati che noi cercavamo di rinfrescare, venìvan su a dispregio nel nostro giardino; che
quella chiave, per cui frugavamo tutta la casa, era là, dove meno ci si pensava in una
tasca di noi.
Ma e se non fosse là pure?
Oh! allora, notte felice. Se qualche volta lo studio, a chi ha la presa divina, può non
far male; a colui che ne manca, mai non bene. Inaffia il tuo ghiarone, concima! non
caverai che de' sassi; i fiori tuoi, carta; i prati, saranno felpa.
Tuttavìa, poniamo che le qualità essenziali del genio sìano in te, basta? No. Lo
schioppo caricato e montato ha d'uopo di che fàccialo esplòdere; per esempio, l'incontro
con un'òpera somma, prodùssene altre; ecco dùnque un portato di quello studio, che poco
sopra (vìvano le contraddizioni!) abbiamo detto non ùtile. E fuor dallo studio? Cosa?
Amore La biscia mettèvasi in bocca la coda; va e va per un labirinto d'idee, Alberto
giungeva appunto sul luogo da cui s'era partito.
Amore, bene. Come il denaro, esso è coppella all'individuale natura; cretinizza lo
sciocco; aggenia il talento. Ma tutto stà a trovarlo. Amore, già, non s'era mai scomodato a
salire le scale del nostro giòvane amico, mai l'avea abbordato in istrada. E a dire che, se
il destino ponea ch'egli, in età d'amore, avesse ad amare, ella, in questo vero momento,
vivea... chi? dove?... e forse, ella pure sognava all'incògnito lui... Oh avèsser potuto,
almeno l'ànime loro, preunirsi!
A buon conto, lo stare immusonito, fantasticando, non era un mezzo davvero
d'anticipare sul tempo. Poetino mio, necessitava che ti mettessi bravamente in viaggio
verso la folla. Non rinvenendo anche lei, v'avresti, se non altro, posato di tanto in tanto, le
imaginazioni tue e tratto vigore e materia per altre.
Ma, chèh! Alberto temeva la società. In società cuore gentile non basta. E Alberto
sentìvasi e all'orba di tutti gli usi di quella e privo di spacciatura per se ne impipare. D'altra
parte, fuori dell'àqua, come apprèndere il nuoto? A raccòrre con disinvoltura il fazzoletto,
sempre per terra, della marchesa Trestelle, dòmine! bisognava vederlo a cadere.
Studia, studia, ripeto, a che? a niente. Tu miri troppo, e la ròndine fugge. Bel gusto,
ve', di passare quel breve tempo in cui si fanno a tre a tre gli scalini (quando, in isbaglio,
non quattro) lì, solo, presso del fuoco, contando le monachine; oppure a scrittojo,
s'ammobigliando, stipando il cervello, per rènder poi dotti... i topi del cimitero.
Sì, giacchè ne fu data, più per forza che amore questa inùtile vita, dimentichiàmola in
mezzo ai piaceri. Dopo, che ci può èssere mai? Abbòndano le risposte, ma chi le detta è
mattìssimo orgoglio, quel tale orgoglio che ci copie di un Dio, e insegna come la
provvidenza cresca la lana all'agnello per riparare dal freddo noi.
Dimando io, prima d'uscire alla luce, che fummo? Se siamo immortali, perchè
principiammo? Nè mi toccate a scusa l'oblìo; il vostro oblìo è il mio nulla.
E Alberto quì s'affisò in una lunga lunghiera di stranìssime idee, giunte a fila di
ragno. Sfido la penna a seguirlo! Ma, se anche il potesse, la ratterrei; io non voglio che voi,
o lettori, abbiate a lasciarmi in un accesso di disperazione; quindi, alla chiusa! Alberto si
scosse, scese dall'orlo dell'armadietto, e borbottando «carpamus dulcia, nostrum est quod
vivis» passò nella stanza da letto.
Andava a pigliare il cannocchiale e il sopràbito. Àqua! che slancio. Ma pensò, prima,
di lavarsi la faccia: tòltosi e la giubba e il panciotto, si trovò la camicia non fresca. Fuori
dùnque i cassetti! questa quì, no; quella là, neanche; scèlsene finalmente una battista a
lattuga. La quale nuova camicia chiamò un altro panciotto, come il panciotto gli fe' mutar,
ben'inteso, e i calzoni e la giubba. Ma intanto le sue lunàtiche idee scioglièvansi, che,
allo scricchiare di due stivaletti lucenti, non èrano più.
Cari miei, altro che lìbero arbitrio! molte volte si pensa come vuole il nostro àbito.
Esempio, me. Quando sono a Milano, in cilindro, in marsina, guantato, con un sentore di
muschio, leggo «la Perseveranza» fumo cigaretti di carta ed esclamo «sapristi!» Mi
vedeste invece a Pavìa, oh mi vedeste quando lo studente... con tanto di cappellaccio e
mantello! Allora, pipo, giuro «per Cristo e Marìa!» del tu a chiùnque, e grido «viva
Mazzini! e Garibaldi! e il suo inno!»
Torniamo ad Alberto. Èccolo a quattro spilli, vestito come un figuro da moda e
spiritoso del pari. Dà un'altra occhiata allo specchio. Stavolta, la luce, tenendo il lume
Paolino, venìvagli dal sopra in giù, parea ingrassarlo... N'è? non si poteva dir brutto, anzi!
E di una signorile andatura perchè ridi, mio Cletto? signorile, dico, e ci ho
le mie brave ragioni. Chèh! non è forse il camminare in un pezzo, ingommato, ed il parlare
stroppiatamente, molto più da signore che non l'andare via lisci, come ci taglia il passo e la
parola natura? non vuoi tu che il signore, in qualche cosa oltre ai panni, possa venire
distinto dal poverame?
Dùnque, Alberto, di una signorile andatura, più non pensando che le sue quattr'assi,
forse, èrano già in magazzino, si avvìa al teatro. Correva allora la moda pel cìrcolo
equestre: egli vi giunge e solleva la pesante imbottita della porta di strada, di Dio sa quanti
sospiro, cui la moglie moriva dalla febbre e dal freddo.
Al dispensino stava un biondone, acceso di colorito. Per il momento si limitava a
vènder biglietti. Bastò un'occhiata di lei a confòndere Alberto; al quale se aggiungi un pajo
di guanti nuovi strettìssimi, comprenderai quanto dovesse penare a produr fuori il borsino e
ad aprirlo. Pagò. La dispensiera, con il biglietto, gli rendette de' spìccioli; egli se ne allogò,
uno nella tasca di destra, un altro in quella di manca, e, come gliene avanzava fra mani un
terzo, chiese una sedia.
Trois francs ella disse nel presentargli un secondo biglietto.
Alberto ricomincia la pesca; gli manca una lira; fruga di quà, tasta di là, crede di
averla scoperta... È un soldo.
Arrossa; torna a cercare con rabbia. Pur finalmente trova; e paga.
Senonchè, allontanàtosi dal dispensino e tentando cacciarsi in una finta di tasca quel
maledettìssimo soldo già scambiato per lira, esso gli sfugge, e pirla sul pavimento. Ma
Alberto, schiavo dell'àbito, non se ne dà per inteso.
Signore! sclama un monello, venditor di giornali, corrèndogli appresso.
Alberto dovette ristare. Il ragazzino gli presentò la palanca. E Alberto, più confuso
che mai, se la mise in saccoccia!... Il ragazzino gli tenne dietro con gli occhi, tra il
disappunto e l'offeso.
Ecco il teatro. Tôcche le sedie, il nostro amico rimane un istante a calcolare il
terreno; conta le file; poi, entra in una.
Gran tramestìo di gambe e di pudìche sottane. Egli si ferma a un ufficiale che ride
con una bella vicina, e:
Di grazia dice.
Eh? il militare alzando la testa; e, come Alberto accenna alla sedia
Pardon! è la mia. Guardi meglio il biglietto!
Proprio! Alberto avea sbagliato la fila.
Scusi! mòrmora. E torna a fare la strada in tanta stizza e vergogna, che per un
pelo non iscappò dal teatro.
Intrattanto la banda suonava; banda a istrumenti un po' corti di fiato. Per
contraccambio, ciascuno tendeva ad aprirsi una via sua propria, e Dio sa dove sarèbber
finiti, se, a contenerli, non sopraveniva qualche gran colpo di tamburone, uno di quà, uno
di là, come quando s'incèrchian le botti.
Ma, di sconnesso ancor più, stava nel mezzo del cerchio, un disgraziato fanciullo che
si storceva per solazzo del pùblico. Era l'uomo-caoutchouc; un mingherlino a cui i bimbi
della platea e dei palchi invidiàvano il bel vestito da diavoluccio, rosso, a pagliùcole d'oro,
ma che, d'inferno, sentiva solo le pene.
O pòveri ossicini! come dovevate crocchiare! E il pùblico, giù ad applaudire. Sai
allora chi ringraziava? Un grassone in livrea «le braccia al sen conserte» pure nel cerchio.
Càpperi! Lo avea egli fatto!... e disfatto!
LA CASSIERINA
Dieci anni di meno Alberto si trovava in campagna. Era solo, su 'n terrazzino della casa
paterna che soprastava al villaggio, stanco, come generalmente si è agli sgòccioli di una domènica,
il giorno del fare niente, e si sentiva la faccia accarezzata dalla frescura notturna. Poco innanzi,
una ventina di razzi imàgine della più desiderèvole vita, corta e splendente avea, per
annunciare la chiusa di una festa paesana, stracciato l'àere, e apparecchiato tabacco di naso agli
uccelli. Il cielo, nero-fulìgine. Tratto tratto, una lusnàta vi abbarbagliava per un batti-palpèbra,
facendo brillare, vetri, gronde ed ardesie: poi, tutto rintenebriva; e rispiccàvano le illuminate
finestre. Ancor più nero dell'àere, il villaggio pareva allora un ammasso di spenti carboni.
E al villaggio salìvano ad Alberto i suoni male-accordati di un tamburo e una tromba. Essi,
di tempo in tempo, cedèvano a una voce di donna, acuta... Di botto, Alberto, si parte dal terrazzino,
stacca un cappello dal muro, esce di casa; e, giù per la rampa, arriva al sagrato.
In cui, a mezzo di una folla di rùstici e in pie' su 'na panca, illuminata da fiàccole, era un
toccone di carne fèmina, con i capelli a vaso di maggiorana, le guancie a pane buffetto, e la
pappagorgia; sua veste, una petturina di raso non-bianco, e una gonnella di garza; sotto, due
colonnette da balaustrato. Il che maledettamente stonava con la vocina di lei. Ma ella ricorreva
spesso al tamburo. Allora, un uomo alla destra, in maglie, con una ghigna da pignatta bruciata ed i
capelli alla ciabattina, strideva una tromba; e intanto, un pagliaccio a sinistra, abbigliato da
Meneghino, sganzèrla di uno a ventre di contrabasso e a muso biacca-e-mattone, gestiva, e, in
ràuca voce quasi annegata nell'aquavite, gridava.
E i tre saltimbanchi, rullando il tamburo, suonando la tromba, facendo un fracasso per
trenta, si mèttono in marcia: dietro, la barabbaglia intruppata, a ciufoletti ed a fischi.
I saltimbanchi vanno alla loro baracca. Ma, ivi, perc la folla si arresta? È che tira vento
di rame. Ha bel strillare il donnone: «sotto, pòpolo generoso! si tratta della miseria di un dieci-
centèsimi...» tutti rimàngono sodi. Corre quel diffidente sospetto, che è la prudenza di chi
moltìssimo ignora e poco ragiona.
Alberto volle ròmpere il ghiaccio. Si fe' coraggio, e, camminato vèr la baracca là ove si
stava a cassiere una tosuccia di circa otto anni, in bianco, con un visino stregato, gli occhi
nerìssimi, lùcidi lùcidi forse dal lagrimare contìnuo, ed i braccetti nudi, che ricordàvano i
bastoncini del tè buttò una moneta sul tondo.
Fu 'n soldo che diede un suono di argento.
Lei... prese a dire la bimba, tirando una falda di Alberto. Ma non disse di più. Il
saltatore dalla mòtria affumata, avea grugnito con ira. Ella serrò le palpèbre come a tuono
imminente, e Alberto, che s'era vôlto e avea egli pure compreso, tàque, e con stringicore seguitò la
sua via.
Nòti chi si diletta a dipìngere come pezzi di tela e pali formàsser due lati della
baracca; gli altri, un muro di orto. E, nell'interno, si vedèvano panche, un pajo di cavalletti con
padelline di grasso e fumosa fiammella agli estremi, e un organetto guardato da un cane barbone:
volta, quella del cielo.
Quanto però a spettatori, all'entrare di Alberto non si toccava la mezza dozzina. Senonchè, il
panno tira il frustagno. «Va tu... vengo ancor io» appena Alberto fu entro, èbbevi ressa alla porta; e
nella baracca, folla.
E cominciàrono i giuochi giuochi infami!
Imàgina due piccini, di non più di sei anni per uno, pezzati di nudo e con le animuccie
pelle pelle, ballottati senza misericordia; e imàgina una tosuccia (la cassierina) incesa da
bicchieretti di branda, a saltar trafelata, cerchi, corde e sedili, tossendo, e gettando a guisa di gioja
i gridi che le strappava il dolore.
A un punto, sghiàtole il piede, la cadde contro del muro; nè il muro era, per pasta, di quelli
di Gèrico.
Alberto non potè più durarla, si alzò, e dilungossi con l'ànimo che gli sapeva di brusco. E,
quella notte, nella fantasìa di lui, fu un vai-e-vieni; ora, di vispi e puliti popò dall'odore di cipria,
cui, parlando, ognuno addolciva e le parole e la voce, e i quali, se piangèvano mai, era per non
riuscire a spezzare tutti i loro be'-belli; ora, invece, di avvizziti puttini meglio, di pìccoli vecchi
a strappi, lavati dalle loro làgrime solo, mai da nessuno baciati, mai sorrisi, quì a grignotare
secchetti di pane dinanzi alle golose mostre di una rosticcerìa, rannicchiati entro un pagliajo,
bubbolando pel freddo, in compagnìa di qualche cane perduto o abbandonato com'essi.
Il domani, Alberto, si destò di buon'ora. Bisogno, più che non voglia, stringèvalo a ritornare
sul luogo del crudele spettàcolo. E, come vi fu, trovò la baracca, spiantata; sen caricava un
carretto. Sopra del quale, uno de' saltatori (quel dal mostaccio di spazzacamino) in maglie ma con
la giacchetta a ridosso, dava di piglio ad un palo pòrtogli dal Meneghino. E questi era giù, la
camicia slacciata (il che scopriva degli agnus), col muso ancor mezzo dipinto e mezzo verd'aglio.
accosto, i due pòveri bimbi sotto di un asse, uno per capo, aspettando; in fondo, il donnone,
floscio carname, in ginocchio, che legava un fardello.
E, tra i curiosi, Alberto. L'occhio di cui, più che a tutt'altro, indugiò sulla faccia di uno dei
due tormentati piccini, faccia sparuta, smorta, ma intelligente che mai. Poterne cangiar l'avvenire,
quale felicità! E, Dio sa che cammino di gloria gli si sarebbe dischiuso!... Una frasuccia bastava...
Ma la frasuccia non venne, ma Alberto si allontanò.
Chè a lui mancava qualch'altro da rivedere, pur non sapeva dir che. Proprio, come
allorquando s'ha una parola da proferire, se ne conosce il suono, se ne conosce il valore, ma non c'è
verso di spiccicarla; notando poi, che la cosa, cui tal parola è veste, torna, apparendo, moltìssime
volte inaspettata.
La quale cosa, ad Alberto (che svoltava in un vìcolo) fu 'na tosetta, seduta sullo scalino di
una portella, fisa a un collo di fiasco, rimàstole in mano: a terra, dinanzi a lei, cocci di vetro ed una
traccia di rosso.
La cassierina! Perchè assorta? Già, era vano di attèndere una di quelle fate benigne, le
quali, a bei tempi andati «splif splaf» avrebbe, con un colpetto di verga, riuniti i ciapelli e
riempiuto il pestone. Il vino continuava a colare. Ma ella non si moveva. Tanto fà! le busse non le
avrebbe perdute. Se lei non andava, loro sarèbber bene venuti. Oh! per le busse, non la
dimenticàvano!... mai... E tristamente, girava il collo del fiasco.
Tu! disse Alberto.
La ragazzetta alzò due occhioni neri e calamarenti.
Ti batteranno, eh? dimandò egli con una voce pietosa.
Ella bassò la testina, e sospirò.
Prendi fe' Alberto, rovesciàndole in grembo tutto che insaccocciava... e soldi di rame,
e soldi di argento. Poi, fuggì via.
Due sguardi maravigliati e di riconoscenza lo accompagnàrono. Ei non li vide; li sentì.
E questi due sguardi sono ancor là, nel teatro, vivi, e pàrtono da quella pallidotta
fanciulla, la quale come Alberto appariva si era levata a mirarlo.
Capitolo sesto
Tuttavìa, di questi riconoscenti sguardi, Alberto il quale avea raggiunto, a dritta, e
presso della corsìa, il suo posto non èrasi accorto, o meglio, non sapeva di èssersi, chè,
non è impossìbile che la sensitiva parte di lui se ne fosse, all'insaputa delle altre. Oh quante
volte ci sovveniamo del viso, lungamente obliato, di tale, che viene in quella vèr noi, prima
che la nostra pupilla il rifletta! oh quante, ci ritorna un motivo, canticchiato chissà dove
lontano, prima che il nostro udito ne raccolga una nota! Bisogna crèdere dùnque ci sia
qualch'altro senso oltre i sòliti cìnque... sarebbe il pre-sentimento? E, nel caso di Alberto,
una prova, era il ricordo della infelice bambina.
Dal quale, un gran battimani lo trasse. L'uomo-caoutchouc avea trinciato, doppio,
uno di que' tai salti, i quali, per alleccornir la vivanda, han nome mortali; in segno di
grazie, pigliava ora la corsa per trinciarne de' nuovi.
Senonchè, Alberto, girò il cannocchiale ai palchi di prima fila. E diede sùbito in uno
con giovanotti nelle più indecenti pose... Indecenti? epperchè? non si vàlgono tutte? e
passò poi ad un altro, al davanzale di cui stàvano tre nonolini, con le braccine fuori e le
teste sur il velluto del parapetto, moscatelli ed allegri, mentre la mamma allo specchio dei
loro visucci godeva dello spettàcolo; dopo, ad un terzo, con un signore ed una signora
attempati e dall'aria muffa... marito e moglie senza figlioli! I figli, e chi nol sa? si mèttono
tra i genitori, tòlgono a quelli la vista della ruìna del tempo, anzi, li ringiovanìscono in loro.
E così, su e giù per i palchi, Alberto continuò fino al vano della porta di mezzo, dai due
poliziotti agli stìpiti, i propri sostegni del palchettone regio.
Di del quale, l'amico nostro, ripigliando il suo viaggio attraverso le lenti, sorpassò
un palco, in cui, viso a viso di un saporito vecchietto a cera da mela cotta, sedea una
giòvane dama, vestita di nero velluto e in gorgeretta bianca increspata. Ma tosto vi ritornò.
Era, la giòvane dama, castagnina di chioma, di sàngue gentile, e mòrbida siccome neve-di-
latte; negli occhi, azzurra e della più mpida àqua; in profilo, la Vittoria di Brescia. E
Alberto le segnò tutt'intorno, col cannocchiale, quasi una lìnea, scendendo dal fronte di lei,
per la guancia rotonda ed il mento, girando verso l'orecchio mezzo nascosto sotto ai
capegli, e seguendo il gustoso contorno della spalla e del braccio fino al velluto rosso del
parapetto. Poi, tirò innanzi. Ma e che? èccol di nuovo a lei fiso. Certo è, che le cose, belle
di vera bellezza, sebben non comprese alla prima, làsciano desiderio di sè. Ed ella or
sorrideva; di qual sorriso, Dio! non già della grinza, nata allo specchio ed usa nel mondo
elegante, ma di un sorriso di quelli, che, venendo dal cuore, rimbeltempìscono i bimbi, ed
accontèntano i poveretti.
Eh! saltò su a dire una voce dietro di Alberto, mentre una mano il tentava.
Ei, sobbalzando, si volse; come se còlto ad un furto. In verità, furava a un marito.
E vide Enrico Fiorelli, uno de' suoi condiscèpoli molti di un tempo e delle sue poche
conoscenze dell'oggi. Fiorelli era un grassotto, tal da sembrare imbottito, piuttosto rosso
che biondo, e con un'aurèola tutt'all'ingiro di far 'na vita da papa.
Alberto continuò Enrico, scavalcando il dossale ad una sedia non occupata
presso di lui l'è mesi mesorum da che ci siamo incontrati. Ti dirà la mia cera che vengo
dalla campagna. Salvo una fame assassina, stò a gonfie vele. E tu?
Vivo.
Non credo. C'è da giurare che ti stai sempre fra quei tuoi morti di libri. Studii alla
disperata, eh?
Alberto fe' una boccuccia di noja: niente lo contrariava di più del passar per
sgobbone.
Non mi dare la berta rispose Dimmi invece una cosa...
Due.
Già; tu conosci moltìssimi...
Conosco, fà conto, mezza città.
Siamo a casa allora. Sai dirmi chi è... chi è quella... Guarda in fila seconda, a
sinistra... quel fagotto di donna, in raso colore cangiante?
Ipòcrita di un Alberto! Ve', se pigliàvala larga.
Oè? t'innamora? dimandò ridendo Fiorelli Bene, quella brutta sàgoma là, e
quel secchetto di uomo faccia a faccia con lei, fanno un sol pajo. Tenèvano drogherìa, sarà
un dieci anni, sulla piazzetta di santa Polonia; si chiamàvan Del-Bò. Adesso, eh, ti leva il
cappello, sono i signori baroni Del-Bue. Non han fatt'altro che trasportare l'insegna dalla
bottega al calesso...
Vorrei Alberto interruppe con un zinzino d'aceto diradare le nebbie che
avvòlgono prudentemente le orìgini antiche di molte e molte nobilìssime case... Altro che
drogherìa!... E quelle due appresso ai Del-Bò? sèmbrano bàmbole, n'è?
Bravo! sono quello che sèmbrano. Roba da gioco, e da buttare poi via. Un
magazzino all'ingrosso e al minuto. Ne vuoi?
No, grazie. Di' ancora. Chi è quella... quella... (e quì Alberto, che voleva
accennare alla dama in velluto, tra la vaghezza di udirne e la paura di udirne e dir male,
titubò) quella signora... bellina... in quel palco a diritta, presso la porta di mezzo
Fiorelli mirò il cannocchiale vèr lei. Alberto azzittì, e attese con batticuore.
Diàvolo! Enrico esclamò, maravigliando di sè Non conosco...
E conosci mezza città? chiese Alberto un po' in broncio.
Ma non l'altra oppose Fiorelli (e, tornando a guardare:) magnìfica donna,
per mìo! Vado a informarmi di lei.
Dove?
; nella corsìa che mena alle stalle; da colui che discorre coi cavallerizzi; non
quello in sopràbito grigio; l'altro, il nero di barba, pàllido...
Anzi, verde osservò Alberto Chi è?
Un mio amico; il marchese Lotteringo Andalò; suppergiù, un buon ragazzo. Già ti
dissi, credo
Difatti, sì. Alberto si risovvenne che gliel avèano pinto per uno, che nelle più furiose
dissolutezze si era infrollito ànima e corpo. Ora, usato di troppo alle sensuali emozioni e
troppo alle morali non-uso per riuscirne a godere, vivea tanto da mèttere un giorno
sull'altro; giorni tediosi, di una pesantezza di piombo.
Enrico, appressàtosi, in questa, alla sbarra tra la corsìa e le sedie, chiamava Andalò.
Il quale, venne.
Sapresti cominciò Enrico; ma quì s'interruppe, e Andalò; ti presento Alberto
Pisani, mio amico. Alberto! il marchese Lotteringo Andalò, ut supra
I due nominati inchinàronsi.
Sapresti seguitò Enrico al marchese il nome di quella bellìssima donna, in
prima fila, alla dritta della porta di mezzo? Non mi par forestiera
Andalò volse a lei un'occhiata, e...
Un momento! un momento! Io, Carlo Dossi, ho quattro cosette da dire alle mie
signore lettrici. Per voi, lettori uominacci, nulla: saltate. E dico «donne, stò in forse sul
come a voi riferire il parlare del marchese Andalò, parlare senza camicia, e peggio. Certo,
se voi foste state allevate secondo natura, esso non vi darebbe caldo freddo; ma,
invece, vi hanno insegnata la cosìdetta virtù del pudore virtù cara ai deformi, sempre
posticcia, figlia e madre ad un tempo della libìdine... Oè! non fuggite. Per voi, transigo con
me e brucio io pure sull'ara di tale sporca virtù il mio granino d'incenso: non voglio darvi la
pena (sebbene sia pena che acuisca il piacere) di lèggermi alla nascosa. Passerò, dico, i
discorsi del marchese Andalò per tutti e sette i crivelli... vi va? sicuro, del resto, che la
imaginazione vostra, pudìca, può ricomporli... e con giunta».
No; non è forestiera disse adùnque il marchese con una voce slojata, che a chi
l'udiva attaccava la fiacca È di quì. Si chiama Claudia Bareggi, figlia di un appaltatore
di armata, un gatto in grande, morto cìnque o sei anni addietro...
E principiò a narrare a Enrico e ad Alberto quello che a voi, mie lettrici, secondo
l'intesa, ripeto ora istacciato; come cioè, Claudia, intorno ai diciotto innamorasse di un tal
Savojardo, nient'altri che il lava-piatti e pela-capponi e menarrosti di casa. Sorprèsili il
babbo, àpriti cielo! un affare di stato! Si cacciò via sur i due piedi il sonator di ghirònda,
ma la sua bella còrsegli appresso, e insieme a lei... le posate d'argento. E il babbo, dietro
anche lui. Ma il babbo, per troppa furia di giùngerli, ribaltò e morì; per troppa furia di
uscire dal mondo, dimenticò il testamento. I due rondinini gli dedicàrono allora un
monumento, costoso... Ma e perchè volàron poi sùbito a Nizza? e vi piantàrono il nido?
Egli è che l'aria di quì avea troppa buona memoria. Quì tuttavìa, di tempo in tempo,
spiègan le ali; egli, per dare una scorsa agli interessi di lei, ella per rinfrescar la memoria di
una certa prozìa, innumerèvole a soldi e ad anni.
Così dicea il racconto del marchese Andalò. Ma Alberto, tenendo fisi gli occhi in
quelli di Claudia, bevea dal loro lìmpido smalto il contravveleno.
A un tratto, ella si leva, e, s'avvolgendo in un scialle bianco, scompar nel fondo del
palco.
Alberto ha un sùbito moto.
Scappi? chiese Fiorelli nel trattenerlo.
L'amico nostro arrossì, impallidì, e stette.
Un giramento di capo... balbettò egli.
Forse i lumi... osservò Enrico.
Era invece un colpo di sole!
E uscìrono insieme.
Tuttavìa, in istrada, Alberto rinvenne. Non volle punch, àque calde, ma volle
andàrsene a casa. Fiorelli l'accompagnò. E il fresco risvegliava in Fiorelli la brillantina del
chiacchierare. Era sul dare consigli. Disse ad Alberto, che, a non guastarsi e il corpo e il
cervello, abbisognava, ad ogni mano di studio, una alternarne di vita giojosa, o maritare
almeno l'aria morta dei libri a quella, viva, della campagna:
Non par vero disse che un giòvane come te, fuori di tutte le busche; che non
ha a rèndere i conti a nessuno, abbia da stare, quanto il giorno è mai lungo e qualche volta
la notte, a sbriciolarsi sui libri, cercando la quarta al trifoglio od ingollando pìllole d'aloè!...
Uh!... Che mangi di colazione?
Perchè?
Perchè gli è quel pasto che ti dà il tono del dì. Che mangi?
Un uovo... ma questo è a bere piuttosto.
E d'altro?
Una tazza di tè.
— E d'altro?
Un chìfel.
E d'altro?
Niente.
Come! niente?
No.
Ecco il marcio!... Tè... uovo a bere... chìfel! Va, se la duri, è segno che ti han
costrutto di ferro!
Alberto sorrise pallidamente.
Sei male informato disse.
Ma e allora, come vuoi rafforzarti con quella tua àqua da occhi? Sai che ci va?
Sleppe di manzo, o amico, costolette e bistecche. Chè, se tu mangi ben bene, studierai poco
poco. Tàvola e tavolino non sono in troppa armonìa. Per digerire tu dovrai passeggiare, le
passeggiate ti desteranno appetito... via via, diventerai come me, una invidia alla luna di
Agosto.
Èccoci! fe' Alberto. E sostò.
T'ho pur rotta la gloria? disse allegramente Fiorelli.
Non dico.
Dico io. Ma, quel ciarlone di Enrico, ti ha, se non altro, risparmiato del fiato. Va,
e dormi. Gli è già ora turchina per un figliolo da bene
E strinse la mano di Alberto, aggiungendo:
Riposa il grande stravizzo.
Addìo
Alberto entrò; serrò la postierla; e, preso il suo lume, che lo stava attendendo acceso,
attraversò lentamente il cortile verso la scala.
La sua testa girava girava. Gli risonava l'orecchio come alla romba di una cascata «è
amore o è sonno?» chiedèvasi machinalmente «oh maledetto il grillo di recarmi a teatro!
Ero sì quieto, così contento!»
E raggiunse la scala. Si mise adagio a salire; ma, dopo un quattro o cìnque gradini,
riste' e siedette su di uno, posàndosi a fianco il lume.
No, non era possìbile ch'egli ci fosse cascato: era la brama di èsserci, che glielo volea
far crèdere. Tutte panzane, sìmili amori improvvisi, quasi colpi di schioppo; o, per lo
meno, amori apparenti, chè i veri hanno la fonte lor prima nella bellezza dell'ànima. E
conoscea mò egli quella di Claudia? No.
Piano col no! La di lei ànima, Alberto, l'avea pure veduta; essa non è, come la gente
pone, invisìbile: ciò che noi appelliamo il sembiante, l'aria, la idea di un volto, che è se
non lei?
Ma è poi essenziale in amore il connubio delle ànime? Non è forse al rovescio? E
quì, se un cuore gli rispondea di sì, un altro non si stancava a negare.
Quante contraddizioni! Chi vuol ragionare ci affonda. Vòlta e rivòlta, nulla di certo,
se non se l'incertezza... e questa?... Nè s'è manco sicuri di esìstere! Presente, già, non ci ha,
perchè il passato confina con l'avvenire; ma se il passato fu, l'avvenir non è ancora. Eppure,
egli poteva pensare! e volere! e mòversi... quasi a persuadersi del che, battè fortemente la
mano sullo scalino.
E il colpo lo tirò dalle nubi. Si spaurì di stesso; si tornò in soggezione. Raccolto
allora il lumino, si alzò, e riprese a montare la scala, pensando «trègua ai contorti sofismi;
andiamo a dormire. Dormendo, s'è più desti che in veglia».
E infino al ripiano, la testa di Alberto cessò dal frullare, o parve. Ma, come all'uscio,
si rinviò.
perchè a letto? Perchè tante ore perdute tra le lenzuola? Se a riposare le fatiche
del giorno, a che il riposo eterno di morte?
Ed ecco Alberto voltarsi, ridiscènder la scala, e riuscito alla porta di strada, riporre,
nella nicchietta, il lumino.
Riaprì la postierla.
Il chiaro di luna inondava la via, dolcìssima luce agli afflitti. Il sole feconda il
formentone, ma il sentimento, no; è un padre, buono fin che volete, ma che stà troppo in
sussiego; è sempre padre, mai babbo. La luna invece è mamma; essa indovina i nostri
minuti affari di cuore, ci piglia interesse; nei dispiaceri conforta, o almeno piange con noi.
E Alberto, al carezzèvole influsso, sentèndosi più e più alleggerir la persona,
corrèndogli voluttuoso il sàngue, a lungo passo cammina: giù di quà, su di là, vede un
palazzo, e al primo piano di quello una finestra splendente. È la sua. Alberto, con le
làgrime agli occhi, la fisa. E una siloètta di donna vi appare. È lei!... Ma la finestra si
abbuja.
Dòdici ore!
Lettori miei, niente paura! non vi allargate dal muro. Oggidì, questa, non è più l'ora
dei ladri; oggi, si ruba in pieno meriggio.
È l'ora, invece, in cui il mercato di Prìapo affolla.
Già, il bujo, pesa su quegli intavolati, più che campi dell'arte, ruffiani dei vizi; e le
torme di lupe dalla voce ràuca, che il dopopranzo battèrono i marciapiedi infranciosando i
cervelli mezzo intontiti dal cibo, son covigliate e tripùdiano; già, quasi tutti serrati, son que'
caffè, ove dei côsi, torti di gambe come di ànimo, spàrsero effigi di pezzi di carne con
l'indirizzo dietro; e la timidetta fanciulla, che poco innanzi valzava sotto gli occhi di
mamma con qualche bel cavaliere, dorme, imaginando di lui, ignara di che gli servì. Or la
città va prendendo una sospettosa aria; quella di una ragazza, che, con gli orecchi attesi alla
porta, legga un volume senza nome di tipi.
Ve', un barbisino di quìndici anni, il cappello negli occhi, che rade il muro di un
vìcolo. Egli potè fuggire da casa, e, mentre il vecchio suo padre lo sogna in preghiere,
egli... Va o viene? È troppo allegro; va... E quel bambino, tristo, stracciato, su 'na scalèa,
che aspetta? Pare venda fiammìferi... Fiammìferi solo?
Intanto, dei broughams dalle tendine calate fanno a precipizio, chè il Diavol li porta,
la strada.
E intanto una carrozza si arresta in una via tortuosa che fiancheggia la Corte. La
sentinella rintàna. Lo sportello si apre; ed ecco un alto signore, il quale offre la mano a una
donna incappucciata e dal vestito che fruscia. Tò! quel signore non rièscemi nuovo; mi par
d'averlo ammirato ad una mostra di truppe, in tanto di fanfarona divisa, isputacchiata di
principesche decorazioni... E la bella sua moglie gli passa dinanzi. Egli le un ampio
inchino, e, come la vede sparire in una pìccola porta porta alle grandi fortune tutto
orgoglioso di ben meritar quelle insegne che incugìnan col rè, rimonta nella carrozza.
Un'ora!
Uòmini inferajolati, a viso da campana e martello, ne pedònano ancora, tossendo; o
ne vèngono incontro soffiàndosi il naso. Aumèntano dalle finestre i pst pst... alcune vie, da
cima a fondo, pispìgliano. Nabucco imbestia; la città è in frègola.
Capitolo settimo
Allorchè Alberto risalì la sua scala, battèano le tre della notte; e, che tale per lui fosse
una vera straòra, il viso di Paolino gliel disse.
Alberto arrossì. Perchè? Davvero, non ci avea il di che; ei rincasava con tanti denari,
quanti all'uscir di teatro, e il vizio costa. È dunque a pensare come noi arrossiamo ben più
di ciò che la coscienza degli altri potrebbe rimproverarci di quello che possa la nostra.
E Alberto fuggì prestamente gli occhi del servo, si chiuse nella càmera sua, e si gettò
sul letto, vestito. Era inebriato d'amore, ma più ancora di sonno «no, io non debbo dormire,
io non voglio dormire, non dormirò più mai» diceva a fiore di labbro; e ci rimase, come
còlto dall'oppio!
Lettori miei; conterò intanto una storia.
LA PROVVIDENZA
Oh aveste avuta una mano sul cuore della fanciulla Claudia, quand'ella incontrava dove la
scala potea ancor dirsi scalone, un certo giòvane bruno; e di capegli e di occhi e di baffi,
nerìssimo! Tuttavìa, egli non salutava in lei che la figliola del padrone di casa, e salutava senza
pure fisarla. Egli era pòvero e bello, ma non si sentiva che povero.
Chi fosse, udiamo la portinaja: «un giòvane molto gentile chè le chiudeva sempre la porta
e accarezzava il bargnau il quale, da circa tre mesi, avea tolto a pigione una stanza nelle
soffitte. Precisamente non sovvenìvano il nome, ma quel si vedeva stampato e attaccato su pei
cantoni, come maestro di... di... non ricordava di che. Nondimeno, gli affari suoi, quali si fòssero,
non dovèano còrrere a olio; nessuno ne avea mai chìesto; ed egli, se spesso usciva con dei fardelli,
rientrava sempre a man vuote».
Alle quali parole, Claudia, volgèvasi in fretta, e, lasciando la portinarìa, saliva nelle sue
stanze. Là, presto abbandonava il ricamo per l'ago; l'ago per i fiori di carta, metteva insieme o una
rosa turchina o un geranio verde; poi, indispettita anche dei fiori s'andava a sedere nel vano di una
finestra con un qualche romanzo. E Lisa Angiolelli, che gliel'avea appostato non appena fìnito, si
guadagnava a pazienza il suo spicchio di cielo.
Altre notizie intorno al giòvane bruno, Claudia le ebbe da cui meno pensava, da un cugino di
lei, Pietro Bareggi. Chi lo conobbe?... un mangia-dormi a faccia da mascarpone?... con un eterno
sorriso a crètta?... un seccatore atroce?... No? Già; i connotati sono un po' troppo comuni. Pietro
faceva assiduamente la corte alla bella cugina, e in generale s'avea per il suo sposo futuro.
Nondimeno, se è vero che molti folletti in gonnella lo sospiràssero come un marito completo, io
v'assicuro che la nostra ragazza la pensava diverso.
Bene, questo Pietro Bareggi, uscendo un dopopranzo in carrozza con la cugina e il padre di
lei (un mezzo accidentato e tutto acciucchito, antico bevone in cui s'era rifatto al rovescio il
prodigio delle nozze di Cana) Pietro, dico, salutò il bel giòvane bruno, che rincasava in quel punto.
Lo conosci, tu? disse con vivacità la ragazza.
Nòta, lettore, che Claudia con quel suo allocco parente, stava sempre imbronciata; sul
dimandare, mai; sul rispòndere, rado; e, puta il caso, con dei o dei no. L'inaspettato favore die'
quindi un sorriso al pòvero babbio, che:
Altro! disse, e cominciò a narrarle (avvèrti ancora, lettore, che, per amor tuo, insàlo
tanto o quanto il suo parlare fàtuo) com'egli, due o tre estati prima, avesse conosciuto a Nizza,
mentre vi ranocchiava, in quel giòvane bruno, un tale Guido Sàlis, conte, ricco allora da parte di
madre di un diecimila e passa lire di rèndita. Ma, Guido, avea per babbo uno strappacasa, giocatore
finito e di Borsa e di bisca. Il quale, un bel giorno, fatto cinquanta e dieci, trenta, andò con un po'
di stricnìna a stoppar la sua buca. Una fortuna, vero? Senonchè Guido volle prefìgerle un'esse, e
accettò la successione paterna. Ed èccolo intorniato da un nùvolo di scortichini, con fasci di carte
sgorbiate, bollate. Egli, giù allegramente a pagare! paga di quà, paga di là, non si trovò alla fine
avanzati che i piedi fuor dalle scarpe.
E, jeri l'altro aggiunse il cugino lo rincontrai quì da noi. Quantunque molto male in
arnese, ed io moltìssimo bene, attraversai la contrada apposta. Già; si sa, io sono un signore alla
mano, io. E lo invitai a pranzo: parèami dire il suo viso «ho fame» giusto, come le sue scarpe (e
quì il cugino bassò un'occhiata di compiacenza alle proprie, nuove e a vernice) Che vuoi?
rifiutò. E con un far di superbia! Àqua!
Ma, no; io sostengo il contrario. Guido, superbo? Oh l'aveste veduto, pochi appresso al
racconto di Pietro, far capolino, con il cappello fra le mani e in aria di soggezione, nella ragionerìa
Bareggi! Claudia, che a caso ivi era, il può dire.
Sàlis veniva all'amministratore, e, nel pagargli una parte arretrata di fitto, si congedava dalla
cameretta sua e da lui.
La bella ragazza lo fisò tristamente.
L'amministratore borbottò una frase convenzionale di dispiacere.
Il giòvane allora, sempre con lo sguardo vèr terra, salutò e si volse.
Fàtegli agio suggerì, sottovoce e con pressa, Claudia all'amministratore.
Il quale:
Signore fece se è per il fitto...
La faccia di Guido imbragiò:
Grazie! disse ma io... io parto per l'Oceània e, salutando ancora, sparì.
Al trac della porta che si chiudea dietro di lui, rispose una picca violente nel cuore della
ragazza. Ella capì di quale incendio o di quanto avvampasse.
Partito Guido, sembrò insieme partito dalle labbra di lei, il sorriso. Claudia lasciò le amiche,
i libri, le passeggiate; prese a cibarsi a fregucci, a limarsi nell'ànima; e, dalla fresca fanciulla a cera
spazzata di un tempo, a cambiarsi in una di viso affilato, smorto, balogio.
Fu poi, in quel torno, che quello sfasciume di un padre di lei, da un pezzo a non più vivo,
cessò di morirle. Ciò rsele alquanto sollievo, le disfogò quel lago di làgrime, che dalla partenza
di Guido le si era al di dentro ammassato; per la ragione stessa per cui, in piena battaglia, un bravo
maggiore mio amico, tôcco leggermente nel naso, diede in quegli urli, i quali, una prima e grave
ferita in luogo meno eminente, gli provocava. E invano, Pietro cugino, commosso allo
struggimento di Claudia, cercò a forza di buffonate di ridonarle allegrìa e di rimètterla in carne.
Pena gettata il fare da nano, il travestirsi da cuoco, il travestirsi da balia! non otteneva da lei un
sorriso, neanche di sprezzo.
Ma un dì, il sincerone disse all'afflitta cugina di avere, in una viuzza perduta, incontrato
ancor Guido. E Guido, stavolta, non gli avea pur reso il saluto!
O il mio carìssimo Pietro! sclamò la fanciulla con un sospiro di gioja, disincantàndosi
quasi. E a pranzo mangiò due bistecche. Piàcciavi o no, sentimentali lettrici, stòmaco e cuore sono
vicini di casa.
E quì verrèbbemi il taglio per un sermone circa le gioje morali, le ùniche vere, che la
ricchezza potrebbe apportare. Apporta anche fastidi, non dico di no; ma, come scrisse un milanese
brav'uomo «ogni qualùnque cosa ha due mànichi» nè, ora, sarebbe il caso da mètter mano al
sinistro. Intorno al quale, parlerò poi a lungo, a consolazione degli spiantati, lor dimostrando
anzitutto, che se i nudi-a-quattrini vòlgono in capo i più generosi e i più bizzarri progetti, i ricchi,
per contrappeso, hanno i denari, solo.
Pur tuttavìa si danno eccezioni: èccone una:
Alcuni giorni, dopochè Sàlis fu segnalato alla tosa da quel gogò di cugino, un servitore di lei
ne scopriva la casa ed entrava in un desolato stambugio, dove, neanche il sole, universale parente,
si era mai arrischiato. E il servitore offriva a Guido un viglietto, con tali parole:
Da parte della signorina Bareggi
Sàlis lo pigliò con tremore.
Accomodàtevi! fece al domèstico.
Questi, guardàtosi attorno, dovette stàrsene in piedi.
Quanto al viglietto, diceva:
Signore;
desiderosa da un pezzo d'imparare il disegno, ora, mi sono risolta. Voi ne siete maestro, e,
mi si disse, egregio. Vorreste insegnàrmelo? Se sì, vi aspetto: tardi è meglio che mai; presto è
ancor meglio che tardi.
Il giòvane non si moveva.
Ha una risposta? azzardò il servitore.
Guido si scosse, e corse alla tàvola (tàvola e letto era la sua sola mobilia). Ma, a che? di
carta, non si vedeva se non se un brano d'invoglia, già di salame; quant'è al calamajo, l'inchiostro
era secco che la ruginosa penna di acciajo rùppesi tosto. E allora ei si frugò nelle tasche; e ne
cavò un mozzicone di pis mezzo mangiato; era monco! Tentò di aguzzarlo con una lama di
coltello da tàvola; non tagliava oltre il cacio.
Ma lo soccorse un temperino del servo.
E Guido, dietro il viglietto di Claudia, scrisse:
Signorina gentile;
non posso proprio accettare: un pùblico impiego mi vuole di giorno e spesso di notte. Di
malincuore è il mio no; pur mi consolo pensando che lascio il posto a qualch'altro, certo più
degno di me.
Voi, capirete, lettori, che il pùblico impiego di Guido era tutta fandonia, sebbene ei già
avesse, e l'ozio di un alto e la fame di un ùmile. Dùnque, che ne era del suo schietto caràttere?
perchè ricusare un onestìssimo ajuto?
Bella! se è un matto! salta su a dire un N.N., che a questo mondo cantò sempre nei
cori. E, matto, in confidenza, è quel nome, molto di uso, che noi regaliamo a coloro, i quali òsan
pensare diversamente di noi, quando ne sembra un po' forte il chiamarli o bestie o birbanti.
Ma il viso della mia Bigia si fà più gognino del sòlito.
Ve', se ha compreso!
Tu allora, Bigia, e insieme a te, quelli che hanno intelletto d'amore e scèlgono le scorciatoje
del sentimento, non chiederete certo perchè, allontanàtosi il servo, Guido si buttasse sul letto, a
piàngere e a pentirsi, prima del suo rifiuto, del pentimento poi. Guido sentiva di aversi accecato il
solo spiraglio di luce che ancor gli restasse, di avere perduto l'ùltimo filo che il ratteneva alla vita.
Ma, un'ora dopo, un picchio alla porta: forse, della vecchia padrona di casa pel fitto
settimanale.
Avanti! Sàlis rispose, con la faccia contra il paglione.
Si udì l'aprire dell'uscio.
Signore principiò oscillando una voce di donna; ma questa voce descrisse una curva;
non, come Guido attendeva, un àngolo.
Egli ne trasalì. Levando lentamente e con timore la testa:
Oh! fece; e balzando in sui pie', poggiossi alla tàvola.
Signore Claudia continuò, dal lato opposto di quella il mio servitore m'ha detto... io
vengo... mi disse il mio servitore... voi... ma lì, s'empiendo di parole la bocca, que rossa e
confusa, e fisò l'occhio alla tàvola.
Signorina... voi... cominciò allora il giòvane bruno avete scritto... il vostro servitore
mi disse... io... l'impiego...
E batti con questo impiego! Guido si moltiplicava le macchie sulle unghie. Ma il dir bugìe
non è roba da tutti. Ed egli turbossi, azzittì, e scese lo sguardo su dove posava quello di Claudia.
In cui, era un intreccio di lèttere, un intreccio a matita; Guido leggèvavi Claudia; Claudia,
Guido. E le pupille di essi, rialzàndosi insieme, dièdero l'una nell'altra; si fuggirono.
Dio! che scontro! In un baleno, due storie di amore, che ne formàvano una!
Claudia! egli esclamò, giugnendo le mani io ti fuggii; tu mi sègui.
Dùnque, ci amiamo? fe' la ragazza con uno scoppio di gioja.
Ma il giòvane impallidì, e si lasciò cadere sul letto, e si nascose tra le palme la faccia.
Oh noi infelici! — disse.
— Perchè? — dimandò la tosa, agitata.
Ei trasse un profondo sospiro.
A che sono ricca, io! sclamò con angoscia la bella.
E quì, silenziosi momenti. Poi, s'ode un passo che si slontana; poi, una porta che cricchia.
Egli leva le mani dal volto; guarda: è solo. E geme «la povertà fà paura».
In qual maniera, si maritàrono dùnque? State a sentire. La conclusione par da comedia. Un
prete Armeno (chi dice Greco, ma ciò nulla importa) apparve Deus-ex-màchina a Guido, e gli
rimise, in nome di tale, morto pentito a Betlemme, una grossìssima somma, truffata, anni già molti,
al babbo di lui. Il che era bene possìbile. La vecchia casa dei Sàlis, disordinata che mai, vincea per
ladri il nuovo regno d'Italia; poi, l'Armeno produsse una filatèra di scritti; infine, prova senza
risposta, era il pagamento sonante.
Bigia, or che pensi?
Penso che la Provvidenza è pur buona!... con l'ajutarla un tantino
E detta istoria venne poi anche raccolta da Alberto a pezzi e a pezzetti da bocche
meno bugiarde di quella del marchese Andalò; principalmente da Enrico. E, per le molte
lacune, era proprio il caso di dire:
Se imàgini cos'è,
c'è un gràppolo per te.
Ma, alla morale, il veleno. Come fuggire il confronto tra quella istoria a chiaroscuri e
di amore, e la sua (di Alberto) morta di affetti e di un monòtono grigio? Più; e' sentiva che
la comedia dei due giòvani sposi era bella e finita; e, se ancor non finita, il posto di lui era
in platea: avrebbe parso, in sul palco, una quinta di selva in un scenario di sala.
Felicità stava con que' due cònjugi-amanti. A che buono turbarla?
Ma i pensieri di Alberto cambiàrono strada. Vìncere un cuore? egli? con quel
disgraziato suo corpo? e sospirò e singhiozzò Oh! foss'egli stato bello!... bello come
un giòvane Dio pagàno. Èccolo venire all'incontro di una lunga fila di giovanette, poniamo
un collegio, fiero, splendente E passa, lasciando dietro di sè, in ogni seno uno sbàttito,
su d'ogni labbro un sospiro...
A notte, nei dormitori... il diàvolo.
Capitolo ottavo
Alberto, per i cìnque minuti, s'era condotto a vedere, con gli occhi solo del corpo,
amore; non gli accordando di spìrito se non quel tanto per cui la carne potesse avere
coscienza di sè. Accòrtosene, intorbidossi. E tornò, per puntiglio, in mezzo a' suoi
cavalloni di legno.
Voleva egli perfetto amore da Claudia? Le ànime loro dovèano piacersi anzitutto. Un
mezzo? Scrìvere un libro; giùgnersi a lei in ispìrito. In modo tale, Alberto, credèasi
riconciliate le sue opinioni, e non si addava che la rerum essentia era una. Quì, al pari di là,
essendo patrimonio comune agli sposi anche le res divinæ, avèasi e còito ed adulterio.
Bene, si scriva. Ma ecco sopravenire una folla di dubbi; i quali dubbi, in pieno,
nàscono, non dal cervello, ma da un cert'osso in noi altri italiani pronunciatìssimo. Oh
quante volte non si qualche cosa non reputàndosene atti! «dammi quel ferro» «pes
e non s'è ancora toccato; come, per la medèsima inerzia, noi lavoriamo. Diffìcile è
l'inviarsi e il restare.
E la pigrizia sotto forma di dubbi, d'indecisioni, di scoramenti, si die' a batostare col
nostro amico.
Correva il mercoledì. Alberto cominciò a transìgere seco, mettendo la prima zappata
al pròssimo lunedì. E come fare di meno di questo tratto di tempo, per preparare le penne,
il calamajo, la carta? Ma intanto, per attutire la noja ch'egli si procurava, prese a frugare ne'
vecchi suoi cenci, vo' dire nella raccolta delle òpere sue in versi ed in prosa; sopra la quale
da anni morta la nonna e don Romualdo inciullito ci dormiva su il gatto: chi vuole
darsi infatti la pena di lèggere a sè i propri pensieri?
E Alberto ci ricorse con smania. Ahimè! rimàsene mortificato.
N'è? potrebbe quì osservare qualcuna di quelle prudenti persone, le quali, a
scanso di sbagli, non fanno mai niente Vedete la fretta, ragazzi? Fortuna che Alberto
non avea peranco stampato!
Ed io: ragazzi, ridètegli in muso. Per me v'àuguro, allorchè rileggete i vostri vecchi
lavori, di ritrovarli ben brutti, e spesso; ciò, a casa mia, è buon segno. Sen duole Alberto?
che importa! non ho mai sognato tracciarvi una falsariga di lui, ma unicamente un
caràttere, scelto è vero di tra i più arlecchini. Tirando in lungo di fare, quando saremo su
quel tale ripiano dove i pedanti danno vènia a chi osa, non sapremo di èsserci. Non si creda
peraltro che il progresso sia in tutti; (lasciamo stare che alcuni divèntano grattaculi prima
che rose); come del corpo, il quale a data statura il groppo, così, del nostro intelletto.
Perciò, io vi giuro che le poesìe di Alberto avrèbbero ancora riscossi i battimani di donna
Giacinta, Don Romualdo, e di moltìssimi altri.
Il lunedì venne. L'amico nostro siedette a scrittojo. Ei si sentiva la testa piena di belle
pensate, ma senza verso di sprèmerle; si die' con la penna a tormentar la stoppina; niente!
(dovea tormentarsi il cervello); addentò la cannuccia; nulla!
Senonchè, togliendo questa di bocca, gocciò a mezzo del foglio una macchia. E
Alberto, soprapensieri, pòsesi a racconciarla; le aggiunse una testa, una coda; e non
s'accorse di penneggiare un cagnolo, se non a lavoro finito. Pensate come dovette istizzire!
Lanciò lontano la penna, strinse, gettò per terra il fogliuzzo; fu per gettarvi il calamajo
financo, ma si rattenne, avvertendo al tappeto. Convenzionalìssima ira!
E si lasciò andare sdrajato nella poltrona (tra noi, più che còmoda) in maledendo e il
poco ingegno di lui, ed il caràttere brutto; disse che la imaginazione èragli imbozzacchita;
chiamò in soccorso i suoi favoriti... Sterne, Thackeray, Porta... E Porta, Thackeray, Sterne,
tènnero mano alla poltronarìa di lui.
Al martedì! L'amico bello fermo stavolta di vìncersi prima di tutto, cambia la
sua pigra poltrona con una sedia di pelle duramente imbottita. Fede di vìncere, fà: ma una
colazione abbondante impaccia ad Alberto la virtù volitiva.
Inoltre, com'egli è a scrittojo, un raggio di sole, battendo in una vetriata di faccia alla
sua e riflesso, viene a baluginargli a più riprese negli occhi. Egli si leva, socchiude gli
scuri; ed ecco l'illuminello lampargli per altra via. Abbranca il tavolino egli allora, e lo
trasporta in parte diversa; torna a sedere, bagna la penna; ma il tavolino, di cui solo tre
gambe tòccano il pavimento, si mette ad ondare.
Cristomarìa! Alberto balza in pie' spazientito, e intanto lo sguardo di lui cade su 'n
taccuìno, il quale segna il trèdici. Chi è che non sa come noi siamo superstiziosi, cattivi,
quindi anche buoni, secondo meglio ci torna? Àqua! il trèdici?... Poltronarìa aprì tosto
ad Alberto un sacco di arlìe.
Dùnque, allontanossi del tutto dallo scrittojo, prese il cappello ed uscì. S'intende
ch'egli sentìvasi in corpo quella stracchezza e quella vergogna che ci tormèntano allorchè
transigemmo col nostro dovere: come, peraltro, l'uomo si studia di rinvenir sempre ragioni
fuori di sè per la mala sua voglia, e di sempre ingannarsi, così Alberto pensò che scrìver col
cuore e con l'arte possìbil non era in una sì gnocca e sonnolente aria, e tuttogiorno vedendo
gli stessi visi di persone e di case (e tu cambia strada!) di più, abitàndone una dall'eterno
sbadiglio. Inquantochè, per vicini, egli avea, a terreno un banchiere; a primo piano, un
generale in ritiro, e un alto impiegato; al secondo, due giubilati civili e un canònico. Oh!
avess'egli vissuto tra il ràntolo delle seghe, lo squillar delle ancùdi cadenzato col canto, lo
strèpito de' telai, il moto, le grida, insomma il fervente lavoro!
Notte; il cortil delle poste. In mezzo, nell'ombra, una diligenza a gobba coperta di tela
cerata, alla quale, degli stallieri in camiciotto azzurro, attàccano tre robusti cavalli. E
intanto, presso un lampione, il cocchiere aggroppa una nuova scoppiarella alla frusta.
L'interno, completo un uomo a berretto listato di oro, scendendo lo
smontatojo dell'òmnibus.
E va a dare un'occhiata al coupè. Vi è un giòvane intabarrato.
Uno egli dice, consultando un libretto; poi, volgèndosi al pòrtico manca un
signore! il signore nùmero due.
Signore... nùmero due! ripete alla soglia della sala da pranzo una voce.
Quì il vetturino, per le maniglie, s'arràmpica vèr la cassetta.
Èccolo! grida un ragazzo.
Infatti, due donne èntrano frettolose dalla porta di strada; si fèrmano alla diligenza; si
abbràcciano; bàciansi; pènano a separarsi. Ed il commesso si mette a far nòte; il vetturino
si calza i guanti più adagio.
Ma concambiato è l'ùltimo bacio.
Olà! op op! vocia il cocchiere, raccogliendo le briglie e s'giaccando la frusta. E
la greve carrozza si muove, passa lentamente il portone, e ruota sui trottatoj di granito. Vi
ha passeggieri, di quegli infelici, costretti, nell'ampiezza del mondo, a trarre la vita entro
quel torno di mura di cui nàquer prigioni, che l'accompàgnano con un sospiro. Molti de'
viaggiatori sospìrano invece nel lasciare la gabbia.
Nel coupè, Alberto, il quale sembra dormire, guarda la sua vicina, sottàqua. Egli, nel
nùmero due, non aspettàvasi certo una donna, e, quel ch'è più, una donna giòvane e bella
come gli avèan tradito i fanali. Troppo desiderava e temeva ciò. Ora, il cuore gli làngue in
una commozione dolcìssima. La sua compagna stà avvolta in un waterproof, il velo del
cappellino giù. Tra essi, posa una sacchetta di cuojo, poca barriera, ma che val, per l'onore,
quanto una catena di monti.
E chi potea mai èssere la solitaria viaggiatrice? Alberto vìdela trarre un fazzoletto di
tasca, e pòrselo agli occhi; dùnque, una istoria di pianto! Tosto, il cervello di lui si die' a
fabricare romanzesche avventure; tuttavìa e' s'annaspava vieppiù; tuttavìa e' sentiva quel
smarrimento di sè, quell'abbandono, che precèdono il sonno. c'era in mezzo se non il
rumor del selciato; sì, che allorquando si cominciò a còrrer soave sur il battuto, Alberto
non finse più di dormire.
Come destossi, la luna splendeva diritto nei vetri innanzi al coupè, illuminando, al di
là, i dorsi e le teste dei tre cavalli; di quà, egli e la vicina di lui, sopìta. Il velo del
cappellino era su. L'ovale sua faccia, da cui le làgrime avèano cancellato e il colore e il
sorriso, pareva al melancònico chiaro uno schizzo a carbone su 'n bianco muro. Dio sa
quali occhi sotto quelle palpèbre a lunghe ciglia di seta!
E il guardo del nostro amico, vinto a incandescenza cotanta, dovette abbassarsi. Dal
waterproof di lei, sopra un ginocchio, usciva una mano guantata, stringente una lèttera.
Un'ora passò. Svegliossi anche la bella, s'addiede di ciò che avea tra mani, e, vôlto
alla sfuggita un'occhiata ad Alberto, l'aprì.
Quella lèttera avea forte-impresse le pieghe, ed era sciupata. La incognita stette un
istante indecisa, poi la stracciò, e tornolla a stracciare; sogguardò un'altra volta ad Alberto,
si alzò, e, sceso un cristallo (senti che brisa!) sparpagliò fuori i pezzetti. Quanto al suo
cuore, era di già lacerato!
Impallidisce la luna; la punta del freddo si aguzza. Con il dissòlversi di una
spolverina di nebbia, si disègnano e stàccano su 'n fondo celeste a pennellate ròsee, violette
ed arancie, le creste delle montagne, e de' villaggi i contorni. Il gallo, canta.
E, come la machinosa carrozza, in discesa con uno stridore di scarpa, tocca un
acciottolato, la sconosciuta si tira in grembo la sua sacchetta di cuojo.
Ecco! la diligenza si arresta. Generale risveglio nell'òmnibus; vi si scuòton le membra
intorpidite da uno scòmodo sonno; si danno i diti negli occhi; si ritròvan le gambe:
qualcuno, lo storcicollo; altri, il naso stoppato. E un uomo, di barba nera, smorto e
accigliato, apparso, di dei vetri, al coupè, àprene lo sportello mormorando parole, che
Alberto non riesce a far sue, alla giòvane. La quale smonta...
Lontan lontano, in una selva di quercie, tetti acuti e torri...
Olà! op op! fà il vetturino di nuovo, riprovando la voce inumidita ad un fiasco.
E il carrozzone ripiglia la pesante sua corsa, mentre l'amico nostro mira con amarezza
l'abbandonato canto. Ella, per lui, non è più. Quale sorte attendèvala?
Ma a terra è un brano di lèttera che gli potrebbe rispòndere.
Alberto il raccoglie, e... Scusa, lettore mio! Egli lo straccia a minutìssimi pezzi.
E fu sulle cìnque del pomeriggio che Alberto giunse a Silvano. Era Silvano un
gruppo di case, che si serràvano l'una contro dell'altra come conigli barbellanti pel freddo;
un campanile puntuto, nel mezzo; innanzi, un lago; alle spalle, un'erta montagna. E
giustamente ei si fermò all'osterìa «Il cannone» cannone di latte-mero, intendete, chè la
Pace ivi facea da ostessa; poi, così netta da non parere italiana.
Sulla porta di cui, Paolino, tra i servitori il più dolce di sàngue e di piedi, attendeva.
Egli, di alcuni giorni, avea con i bauli preceduto il padrone a scègliergli una cameretta.
In fede mia! ben scelto.
Ragione prima; nella cameretta fluìvano l'aria e la luce a torrenti. Non si cercava di
lor contrastare, chè se la mobilia era di sèmplice abete, e i muri imbiancati e non più, non
vi s'avea a porre nell'ombra cìnque-dita, macchie di umidità e di fumo. Tutto
sembrava appena piallato e dipinto. Coscienza sporca non vi avrebbe potuto abitare.
Ragione seconda; si allargava la stanza sopra la via con un terrazzino. Da questo, lo
sguardo, passata un'allèa a robinie e un murello, frisava il lìmpido specchio del lago, e
finiva a sciugarsi nel verde della montagna di faccia. L'occhio, oh quanti sentieri scopriva!
il cuore, quante avventure!
Il che, tutto insieme, spronava già l'appetito. E state certi che a pranzo, Alberto, non
comandò, quella sera, le mezze porzioni lasciò molto pel gatto. Inoltre, vi era un certo
vinetto, allegro, frizzante! Dàgliene un sorso, dàgliene il secondo, egli e Paolino
svenàrono un tre bottiglie. La pupilla di Alberto brillava; sfido voi, attraverso un bicchiere
schiettamente rosso, a non iscòrgere il mondo in flòrida cera!
Poi; come tornògli buono anche il letto! Spento il lume, ecco la luna. E nel gustare il
freddiccio delle lenzuola ed aspirando l'odor di lavanda e intravedendo già il sonno, da
lungi, forse dal lago, gli arriva un melancònico canto, di quelli che vanno al cuore diritto,
perchè ne sanno il cammino. Il canto compì la soave emozione di Alberto: ei cadde in un
amore tale per tutto, che gli gocciàron le làgrime; avrebbe allora baciato il suo più grande
nemico; nè sono fandonie, chè, una delle poche volte in sua vita, sentissi in buona con sè.
E dormì serrato, lui il quale la notte pativa la svegliaròla, da non destarsi, il
dopo, se non se quando il sole si procurò egli stesso la pena di tirargli le orecchie. Dieci
ore! Imaginate la confusione di Alberto! Un bel principio, per mìo! Vestissi di furia; poi,
carta in tàvola, penna in bocca...
Voglia, non ne mancava.
Ma, tò! dal di fuori, un maledetto rumore, un rombo. Alberto instizzì. Perchè? Il
rumore era quello di un torno, uno solo; non desiderava mò egli tutta una casa dal fervente
lavoro? Comùnque, si die' a passeggiare in lungo e in largo la stanza, sbuffando; il rombo
continuava: siedette, si turò con le mani le orecchie, le distoppò; ancora!
Al diàvolo il torno! Cacciato nel cassettino, uno sull'altro, libri e quaderni, scese ed
uscì nella strada a vedere... indovinate un po' che? a vedere cosa il mondo pensasse di
quell'irritante rumore.
Il mondo non ci pensava un bel niente. Paolino, ad esempio, seduto sur il murello che
rispondeva al laghetto, le gambe in fuori, pescava alla canna; mentre, sullo stesso murello,
un bracco, fiso alla lenza, accennava col muso ogniqualvolta un pesce abboccava.
Alberto gemette di rabbia.
Va a fare i bauli disse improvvisamente.
Riuscì, la novella, grata soltanto ai pesci. Paolino fe' un gesto di malumore; il bracco
baubò ad Alberto.
Capitolo nono
Ma, fatti i bauli, Alberto ancor non sapeva dove inviarli. Quanto a partir da Silvano,
di ciò nessun dubbio. Ei s'era già compromesso con Paolino, e non voleva a fronte di lui,
essèndo un pochetto, passare per matto. Inoltre capiva che la cristallina aria di lì,
mettèvagli indosso più voglia di fare che non di scrìver romanzi... alla larga! alla larga!
Ma, e dove andare? Ecco il punto. Alberto si rinfrescò quel poco di geografìa che gli
restava in memoria, traversò l'Asia, toccò l'Oceania, l'Amèrica, l'Africa; viaggia e viaggia,
finì con la mente nei Corpi-Santi della sua città, ad una pìccola casa, già di un prozìo. Di
essa, non conosceva oltre la pianta, e si tenea padrone, solo perchè ne pagava le tasse. Mai
non avea potuto nè affittarla nè vènderla.
IL MAGO
Eppure, cotesta casa, non avea niente di strano! non gronde sporgenti, non fumajoli bizzarri
o torrette, non cabalìstici segni. Era una borghesìssima casa, col suo rispettàbile nùmero senza
l'uno nè il tre, a due piani, semplicemente rinzaffata di bianco, e dalle persiane grigie.
Ma le persiane stàvano sempre chiuse!
Ebbene? che volea ciò dire? ch'essa avea molto più sonno delle altre. Non si può forse tenere
gli occhi serrati anche di giorno?
E neanche il padrone di lei, almeno per vista, era fuori del sòlito; un lanternone a barba
biancastra, come tanti altri. Tuttavìa la gente dicèvalo il mago; tuttavìa le mamme, nel minacciarlo
ai loro bambini quando cattivi, sentìvano, elle pure, spago. Ed io v'accerto ch'egli, ben in contrario,
avrebbe baciato que' tosi che al suo apparire fuggìvano! Un mago poi, che, con l'abbondanza di
spiritelli a' suoi cenni, scarpeggia gobbo e doglioso con la salvietta accoccata a comperarsi egli
stesso, ogni mattina, e la fetta di manzo e il cìnque quattrini di sale ed il pane; è un mago, mi
sembra, un po' troppo domèstico.
Ma sì! va e persuadi la contrada San Rocco. A lei era rimasto, fitto e saldato, il racconto di
due operai, i quali, ammessi nella misteriosa casetta per aggiustare un camino che pativa di fumo,
avèano scorto sopra un gran tondo una testa mozzata, ancora con i capelli, con gli occhi invetriti e
con in bocca... una pipa. Tonio inoltre, il garzone, narrava con la voce in cantina, che lo strione,
tràttolo a un certo punto in disparte, avèagli offerto una pila di doppi marenghi, purchè gli fosse
andato a strappare un braccio di una tal croce di legno appesa ad una tal porta...
— Naturalmente Tonio aggiungeva ho risposto di no
Oca! osservàvano i preti dovevi accettare, poi far dir tante messe
Di più; la contrada San Rocco avea veduto un bel giorno fermarsi alla casa del mago un
carretto e uscirne caldaje, storte, lambicchi. La contrada èbbene i batistini; lei, che avea pure
assistito, due mesi prima, tranquilla, al trasporto di una batterìa di roba tal quale nel liquorista di
contra!
Ei cerca l'oro pispigliàvasi il volgo, mandando giù la saliva. Ma il volgo, secondo
l'usanza, sbagliava: il mago non era in traccia dell'oro, quantùnque il fosse di cosa, al pari di
quello, cùpida e paurosa a una volta.
Infelice! Il più orrìbile morbo che imaginare si possa lo tormentava, chè, se negli altri ci è
dato e la illusione e la trègua, o spesso, la forza del male tògliene la coscienza, quì, il martìro, sorto
dalla fantasìa, alimentato da questa, e sempre in novìssime foggie, non requiava mai.
Fanciullo ancora, ei raggrinzava le mani e nella voce affiochiva alla parola «morte» e si
palpava la faccia seguèndone l'ossa. In tutto, un accenno di lei; montava una scala, ogni gradino
suggerìvagli un anno... oh! come presto al ripiano. A volte, stretto da improvvisi spaventi, correa
strillando le stanze...
Che hai? gli dimandava la mamma.
Egli taceva, aggricchiava.
E, a soffocare tali atroci paure, credette, adolescente, una via, il gittarsi nella nemica idea, il
non pensare, il non udir che di essa. Ahimè! il rimendo fu peggior dello straccio. Certo, ci ha libri,
i quali ne famigliarìzzano con la figura di morte, mostrando la sua poca importanza, pingèndone
urne rischiarate dal sole e inghirlandate di rose; ma altri, e molti, (la più parte di frati cui il digiuno
del mondo fe' brusco) aumèntano i nostri terrori, col mètterne innanzi un inventario di strazi...
grinfe, code e piè-d'oca sopra e sotto del letto, sudari, e puzzolenti tenèbre. E poichè noi, verso
dove incliniamo si cade Martino, invece d'aprire gli scuri al sereno, asserragliossi nel bujo.
Sbaglio su sbaglio, dièdesi alla medicina. Questa, nella maniera che la psicologìa avèvagli
tolta ogni fede e ogni opinione sul patrimonio dell'ànima, gli giunse a destare intorno a quello del
corpo un biribàra di dubbi. Solo, capì su quale fràgile trama fosse l'uomo tessuto, quanta folla di
casi potèvala ròmpere. E, nuova scienza, nuovi dolori.
Tuttavìa, uno svario gli si frammise a tali ombre. Le ombre e la giovanezza di lui facèvano
ressa a vicenda; Martino si ubbriacò, stalloneggiò, e riuscì a sottrarsi per qualche tempo a sè.
Ma, una notte, allo zènit di un'orgia che rasentava i confini della ribalderìa, la biondìssima
Giulia, assieme alla quale egli avea bevuto la vita, alzàtasi con un far risoluto, teso il bicchiere,
gridato «viva il...» cadde improvvisamente, senza compire la frase, all'indietro.
Il cuore le si era spezzato. Martino svenne; fu chi credette per la fine di Giulia, e, invece, era
per quella di lui! per quella di lui, che riapparivagli a un tratto. Egli avea già spesi trent'anni;
quanti gliene avanzava? altrettanti? oh il buffo!... e mettiamo pure quaranta, cinquanta... serriamo
tutte le ante... cos'era? Un buffo del pari.
No, non voglio morire giurossi Nè morirò
E con la foga della disperazione, a capofitto si riget nelle naturali scienze, le quali, agli
sforzi di lui, si aprìrono come l'onda a chi nuota. Ma l'onda mai non finiva. Dopo vent'anni di
studio, feroce, senza una posa (dùnque vent'anni di morte) ei si trovò ricco di non cercati segreti,
capace di far di un cadàvere pietra, di sospèndere il corso dell'umano orologio e ravviarlo; anzi,
dietro a un filo sicuro per costruirne a sua posta; nondimeno, impotente, e, quel ch'è più, nudo a
speranze di eternar quel bàttito, mosso in noi, primo, da... Da chi? Va te l'accatta! E intanto il
corpo di lui avea perduto l'acciajo, la barba èrasegli fatta grigia; ei si vedeva in molto su quello
stretto sentiero, affondato tra insormontàbili muri e chiuso alle spalle man mano, entro di cui, noi
vale il coraggio, non la viltà; voglia o non voglia, bisogna camminare in avanti, sempre, finchè un
abisso c'inghiotte.
Sino allora, Martino, avea corso l'àque e le terre, inquieto all'ubbìa che la presente sua
stanza diventàssegli l'ùltima, àvido di contemplare la morte sotto ogni clima. Oh quanta avea
accolta eredità di sospiri!... e, in slontanarsi dai funèrei letti, gemeva «uno di manco... vèr me».
Ma, quando sentì che irreparàbili guasti nell'interno congegno gli minacciàvan lo sfascio, bruc di
fuggire non avvertito dal teatro del mondo, di conigliarsi in qualche oscuro cantuccio, per
aspettarvi da solo lei, schivando almeno così le làgrime degli amici, il leppo dei ceri, il borbottare
dei preti, tutta insomma la pompa dell'ùltimo tuffo. E comperò nel sobborgo la casina a due piani.
Vèngono gli strasudori in pensare a quegli anni, brevi da lungi e così lunghi da presso,
vissuti da lui, solamente con sè. Io me lo vedo, banfando a fatica, mezzo seduto su di un cadàver
spaccato, a interrogare «morte, che sei?» a rovistarvi le traccie di vita, la quale vita è... Cosa? Le
definizioni, molte; materialìstiche alcune; altre spiritualìstiche. E, tanto o quanto, ciascuna, per la
sua strada, va; mèttile insieme, picco e ripicco.
Disperato, allora Martino si buttava a ginocchi, supplicando quel Dio, al quale nell'ìntimo
suo mai non avea creduto oggi pure credeva, d'incretinirlo; poi, dalla stessa viltà svergognato,
spregava ansiosamente la prece. E altre volte, èccolo, con lo sguardo smarrito, dimandare a follìa
quello per cui la scienza era muta; or mescidando ai fornelli indiavolate pozioni; or riunendo la
volontà sua, tutta, nei più turchini scongiuri; ed ora a sfogliare con un tremore di speme,
stranìssimi libri di scrittori sotterra, che a parte a parte insegnàvano e il vìvere eterno e la
giovinezza perpètua.
Ma il tempo non si arrestava, mai.
E finalmente, agli albori di un giorno, un vicino di lui, sì e no in pantòfole e col tabarro sulla
camicia a ridosso, apparve alle due portinaje del mago e disse loro che qualcheduno stava
sballando od era fatto sballar nella casa; egli ne avea sentito le grida, il ràntolo.
Le portinaje, prima atterrite, occhieggàronsi poi indecise. Romperèbbero esse il divieto del
loro padrone? traverserèbbero l'atrio? ne salirèbber le scale? E tentennàrono un poco. Senonchè, il
caso premeva; risolvèttero il sì. Infatti, giunte al di del ripiano, udìrono angosciosa la voce del
mago gridare «oh mi risparmia; pietà!» indi, un gèmito lungo.
Precipitârono nella stanza.
Martino, in uno de' suoi peggiori accessi di necrofobìa, giù dal letto, e il letto sembrava quel
delle streghe, era dinanzi uno specchio, al pàllido lume dell'alba, miràndosi con ispavento. E certo,
l'aspetto di lui, dovea èssere bene stravolto, se le due donne agghiacciàrono, e l'uomo se la cavò...
in cerca di un prete.
Non l'avesse mai fatto!
Il mago si vide perduto, vìdesi alle cimosse!
Gira largo, via! stridette.
Ma il prete fe' per pigliargli una mano. Martino addietrò, con terrore, come tôcca una biscia;
diede nel letto, cadde entro la stretta...
E in quella, per paura di morte, morì.
E, come il mago non lasciò testamento, venne la sostanza di lui nel capitano Pisani,
padre di Alberto; il quale fu nella misteriosa casina, prima ed ùltima volta, il giorno de'
funerali del zìo. Chè, se il prevosto avea detto e ridetto che don Martino era assegnato da
un pezzo a cibo di Barlicche-barlocche, non avea ciò tolto di glielo inviare con tutti gli
onori possìbili. Senonchè, le parole di un prete fan sempre male a qualcuno, salvo a lui
ben'inteso; per cui la casa del mago l'ebbe bianca a pigione. E a chi poi mi dimanda, come
le portinaje, due beatocche e paurose, potèssero mai abitarla, rispondo con la ragione delle
ragioni, che fuori non ne dovèano mèttere. Del resto, èrano bene ferrate: avèano intornavìa
un arsenale di croci, aquasantini, agnus-dei, palme... e brigidini e rosari e candeluccie
dipinte.
E fu alla casa sudetta che il brougham di Alberto, partito dalla città, fermossi.
Primo, s'aprì lo sportello a Paolino... Oè, marchesa Clemenza, non aggricciate le
labbra, voi che tenete in sui pie', dietro la vostra carrozza, i servi, e che non stareste in
bilancia, rinvenendo la moda, di sguinzagliàrveli innanzi. Epperchè, dite un po', con due
còmodi posti al didentro, obbligare Paolino a schiacciarsi le coste a cassetta? Io v'assicuro
che Alberto non s'aquistava un pulce di più.
Uh! una livrea! esclamate.
Chiedo perdono! Paolino non ne portava. L'amico nostro credeva, ed io con lui, già
per umiliante la condizione di un servo, senz'aggiùngerle altro a rammentàrgliela
continuamente, come ai vecchioni de' Luoghi Pii la verde mostreggiatura, la quale sembra
lor dica «vivete di carità». Carità riesce ben dolce, ma a colui solo che dà. E almeno i
pòveri vecchi ponno celar nell'ospizio la loro vergogna; i servi dèvono farne parata.
Bene, Paolino ed Alberto smontàrono, e il primo, preceduto il secondo nella
portinarìa, gridò:
Il signorino Pisani
Le due portinaje, delle quali una era sull'iscoppiare e una sull'insecchire, stàvan
cucendo pattine. Alzàrono il capo sorprese: forse non ricordàvano più di avere, loro e la
casa, un padrone; e dimandàrono:
Il signore?
Pisani! tornò a gridare Paolino il figlio di don Alberto!
Oh verze e rape! fe' al servitore la magra, levando su da sedere Riverisco,
padrone. Il figlio di don Alberto? Mò, guarda, Peppa, gli è tutto lui! tutto quel pòvero
signor capitano!
approvò la grassona lo stesso taglio di faccia, i medèsimi occhi!
Le pare? chiese Paolino ad Alberto.
Questi fece un ghignuzzo. Non dimandàvasi più «perchè le livree?»
Quanto alle donne, accòrtesi del loro marrone, rimàsero un istante confuse. Poi:
Già ebbe l'impudenza di dire la rinfichisecchita nell'appressarsi ad Alberto
lei, padroncino, è proprio tutto suo padre!... l'occhio principalmente...
E Alberto con allegrìa:
Dùnque disse mio babbo ne possedeva uno nero e l'altro celeste? Un bel
casetto, eh!
Atrio: pìccola porta interruppe Paolino, che, avendo scelto una chiave da un
mazzo recato con sè, leggèvane il materòzzolo O dov'è questa porta?
Ma le due donne stèttero rinfrignite; dignitosamente in silenzio.
Dov'è? ripetè Alberto un po' brusco. Le portinaje s'affrettàrono allora a
indicarla. E Paolino, mosso l'armadio che le avèano contro appoggiato, e dato giù un pajo
di mani di chiavi e catenaccio e paletto, schiuse la via ad un atrio, a suolo di terra battuta, a
tre comparti di volta, e chiaro per due mezze-lune già a vetri. Era, sulla diritta a chi entrava
dal pìccolo uscio, chiuso e sbarrato il portone di strada, e, a fronte a fronte di esso, il
cancello che conduceva all'ortaglia, chiuso e sbarrato anche lui; ai lati del quale, di sotto le
mezze-lune, due sedili di pietra ed una lunga carriola.
Suo barba fe', a bassa voce, la magra andava a pigliarli con quella...
E li portava? dimandò Alberto.
Là! ella rispose, additando a sinistra una porta.
Laboratorio a terreno lesse, scegliendo una chiave, Paolino Apro?
Apri
Il servitore ubbidì. Una tanfata li accolse. E, come fùrono tolti gli scuri, Alberto si
vide in una stanzotta travata, a quattro finestre, due verso la via e due vèr l'orto, con un
immenso camino a cappa sporgente nella parete di faccia e un tavolone rivestito di marmo
nel mezzo. Oh quante notti avea trascorso Martino a disfare, a studiare l'umano
bamboccio senza poterlo capire!
Su quella panca ricominciò a dire la magra, la quale, delle due portiere, s'avea
pigliato l'appalto del chiacchierìo la panca sotto la cappa, era un pòvero morto,
abbigliato come un signore. Dìcono che don Martino facesse vita con lui, discorrèssegli
assieme, mangiasse... E di pòveri morti, sa, ce n'èrano altri, e tanti! a pezzi e a bocconi, su
que' rampini e que' palchi. Una fila di teste, poi!... Venne suo babbo, e li fe' tutti interrare.
Oh! guardi — disse Paolino (e accennava ad una lumiera) è a gas; fin d'allora!
St! fece la portinaja È l'ànima dei pòveri morti. Come sia bene la storia, non
so; ne dìcono tante! pure ci ha molta cantina sotto... diavolerìe, magìe... ossèrvino! E
tese la mano a un camerino senz'uscio.
Servitore e padrone vi vòlsero l'occhio. E, poichè stava nel camerino, un coso, un
tabernàcolo degli Ebrei, suppergiù un usuale gasòmetro, la fantasìa di Paolino restò; quella
invece di Alberto si spinse più in là; trattàvasi d'indovinare, sua passione, suo forte. Ed egli
vi apprese, che il mago avea saputo utilizzare, oltre la vita, l'uomo. L'uomo, non può più
fare? Illùmini colui che fà.
Tornàrono silenziosi nell'atrio.
Ecco la scala! disse la vecchia nell'indicare un rastrellino di ferro, giusto
riscontro all'uscio della portinarìa. E Paolino l'aprì. La grassa delle portinaje rimase a
terreno; gli altri, montàron la scala.
E riuscìrono in un salone.
Il quale salone, che rispondeva sull'atrio, mostrava, al pari di quello, un aspetto
deserto; le pareti, nude; i calcinacci, per terra; non una sedia; vi sobbalzava quindi allo
sguardo un assone con due cavalletti a sostegno. il bucatino del mago, il taglio della
sua ùltima veste. E a dire che que' cavalletti e quell'asse venìvano da un palco-scènico! da
un teatruccio già nella medèsima sala!
Quì disse la vecchia con una stilla di fiele al tempo dei tempi, prima che il
suo signore prozìo comperasse la casa, era la società dei Burloni! e sospirò. Poverina!
Ella, che ora, tutta naso e bazza, rappresentava per forza la parte di strega, una volta, fresca
e pienotta, lì avea recitato le vispe di crestaìna e servetta! Oh dove quella platea a lei
sorridente e che applaudiva? oh dove quel capo-ameno di suggeritore, il quale,
ammiccando e facendo le mocche, cercava, ma invano, di smarrirle il contegno? e, infine,
dove il suo Antonio, il giòvane biondo dal mazzolino di rose, che dalle quinte miràvala con
batticuore?
Paolino, nel mentre, fedele al suo ufficio, avea sbarrato una porta:
Oh che riso e fagioli! esclamò Venga a vedere
Alberto venne. E vide una stanzettina con tutta quella bizzarra e sospettosa parvenza,
che una collezione di bielle, pairòli, caldari, fiaschi, pirotte, non della sòlita forma, dà; e
che, più d'ogni altro, dànno e le storte e i lambicchi, fòssero pure stillando del tamarindo,
del vigliacchìssimo tamarindo. Ma è sempre la medèsima storia; fortis imaginatio gènerat
casum; un lavativo a sistema Éguisier, e anche non-Éguisier, può, tra il chiaro ed il bujo,
con la sua sola fisionomìa, tògliere il fiato; ed io conosco un brav'omo, che, in mezzo a una
strada fuori di mano, riuscì a vòlgere in fuga quattro assassini, mirando lor contro
indovinate cosa? un salame. Quì poi, ad aumentar lo scuriccio, era un ammasso di
libri, libri ben'inteso vecchi e ben'inteso oni, sparsi un po' dapertutto... sopra i fornelli... per
terra... sugli scaffali... sul tàvolo...
E Alberto dimandò il nome a qualcuno:
E un primo frontispizio rispose «traité pour ôter la crainte de la mort et la faire
désirer» e un altro «de propaganda vita puellarum anhèlitu» e un altro «ars moriendi» e un
quarto «serraglio dei personaggi che vivèrono sècoli e ringiovanèttero» e un quinto
«trinum màgicum sive arcana arcanìssima»; via via così, Alberto si trovò possessore di un
manicomio di libri... màgica, astrologìa, ascètica... di Pietro d'Abano, Celso, Longino,
Bailardo, Ottavio e Tomaso Pisani, Andalotto del Negro, Flàmel, Cardano, atque aliorum
magnorum clericorum multorum.
Scusate se è poco! saltò su a dire Paolino, aprendo un armadio Aqua! che
compagnìa brusca d'ampolle, di scatolini, caraffe... E che razza di nomi! Tedesco pretto di
Vienna!
E Alberto leggendo:
Sexta-essentia... Anima Solis... Cedrorum Lybani essentia... Macrobiòtica
Pulvis... Sancti Germani the... Sal secretìssimus... Eh? capisci, Paolino?
Poco.
È già troppo quel poco e continuando: Pulvis procreationis... Coeli
tintura... Caliostri elixir... Mundi spìritus universus... Lapis Philosophorum... Nèctar...
Potàbile aurum... Risolvente flogìstico... Gioventù eterna... Sanatodos...
Chissà! se ne potrebbe anche trovare... interruppe la vecchia con un barlume
nel viso di cupidigia e di speme.
Il cielo ne guardi! fe' Alberto E a scanso che se ne possa aggiunse tu,
Paolino, butterai via tutta 'sta roba. Ma...
Il ma gli correva alle labbra nello scoprire, fra quelle quintessenze di vita, una
terzetta a due colpi, càrica.
Ma riprese eccettuando cotesta E se la mise in saccoccia.
Più non restava da visitare se non la càmera a letto del mago. Vi s'accedeva per la
cucina... scusate! volevo dire laboratorio; ed il pennello di luce, che insieme alla portinaja
e ai nostri due amici vi entrò, ivi loro dipinse una catasta di mòbili.
Alberto cammina dritto a disbarrare le imposte.
Sotto, ecco un'ortaglia; al disopra, odi rugugliare i piccioni. E, nell'ortaglia, non un
segno di andari, ma un guazzabuglio di piante; poi, una cinta; al di là, praterìa. Di cui,
seguendo una scriminatura, la quale giusto si parte dalla casina del mago, incòntrasi
un'altra cinta, quella del cimitero: ancora al di là, pòpolo fitto di spade appuntate nel suolo.
Alt! sclama Alberto, battendo la mano sul davanzale della finestra. E pensa:
quì scriverò. Quella veduta, sprona
Capitolo decimo
Appesa al fuoco la pèntola nella casina del mago, una settimana dopo, Alberto
riusciva a coprire di nero un foglio buono di bianco; nè, rileggendo, stracciava.
Già dissi; il nocco della difficoltà è il principio: che altro brama Arlecchino, quando
vuol porre assieme una lèttera? Così, fatta una volta la prima, si va, ch'è un piacere, fino
all'ùltima maglia; quel perioduccio, in cui abbiamo potuto, senza guastarla, accalappiare
un'idea, ne invoglia a ripètere il gioco; le pàgine chiàman le pàgine; la stessa oltrepassata
fatica, perchè non vada perduta, spìngene a nuova; e, a poco a poco, prendiamo la piega del
fare; ancora un colpetto, èccoci artisti a màchina.
E quì si nòti, come noi ci adusiamo a pensare in date ore, luoghi e posture: l'amico
nostro, ad esempio, innanzi al meriggio, cammin facendo, nel camposanto.
Pur non crediate, ch'egli là passeggiasse a covare malinconìa. Per sè, un cimitero non
è triste allegro, ma, al pari del mondo su-terra, è a tratti, ora l'uno, ora l'altro. Vi ha
bene il morto di fame, ma quello anche d'indigestione. Tuttavìa, ai presenti miei occhi (i
quali non sono gli stessi di jeri e non saranno que' di domani) nulla il vince in grottesco:
ciò, per quella propria ragione, per cui la tristezza più fieramente mi assale ove regna la
gioja.
Eppoi! sfido a tremare, innanzi a una morte in ridìcoli panni! Leggete quegli
epitàfi; non vi pàjono, dite, una copia dell'altro? stampe di poche mòdule, non differenti
che per il nome e la data? Oh quanta accolta di grossolane bugìe! oh quale di lagrimose
espressioni, cêrche sui dizionari di carta, fredde siccome il marmo che le sopporta!
E tu non leggi! osserva il mio amico.
Bravo! ma e gli occhi? Non una pietra, che col suo sèmplice aspetto ti stilli in cuore
mestizia; se alcuna, come capirla in mezzo a sìmile chiostra, a sìmile bric-à-brac di roba
gettata? In tutte, gretterìa e sparata; dolore alla greca, all'etrusca; dolore latino, egiziano,
ma che non va oltre la veste; mobilia di sasso... letti e scaffali, comodini ed armadi... ma
sepolcri, no.
Ci ha poi un giorno nell'anno in cui affòllano i cimiteri. Il taccuìno segna al due
novembre tal giorno, e, a dirla schietta, ne è l'usanza utilìssima; volentieri si piange quando
si può èssere visti, e il pianto carine le donne! le vèdove principalmente, che con le
palme alla faccia, ma le dita allargate, dal tùmulo del loro primo adòcchiano in giro per
l'altro.
Nel resto invece dell'anno, vìsite rade. Chi veramente ebbe il cuore trafitto, va a
visitare lui che il lasciò, portato; gli altri, se ricchi, sono in facende già troppo con le
modiste e i notai; pòveri, han breve agio di andarvi, e alcuna volta, anzi, di piangere: le
làgrime della sartina non potrèbbero forse sciupare una veste da ballo? Dùnque, nel
rimanente dell'anno, scarsi i visitatori; tra essi, qualche fà-niente che vi gironza e legge,
sgusciando e mangiando arrostite, le pietre, come se ditte; o compagnìe di brilli, che, fèrma
la pincionella alla soglia, fan la mattata di entrare; o scolarucci, i quali, marinata la scuola,
gìrano a rintracciare sulle etichette dei morti gli errori d'ortografìa.
E Alberto? Alberto ivi cercava caldo e appetito. Pur vi raccolse di più.
Un dì, tenendo entro la fitta dei paracarri luttuosi, presso del muro, scoprì, seduto sur
i calcagni, un uomo o meglio l'ombra di un uomo, che distaccava le brònzee lèttere di una
iscrizione.
Alberto ristette a guardarlo. Ma fu anche veduto. Il ladro, spesso, con sospettosa
inquietezza volgeva lo sguardo. E il ladro arrossò:
Signore disse muojo di fame io... e i morti non mangiano.
Sia! Alberto sclamò, die' un'alzatina di spalle, e continuò la sua via. Poi
riflettè: una menzogna di meno
E un'altra volta, a una fossa novellamente scavata, ei s'incontrò in un convoglio
funèbre. La pretendeva il convoglio alla seconda di classe, ma fuor mostrava i gòmiti della
terza. Oh meglio! i preti non avèano troppo storiato il pòvero morto in chiesa.
Quanto allo strato, bianco. Alberto, di bella prima, pensò ad uno di que' Regi
Impiegati, cèlibi, egoisti fin alla sèttima pelle, i quali, messa la pezza della giubilazione,
tìrano là, in barba al governo, oltre il nùmero sommo del lotto; poi, a qualcuna di quelle
vecchie prudenti, morte zittelle, perchè vissute a mostrini; e fece per slontanarsi.
Ma in quella... soffio imponente di naso. Non gli è il baleno a un discorso? Infatti,
come Alberto si volge, vede un bottacciuto pretone (sùcido, ben'inteso) in nicchio e
calzetta, porsi sul monticino che costeggia la buca. Dentro di cui è scesa la scricchiolante
cassa, e resta con un sordo lamento. E allora, i pochìssimi astanti, tutte quasi ragazze, le
quali senza risparmio lasciàvano lagrimare e i loro begli occhi e le lor smilze candele, si
aggrùppano intorno. L'amico nostro, pure.
E il sacerdote si passa e ripassa la mano sulle palpèbre! togliesi il cacciavite,
aggiùstasi il cupolino, e comincia:
«Adelina nostra è beata.
Adelina Gentili, fin dai più tèneri anni, trovò il sentiero del Cielo. Non si lasciando
adulare o da specchio o da labbro, aliena da ogni esterna pompa di abbigliamento, aliena
del pari dalle conversazioni e dalle comparse, a disfogare la piena soave de' suoi affetti,
mai si trattenne se non nei collòqui col suo Gesù. Solo di lui gustava le si parlasse. Il suo
voto, anzi il sospiro, era di èsserne sposa, e se l'Eterno, pròvvido sempre, non le ne avesse
accorciata la via chiamàndola a sè, ella avrebbe di certo aggiunto un nuovo splendore
all'Ordine delle Cappuccine.
Oh voi aveste veduto, mie figlie, con qual religiosa paura ella correva a narrarmi le
sue apparenze di colpa, se pur di colpa si pòssono dire, e con quanto fervore si avvicinava
alla mensa degli Angioli, desiderosa, pregante ricevendo Gesù di volàrsene a lui!
E Dio l'esaudì.
In sul mattino di lei e di un purìssimo giorno, Adelina partiva. Sfinita di forze, più
non riuscendo a mormorare preghiere a stringere al seno la crocettina amica, con la
soavità del sorriso, col vòlger dolce del guardo, mostrava come a delizia le fosse il nome, il
pensiero del suo Gesù.
Placidamente morì, come un colombo. E a me, che al fianco di lei, in sui ginocchi,
oravo... parve un istante sentire ed un sbàttere di ali ed un odore d'incenso ed un riflesso di
aèrei òrgani...
Or perchè dùnque piangete? Egli è per lei o per voi?...
Per lei, il De-profundis va detto con un Te-Deum »
Ma, ben incontrario, raddòppiano i singulti. E nella buca si gèttano fiori e vi si getta
la prima palata di terra. Alberto sentissi la gina di cacciarvi anche il prete.
E si rivolse turbato, e vide? Vide una delicata fanciulla, stretta, sotto le volte
maestose di un Duomo, e tra gl'incensi, le melodìe, le faci, da sacro orrore; la mente
affollata dalle pene infernali e dalle gioje del Paradiso; cercando con ansia nelle vite dei
Santi i modelli; in brama di una celletta, senza conòscere ancora con che cosa si muta.
Senonchè, l'istinto, svegliàndosele a un tratto, gliel dice.
Che è? Sarèbbero forse le tentazioni di Sàtana? sarèbbero queste le prove di cui tanto
lesse e udì? Ma udì e lesse ben anche, che, per toccare la palma, bisognava combàttere, ed
aspramente combàttere! Ed ecco iniziarsi una di quelle sequele di notti dal contìnuo
accèndere e spègnere il lume, notti di sbigottimento «paffate senza dormire & pure
giacendo», in vita o girolando tra le lenzuola, «scaldata tanto nell'amore di Dio, che non
nello spìrito solo, ma ancor nella carne infiammava & le pareva le uscisse soffio di fuoco».
E allora Adelina, cui il terror del peccato acuìva lo sbàttito, strappàvasi dalle coltri, si
rannicchiava sul tappetino, e, le mani alla faccia, reclinata la testa contro del letto,
piangendo, supplicava Dio, la Madonna, i Santi, tutti i Beati, a salvarla, e lor giurava i voti
i più temerari.
Ma «l'àngiol nero non rimetteva di bàtterla». Diàbolus in lumbis est! notti di
ambascia si succedèvano a notti; la vèrgine si struggeva... un cerchio morello agli occhi, i
rossetti alle guance... e, spaventati i parenti, mandàvano per il mèdico vecchio.
Poi, un giorno, Adelina spinse lo sguardo sur un vaghìssimo viso di giovanetto, e un
altro scontrò, lungo e appassionato sguardo. Voi dite, amanti, qual rivoltura, qual
bollimento di sàngue ella dovette sentire! Ebbene! ciò che per tutte sarebbe stato il
lietìssimo fiore del giardino il più lieto, per lei fu erba di cimitero.
Sgomentata del suo sgomento, senza un'amica alla quale s'abbandonar nelle braccia,
ella ricorse al confessionale; e ne tornò, riandando che gli occhi èrano la prima porta al
peccato, che con la chiave di quella, oh se ne aprìvan ben altre! che l'Avversario tendeva
infiniti calappi, e che, ad ogni costo, non avèasi a cèdere. Imaginate! si osò consigliarle
perfino, digiuno e sinistre pozioni.
Così, la fanciulla, sensibilìssima fin dalla cuna e or doppiamente al progredire di una
di quelle infermità di languore, sottili, lente, instancàbili, i germi di cui sarèbbersi in pace
dimenticati di aprirsi; e sottosopra fra scrùpoli tormentosi e una passione devastatrice; in
mezzo a vampe di fuoco e a zaffate di gelo, sfiniva, diventava un filo di refe, traspariva
come ambra.
E giunse al fine quel dì, in cui non potè più levarsi. O voi, lasciate di attènderla,
gentili vestine pendenti in un canto della cameretta di lei, e tu pel primo, scialletto rosso,
uso a seguire amorosamente le sue virgìnee forme. Pòvero canarino, chi ti offrirà mai il
pignòlo? Vasetti di fiori, v'inaffierà, chi? le làgrime di una madre, forse? Due giorni
ancora, e la vostra graziosa padrona si storcerà in delirio sul suo lettuccio, un crepitìo di
fiamma dannata all'orecchio, serrando convulsamente nelle mani aggrinzite una croce e
nella mente esaltata un amante; ancora una notte! e voi la vedrete supina, immota, pàllida e
fredda come l'alba nascente.
O giovinette, peccate!
Ma, mentre Alberto si tartassa il cervello a conto del libro suo e di lui, Paolino, tutto
in facende, mette alla via la casa. Già, di essa, s'avea ricorso il tetto e le gronde, e dato ai
muri una schiaffata di malta, e pettinato il giardino; già, s'èran tornati al sodo gli usci e a
serramenti le imposte; mobilia nuova avea sloggiato o s'era frammista alla vecchia; e già,
nella càmera a letto di don Martino, ora di Alberto, una tappezzerìa gris-tòrtora a mazzolini
di rose copriva il ricordo di chi vi avea patito. La cucinetta poi, alias laboratorio, destava
appetito al solo vederla: non più oscurìssimi autori, ma pigne di tondi e tripla acìes ænea
lustrìssima; tàvoli e palcucci di abete con cangiata la pelle; un dispensino, che mille odori
sapeva e tutti eccellenti; camino e fornelli pitturati in cirossa, che promettèvano succhi di
lunghìssima vita, meglio di quelli del mago. In mezzo al che, Paolino, tutto di bianco, stava
seduto, e con il mìgnolo a guida, compitava un suo clàssico: il Cavamacchie lunario
per le donne di casa.
Chè Paolino si avea una peculiare manìa e chi non ne ha? manìa pure dei gatti,
di far cioè pulizìa. Ei non lasciava la scopa che per pigliare la spàzzola; la spàzzola, che per
pigliare lo straccio: quì lo trovavi a nettar via la fanga a una scarpa, accozzolando
babbuccie o scamatando tappeti; in ogni dove, a sfregolar candelieri, anse di porta,
cannelle. Paolino, co' suoi risparmi, si era comprata una cassa, vero arsenal di Venezia a
pàtine, raschiatoi, sètole, spazzette; come si avea aquistato a làscito di un lustra-scarpe
corteggiato da lui, una quantità di segreti per il lùcido ìnglese, i saponi miràbili, e vie via. E
stava al corrente dell'avanzar della scienza, e rifletteva e notte, intralasciava
l'esperimento. E Alberto, brodolone e sciupone di prima forza, mettèvagli continuamente
innanzi i più svariati casetti e le più complesse quistioni.
Dùnque è naturale, che, Paolino, venuto a cadere entro una casa fritellata come
quella del mago, si ritrovasse nel suo. I cavezzali più non rimpianse. E con tal foga spiegò
la sua arte e la passione di lui, che, in manco di un mese, se ancor volea pulire, dovea
grattarsi la nuca e adocchiare all'intorno.
Per verità, c'era un luogo, il quale gridava sempre àqua, ma alla sidella, quel luogo,
avea del nemus. Dico la portinarìa. Allorchè Paolino, a mano armata di scopa, tentò
varcarne la soglia, le due sacerdotesse della Sporcizia, gli mòssero incontro, i pugni sui
fianchi, il viso da basilisco.
Ma egli non si smarrì; trattàndosi di centopiedi
là vìve la pietà quand'è ben morta,
e fece per inoltrarsi.
Infùriano le portinaje.
Si chiama a giùdice Alberto.
Il quale, dà una lampadina alla stanza; poi, ne dà una alle vecchie; poi, avvicinàtosi al
servo «ma e le signore?» susurra.
Mòbili e portinaje, quelli e queste tarlati, in statu quo, tutto assieme, potèvan durare;
tòcchi, chi sa?
E Paolino intelligentissimamente sorrise; così, l'impresa finì. Pur le due vecchie, per
un bel pezzo di tempo, èbbero col servitore le ova dure allo stòmaco.
E ora quì mi verrebbe, anzi, viene sul taglio, la descrizione della portinarìa, perchè
già bella e pronta la trovo, a pàgina centoventi del libro del nostro amico. Oh il gran male
copiare! Non ha copiato anche lui?
Dùnque:
IL LOTTO
È la portinarìa clàssica. Ampia, bassa, non ricevendo luce che da una finestra, chiusa,
incartata e per metà nel soppalco (e luce anche scarsa), dal pavimento che invischia, non la
contiene due mòbili in parentela fra loro, sebbene più d'uno, venuto fuori da due. In fondo, un
lettone, di que' catafalchi terrìbili, che non si pìglian che a corsa, interrogàndone prima con un po'
di fio-fis il disotto, coperto di un pannolano a scacchi bianchi ed azzurri, e protetto da una spalliera
di roba, passata per l'aquasanta.
Questa portinarìa può dirsi la pattumiera di casa. Sulle pareti, quadri d'ogni generazione, o
senza il vetro o con il vetro rotto... e un àlbero genealògico e stampe dai magazins pittoresques e
figurini di mode dell'època di Beauharnais e una raccolta di taccuìni fuor d'uso incominciando dal
4; sui tàvoli, sui canterani, vasi di fiori di pezza, polverosi, sbiaviti pìccole stàtue alabastrine,
monche pere, mele e Gesù-bimbi di cera tomi senza il compagno porcellane e terraglie a
crepi guanti dismessi piombo appallato di Dio sa quante boètte e scàtole e scatolini di
tutti gli sposalizi della contrada con entro ancor la treggèa. In un camerino senz'uscio, appesa folla
di vesti, avanzi di ùltimi spogli.
E il tutto, si sottintende, sliso, sudicio come le sue vecchie padrone. Le quali, son due; una,
che ha nome la Pinciroli, è piccolina, è osso-e-buco, e pensa alla provvista temporale dei cibi;
l'altra, cioè madama Ciriminaghi, vera madre abbadessa, sempre su 'n poltronone, provvede allo
spirituale, spaternostrando, snocciolando rosari, dicendo male del pròssimo.
Ora, volete sapere una cosa?... ma, oè, miei ragazzi, stia tra noi: le due portinaje sono...
riccone sfondate.
Gua' che voi fate i larghi occhi! Voi, n'è? pensate a un asinello conia-zecchini, o a una borsa
infinita? mi appongo o no?... Bene, voglio imbrogliarvi ancor più, aggiungendo, che le due donne,
in barba ai lor sacconi di scudi, sono quel che si può felici.
E il gran segreto, quale?
Esse mèttono al lotto.
Oh, ma è la volta del terno! dìcono poi con uno scrocchetto di lìngua i nùmeri sono
bellìssimi e le si stìllano il capo intorno al come impiegare i venti-lire del rè.
Madama Ciriminaghi amerebbe una casetta sul lago, in riguardo alla barca; la Pinciroli, una
sulla montagna, per amor della vacca; si discute, e si sciorìnano in mostra di quello e questo i
vantaggi; poi, si va a letto, e lietamente si sogna.
Per il dopo, la Pinciroli ha rinunziato alla vacca, e si accòmoda al lago. S'aquista allora la
casa, e si comincia a pensare in qual maniera disporla, in quale foggia acconciarla. Su un muro di
quà, su uno di là, èccoti fuori un casone, indi un palazzo. In ogni sala, tappeti, grandi specchi,
lumière. Tintìnnano i campanelli, accòrrono i servitori, attàccansi i tiri-a-quattro.
E, certe come si stanno le due amiche di vìncere, possièdono veramente; han, dùnque, tutti i
piaceri della ricchezza senza i fastidi, tutta la smania del comperare e non il sazio di avere. Sono
padrone di fondi e non pàgano imposte al governo nè a Dio, sono padrone di case e non tèmono
incendi e non ladri; fanno spese stragrandi e il loro sacchetto pesa sempre lo stesso.
Nè poi crediate che i disinganni settimanali le distùrbino molto.
Pazienza! esclama, rincasando, la magra.
A un'altra volta! ribadisce il grassone senza scomporsi. E lì, fatto un bel taccio sulla
disdetta, si danno a cercare nùmeri di fisionomìa più bella.
Ma quì odo certuni, di quella risma di gente, che, infistolita nel naso, sente la corruzione
ogni dove, gridare «lungi da lui» me additando «è venduto!» e odo del pari, altri, di que' che fanno
il mestier del filàntropo e dan masticata la scienza al popolino, dire «non lo ascoltate, operai;
ammucchiate. Volete vincere il terno? mettete al lotto degli interessi composti». Ebbene! io ai
primi rispondo, che respiro del mio; e dico a quegli altri, brave persone del resto, ch'essi ragiònano
troppo col mètodo dei matemàtici, cioè a màchina. Oltre le gambe, ci ha molto ancora nell'uomo,
se pòvero principalmente, a tener su. E, una e prima, la speme. Vale pure, mi sembra, per
settimana, un cinquanta centèsimi.
Così, Alberto conchiude; ma io soggiungo, che nel bozzetto di lui, d'altra parte
bellino, màncano due personaggi; i due frequentatori della portinarìa.
Il primo, era un antico soldato, col faccione a grattugia, rosso come un salame, in
grazia forse del collo strozzato da un cravattone e della zucca compressa da un
parrucchino, con gli anelletti d'oro alle orecchie, e un abitaccio caffè; di que' soldati
entusiasti del
...petit chapeau
Avec redingote grise;
dal piglio di poffardìa, sbajaffoni, giuroni, ma che si mènano attorno con un pezzetto di
zùcchero. Chiamàvasi il caporale Montagna; ei vi diceva il suo nome; poi, v'infilava la
storia di un certo ponte e di due certi Croati.
La quale storia narrava giusto ogni sera nella portinarìa, quando veniva a pizzicarvi
un sonnetto, in sui ginocchi il marito; o a fare il terzo nell'entro.
E, a volte, in quest'ùltimo caso, deponeva il ventaglio di carte contro la tàvola.
Allora, il giuoco ristava. Montagna alzava la testa, piegàndola alquanto all'indietro, le vene
del fronte ingrossate, le narici gonfie, semi-aperta la bocca...
E le due vecchie lo fisàvano immote.
Aciumm! faceva egli poi, scotèndosi tutto.
Salute! augurava, o la magra o il grassone.
Oro... dicea sùbito l'altra nel porre giù la sua carta. E così il giuoco seguiva
pacificamente.
Venne Paolino e il turbò.
Chè, Paolino, s'era messo a sedere viso a viso col caporale, il quale, già per due volte,
avea soddisfatto al suo naso. Ma, come e' s'atteggia alla terza, quel dispettoso, picchia di
contrattempo le palme ed esclama:
Felicità
Rèquiem per lo starnuto! Le portinaje si vòlsero e Paolino con uno sguardo di
theològicum òdium; il caporale si fe' pavonazzo, strabuzzò in giro gli occhi, prese la
tabacchiera interdetto, l'aprì, non ne offerse ad alcuno, la riserrò; poi, se la spinse in
saccoccia. E, quella sera, tàque di quel tal ponte e di que' tali Croati.
L'altro, dei frequentatori della portinarìa, era una donna, magra, lunga, che pendea un
po' innanzi, con un visino tùmido, fiàpo, dalla tinta pan-cotto, con gli occhi grigi, pìccoli,
privi di sopraciglia; e una scuffietta bianca, le sottane a piombo; finalmente uno scialle, già
di tutti i colori, ma or sì smontato, che parea di un solo.
Sua professione... la poveretta di chiesa.
Toccheggio di un'agonìa. La si raccoglie intorno lo scialle, e ciabatta verso la casa
segnata; va di certo a dir preci, e non a stènder la mano, e nemmanco a furare; va per
nient'altro che per vedere a morire. Ed ecco si alloga al capezzale deserto chè, due volte
su tre, noi fuggiamo lui che ne fugge e, sola, aggricchiando e bausciando di voluttà,
succhia gli ùltimi strappi, il ràntaco del moribondo. Chè, se non giunge appunto a costui, a
furia di giri e rigiri, arriva in qualche stanza vicina, e si mette in ascolto, ratenendo il
respiro. Cacciata poi dalla casa, si pianta alla porta, e a chi esce chiede, ansiosa,
importuna, se il pòver'uomo soffre, e quanto e come.
Il quale vampìro, ogni dì, passava dalle due vecchie, non tanto a vedere se bene,
quanto se stàvano male, e s'informava al minuto del batticuore di una, del mancafiato
dell'altra.
Poi, loro contava i decessi di tutto il quartiere.
Quel poveretto di Tonio! facea con zanzaresca vocina quel tessitore vôlto il
cantone, vera calza disfatta, vero spedale ambulante, bluff! jermattina andò via come olio.
Quasi non mi accorgevo, io! E neppur lui! Il che proferiva con un riso calcato ed in tuon
di rammàrico.
E quel pòvero Cecco, sapete? Dico il beccajo... Costituzione forte... due spalle che
avrèbber portato come niente un cassone, e lei entro, madama; scusi! ma! tutti s'ha da
sballare. Dùnque, Cecco, è giù dalle spese anche lui. Il colse quella malatietta di adesso,
che attacca come la bocchiròla, e diede in fuori... che?... un bel tifo... Ve' se strillava!
soffriva come un dannato! si dibatteva! Oh fu ben duro a morire! E ciò la strega dicea,
quasi ne andasse in brodo di viòle, dicea con un tal lampo feroce negli occhi, che, a
madama Ciriminaghi crescea il soffocamento, il pàlpito alla Pinciroli, e al caporale la gotta.
Capitolo undecimo
Quì toccherebbe la volta di dire intorno alla vita di Alberto negli otto mesi che stette
nella casina del mago, e di che dire ci sarebbe dovizia; tuttavìa, a scrìverne io, troppo mi
annojerei per riuscire a piacervi.
Dùnque, chi vuol saperne alcunchè, procuri di avere il libro del nostro amico, quello
ch'e' scrisse negli otto mesi sudetti e che per tìtolo ha «le due morali».
Passa ogni supposizione, quanto, in un libro principalmente se fatto di salvatesta
sia impresso lo stato di ànimo e borsa del suo scrittore. Al diàvolo le autobiografìe! in
esse, lui che si pinge è troppo occupato a porre in rilievo le sue virtù, i suoi nei, e, poniamo
anche, i vizi, per dimostrarsi qual'è; in un romanzo, invece, egli si apre ingenuamente a
ogni frase. Ben sott'inteso, che chi si ha una pàgina innanzi, abbia acùta la vista, legga nelle
interlìnee, facoltà di pochìssimi. Tra i quali, oltre que’ due di cui mi tengo sicuro, vorrei
altri molti de' miei leggitori. E, per mètterli a prova, ecco loro de' scàmpoli dal volume di
Alberto.
PRIMA E DOPO
I.
Infine!... Dieci anni lo avèan bramato. Oh quante volte Antonietta, lasciando cadere con un
sospiro il ricamo e fisando sconsolatamente il marito, che di sottocchi la guardava di già, avea
detto:
Come farei più volentieri un cuffino!
Giulio, allora, si avvicinava a lei con la sedia, e baciàvala in fronte. E cominciàvano a dire di
que' bailotelli color mela poppina, cioccianti alle mamme di un'ampia nutrice. Eccome tenersi dal
vezzeggiarli? dal mangiottarli di baci?... Ma, st! il bimbo ha distaccato la bocca dalla sua credenza
e allenta le cicciose manine... Il sonno lo accoglie.
E, spesso, Giulio e Antonietta passàvano verso le tre innanzi alle scuole del pomo; di cui,
apèrtasi a un tratto la pìccola porta, rovesciàvasi fuori, come fantocci da un sacco, la melonìa de'
scolaretti, isparpagliàndosi tosto per la contrada, a corsa, dimèntica già della noja sofferta, e
tripillina e giojosa; e spesso, di dopo-pranzo, sedèvano tristamente su 'na panchetta ai Giardini,
Gullìveri nuovi in mezzo alla gentile frugaglia del Lillipùt, che gibillava di su e di giù, vero moto
perpètuo, senza fastidi, senza pensieri e tutta amica; là, a fare i grandi occhi intorno al
bossolottajo, mago del buon comando; quà, a leccare il cucchiajo, il piattello e le labbra intorno a
quel dal sorbetto dell'unghia, o a bevucchiare a due mani la consolina entro un tazzone; in ogni
parte, correndo coi cerchi, coi pirla-pirla, coi draghi-volanti o sui bastoni dei babbi; facendo al
signore e al soldato innocentemente, o a rimpiattino dietro le gonne dell'aje; mentre i popò dalle
dande, che incominciàvano a sentirsi i pieducci, con l'agitar delle alette e la voce, credèvano
còrrere anch'essi. Oh quanti maluzzi da unguento sputino, tavàne da pulci! oh liti, temporali di
monte! oh dispettini e capricci e cattiverie adoràbili! oh paci! senza riserve, senza capi segreti.
E, a volte, Giulio e Antonietta attiràvano a qualche putto; se virisello dagli occhi briosi e
dal nasino all'insù, col ciribìbì di un bombone; se vergognino, a sorrisi. Ed ella solleticàvane la
chiacchierina. Il cìttolo, allora, mettèvasi a spippolare le ragionette sue o ponea dimande sopra
dimande di una ingenuità da imbrogliarne quattòrdici savi... non una donna però. E, Giulio, facea
poi palpitare i cittelli, loro contando le istorie di Gino e Ginetta e di Barbotta-fagioli strione, o
rìdere a più non posso scoccando loro sul naso la calottina dell'orologio.
Così, su quella istessa panchetta, i nostri due infelici almanaccàvano il nome pel loro cirlino.
E, in quanto a nomi, biseffe! Essi mettèvano a parte i più graziosi e minuti, pur non trovàndone
mai uno minuto e grazioso abbastanza; senz'avvertire, che il toso farèbbesi uomo e il nome
resterebbe bambino. Poi, pensàvano anche agli abitucci di lui, dopo quello di pòlpa; sul che,
Antonietta, la quale avèane sempre pel capo uno nuovo, lo descriveva al marito mandando giù
l'aquolina. Infatti, in questo giro di tempo, se ne vèggono in mostra di gentili e belli, che la
smania ci piglia di spirar loro la vita, e, non farlo, è un peccato.
Mò guarda quello Giulio diceva alla moglie, additando una bimba, la quale parea
uscita in quel punto da una vetrina.
Dio! esclamava Antonietta, serrando il braccio al marito.
E ritornàvano a casa... ed èrano sempre due.
Ma un dì, ella, arrossendo, mormorò all'orecchio di lui una mezza-parola... Fu 'na fortuna
ch'ei fosse in quella seduto.
E, da quel dì, Antonietta, lasciò il canovaccio e le lane. Popolossi la casa di fascie e
onestine, di camiciole e socchette e pepè e scuffini, i quali Giulio ridendo s'imponeva sul pugno
a nastri, a pizzi, a stratagli.
Nè passava giornata, ch'egli, oppure essa, giocato all'indovinello un pochetto, non si facèsser
vedere qualche còmpera nuova pel loro ninino. Al quale apparecchiàrono poi una bàila (sciutta ben
sott'inteso) e una culla in seta celeste e oro, con su un Amorino per dire «silenzio!» Ma,
siccome Antonietta non trovò l'Amorino di tutto suo gusto, Giulio, per racconciarle la vista, le
tappezzò tosto la stanza con i putti i più insigni di Raffaello e Tiziano.
II.
È nato.
Giulio, tremando, alza il velo alla culla e guarda il suo bimbo...
Brutto! Gli è un di que' còsi falliti, aborti maturi, cinesi magòghi. Floscio, di un colore
ulivigno, tien già le rughe della vecchiaja, e Dio sa quanto vivrà! Non solo. È di un brutto volgare;
niuna favilla di quella fiamma divina, che sublimò la bruttezza di Sòcrate; ed è di un brutto
neppure, che possa, strada facendo, aggiustarsi. Veramente, si dice:
maschi e tortelli
son sempre belli,
ma! ma quì non si tratta di un maschio.
O poverina, quale avvenire ti attende?
Dopo un'infanzia, lunga, durata in un canto, gli occhi gravi di duolo, nascosta da tuoi
genitori, che arròssan di te; dopo un'infanzia, buja, quà e là serenata da baci, che non làsciano
succio baci di compassione èccoti giovinetta, e lo «spirto di amore» risvègliasi in te con una
violenza morbosa.
Ma, nessuno ti guarda; se sì, è per rìdere; non per sorrìdere mai. Cangia il mondo di scorza,
non di midollo; gli è ancora quello, quellìssimo, che die' la càusa vinta a Frine. Sei brutta, e le
belle ragazze non ti vòglion con loro; brutta, e sgradisci alle mamme. Cave a signatis! le ti crèdon
cattiva, e, credendo, ti fanno.
Ma, come i tuoi occhi non sono costretti vèr terra da quelli degli altri, così ognora tu guardi.
Ed ecco, il tuo «desìo amoroso» ha incontrato una faccia soave, di uno, che a te, alle maniere
leggiadre non usa, raccolse il fazzoletto caduto, e, con parola cortese, l'offrì. Oh nascondi l'amore!
nascondi; rammenta «il sole e il letame».
Ecchè? quel gentile or ti passa vicino e non ti saluta. Sai? Hanno scoccato di te e di lui male
cose; come si dice, bons mots; ed egli più non s'intriga con gobbe; e, in prova, sposa Paolina, un
angioletto senz'ali. Oh baci! oh strida!
Così, il caràttere tuo, siccome la voce, inasprisce. Babbo e mammina, al pari della speranza,
ti hanno lasciato da un pezzo. Essi rimpròverano a te la lor morte; tu, a loro, la vita. Pàssano gli
anni e più non ti resta se non il calor della ciecia.
E tu diventi una vecchia tontonòna e stizzosa, che morir gli augelletti con il sistema
Filadelfiano, che rompe i tèneri arbusti amici a tèneri cuori, che, tutta piena di spilli, si tira in collo
i bambini per li baciare; e tu diventi una dama, che, lumacando col biscottino e gli scrùpoli per gli
ospedali, addoppia la febbre ai malati e nelle case attizza discordie, l'o-pelato ai ragazzi, e a
Dio prostituisce le tose e i matrimoni attraversa, e turba i riusciti.
Ma quì, il pòvero padre, aggricciando, abbandona su quella cuna di tanti dolori il velo; e
fugge. Fugge, impaurito, la brama di soffocarli a una stretta; fugge un reato pietoso.
INSODDISFAZIONE
Era, nella città, l'ora, in cui i ciccajoli allùmano i lor lampionini, e i mangia-malta appòstano
i gatti, e i pòveri vergognosi di nani dagli ampi mantelli fanno la traversata dalla bottega alla casa.
Gli ùltimi raggi di sole avèano arroventato una rastrelliera di casserole di rame, e si èran rinfranti
in una di majòliche e vetri, e fatto brillare una fila di guantiere e cucchiai di ottone, dùnque, è una
cucina la scena; ed io aggiungo, cucina di un'osterìa mezzo perduta tra i monti.
Nella quale, ora, l'ombra ha inghiottito un giòvane di sèdici anni, seduto in un canto. Chi,
verso le sei, la chiacchierava alla porta, avèalo visto a venire e ad entrare, lo schioppo a tracolla,
un cane ai tacchi. Era, la giubba sua, frustagno, ma la dera, seta. E il giovanetto, di dove avea
pranzato non si era più mosso; insieme alla frutta, sopragiungèvan le tènebre.
Sìano le benvenute! Sentìvasi stanco, forse. Scarpe di montanaro, nelle montagne, non
bàstano. Allora, la ostina avea deposte inaccese le due stoppiniere dal piattel verde di latta sopra la
tàvola, e, mentr'ei si stendeva, chiudendo gli occhi, su 'na panchetta di legno, zitta, era andata a
sedere sulla predella del vasto camino e si appoggiava, come a dormire, contra uno stìpite. Il
bracco poi, lappata la sua foppa di galba, e leccàtosi i baffi, già stàvasi accovacciato a pie' del
padrone, i nottolini giù di tutti e tre il solo che non facesse per finta.
Infatti, sotto palpèbra, il giòvane teneva lo sguardo fiso nella fanciulla. In confidenza, essa
l'avea turbato fin da principio, quando, con una di quelle voci soavi, di argento, che ricèrcan le
vene, avèagli detto «buon dì», mentre, intorno alla voce, appariva il più bel gràppolo di giovinetta
che mai. E, com'egli avea voluto, per dare passata alla emozione che gl'imbragiava la gota,
arrischiarsi a delle disinvolture, ajutando, ad esempio, l'ostina a dispiegar la tovaglia, a porre giù i
tondi e i bicchieri, a cavar l'àqua dal pozzo, questa emozione era invece aumentata; così, egli avea
scelto un cibo per l'altro, bevuto àqua per vino... poi, si scottava, tagliava... Tènebre, oh benedette!
Chè, protetto da esse, Guido ora pasceva la vista nella fanciulla, aggruppata al camino, e
illuminata, a tratti, dal chiaror di uno stizzo. Con gli occhi, il giovanetto accarezzava, ricarezzava il
viso di lei malinconicamente inclinato, dai colori contadineschi ma dal profilo di dama, e la sua
bocca da baci, e il mento dal «sigillo di Amore»; poi, si godeva a smarrire nei folti e castagnini
capegli; poi, sostato all'orecchio sur il grassello incorallato, veniva giù giù con le volte più tonde
per un vèrgine corpo, sciutto, sveltìssimo. E ritornava ai capegli, e vi scopriva un bottone di rosa.
Oh felici le mani che ve l'avèano messo! Pur non èran le sue! e, sospirando, invidiava colui del
quale la giovinetta sognava.
Or, chi era colui? Più di una volta, ella avea arrossato, e non di certo pel calor della fiamma.
La giovinetta sentiva la presenza di Guido; stava, direi, in una attesa vaga, che la mano di lui le
frisasse la spalla; e desiosa e temente. Oh! com'egli era gentile! La ostina non poteva fuggire di
confrontarlo con que' suoi rozzi paesani, che non venìvan da lei se non per pigliare la sbornia e
attaccar delle liti, e le dicèvano brutte e villane parole, e le buffàvano in faccia il lor ributtante
tabacco. Poi, quanto bello! (quì la ostina aggricchiava). Essa ancor lo vedeva con quel suo viso
aperto, dal velluto di pesca, il sorriso che rischiarava, la pupilla azzurrina, buona come la stessa
bontà. Ma lui era ricco, lui! essa lavava i piatti!
E lì, gonfi gli occhi, affisàvasi giù.
Momenti, per tutti e due, di un acuto languore; momenti fuor dagli spazi e dai tempi, in cui
scorgèano, in una, migliaja di cose e di affetti a indefiniti contorni; momenti, che la mùsica solo
universal lìngua saprebbe narrare.
Il silenzio, profondo; il cielo, stellato.
E così stèttero? quanto?... Non guardai l'orologio. So tuttavìa che sarèbberci stati molto e
molto di più, se dalla chiesa vicina non fòsser piovuti sulla osterìa, gravi, severi, lenti, ùndici
tocchi.
Quella, era una voce che rassegnata diceva «il tempo passa». E tàque.
Ma, quasi contemporaneamente, udissi un trac nella stanza. Tosto, il grido aspro del cùculo
ripetè l'ora.
E questo, un corollario maligno alla sentenza del campanile. Parea dicesse «dùnque, svelti!»
E, trac, l'usciolo si chiuse.
La giovinetta si alzò con premura. Venne alla tàvola, tolsene una stoppiniera, e, tornata al
camino, chinossi e l'accese.
Guido levò pure su. Prese la seconda bugìa, e, fàttosi, presso alla bella, le dimandò con la
voce lì lì per tremare «una càmera».
Venga disse in mezzo tono colei; e precede' Guido. E, uno dietro dell'altro, salìrono
una scaluccia, stretta; salìrono lentamente, come se in cima li attendesse la scure. Pur tuttavìa,
avrèbber voluto la scala, lunga non a gradini a miglia.
Senonchè, ecco il primo ripiano.
E si fèrmano là. Guido bassa la candela di lui, intatta, verso l'accesa di lei; quanto agli
sguardi, sono bassi di già, chè ciascuno si crede sotto quelli dell'altro
Diàvolo di uno stoppino! non vuoi pigliare, eh? È Amore che ti filò? ti par di troppo anche
una? Cert'è, che, adesso, i polsi dei due be' giovanetti non sono i propri per accèndere lumi.
Ma, infine, aah! ci rièscono. Le due fiammelle stanno un istante confuse, poi si distàccano.
E anch'essi. Auguransi la buona notte (intantoc se la danno cattiva); lui, apre un uscio e
scompare; lei ridiscende la scala.
E il bracco? Il bracco, navigato vecchione, che ride forse tra i denti, si allunga alla porta del
suo arancino signore.
Pare, dei tre, l'ùnico soddisfatto.
LA MAESTRINA DINGLESE
I.
Tanto per cominciare
È una pìccola stanza. Serve, con vece alterna, e da sala da pranzo e da vìsite, e, si potrebbe
anche dire, da càmera a letto, ci due sofà mi han punto l'aria di restar sempre sofà. Tègoli troppi
si vèggono fuori, per crèderci bassi di piani; troppa slisa mobilia dentro, per crèderci alti di fondi.
Squillo di campanello. Il campanello sussulta nella stanzetta; che la sia pure anticàmera?
E al suono, una ragazza gentile si presenta a una porta e leggera leggera corre a dischiùderne
un'altra. Ed ecco un bel giòvane biondo, alto, entrare, e tosto pigliarle con trasporto le palme.
E il papà? chied'egli di sottovoce.
Aurora muove la graziosa testina tristissimamente.
Ma e il dottore, che dice?
Dice; vi è un solo rimedio; morire
Aurora ha nel parlare la più adoràbile erre del mondo. Ma, oè, signore lettrici, non vi
sforzate a erreggiare; un rossetto e un bianchetto come Natura dà, nel profumiere non troverete
mai.
I due bei giòvani stanno zitti, mani con mani, sguardo con sguardo.
Aurora! geme una voce dalla stanza vicina.
La fanciulla si scuote, scioglie le sue dalle mani di Enrico, che con passione le preme, e
accorre a chi chiama.
Enrico ode la voce dell'ammalato, diventando agra e stizzosa, dire alla figlia che lo si
abbandona, che lo si lascia morire, anzi! che lo si desìdera morto... E Aurora, giù a piangere.
Oh l'egoista! fà il giovanotto fra i denti, e sospira.
II.
Patria potestas
Per verità, tutti siamo egoisti. La differenza stà solo nei mezzi di soddisfare a tale suìsmo, i
quali, chi ha lunga veduta, trova nella beneficenza; non sentendo, vo' dire, felicità seco, fà in modo
che quella, ch'egli procura agli altri, lo illùmini di riflesso; chi, breve, crede cavare dal male
fomentato in altrui, un lenimento al suo; dal che, tòccano via quelle due razze di uòmini; una, gaja,
ridente, che dispicca le rose coltivate da lei; l'altra, immusonita, instizzita, la quale si punge alle
ortiche che seminò. Oh il cielo ne guardi, in quest'ùltimo caso, dai vecchi! La gotta costrìngeli su 'n
seggiolone? come diàvolo il mondo ha ancor baldanza di mòversi? Perdèttero i denti? màngino
tutti la pappa Incendi Roma, ma che si cuoca il lor ovo... E, per disgrazia, il padre di Aurora
dico disgrazia e di lei e sua propria apparteneva a costoro.
Al doppio egoista di una sediòla ad un posto, il signor Pietro Morelli non èrasi maritato, che
a procurarsi una serva e un materasso da botte, avea messo insieme una figlia se non a
preparàrsene un'altra, per quando la prima sarebbe andata fuor d'uso.
Un tiranno, già, suppone un popol minchione; e il signor Pietro si era ben scelto il suo
pòpolo. Imaginate, che la donna di lui di quelle pòvere ànime, prive di volontà o senza il
coraggio di averne, ànime nate ad ingloriosi martìri curva sotto al trìplice peso della fatica,
della mala salute e della contìnua ingiuria, usava, a sua maggiore querela, il sospiro; poi, stracca,
frusta, avea, per la paura di contrariare il marito, aspettato e còlto, a riposar tra quattr'assi, giusto il
momento che la figliola giungesse a imbracciare da sola il sopràbito al babbo. E Aurora, ànima
anch'essa tìmida e per natura e abitùdine, avea accettata la successione di mamma, tal quale.
Ma di a poco, il signor padre o padrone, preso da un mezzo accidente, perdeva le gambe e
l'impiego. Cangiò egli allora di tàttica. Il signor Pietro, adesso, avea bisogno di ajuto, e veramente
bisogno, per non èsser più in grado di obbligare gli altri a prestàrgliene; il signor Pietro era vile;
credeva, che dell'amor della figlia, sebbene, tra noi, potesse stare al sicuro, ci fosse poco a fidarsi;
dùnque, dièdesi a fare la vittima, a piàngere, a lamentarsi. E la buonìssima Aurora, la quale a
dispetto di ogni rabbuffo e d'ogni broncio di lui, l'avrebbe servito a ginocchi, ora, ch'ei supplicava,
pensate!
Sottile sottile era la pensione sua. Aurora, vogliosa che nel bicchiere di babbo
rosseggiàssene sempre del buono, saltò su a dire:
Darò lezioni d'inglese
Il signor Pietro fisolla con dubitoso stupore.
E sai l'inglese... tu? disse.
ella fece timidamente da un pezzo. Me l'ha insegnato la mia maestra Racheli...
Papà, scusa! e aggiunse, che la detta maestra, la quale amàvala molto, le offriva...
No interruppe il papà, gentile come un chirurgo.
E tàquero entrambi. No, avvertite, era la sua risposta abituale; sentiva, nel proferirla, uno
strano piacere. Vero è, che spesso dovea poi scèndere al , ma pel momento era no.
Pur, questa volta, il diniego stette. Sospettoso come un topo frugato, il signor Pietro
pensava, che le lezioni d'inglese d'Aurora, se non èrano già, potèvano convertirsi in tanti spedienti,
per istargli alla larga. Aurora gli avrebbe dato a intèndere ogni sorta di storie; ed egli, inchiodato
su 'na poltrona con la finestra che non vedeva che gatti, avrebbe dovuto, o bene o male,
inghiottirle... No, no; egli si tossicava fin troppo quand'ella, per la poca provvista, era fuori.
Così, passò un anno; muro a muro la vita. Tutto, men la pensione, aumentava; ed il governo,
giù imposte! chè, quasi fosse una vigna il paese, credeva arricchirsi l'impoverendo.
Tornò il dare-lezioni-d'inglese a far capolino. Aurora disse, che la sua vecchia maestra
avèala cêrca per una brava signora e, acconsentendo papà...
No rispose, secondo il suo vezzo, quella delizia di padre. Pure, soggiunse la vuol
proprio imparare? ben, venga quì.
Oh babbo! sclamò la fanciulla con un ghignuzzo chi può èssere quello che fà dieci
scale per una lezione d'inglese?
Sul che, il signor Pietro si degnò di riflèttere. 'Stavolta, il suo falso-egoismo se ne trovava di
fronte altrettanto; si trattava di scègliere tra un po' più di minestra o un po' più di figliola; e il
signor Pietro, forse in quella a digiuno, si attenne al «po' più di minestra».
Ma tuttavìa, volle e pretese un mucchio d'informazioni: dopo, impòsene uno di condizioni.
Ed èccolo, mentre Aurora è lontana, atteso con l'occhio alla lancetta del pèndolo, la quale ha
trascorso l'ora fissata... Inquieto, egli manda e rimanda la ragazzina, che gli tien compagnìa, sul
pianeròttolo... E pàssano altri dieci minuti... Perchè non viene? che fà?
Aurora entra pressosa, anelante.
Il signor Pietro, senza lasciar ch'ella dica, comincia a bajare come un can da pagliajo. Ed
essa, alla prima in bilancia, risponde poi risentita. Egli, allora, fuori il secondo argomento! cioè il
moccichino... Dio mio! ingrata figliola! bianchi capegli! padre ammalato... tanto, che, spaurita la
tosa, con le perle negli occhi, e il singhiozzo, gli dimanda perdono.
Poi un dì, il signor Pietro, veduto apparir la fanciulla con un mazzetto di fiori, si cacciò in
testa che gliel avèsser donato.
È per te ella disse, e lo porse L'ho comperato per te aggiunse, avvertendo alla
nuvolosa aria del padre.
Ma in segno di grazie questi lo getta per terra. E «tu hai arrossito»; quindi, una
scena d'ira e di pianto, il ricordo di cui, le làgrime molte di Aurora, èbbero pena, assai pena a
lavare.
O è vero ch'ella avea arrossito?
Sì...
È vero, che il mazzolino era un dono?
No...
Ma, perchè io meglio mi spieghi e voi men male intendiate, prende il fazzoletto per un
capo diverso.
III
Enrico San-Giorgio scopre la Terra Promessa
Enrico San-Giorgio era dal suo quinquennale viaggio rimpatriato. Scàpolo e milionario, fu
accolto a braccia aperte dalle mammine, e le figliole èbber licenza di compromèttersi; qualcuna
anzi, ingiunzione. E ben si poteva ubbidire; giòvane e bello era Enrico.
Ma!... egli era anche di spìrito, non qualità da marito che, guardàndosi attorno, vìdesi
tosto, in mezzo ad amici che gli dicèvano «se' navigato abbastanza»; a babbi, che gli narràvano le
domèstiche gioje, apprese a colla-di-bocca in su i libri; a mamme grandi e non-grandi che gli
toglièvano il fiato a furia di sesquipedali accoglienze con tanto di fòdera, ora invitàndolo a pranzo
per mètterlo accosto a collegialine pigotte sciocchissimamente belle, ora facèndolo a forza ballare
con vèrgini stagionate, pudìche fino allo scàndalo; insomma, vìdesi in mezzo a una tal rete vasta
d'intrighi, a tanta roba posticcia che, stomacato e anche un po' impaurito, risolse fuggire laddove
ancor si dormiva beatamente «il greve sonno della barbarie».
Fêrmo nel quale partito, Enrico, un dì, soprapensieri passeggiava una via, in riandando i
paesi già visti e quelli a vedere. Ecchè non andrebbe al Giappone? là, in quella terra da vasi, in cui
il mondo è a rovescio, e i nostri non-sensi hanno senso, e le nostre eccezioni son règole? Ei vi
potrebbe comprare un bel servizio da tè, poi, tanta curiosa frugaglia e palle d'avorio cìnque-
entro-una, e un vestiario di carta, e strani disegni (sogni-fotografati) e scarpe di porcellana,
piccine... e perchè no? forse coi loro pieducci vivi al didentro, con quel che sègue al difuori...
Dùnque, al Giappone!... si piglia prima per Suez; si il mar Rosso... tocco Ceilàn, mi vi provvedo
del buon zafferano, torno a imbarcarmi per Singapore e Sciang-hai, vo a Nagasaki, poi a Yokoama,
poi, se si può, infilo lo stretto di Kanagava... ed egli scorgea di già i draghi-volanti nella imperiale
Yeddo, quando «oè! la vita, signori! eh!» venne arrestato dalla carriola di un pere-cottajo...
Maledetta carriola!
Per cui, si trasse di banda contro di una bottega. Era questa di fiori; ci si vedèvano vasi di
novellini gerani e garòfani, desìo della pòvera agucchiatrice; vasi di erba crèspola e salvia, dìttamo
e ruca, amori della pulcellona; mazzi con il Vi-doppio; teppa; corone di bianche rose da far parere
più in fiamme la guancia di una vèrgine sposa o pàllida doppiamente quella di una rgine morta;
ma, il tutto, qual sfondo ad un più splèndido fiore, dico ad una fanciulla, vero occhio di sole, fêrma
anche lei per la carriola di pere... Oh benedetta carriola!
E la fanciulla avea uno di que' tai visi, passavìa della tristezza, che fanno belli gli specchi, a
colori e a contorno finìssimo, dal naso gentilmente aquilino, e cui, gli occhi furbetti e un germe di
malizioso ghignuzzo sul destro canto fra i labbri, dàvano il moscadello. Le manine poi, lunghe,
sottili, a mezzi-guanti di filo; una, sul seno come a fermaglio, tenea raccolto uno scialletto
scozzese; l'altra, stringendo un mazzoluccio di viole, scendeva lungo la gonna a mille-righe di
bianco e di nero. E, dall'imo di questa, usciva la mascherina di una scarpetta, pìccola sì, da mèttere
il dubbio se avrebbe potuto annidare una tòrtora.
Enrico si sentì il cuore sommosso; capì i suoi viaggi finiti; gli cadde di bocca lo scorcio di
sìgaro, e:
Oh il bel mazzetto! fece.
Allor la fanciulla girò la testa alla voce, infiorando un sorriso, ma, come diede nel giòvane,
arrossì tutta e volse lo sguardo al mazzetto, quasi a passargli quel complimento, che, sotto il nome
di lui, èrasele vôlto. Eppoi, lesta lesta, partì. Ed egli, dietro.
IV.
Chi può essere quello, che fà dieci scale per una lezione d'inglese
Pochi dopo «derlin-din-din!» sclamò il campanello di casa Morelli; e la servetta, che
corse ad aprire, vedendo un giòvane biondo, svelto, bellìssimo, credè, che entrasse l'Arcàngiolo
Raffaele vestito alla moda.
Ned ella gli dimandò che volea, ned egli l'espresse, chè tutti e due èrano già nella sala, alla
presenza del padrone di casa.
Al quale, il nuovo arrivato, fatto un inchino, chiese:
Ho io l'onore di salutare il signor Pietro Morelli?
Sì, per servirla rispose l'infermo, alquanto maravigliato; e, dopo una diffidentissìma
pàusa si accòmodi
La servettina portò al forestiere una scranna.
Quello, siedette.
Mi chiamo Enrico... Giorgini poi cominciò; e disse ch'egli era un negoziante di panni,
il quale, sêcco della tarda avviatura de' suoi affari in patria, voleva recarsi in Amèrica...
giustamente a New-York...
Il signor Pietro con un gesto assentì, quasi a dire: ma bravo!
Tuttavìa seguì il giovanotto c'è un male... non conosco la lìngua...
Già; è un male convenne l'infermo.
Ora, avea egli, il Giorgini, in una casa d'amici, udito a parlare di una signora Morelli,
maestra d'inglese della contessa Orologi... di cui la contessa era enchantée...
Quì il signor Pietro rifiutò con la mano la lode, quasi fosse per lui, bah!
Dùnque conchiuse il Giorgini prego la signora sua figlia di accettarmi a scolare;
scolare un po' vecchio, ma pieno di buonavoglia, e prègola inoltre di pormi un due ore ogni dì,
perchè io passi da lei
Il signor Pietro, mentre Enrico diceva, ne masticava a una a una le llabe; com'ebbe finito,
trasse, a prèndersi tempo, il moccichino di tasca, spiegollo, gli cercò ai capi la cifra, e se lo
applicò. E, nel soffiàrselo lentissimamente, vide, ch'egli poteva a una volta imberciare in tutti e due
i bersagli, cioè nel po' più di minestra e nel po' più di figliola.
Nondimeno, rispose:
Aurora non deve star molto a tornare; ha ella pazienza di attènderla?
Oh si figuri! fe' Enrico, che meglio non isperava, e attese. E, intanto, discorse di
moltìssimo altro col vecchio, il quale, uno trovando che dàvagli in tutto ragione, rimase giulebbe.
È quà disse a un tratto l'infermo, additando la porta La fà l'ùltima scala...
Enrico sentissi rimescolare; si alzò.
Stia còmoda! suggerì il signor Pietro.
Ed ecco, tenendo l'uscio dischiuso la servettina, entrare, con un visetto che ancor più
brillava del sòlito, Aurora. La quale, sul primo, scorgendo una persona inusata, sostenne la vispa
andatura; poi, raffigurato chi era, ne sobbalzò.
Il signore Giorgini disse allora il papà vuole imparare l'inglese. Ei chiede se puoi
disporre di qualche ora per giorno, e di quali. Verrebbe quì ed appoggiò la voce sul quì.
Per me, sono lìbere tutte avvertì il giovanotto.
Potrei dire anch'io lo stesso fe', sorridendo e con quel suo monello aggricciare di
labbra, la tosa; (e dopo una irresoluzione) Alle due? le va?
Enrico, che la bevea con gli occhi, e a stenti non con la bocca, fu per rispòndere che tutte le
ore passate con lei, dovèano èssere belle al par di lei, belle ma si trattenne. Invece, parlò
come scolare a maestro; le dimandò se l'inglese fosse una diffìcile lìngua, chièsele conto delle più
buone gramàtiche, dei libri di prima lettura; insomma, cercò di tirare in lungo il collòquio, al
certo lei d'accorciarlo. Oh! senza il babbo per terzo, chissà fin quando avrebbe continuato! Così,
dovette finire. Enrico strinse la mano al papà, poi alla splendente fanciulla. E, da quest'ùltima
stretta, il tremore, che nàque ai polsi dei due e si propagò per le vene, disse lor cose che avèano
poco a che fare con l'Ollendorff e il Millhouse. Molto migliori però.
V
Progressi in inglese
Il seguente, incominciàrono le lezioni: non mai fu uno scolare più assìduo di lui, una
maestra più puntuale di lei. Uno sedeva ad un lato del tàvolo, l'altra all'opposto; tra loro, in sul
terzo, impoltronàvasi il babbo, gli occhiali vôlti ad un libro; gli occhi, un po' a destra, un po' a
manca.
E, dopo due chiàcchiere e sulla salute ed il tempo, avea principio il dettato. Era curioso il
notare com'ella facea fatica a dir bene, egli a scrìvere male. A volte, Enrico sostava a porre una
domanda o un dubbio, o meglio, a consolarsi la vista; ed ella gli rispondeva turbata. Turbata?
epperchè? perchè forse vedea che insegnava a un maestro? E, se sì, starsi zitta? a che?
Appresso, si leggeva il dettato; capital punto della lezione. Allora, le due sedie amorose
s'avvicinàvano sul quarto lato del tàvolo, cioè in facciatina all'egoista poltrona del babbo, e la bella
ragazza, con l'imo di un tagliacarte, apriva la strada ad Enrico, mentre costui, spesso si diperdeva a
mirare, non la parola, bensì le dita affilate che gliela indicàvano. E la ragazza: su, coraggio,
signore; dica.
Diàvolo d'un inglese! borbottava il papà. Tanto che lo scolare, tirato fuori dall'èstasi,
accentuava la resiosa parola in modo, che se Aurora gentile fosse stata solo maestra n'avrebbe fatto
tesoro.
A volte poi, e' si sentiva solleticare da un capriccioso riccietto o titillare la guancia
all'appressarsi della rasata di lei; ancora un pochino! e si sarèbbero tôcche. Serràvali in quella lo
smarrimento medèsimo; èrano come ubbriachi: leggèvano machinalmente o almeno credèano
lèggere, chè, davvero, che forloccàssero mai, Maggi neppure sarebbe riuscito a capire.
Fortuna, che tutto l'inglese del babbo stava in beef-steack e roast-beef con la giunta dell'yes!
Ma un dì, usando essi di fare anche un po' di diàlogo:
Whom do you love? chiese la bella, volgèndosi ad Enrico e innamoratamente
guardàndolo.
Enrico non tènnesi più.
I love you! fece con entusiasmo.
La fanciulla arrossò.
Love? che signìfica love? disse, intorbidàndosi il babbo e strascicando la voce.
E, a botta risposta, Enrico: mangio
Il signor Pietro lampeggiò l'uno, poi l'altra, con un'occhiata tale, che, se le occhiate
lasciàssero il segno, quella li avrebbe uccisi di colpo. E, la lezione finita ed il Giorgini partito, si
die' a carteggiare il «Baretti».
VI.
Malus homo stultus est
Ma l'indomani dell'amorosa dichiarazione, Enrico antici di qualche ora la sua venuta in
casa Morelli, cogliendo giusto il momento che la fanciulla era fuori. Quel dì, Enrico, avea un
aspetto grave; bùrbero, il signor Pietro.
Ho da parlarle disse il Giorgini, inchinàndosi al vecchio; e siedette.
Anch'io oppose costui con un sogghigno di tristìssimo augurio.
Dica acconsentì il giovanotto.
No; dica lei ribattè il signor Pietro.
Dùnque, Enrico, piegossi un po' indietro sulla spalliera della sua sedia, passando la mano
alla bocca e accarezzàndosi il mento. Forse, avea apparecchiato un discorso, ma il discorso era ito.
Il babbo di Aurora lo guatava attendendo.
Enrico si stancò di cercare:
Signore disse con risoluto cenno di capo parliamo sgusciato. Io adoro sua figlia, e
gliela chiedo per sposa
Ve', il signor Pietro non mosse pure palpèbra. Ma con calma rispose, calma di temporale
però:
Seppi io jeri, ch'ella faceva la corte a mia figlia; oggi lei sappia, che, quanto a sposarla,
nix!
Enrico sentissi la bragia sul viso; pure, si limitò di arricciarsi i mostacchi; e con le belle
belline difese la càusa sua e di ogni cuore gentile; toccò dell'immenso amore per lei, amore che
pareggiava sol quello della ragazza per lui...
Al che, il signor Pietro sbuffava e barbugliava tra le gengive: oh! mèttere in succhio una
tosa... scusate se è poco!... già; al taglio come le angurie... chiòh eh!
Poi, Enrico lasciò il tema su amore e parlò numerario; disse, ch'ei non si chiamava Giorgini;
bene San-Giorgio, dei San-Giorgio di Ponte (che volea dir milionari) per cui, egli ed Aurora,
avrèbbero circondato il lor babbo di tutti gli agi possìbili.
La quale ùltima corda non sonò male al papà.
Insomma finì il giovanotto, pigliando a colui, con preghiera e speranza, una mano
ella può fare la felicità di noi due
Bene; questo argomento chi non vuol crèder non creda ruinò tutta la càusa. Il falso-
egoismo susurrò tosto all'infermo, che, là òve due si àman da vero, un terzo è di troppo; ch'ei
sembrerebbe una pezzuola-cotone, a villani colori, sudicia, in un cassettino di fazzoletti-battista, a
ricami, bianchìssimi, profumati; poi, susurrò ch'egli trarrebbe la vita in un palazzo sì, ma non suo,
in mezzo a tappeti, a tappezzerìe di stoffa, a mobiglia intarsiata, ma di altri... e d'altri anche la
figlia! e, tra una folla di servi, servo; in conclusione, ch'egli vivrebbe splendidamente di carità,
senza il diritto ad un lagno. E Aurora intanto ed Enrico, a divertirsi, a gioire!... gaudiumque cæli
pæna pænarum damnatis.
Rispose dùnque di netto:
No
No? Enrico era di sùbita ira. Abbiate pazienza! c'è il vino spumante e c'è il muto. Enrico,
alzàtosi impetuoso, rifilò sur il tàvolo un pugno, tale, che lo isfondò, gridando:
Cattivissìssimo uomo!
Il signor Pietro, lui e la sua poltrona, ruzzolò fino in fondo alla stanza, pàllido, come se
l'omèrica botta avèsselo contracolpito.
Fuori!... via!... gridava; ed Enrico, ispaventato dallo spavento del vecchio, pigliò a
precipizio la porta.
Ma, a mezza scala, diede nella fanciulla.
Aurora! esclamò, baciàndola in viso io ti chiesi a tuo padre. Egli... mi ti ha
negata!... Lo spaventai... perdona e in quattro frasi la fece cônta di tutto.
Ed essa? Essa pure baciollo... basta? sì ch'egli uscì che lanciava scintille.
VII.
Ultimi spruzzi di cattiveria
Appunto in quell'infàusto giorno, il signor Pietro ebbe il secondo colpetto. Egli rimase due
senza potere spiccicare parola, i denti serrati tanto, che a pena gli si riuscì a introdurre qualche
cucchiajo di roba. il terzo colpetto si sarebbe fatto aspettare s'egli avesse saputo, che Enrico in
persona era corso dal mèdico e dal farmacista, e che ora stava presso di lui, trepidando, in attesa di
nuovamente servirlo.
E il signor Pietro non rimise un pie' nella vita (quasi a rincorsa alla morte) se non a
proròmpere ingiurie contro alla figlia ed all'amato di lei. Parea che non trovàssene mai di bastante.
ne disse di quelle, che il mèdico confessò ad Enrico ch'egli sentiva più voglia di mandarlo dal
babbo che non di serbarlo alla figlia. E, questa, scioglièvasi in làgrime. Voleva proprio suo padre,
che non le ne avanzasse una goccia per piàngerlo morto.
VIII.
Il testamento del signor Pietro
È di mattina; le sei. Il dottore ha detto ad Enrico, che l'ammalato può voltar di minuto in
minuto, e il giovanotto lo disse alla tosa. Sono dieci ore che il signor Pietro tiene chiusa la bocca, e
le palpèbre giù; rannicchiato contro del muro e ansante; solo, alle prime parole di una domanda
d'Aurora che avea sentore di chiesa e di preti, egli, impaziente, fremette.
E la fanciulla gli è accosto e gli ha una mano sul fronte intantochè, nella medèsima stanza,
Enrico, dietro di un paravento, aspetta una parola di pace.
Verso le sette, il moribondo si volge a fatica, guarda la figlia, e con la voce, siccome
l'occhio, appannata:
Aurora fà.
Oh babbo! e la ragazza lo bacia.
Par che la vita mi lasci egli geme E io... io fui molto cattivo... più che cattivo, con
la tua mamma e te...ma…
Oh babbo! singhiozza la tosa.
Ma egli riprende con pena io vo' che tu sia felice... Tu devi giurare... Eh? giuri?
Sì.
Di non sposare il Giorgi... il San-Giorgio, perchè...
Enrico diede un sussulto di cui vacillò il paravento, e si fuggì nella stanza vicina. si gettò
su 'na sedia, pianse. Oh quando stillossi, mio Dio, una quintessenza più acuta di malvagità?
IX.
Dichiarazione del testamento
Aurora entra dove Enrico si stà disperando, pàllida, con due madonnine che le còrrono
giù:
Pòvero babbo! sospira.
E tu, che hai promesso, tu? chiede l'amante con un singulto d'angoscia.
Ed essa: quello che manterrò
Il giovanotto la mira con uno sguardo da folle, uno sguardo che preavvisa di serrare le
imposte.
O Enrico! esclama la bella e chi ne toglie di amarci?
E si amàrono infatti, e si amàrono sempre, chè il solo Amore li teneva legati. E scodellàrono
bimbi, intellettuali, formosi, i quali fùrono a loro il miglior contratto di nozze e la migliore delle
benedizioni.
LA CORBA
Ed era cosa ben sèmplice! Figùrati, che, svoltando in un vicoluccio, avevo dato in una
vecchia, immòbile, piccina sotto una soma di corbe. Una di esse le era caduta, e la pòvera donna o
non poteva chinarsi per la rìgida età, o non osava, col càrico già squilibrato delle altre. Intanto, un
birbone, seduto su lo scalino di una portella, ghignava e pipava.
Quello che feci, tu anche l'avresti.
Ripeto, la cosa era semplicìssima. Eppure, seguitando il cammino, mi tripillava nello
scuròlo del cuore un gusto che mai! La maraviglia della vecchietta nel trovare gentile un signore, i
suoi ringraziamenti commossi, mi circolàvan col sàngue. Affè! che non mi si vada dùnque a
promèttere premi in un altro mondo. Non usciamo da questo. Ogni òpera buona, frutta e al
beneficato e al benefattore. Per me, non avea più nulla a pretèndere, anzi! siamo sinceri
dovevo.
Ma, insieme, ricordavo con compassione que' ricchi aggrondati che non san dove comprare
un'oncia di cuore-contento, mi chiedevo stupito, come mai lo stesso egoismo non li tirasse a fare
del bene.
E ci ha tante corbe a levar su ancora da terra!
UNA FANCIULLA CHE MUORE
Nel dopo-cena di jeri, il dottore si avvicinò alla signora Vanelli, e con quel suo fraseggiare a
rilento, però stavolta un po' brusco, quasi instizzito con le parole che era per dire:
Crede proprio chiese che la idropatìa possa giovare a sua figlia?
La signora Vanelli ne sobbalzò. Debolmente poi (con una voce sicura come quel che diceva)
ma sì, credo rispose; e dopo una pàusa, una pàusa durante la quale il cuore suggerì forse a lei
argomenti che la ragione taceva certo riprese le mani della mia Ida tòrnano a farsi
caldine... Ida...
Il dottore si allontanò con dispetto.
Oh le mamme! o indovìnano troppo, o non vòglion capire una goccia. Di chi, rispòndimi tu,
poteva èssere il caldo, quando la disgraziata madre stringeva passionatamente le inerte mani della
figliola?
Stà un fatto; tutti quegli altri signori, che gliele serràvano, dicèvan poi sempre tra loro «è
ghiaccio»; specialmente dicèvanlo que' giovanotti, che si occupàvano con tanta premura di lei;
dimandàndole «e come stava? e se l'affanno diminuiva?» raccomandàndole di ripararsi bene dal
freddo, di coricarsi non tardi... Ve'? come s'interessàvano alla sua salute!
E, allora, la slisa fanciulla saliva silenziosamente, di un'andatura stracca, le scale... verso la
cuccia. si lasciava svestire al par di una bàmbola, si raggruppava nella sua nanna, la testa sotto
le coltri, e cominciava smorzando contra i guanciali i singhiozzi a nicchiare. Pure, làgrime
non ne venìvano giù. Gli occhi della fanciulla si èrano asciutti di quell'aquitrìno in cui la pupilla
nuota e ne è la visìbile ànima. La pòvera Ida contava... ricontava i suoi diciott'anni; pensava, con
un nodo alla gola, che tutti avèano molta, troppa compassione per lei. Compassione? null'altro?...
E lì con la mano sorradèvasi il seno...
Chèh! Amore vuol ciccia.
ODIO AMOROSO
I.
Vòlta e rivòlta, nulla! sonno non ne veniva. E sfido! La fantasìa di lui conflagrava all'effigie
di una bellìssima tosa, bevuta con gli occhi quel dì, Correggesca Madonna, fuggita alla gloria di un
quadro e pòstasi ad una finestra. Senonchè, in sulle braccia, invece del gonfi-ampolle bambino,
reggea un gatto dell'Emme. E gli facea carezze... Gatto felice!
Innamorato dùnque, cotto, biscotto egli, Leopoldo Angiolieri, che in una bicchierata a
New-Orleans avea sclamato «amore, è, nel tran-tran della vita, un tèrmin decente per esprimere...
altro». Fatto è, che sino a quell'ora, cioè ai ventisette e passa, niuno uncino amoroso avea pigliato
Leopoldo; e chi ha verace giudizio sa, come ciascuno di noi, tutto misuri con la spanna sua propria.
In verità, era d'uopo che per cangiare d'idee, egli cangiasse di mondo, tornasse giusto in
paese. Imaginate! nel bel primo dì.
Venuto per la sorella... Ma quì la parola sorella lo deviò in altri pensieri, pensieri indigesti.
Allorchè egli partiva per l'oltremare (nè lunga avea a riuscire l'assenza) Ines, sejenne, era stata
messa in collegio; ora, dopo quattòrdici anni, Leopoldo rimpatriava a farle da babbo lui. E, questo,
egli avrebbe e di cuore e con gioja pria che la sua sconosciuta apparisse; ma ora, no; ora, una
sorella non gli accomodava un bel nulla, qualùnque si fosse. Chè, se sveglia d'ingegno, quale
tormento! se stupidetta, che noja!... Ed era? Leopoldo pendea al secondo partito; il ritrattino difatti,
che, dodicenne, essa gli avea mandato, mostrava una faccia grassa, indormenta. Non rifletteva però
il giovanotto, che chi dormiva era amore, e che chi dorme si sveglia. Pur, sia come si sia! a che ci
hanno le doti? a che gli spiantati?
Così, cacciato con un sospiro di gusto quel tàfano della sorella, Leopoldo intese la
imaginazione tutta alla vaghìssima incògnita. E ricompose gli occhioni di lei, neri; e il fiume de'
suoi neri capelli, e il viso «color di amore e pietà» di un sùbito pinto a vergogna, com'ella si
accorse di lui, e sparve...
Vòlta e rivòlta, sentì sonare le quattro.
II.
E, nella mattina, venne a trovarlo il signor Camoletti, procurator suo in patria. Era egli una
miseria di uomo, dal viso color formaggio-di-Olanda, con due occhiucci nerìssimi, da faìna; neri, i
capelli cimati; nero, un pizzo da capra; nera, la cravattona (e non un sìntomo di una camicia); nero,
il vestito impiccato e le brache; che parea ch'e' uscisse da un calamajo in quel punto e gottasse
l'inchiostro. Il corpicciolo di lui, inquieto, le palpignenti palpèbre, le mani che non requiàvano mai,
dicèvano chiaro il caràttere suo, rabattino e margniffo. Quando parlava, colui che avèssene udita
solamente la voce, dovea pensare «oh pappagallo d'ingegno!» Ed era, quattro-parole-un-
complimento-e-un-inchino.
Il quale ometto dei ceci, dopo di èssere andato in dilèguo sul ritorno felice e sulla bella
presenza di Leopoldo, disse della fortuna di avere, il prima, ricevuto un biglietto «proprio del
signor conte» (e quì un saluto di capo); ma aggiunse della disgrazia di non averlo potuto lègger
che a sera... «capirà, noi gente d'affari...» Nondimeno, com'egli, a fortuna, abitava nella medèsima
via del Pensionnat Anglais Catholique di donna Ines (e quì un altro saluto) così, vi avea tosto
spedito il suo saltafossi e il biglietto, Sgraziatamente! la contessina, uscita a pranzare da una sua
amica sposa, non era ancor rientrata...
Tuttavìa osservò Camoletti io avea già avuto l'onore di partecipare a donna Ines il
pròssimo arrivo di sua signorìa. Donna Ines lo sospirava da un pezzo.
Anch'io fe' Leopoldo Pensi, avvocato, ch'essa toccava appena i sei anni, quand'io
partii con papà. Ben mi ricordo; era una bimba cicciosa; bella, no certo; cattiva come la peste...
Oh allora! esclamò Camoletti la contessina di adesso, chi è?
Vero notò il giovanotto che le belle ragazze nàscono ai quìndici anni...
Infatti... fe' per dir l'avvocato.
Prego! interruppe Leopoldo La non mi dica niente. Mi lasci un po' d'improvviso
E sonò il campanello.
Un brougham! ordinò al servitore.
Intanto, il discorso si ridusse agli affari, e parve che tutti assieme andàssero a maraviglia,
inquantoci per fortuna in bocca di Camoletti fùrono un dieci a ciascun per disgrazia. Leopoldo,
da parte sua, accennò a cambiamenti ch'egli volea nei fondi (i fondi visiterebbe nella settimana
ventura), parlò di màchine agrarie commesse a Manchester; di un nuovo sistema d'affitti; di nuove
colture; sul che, il discorso, continuando anche nel brougham, s'interessò vivamente tanto, che, al
fermarsi di quello, il cocchiere dovette smontare, aprir lo sportello, e dire «signori!»
Ed essi scèsero ed entràrono.
Quantùnque la vaghìssima incognita avesse già in Leopoldo occupato il posto migliore,
tuttavìa, trovàndosi egli sì presso a colei, che sola poteva ancor chiamare parente, si senbàttere il
cuore. Ecchè! Ines, forse, non era un velo di Tulle, una che curiosava ogni dove, un
rompigloria a perchè? bensì di quelle creature devote, sentimentali, veri tiretti ai nostri segreti e
manualucci di pràtica filosofìa. Or, chi non sa che gli amanti han sempre a confidare qualcosa e
sempre a dimandare consigli?
In sulla scala, non incontràrono alcuno. Ma, al primo ripiano, il signor Camoletti, a una
vecchia senza cuffia e in cartucce, che il salutò per nome e cognome, chiese:
C'è donna Ines?
La inserviente rispose, che le signore maestre e tutte le damigelle èrano fuori a messa...
«messa bassa» aggiunse per consolarli «vògliono intanto sedere?» e lor dischiuse una porta con
scritto su «Direzione».
Ned essi rispòsero no.
Rimasti soli, rimàsero anche in silenzio. Il signor Camoletti, accomodàtosi in una sedia a
braccioli, dopo di aver concrepate le dita alcun po', prese a mangiarsi furiosamente le unghie.
Leopoldo girandolava la sala. Sulle pareti di cui, oltre il ritratto del rè, muso beatamente intontito,
gonfio dalla lussuria, era una mostra (proprio una mostra) di adaquerelli e disegni, di prove di
bella scrittura, pantòfole ricamate, ghirlande di fiori, quadri a margheritine, iscrizioni (evviva la
direttrice! viva il suo onomàstico!) tutto disotto al vetro e in cornice; e, sopra i tàvoli e i tavolini,
programmi dell'istituto, mazzi di fiori di carta, un cestino a viglietti da vìsita, in cui stàvano a galla
quelli con la corona; poi, dentro uno stipo, un lucichìo di oro e d'argento... pese, coppe, un nùvolo
di tabacchiere una sull'altra come le scatolette delle sardine, e campanelli e penne e posate... doni
ed omaggi. Oh quanti segni di amore!... diciamo meglio... oh quanta adulazione pelosa! oh quanta
smania di un saldo ai conti gravosi della riconoscenza!... E, tuttociò, si voleva che fosse visto e
ammirato; Leopoldo ci frisò appena lo sguardo. Però, siccome, ad ammirar a vedere, posava
dimenticato sullo scrittojo un pìccolo albo, Leopoldo l'aprì.
E lesse:
«Note sulle ragazze del P. A. C.» (Pensionnat Anglais Catholique) «anno corrente, mille...
fatte da me direttrice MARIA STEWART».
E, a pàgina prima, lèttera A:
«ALDIFREDI baronessina VITTORIA diciasett'anni; naso all'in su; capelli da Barba-Jovis;
colorito di fuoco.
Da che reggo il collegio, non mi è mai capitata una fanciulla più ghiotta. Va in seconda
a ogni cibo. E che tra i pasti non che spazzare scàtole di canditi, e pasticche, e
cioccolatte, e mentini! Jeri di là, ad esempio, mi ha furato e vuotato il mastelletto della
mostarda. Poi, ride sempre, di tutto. Entro io, ride. Entra il signor Catechista, ride. Sgrido,
ride ancor più. E attacca alle altre il morbino.
Vittoria ama, tra i fiori, il garòfano..
Ma quì, Leopoldo, abbandonò l'Aldifredi, e passò all'A-enne. E lesse:
«ANGIOLIERI donna INES (dei conti) vent'anni.
Buona fanciulla, ma che si atteggia all'interessantismo. Per quanti gliene sequestri e
tèngala d'occhio, mi legge continuamente romanzi, roba francese ed istèrica. Quando c'è il
chiaro di luna, scende dal letto e va ad aprire le imposte. Ma odia la luna piena. E cela in seno
un librino, intitolato «sorrisi e lagrime d'Ines» nel quale, ogni sera, scrive.
Il suo fiore mignone è la viola. Non sa sonar che notturni, clòches du village, dernières
pensées, e simili piagnonerìe.
Ines è una slisa-vetriere, mangia il meno che può...»
Sente, avvocato? dimandò Leopoldo dìcesi che mia sorella mangia il meno che
può. Quest'è, io credo, una nota di buona condotta in collegio; e lei?
Camoletti si affrettò di sputare i rottami di unghia; e disse:
Oh certo! buona!... ih... ih! con un ridacchiar cavallino.
E Leopoldo leggendo, ma a forte:
«... Invìa delle letterone alle amiche, a punti ammirativi e puntini...»
Dica, avvocato, ma e le àprono dùnque le lèttere?
Sa! nei collegi! prese a dir Camoletti, in tono che sott'intendeva «è un naturalìssimo
uso».
Bella! sogghignò il giovanotto; e seguendo:
«... punti ammirativi e puntini... in cui loro confida dei dispiaceri impossìbili
Auf! pensò che piaga! Dovea toccar proprio a me! fosse la gaja Vittoria! e
chiuse il pìccolo albo, mortificato.
In quella, uno scarpiccìo e un suono di freschìssime voci. Rifluiva il sàngue al collegio. E,
nella sala, parve che gli ori, gli argenti e i cristalli scintillàssero il doppio, all'idea di rispecchiare
qualche grazioso visetto; e, dal giardino, levossi un'affollata di cip-ri... cip-cip, tale che sembrò
ogni foglia e ogni fiore cangiato in un vispo augellino.
I passi, il cinguettìo, il fruscìo, già rasentàvano l'uscio della direzione. E una vocetta,
maliziosamente chioccia, diceva: badabigelle! le pvego; non fàccian tvoppo vumove! Giù, un
gruppo di risa! e le fanciulle passàrono.
E, dopo un istante, si udì un ràpido passo. Leopoldo assunse un contegno, serio.
Oh fratel mio! sclamò una ragazza, entrando di corsa.
Il giovanotto diede uno scatto all'indietro: l'amata di lui non era più sconosciuta.
Abbràccialo, Ines! fe' la rettrice apparsa alla soglia, vedendo la tosa arrestarsi.
Ed Ines si appressò a Leopoldo, tremante; ella, come un fantoccio, l'abbracciò; lui si lasciò
abbracciare.
Son pur felice, conte! disse la vecchia maestra, facèndosi innanzi Si accòmodino
E tutti e quattro siedèttero.
Così, il discorso, principiò e seguì, solo tra Camoletti e la signora Marìa, due tali, per
parlantina allo stessìssimo buco; questa, che già iscorgeva in prospetto le sguizzasole vetrine del
giojelliere, tolse la mano del dire, mettèndosi a fare l'elogio della scolara di lei, dàndola per
garantita, e sospirò e pianse; quello, come riuscì a rubarle la parola di bocca (chè altro mezzo non
c'era), snoccio una tirata di lodi sul principale di lui, la quale, vôlto il tempo presente in passato,
avrebbe pure servito da necrologìa. Ma, quanto alla sorella e al fratello, non una di quelle vampe di
affetto che rischiàrano a un tratto antichi ricordi, obliati, ricordi d'infanzia; sedèvano a bocca
chiusa, non rispondèvan che a cenni, parèvano insomma due poveretti villani, che, mascherati da
ricchi, stèssero in soggezione del loro vestito.
Oh sacristìa! dicea tra sè l'avvocato che scherzi fà l’amore!
III.
In verità, era un bruttìssimo scherzo! Poichè Leopoldo fu tornato all'albergo e fu nella
càmera sua, solo (chè egli avea lasciato ancor la sorella in collegio sotto la scusa che tra
pochìssimi sarebbe venuto a pigliarla per condurla alla villa) cominciò a lagrimare, poi ismaniò,
e finì tempestando. E che tempesta la fosse, il conto dell'albergatore può dire!
No; la sorella di oggi non dissolveva l'amata di jeri. Argomentava pur bene la signora
Ragione, ma il Sentimento non ne capiva il linguaggio. Leopoldo pensò di scrìvere a Ines, dirle
ch'egli era obbligato di ritornare in Amèrica, che lo obbligàvan gli affari, e ci si pose a tamburo
battente. Ma, fatto due righe, sostò. E l'avvocato gli crederebbe? con quale fronte abbandonar la
ragazza, che, forse, anzi! certo, certìssimo, l'avea solamente a fratello? dove la volontà? dove
l'ànimo forte?... e stracciò il foglio, poi il quinterno.
Si alzò disperato. No! egli non dovea allontanarsi da lei... cioè, non poteva, perchè...
E trasse un sospiro di avidità, e abbrividì del sospiro.
IV.
Pensate dùnque che inferno! e chis quanto avea a durare!... inferno, le cui pene maggiori
èrano appunto gli sforzi per dissimularle, tantochè, ogni collòquio tranquillo con l'avvocato,
costava, al giòvane, una o due sedie.
E, un dì, l'avvocato fe' capire a Leopoldo che la sorella di lui non sapeva che dire del suo
starle lontano, e si lagnava e piangeva, e...
A domani! interruppe Leopoldo alla brusca.
E l'indomani, una carrozza a quattro cavalli e a postiglioni, fermossi al collegio. Di cui le
finestre si cer tosto cornice a tanti quadri viventi di ragazzine e ragazze; le une, curiose
dell'equipaggio superbo; le altre, del padrone di quello. E Ines pas di saluto in augurio, di
augurio in abbraccio, ed ebbe una scorta di baci tale, che, se di labbra coi baffi, avrebbe tornato la
vita a chissà quante inamate!... Così, baci perduti.
Tuttavìa, Leopoldo si rimaneva in carrozza.
Il tuo signore fratello notò Giorgina Tibaldi, sinceramente, all'amica è un gran bel
magnìfico giòvine, ma a cortesìa... ve' scusa... è americano... un po' troppo
Ines tàque. Condotta dall'avvocato e dalla rettrice, scese le scale e salì il montatojo. Ella non
si era messa alla via: solo, si avea gettato in ispalla una mantiglia a cappuccio. Ma la beltà non
chiede altro che luce: oh conoscèsser le belle qual male fanno gli specchi! E Ines, in disabbiglio,
appariva sì seducente, voluttuosa, che il giovanotto, impaurito, tòltosi dapresso lei, siedette
all'opposto. E fece:
Oh avvocato (con una voce ansia, affogata) venga!... la prego
Il Camoletti ringraziò vivamente, ma si scusò:
Se si ricorda aggiunse abbiamo quest'oggi a trattare dell'eredità di sua zìa.
Maledette le càuse! fe' a mezzo tono Leopoldo, occhieggiando con ira, e serrò lo
sportello di colpo.
La carrozza partì.
Il giòvane, allora, si ricacciò nel suo canto; e alla sorella disse, che la stracchezza il vincea...
Dopo una stranottata, si sa!... dùnque, di tenerlo iscusato se si metteva... a dormire.
Ines, nulla rispose.
E, in modo tale, si trottò via quattr'ore. Di tutti i viaggi di lui, faticosìssimi, lunghi, niuno il
spossò più di questo.
V.
era certo in villa con lei, che Leopoldo dovea trovare riposo. L'omiopatìa non serviva.
Leopoldo avea bel circondarsi di affari, bel imbrogliarli, bel stare fuori giorno su giorno pe' suoi
latifondi, ma nello specchio del capo apparìvagli sempre quella pàllida faccia contro la quale parea
battesse continuamente la luna; avea bel vilupparsi in filosòfiche dissertazioni intorno
all'equanimità, e al modo di annichilir le passioni, cioè di vìvere morti, studiàndone anche a
memoria i concettini ingegnosi e le elegantìssime frasi, ma tutta 'sta roba, scritta in pacìfici studi
verso cortile, al sovvenire di una occhiata di lei, languidìssima, nera, sprofondàvasi giù.
Venìvano allora i furori. E allora e' fuggiva a serrarsi nella càmera sua e ne appiccava la
chiave sotto il ritratto materno. Facea le volte di un leone affamato. Pigliàvalo uno struggimento di
abbracciare colei, di schioccare dei baci... che dico! di mòrderla, di pugnalarla. Ma, inorridito a un
tratto di sè, si gettava sul letto, sospirava d'angoscia, e mirava con il desìo negli occhi le sue
pistole. Oh, a non toccarle, ci volea bene coraggio!
Ma e fuggire da lei?
Pazzìe! ei si sentiva legato con doppia catena. Avesse amato soltanto, non era impossìbile...
forse; ma, nell'amare, egli odiava; ed una goccia di odio fà un sentimento eterno.
Per quante fitte crudeli, per quante torture ciò gli costasse, egli or più non poteva fare di
meno di que' terrìbili istanti, nei quali era presso a colei, anzi, èrale al fianco; quando, in una
sentiva e le vampe amorose e i brìvidi dell'orrore ed i sobbalzi della disperazione; tutto, sotto una
màschera calma, solo tradendo la irrompente passione al spesseggiare convulso del nome, il più
sereno, il più dolce «sorella».
E, a volte, Ines fisàvalo con gli occhi gonfi, inghirlandati di duolo...
Pòvera tosa! Non avea fatt'altro se non cangiar di prigione; e in peggio. Chè, almeno in
collegio, allegre voci di amiche mischiàvansi a quella della campana imperante; quà, rinchiusa
come dalla pioggia autunnale, splendèndole il sole all'intorno, senza compagne ma serve, niuno
veggendo all'infuori del fratel suo e di un dottore vecchio, sentìvasi orribilmente sola, spopolata
pur di pensieri, perchè temeva a pensare; in collegio, a traverso le spìe delle persiane, scorgeva una
fine, un cangiamento; quà, con un largo orizonte, nulla. Or, che cosa, Dio mio! più paurosa
dell'infinito?
E la salute si dilungava da lei; sì che Leopoldo, agitato chiese al dottore, una sera:
Che dice di mia sorella?
Dico rispose il dottore che sua sorella ha un di que' mali che i mèdici non
guarìscono... i mèdici vecchi almeno, come, pur troppo, io. Donna Ines ha il male di amore.
Ah? innamorata? di chi? sclamò Leopoldo adombrando; e, senza stare per la risposta,
corse alle sue càmere.
E pòsesi a passeggiarle in lungo ed in largo. Una folla di suoni gli mormoràvano un nome...
tremò. Lo sbigottiva il suo stato, ch'egli non avea osato mai di segnarsi a netti contorni e che non
mai in altrui avrebbe pur sospettato. No; questo non si poteva non si dovea cioè; era d'uopo
un nome diverso; qualùnque.
E cercò spasimando... Ah! ecco... Emilio Folperti... Eppure! no. Imaginate in costui un
fittàbil del suo, che il mèdico avea un giorno condotto in casa Angiolieri; un giòvane bello sì, ma
bello e nient'altro. Il quale Folperti, s'era creduto d'ingraziarsi il fratello, lodando a lui la sorella, e
Leopoldo gentilmente villano avèagli chiuso, prima la bocca, poi la porta sul viso; dopo, se
n'era affatto scordato. Ma adesso, creàtoselo appena a rivale, Leopoldo non lo potè più soffrire,
non gli parve più il mondo, vasto per tutti e due abbastanza… o l'uno o l'altro... ci volea una
soddisfazione... Soddisfazione? e di che?... E se il Folperti gliel'avesse accordata con lo sposare
colei?
Ben seguitava a susurrargli il buon senso «come vuoi ch'ella ami una sì fàtua cosa a bellezza
ed a senno?» Ma saltò su a dire il sofisma «non si adoràrono stàtue? non si adoràrono mostri? non
si baciàron cadàveri?...» e Leopoldo, sospinto da geloso furore, schiuse di botta salda la porta, e fe'
il corritojo, lungo, che divideva le sue dalle stanze di lei.
VI.
Era notte; e, nelle càmere d'Ines, niun lume, ma le finestre aperte, che il raggio lunare e la
brezza entràvano a loro piacere. Leopoldo passò le due prime. E, nella seguente, era Ines, sur il
poggiolo che rispondeva al giardino, seduta, e reclinando la testa all'indietro contro della persiana,
gli occhi velati, semichiuse le labbra, in quell'abbandono di quasi-delìquio, che inonda chi pianse
molto e molto si disperò. Piovèndole attorno, la luna ora piangeva per lei.
Leopoldo riste' a contemplarla un istante. Ed ella se lo sentì forse vicino, vicinìssimo anzi,
ma tènnesi immota.
Leopoldo tentò proferire un nome; la lìngua non gli ubbidì. Ei la obbligò, e disse: sorella!
Si alzàrono lentamente le palpèbre di lei, e scopèrser due occhioni, nuotanti in negri stagni
di duolo.
Sorella riappiccò egli a fatica, in tono alterato sono ancor quì... perchè... perchè
non ti posso stare lontano... quando tu soffri. E, che tu soffri, io so.
Ma no ella disse con un filo di voce.
Sì! egli fece, in uno scoppio di rabbia or perchè contradici?... Atrocemente soffri.
Io leggo negli occhi tuoi, ebri; nella tua faccia patita, colore di perla; in questo tuo istesso singulto.
Eppoi, conosco il tuo male
Ines sorrise pallidamente.
Tu spàsimi di amore
Ella ne sobbalzò; si raddrizzò sulla vita, e, serràndosi al cuore le mani, quasi per ratenerlo,
chè le parea fuggisse, gridò: no.
Sì! ripetè Leopoldo con un riflesso d'incendio nelle pupille, piantàndosi innanzi a lei
non mentire a me! Tu spàsimi d'amore per... per tale, che io odio, che io schiaffeggerò, ucciderò
(e accennava come a sè stesso) per... (e si stravolse la lìngua) Emilio...
Ma oltre non disse. Ella il guardava, schiettamente stupita; ed ei ne ebbe un sussulto e di
gioja e dolore.
Dùnque, chi è? disse, piegàndosi sopra di lei, strette le pugna.
Ines era un trèmito solo.
Voglio saperlo egli fece voglio!... hai capito?
Il viso della fanciulla sformossi, pigliò la strana gonfiezza del viso di un folle. E una ràuca
voce esclamò «te»; e un bacio, incandescente carbone, arse per sempre un sorriso.
Ma, non ascònderti, o luna!
A pena Leopoldo ebbe toccata la sua contro la bocca di lei, che si ritrasse atterrito, cacc le
mani ai capegli, fuggì Caìno d'amore.
Ed ella si morse a sàngue le labbra; poi, tramortita, cadde.
VII.
Da quella sera, i due giòvani èbber paura l'uno dell'altro. Leopoldo cominc a star lungi da
casa le settimane, or cavalcando alla pazza, allorchè lo pigliava una fumana furiosa, or lungo
disteso su 'n prato, quando la spossatezza vincea l'esaltamento: Ines, gittàtasi per indisposta, più
non usciva di càmera.
Ma sìmil vita non poteva durare.
Un dì, corse voce che il conte Angiolieri, in caffè, avea dato in fuora contro al Folperti e gli
avea minacciato uno schiaffo; e ciascuno si chiese «epperchè?»
Ma, in quel stesso, Leopoldo camminò risoluto verso l'appartamento della sorella e ne
aperse la porta.
Ines era a scrittojo; dinanzi a lei, carta bianca; e si posava d'un'aria stracca, abbattuta, su di
una mano, tenendo con l'altra la penna. Cercava forse pensieri e ne trovava sol uno. Senonchè, al
cricchiare dell'uscio si volse, vide il fratello, e il fisò. Parèano gli occhi di lei «due desìri di
lagrimare».
Il contegno di Leopoldo era freddo, severo.
Sorella cominciò egli, sottolineando tal nome io stò per dir cosa che è capitale a
te... e a me. retta. Ci ha... un quidam... giòvane, bello... ma ciò poco importa... il quale ti chiede
per moglie... e questo è quello che conta
Ines si alzò, e nettamente disse: io non mi marito.
Tu ti mariterai ribattè Leopoldo con una voce decisa Io ti ho promessa di già. È
affare finito.
Affare! sospirò la fanciulla.
E che altro sarebbe? dimandò Leopoldo Tu, ti ma-ri-te-rai
Ines ricadde, con le mani alla faccia, seduta.
E il giòvane, continuando:
Di', c'è forse una via diversa per la finire col nostro stato infamìssimo? A noi, morte, è
bene vicina, chè, senza cuore si vive, ma non col cuore piagato, ma... e intanto? Io torno, è vero, in
Amèrica; e ferve anche una guerra... tuttavìa, non basta. Mille miglia di mare framezzo a noi
sono poche... ci vuole, quà, sulla spiaggia Europea un uomo, che possa, che abbia il diritto di
uccìdermi se... o sorella! sorella!
E tenne dietro un terrìbil silenzio.
Lo sposo è il Folperti aggiunse Leopoldo con una tinta di sprezzo e come di
circostanza di nullo rilievo.
Io non potrò mai amarlo! sclamò la fanciulla dolorosamente.
E chi altri potremmo... io e te? egli chiese, lasciàndosi trasportare dalla passione, ma,
padroneggiàtosi poi Sorella, quì non si tratta di amore disse io parlo di un matrimonio...
Abbìgliati! 'stasera io verrò con colui... e, soggiogato, a sua volta, dalla propria emozione e da
quella della ragazza, Leopoldo fuggì.
VIII.
In un battibaleno, tutti della provincia parlàrono del matrimonio, e tutti credèttero allora
capire di aver già capito il perchè della scena violenta tra l'Angiolieri e il Folperti, e il perchè della
guancia affilata della ragazza, quantùnque loro allegasse un po' i denti quello di un sìmile amore.
Infatti, avèano detto sempre gli uòmini, che, in espressione, la faccia di Emilio era una pretta
bondiòla, e, quanto agli uòmini, passi! ma anche le donne s'èrano sempre accordate in questa
sentenza. Comùnque! il matrimonio parea dei meglio assortiti; in ambidue, anni pochi, soldi
moltìssimi... qual gioja per il fratello!
Ma, oh avesse potuto chi la pensava così, dare un'occhiata in casa Angiolieri! Dove
all'infuori di quel ciccioso e lustro di Emilio, il quale, tutto soddisfazione imaginàndosi amato, non
scomodàvasi manco ad amare, come colui, che, servito, si lascia servire e' vi avrebbe veduto
una giòvane, o, meglio, la marmòrea effigie di una, costretta a sedere dapresso tale che odiava ed a
sentìrsene tôcca; come pure, veduto un amante obbligato a mirare, anzi a far buona cera, allo
strazio del cuor dell'amata e del suo.
Poi, sulla fine di un pranzo, lo sposo, con un sorriso a Leopoldo, disse:
Al nostro primo bambino ci metteremo il tuo nome; ti piace?
E il conte, che si stava mescendo, assentì con un ghigno. Ma fu una grazia da quadro se la
bottiglia di lui continuò a versare.
IX.
Il moribondo a decreto dell'uomo, quando dispera di protrarre la vita, chiede gli sia la morte
accorciata; e sì facea Leopoldo, accelerando la sua.
tar molto quel dì, in cui la sorella gli apparve abbigliata di bianco e di pallidezza.
Foss'ella stata in un còfano, niuno avrebbe temuto di porle sopra il coperchio: lei certamente
sarèbbesi opposta.
E fùrono alla chiesola. Ines dìssevi un «gelato come neve all'ombrìa». Una sua amica,
svenne.
Uscìrono. Bombàvano i mortaletti, le campane sonàvano ed una banda di stuonatori die'
fiato alle trombe. In sul sagrato, giostre, cuccagne, apparecchi pei fuochi, tra i quali la bianca
ossatura di un I e di un E giganteschi; da ogni parte, folla. E il podestà, in tutta divisa, inchinati gli
sposi, presentò loro dieci contadinette, vestite di nuovo e dotate per il fàusto giorno da Ines,
principiando un discorso che avea il sentore della carta bollata. Ma l'interrùppero i viva; un grosso
pallone con sòpravi scritto felicità pigliava l'aìre. Si sparse il cammino di fiori, si presentàrono
mazzi, scambiàronsi in aria i cappelli. Camoletti intanto, guizzava quà e nella piena,
distribuendo denari, boni per scorpacciate, boni per stoppe, e remissioni di dèbiti inesigìbili. La
gioventù si asciugava la gola, la vecchiaja le ciglia. Ed il maestro di scuola, riuscito a chiappare un
bottone a Leopoldo, gli fece inghiottire fino all'ultima stilla un sonetto di duecento e più versi, che
incominciava:
Te beäto, o signor, cui la sorella
D'Amor ferita, ora Imeneo risana.
X.
Ed Ines e Leopoldo si sono partiti per sempre, in questo mondo almeno, dato che l'altro ci
sia. C'è? Speriamo allora trovarli non condannati ad una fraternità eterna.
Capitolo duodecimo
Passàrono otto mesi... vi pare, o lettori? e Alberto, insieme al tre di gennajo, è
ritornato in città.
Signore fe' Paolino, entrando nello studietto di lui con un pacco l'ha recato
il postino
Il viso di Alberto brillò.
Dà un cìnque-lire di mancia disse; nè era un quattrino ad ogni gramma di gioja.
Poi, con un leggero tremore, si die' a sviluppare la invoglia, che rivestiva un sei copie
del suo primo figliolo, partorito a Firenze; copie di un'edizione elegante, non di quella
eleganza, la quale si sfoga in lèttere storte, in oradelli convulsi, in svolazzi e sìmili firifiss,
ma di quell'altra che se ne tiene alla larga; non l'eleganza del ricco, ma del signore.
E l'edizione, checchè se ne pensi, ha parte nella buona riuscita di un libro, o almeno
nella lettura. Infatti, in ogni cosa è la veste che si presenta la prima, e per un libro la veste è
la migliore delle commendatizie, come ben sanno i Francesi; dico, di un libro nuovo e di
arte, chè gli scienziati ed i vecchi hanno un certo qual privilegio di andar male in arnese e
sùdici. Io per me, vi confesso, arrabbio, quand'ho tra le mani un romanzo, sgraziato o pel
formato o pei tipi, o quando l'odor della carta, che puzza ancora di cencio, mi fa starnutare
su versi dalla fragranza di rosa. Che se poi è illustrato, Dio mio! per quanto mi astragga,
per quanto io mi faccia suo attore, tuttavìa, bisogna lo legga con gli occhi; dùnque, bisogna
che soffra tanti intrusi ignoranti o maestrùcoli oziosi, che intercalati nel testo tàgliano in
due l'idea dello scrittore e la mia, o ròmpono, con un cul-de-lampe stonato, la dolce
armonìa di tutto un capìtolo.
Tornando a noi, cioè a dire ad Alberto, egli non rifiniva a mirare il suo elegante
volume e di sopra e di sotto, senz'arrischiarsi ad aprirlo. E il cuore andàvagli a vela; non
che pensasse a colei per la quale avea scritto, non che temesse la giornalìstica
«eunucomachìa», non sovveniva neppure l'ammattimento trascorso e nel lavoro di testa e in
quello di schiena, le stracchezze, gli scoramenti, il pianto. Ora, di tutto il suo libro,
Alberto non iscorgeva se non la materiale edizione; gli avèssero chiesto che conteneva,
avrebbe sorriso intrigato.
Finalmente, lo schiuse. Ne uscì un profumo, degno di un fazzoletto-battista. La carta
era una pànera doppia e in essa affondàvan le lèttere, come i cialdoni nella neve-di-latte.
Ma Alberto, nell'adocchiare su e giù, lesse: mac.
Mac? si chies'egli ecchè dir vuole mac? E tanto con la memoria era
lungi, che non capì sul bel primo che non volea dir nulla; almeno, in quell'ora.
Mac? ripetè; e, per chiarirsi le idee, incominciò a lègger dal sommo:
LE DUE MORALI
Non getterò proprio via un pezzettino di carta per quistionare, se l'avere sancito alcuni fatti
morali in sentimento di vizi coi loro opposti in quel di virtù, sia o no d'artificio. Tròvansi, è certo,
anche ragioni pel e filosòfiche e stòriche tuttavìa, lasciàmole là; spesse volte, conviene
tenere la via presente, quale si sia, per buona; poi, d'altra parte, non si farebbe che un inversar la
quistione per cominciarla da capo.
Dùnque, or non tocco che a un argomento affine, osservando cioè, come in taluni casi un
male qualificato può trasformarsi in un bene e anche in uno col più. Inquantochè, sul teatro del
mondo, le morali son due (tutto è doppio del resto). Ed una è l'officiale, in guardinfante e parrucca,
a tiro-a-sei, coi battistrada e i lacchè, annunziata da tutti i tamburi e gli zùfoli della città; l'altra è...
ma, in verità, non tien nome... è una morale pedina, in gonnelluccia di tela, alla quale ben pochi
làscian la dritta. Quella, è della stessa famiglia del jus quiritàrium stoltamente dogmàtico; questa,
del jus pretòrium, che orecchio e ragiona. E la prima ha per sè, tutto quel che di leggi, glosse,
trattati, fu fabricato e si fàbrica, fiume a letto incostante, roba in cui la sguàzzano i topi e le tarme;
l'altra, nudo e puro il buonsenso, eternamente uno.
Rompendo il che in monetina; se è vero, ad esempio, che l'adulterio, come si stampa e
declama, sia all'ingrosso un diabòlicus casus, io vi dimando a mia volta, quale più santa, più
evangèlica opra di lui, quando la fedìfraga donna è una fresca ragazza, dalla viltà dei parenti
astretta a fasciare le polpe gottose di un vecchio, o a riammaestrare «i mal protesi nervi» di un
giòvane? E, se è pur vero, che il suicidio sia, come si pone, il coraggio della paura, non è forse al
rovescio un generosìssimo atto, quando, questo incontrare a mezza via la morte, può far felice una
moglie, vìttima del suo dovere di fedeltà incautamente giurato? E l'omicidio, agghiacciante parola,
non mèrita invece il raggio di gloria il più puro, allorchè rende un pòpolo a sè, o attùta il cannone?
Mac...
Èccoci al mac. Era un errore di stampa, ma uno che gli rovinava un perìodo... che
dico! una pàgina. Ed egli non averlo veduto! E chissà quanti ce n'èrano ancora! sì, che,
vôlto quel foglio, spinse pauroso lo sguardo al vicino... Laus Deo! non ne trovò.
Ma trovò altra cosa.
Trovò di avere stampato una miseria di un libro: se lui! (inquantochè, a ciascuno, il
proprio specchio sorride) imaginate un po' gli altri, i quali non hanno certo interesse che un
libro sia bello, anzi, cui molte volte disgrada, quand'è. Eppure! si ricordava d'averlo
pensato entusiasta, e rivedeva uno per uno i luoghi del tale o tale baleno; avea manco
sparmiato i polpastrelli de' diti, ma! ma la sua penna, siccome a inesperto un cavallo, l'avea
condotto in un dove, mentr'ei tendeva ad un altro.
Or, che cosa dedurne?
Che, a parer mio, facea di un brossolino un bubone. Qualche pàgina fiacca, orsù! non
è il Dio-fece alle belle?
Ma Alberto non la vedeva così; e tornò a lègger da capo. Ve'! un periodare contorto...
male assonante... a stroppiature d'idee; quì, odore di costolette bruciate; lì, di camino; più
in là, un organetto sfiatato; poi una mosca nojosa... In conclusione, lanciò per aria il
volume.
E si promise di farne un falò con tutta l'altra famiglia, pur non pensando che il suo
librajo a Firenze ne avea già forse in vetrina, cioè! non pensando... io credo... anzi! sono
sicuro che sì, e che fosse appunto per questo s'egli arrischiava tale incendiaria promessa.
In quella, àpresi l'uscio; e Paolino, in tanto di cappanera, gli annuncia:
La minestra è in tàvola
Non mi seccare! fà Alberto, grazioso come un'asprella.
E il servo:
Ho da mètterla al caldo?
No! sclama rabbiosamente l'amico io non... non ho fame, hai capito?
Sul che, Paolino, vedendo nell'almanacco una luna, azzittisce e va via.
E allora Alberto pensò, che a lui capitàvano tutte. Fe' a larghi passi la stanza. Chi più
infelice di lui? E chissà quanti dolori (cui non avea ancora avvertito) lo serràvano
intorno!... gira gira col capo, se ne persuase talmente, che si cruciò, accasciò... Ma, e che?
dei dolori all'asciutto? per cui buttossi sul letto. E vi si pose a frignare. E, dàlle e dàlle,
pianse.
Ma Alberto, chi no 'l capì? era in un mondo che roteava a furia di spinte. Le
lagrimuccie gli finìrono presto; ed ei levò dal cuscino la guancia, un po' timoroso di
scontrare qualcuno che ridèssegli dietro. Non taciamo però, che il suo ventre gli borborava
da saggio. Comùnque, il nostro bimbo-in-cilindro scese dal letto, lo riaggiustò e die'
un'occhiata vogliosa alla porta. Pur tuttavìa, prima raccolse il gettato volume, e, fàttosi ad
una finestra (chè il giorno moriva), più che con gli occhi del senso, con quelli del
sentimento, lesse:
LE CARAMELLE
Monsù, doi soldi d' caramèl disse un fanciullo, entrando frettolosamente con due
bambine che gli trottàvan di pari. E, tutti e tre, postàronsi al banco.
Il caffettiere, lasciato il giornale, si alzò.
Io adocchiai i piccini. L'omo, era in blusa celeste e in berrettino da soldatello. A parte quel
po' di aria baciocca che i maschi hanno in sugli otto, trapelava nel musino di lui, la coscienza della
sua doppia importante funzione di compratore, custode di una rispettàbile somma. La quale somma
egli chiudeva in un pugno. E tenèvala stretta, ve'!
Ma e la bimba alla sinistra di lui? Qual fino e sentimentale visuccio!... visuccio promettente
di quelle smortone impastate di chiaro di luna, che, dove làscian lo sguardo, guai!
La puttina invece alla dritta, era un brioso raggio di sole. Non toccava i cinque anni.
Tomboletta, latte-e-vino, con una vestuccia corta inamidata, reggèvasi in su la punta delle
scarpette; attaccando le palme all'orlo del banco, poggiava, tramezzo a quelle, il mento.
E i sei occhietti due neri, due grigi, e due castagnini si attruppàrono intorno alla mano
del caffettiere. Questa, mise un pìccolo peso su 'n guscio della bilancia; gli occhietti ve la
accompagnàrono: la si diresse a dipalcare un baràttolo; gli occhietti le tènnero dietro: tac tac... il
caffettiere lasciò cadere sul piatto le caramelle... tre, quattro, cìnque... ad ogni tac, i fanciulli si
sogguardàvano e sorridèvano.
Ma, per due soldi, i sorrisi non potèano èssere molti.
Mi venne un'idea.
Avvertito con una tossetta il monsù e mèssomi a traverso la bocca l'ìndice, mi diedi, dietro
dei bimbi, a far segni; cioè, ad accennare il baràttolo, indi, a rovesciare la mano verso la coppa
della bilancia.
Bah! Il caffettiere era proprio grosso di scorza. Salvo il cenno del zitto, non mi comprese 'na
gotta. Anzi; egli ebbe il coraggio sottolìneo coraggio di ripigliarsi una caramella
avvantaggina e riporla. Tre guardi mortificati la seguitàrono e tre sospiri.
Così, fu il cartoccino aggruppato, e consegnato all'ometto.
Questi mollò allora il due-soldi. Stèttero tutti e tre, un momento, a vederlo sparire nel fesso
del banco; poi, con un balzo di gioja, scappàrono via.
Chiel, che voleva? mi dimandò il caffettiere.
Volevo, che loro vuotaste il baràttolo risposi istizzito pagavo io
Ei si rimase un po' gnocco.
Contagg! disse bisognava parlare
Foss'egli stato una donna!
E, queste, fùrono, a lui che leggeva, note di un'armonìa allarga-stòmaco-e-cuore; o il
ventre, che ci aveva interesse, gliele fece sembrare.
Alberto sentìvasi fame. Ma ricordava la sua risposta a Paolino... E dùnque? restò
irresoluto; fe' per pigliare il cappello e andar da un trattore, ma, vìntosi poi, sforzò quella
sbarra di arlìe che si opponeva egli stesso, e aprì dolcemente la porta della sala da pranzo.
In cui, Paolino non era, ma la tovaglia sì; e, su di essa, la piatterìa, gli argenti, i
cristalli, con l'àqua bianca e la rossa, ed i princìpi e la fine; mentre, una lucerna sul mezzo,
lasciando in ombra la stanza, piovea sopra la tàvola il più appetitoso raccoglimento.
E Alberto, zitto zitto, siedette, ed in mancanza di meglio, ancor dubitando a
chiamare, cominciò a far fuori il salame col burro, poi il burro col pane, eppoi il pane col
cacio; poi, si guardò all'ingiro e soppesò la forchetta.
Ma ecco entrare Paolino.
Bravo signore! egli esclama quando la fame non viene, bisogna andare a
trovarla... La vuole prima la zuppa?
Alberto arrossì. Chè si sentiva umiliato appetto al suo servo. Foss'ei divenuto un
omone, degno «di stàtua e duomo», sarebbe sempre rimasto, in sua casa, un omino. Orbe'?
(noto io) è la sorte comune. Anche il Magno Alessandro non passò certo per Dio in cuor di
colui che gli vuotava il... Pardon!
Fatta dùnque la pace e col suo libro e col ventre, Alberto avea a dormir quella notte
da senatore svegliato. Ma, no. Gli cominciò a frullare il pensiero, che forse gli occhi di
Claudia avrèbbero corso le pàgine sue... ed ei la vedeva tremare, arrossire, le ànime loro
intrecciate.
Tutto stava che il libro le giungesse tra mani; e il dubbio lo impermalì. Certo, egli
avea scritto al librajo, che ne mandasse anche a Nizza, soggiorno di lei; e certo, quella
gentile, dovea amar la lettura; senonchè, il libro avea paesana etichetta. In quanto al
fàrgliene omaggio, nè ci stava, nè osava.
Che la sorte provveda! esclamò. E si volse a pensare a chi poteva donarne.
Scarta Giovanni, scarta Giuseppe; quello, perchè non leggeva mai niente; questo, perchè
non capiva mai nulla; via di quà, via di là... non gli arrivò di smaltire che una solìssima
copia la sua.
Capitolo decimoterzo
Il pìccolo studio di Alberto è illuminato. E il nostro giòvane amico, stà in una
poltrona, immoto, e con gli occhi velati. Tuttavìa, non dorme. L'ànima sua è giù giù, sotto
l'afa di una insìpida vita, disamorata, muta come la via percorsa, da quattro mesi in quà, dal
suo libro.
Suònano nel salottino, argentinamente, nove ore. Alberto apre gli occhi. È l'ora, al
bàtter di cui, egli usa di fare un giretto nella città, per rincasare accaldito a corcarsi; e,
dall'abitùdine mosso, Alberto, pur quella sera, si alza ed esce.
Ma, quella sera, non pigliò a camminare, come diceva Fiorelli, a passi da colosso di
Rodi: i pensieri di lui non èrano più gli inquieti e i febbrili del sòlito; ei si sentiva la testa
come un rame strausato, che non lasciava se non istracche incisioni; come un fiammìfero
privo e di fòsforo e zolfo.
E lentamente s'indirizzò per i bastioni, sua passeggiata abituale. A que' bastioni,
illuminati a risparmio, in sull'allèa vèr la città, convenìvan gli amanti; e Alberto,
rasentàndoli in furia, spesso avea lor fatto accapponare la pelle. Senonchè, quella volta, chi
trovossi a disagio, fu lui. Or, che c'entrava mai egli, tomo senza il compagno, tomo de
subtilitate, tra quei volumi di amore appajati? or perchè scompigliarli? dimandàndosi il
che, Alberto, attraversò per il largo il bastione, verso l'erboso rialto che il marginava
all'opposto, sul quale non si vedeva passare che a lunghi intervalli una guardia, imbracciato
lo schioppo, pronta a impedire, con un delitto vero, uno legale.
Ivi Alberto siede'. Èragli sotto uno spiano, in cui due doppie file di làmpade a gas
segnàvano i bordi a due strade, che, dipartìtesi ad una barriera e fatto in salita un mezzo-
ovale ciascuna, andàvano a riunirsi innanzi a un lungo edificio, bianco, dalle tettoje di ferro
e di vetro, dal quale sorgeva, con un chiaror nebuloso, un immenso bàttito, un ronzìo, un
contìnuo sìbilo. E tosto, Alberto fu còlto da un desiderio smanioso di salire un vagone e di
còrrere còrrere, finchè ci fosse una via.
Ma la volta del cielo, calma e serena, il quietò. Due stelle si smoccolàrono e
spàrvero; due vèrgini èran spirate! E quante altre, Dio sa! in quell'ammasso di case dietro
di lui, a soffocare d'amore.
In questa voci briàche, chiocchi di frusta, ed un rumore di ruote. Passava una
carrozzata di gente; forse, al pari di Alberto, infelice, ma allegra. E perchè non felice? ci
ha, di parerne, un sol modo?... Tutti èran felici... tutti all'infuori di lui.
Quasi a risposta, udissi un grido straziante, e un fragore. Uscìa dalla stazione un
treno, lasciando dietro di sè una striscia di fuoco.
Alberto aggricciò. No, non era egli solo, infelice. Ce n'erano altri, e ben più.
Inquantochè, quel convoglio trasportava già forse una sposa novella, freschìssima, col
marchese Andalò suo padrone; orrìbile accoppiamento di un vivo a un cadàvere; supplizio
degno della fantasìa di un Cajo. Sempre la medèsima storia! il ricco plebeo e il nobilaccio
spiantato; questi, che con i lenti e faticati guadagni della operosità altrui, raddoppia i più
arrossèvoli dèbiti; quello, che, per volerlo azzurrare, avvelena il suo sàngue... E Alberto
spasimò di gittarsi sul treno e di rapir la innocente ai vidi baci; poi, tese la vista, in
batticuore, sperando ch'e' fuor saltasse dalle rotaje. Ma il treno continuava al suo scopo,
fatalmente sicuro.
Infine, si levò dal rialto. Gli timpanàvan le orecchie. Camminò pel bastione un po'
ancora; e tenne vèr casa.
Oè, Alberto! chiamò, a mezza strada, una voce.
Ei non udì.
Oè! tornò a dire la voce. Vòltosi, vide Enrico Fiorelli. Il quale:
Me ne successe una bella
Alberto l'interrogò con lo sguardo il meno curioso del mondo.
Ma andiamo ordinati ripigliò Enrico 'Stasera, dùnque, ci fu il matrimonio
dell'Andalò, sai..
disse Alberto Anzi! ne ricevetti l'invito.
Anch'io osservò Enrico Ma non volevo recàrmivi. Credi? io non posso
vedere a strozzare neanche un pollastro. Tanto più, che mi gira pel capo una pòvera tosa
che l'Andalò, dopo di avere condotto su e giù per un anno col zuccherino della speranza,
ha, nella fàusta occasione, piantato... Tornando a noi; per me, non ci sarei mai andato;
senonchè, passando in caffè, trovo il papà della sposa. Ci conosciamo da un pezzo; è il mio
sarto; il famoso Franzoni. Il quale, gonfiàtomi alquanto intorno alla sua strepitosa fortuna,
mi strapregò di volerlo onorare assistendo al connubio della marchesa sua figlia... Io colgo
la circostanza e gli òrdino un pajo di brache.
«Poi, lo sèguo in sua casa. Un lusso Orientale, ti accerto, senza il sùdicio...
Tappezzerìe, specchi, livree, tutto novo di trinca... E la sposina, quanto gentile! un ver
bottone di rosa, con un visetto delicato, di seta, che io avrei avuto ritegno a sfiorarvi il
più minùscolo bacio.
«Là poi, era madama la sarta, che già pativa di nasettina; pochi parenti di lei,
sfarzosamente abbigliati, ma umilmente in disparte; niuno dell'Andalò; ma, in cambio,
molta amicaglia con un far da padrone... «tutta crème della haute... «tutti della portata del
nostro caro marchese» mi disse all'orecchio, gongolando di gioja, il papà. «Ahi!» io risposi,
accennando ad un callo.
«Non si vedea che broncio; neppur uno adulava, non si scoccàvan bisticci. Essì! vi
èrano dei giornalisti e dei preti. La folla istessa addoppiava il silenzio, rendèndolo positivo.
E financo il Tirazza, che fà ridere sempre, come si pose a stonare, accrebbe il musone.
«Allora il mio sarto, per dimojare le bocche, per sentirsi a incensare, distappò lo
Champagne, dimenticando che, il suo, gli era un troppo schietto Champagne per mentire.
Quasi col vino, ecco lo sposo. Era più brutto del sòlito; non gli mancàvan che i corni...
Verranno fe' Alberto con persuasione.
Dio voglia! ribadì Enrico E dopo, siam scarrozzati e al municipio e alla
chiesa. La giovinetta mormorò un pajo di , che a mètterli insieme facèvano il no più no
della terra. Nè ho mai visto, ti giuro, a niun sposalizio tante pezzuole sugli occhi, quante a
quel lì! Pareva un mortorio.
«Fuori, intanto, aspettava il calesso del sòcero con su dipinto il tarocco del gènero. Vi
s'allogàrono il babbo, la mamma, e la sposa. Andalò, venne con me nel mio brougham; gli
altri, in altre carrozze. E così:
Et violon, zon, zon!
Zon! flûte et basse
accompagnammo alla stazione gli sposi, e... notte felice!
Notte inìqua! Alberto esclamò.
E adesso riprese Fiorelli èccoci alla mia avventura! Nel ritornare, dico a
Giuseppe, il cocchiere, di prèndere a dritta la via di circonvallazione. Volevo passare nel
borgo di Porta Fiorita per dare un'occhiata alla Togna... sai, quel biondone...
No, davvero, non so.
Già; non è un libro... Siamo dùnque in cammino, quando Giuseppe picchia in un
vetro (io lo sbasso) e mi dice «guardi». Guardo. Una cittadina, dinanzi a noi, va in isbieco,
in biscia, e ne sòrtono grida «Fèrmala!» dico. «Ferma» vocia Giuseppe... aspetta! La
cittadina tira di lungo. Allora il mio uomo, lascia che la si avvicini alle piante, oltrepassa, e
le attraversa la via. E quella, investendo un mucchio di ghiaja, ristà. Apro lo sportello;
s'apre anche l'altro, ed ecco uscirne due donne...
Due maraviglie, eh? fece Alberto in tono motteggiatore.
Avèano giù la veletta oppose Fiorelli Ed una, avanzàndosi a me, che andavo
vèr lei, disse che il loro cocchiere dovea èssere brillo. «Altro!» io esclamo «dia un occhio».
Ei già dormiva e russava. «Il cocchiere» ella disse «giungendo dalla stazione, in cambio
della barriera, ha tenuto per quà...» «Recando a me la fortuna di poterla servir
interrompo; e le offro il mio brougham. Ed ella, un momento indecisa, come sente il mio
nome, accetta. Tacio i ringraziamenti. Èntrano, lei, cameriera, sacche, sacchette... Io alzo il
siederino per me, e...
Alberto uscì in un lieve sbadiglio.
Neh! stammi desto raccomandò. Enrico, dàndogli contra siamo alle frutta.
«E così?» chiedo io «dove ho a condurla, signora?» Ella tornò a ringraziarmi, poi:
«via Moresca, casa Fabiani». Al che, io, secondo il mio vezzo... pericolosìssimo vezzo... di
pensare a voce alta, sono in fil filo di dire «ah?» in casa di quella schiaccialimoni? di
quella...? quando lei mi previene, seguendo «donna Gina Fabiani è mia zìa... io mi chiamo
Claudia Sàlis...»
Alberto ebbe un sussulto, gli si sciolse la dòrmia, e dimandò:
Dùnque?
Dùnque rispose Fiorelli mi raccontò che sua zia era all'ùltimo lume. Glielo
si avea telegrafato a Firenze, dove, insieme al marito, la signora contessa è da due o tre
mesi. Quanto al marito, per il momento impegnato in affari importanti e non suoi, sarebbe
giunto il dì dopo... In questa, arriviamo in contrada Moresca. E la bella signora, smontando,
nel serrarmi la mano, notò che io le doveva restituire la vìsita. «Guido mi ringrazierà»
aggiunse.
E dùnque? chiese Alberto di nuovo, quasi a sè stesso.
Dùnque, la mia canzone è finita ribattè Enrico E vuoi saper la morale? Te la
dirò sotto voce... ma non rìdere, ve'!... Sono un po'... un po' còlto, hai capito?... Che
magnìfica donna!
Alberto nulla rispose.
Passàvano presso un caffè.
Entro a pigliare un sorbetto. Vieni?
Ma, Alberto:
Io non piglio sorbetti. Mi fan sognare di morti.
Questa è col mànico! esclamò Enrico Piglierai altro. Manca roba!... No?...
Be', niente; leggerai un giornale, mi farai compagnìa.
No... no, sono stanco, ho sonno affoltò Alberto, inlunato È la una. Addìo
e, prendendo la sdrucciolina, si dilungò da Fiorelli con un passo tale, che sùbito azzoppò la
sua risposta di scusa.
Gua' che ti voglio ancor bene! gli gridò appresso Fiorelli.
Alberto era sconvolto nell'ànima. Il pensier solo, che Claudia fosse nel medèsimo
cerchio di mura dov'egli, bastava a fargli tremare le vene: aggiungi, il cupo livore contro
quel non so che, detto per ora destino, che avea messo Enrico nel brougham, cioè gli avea
furato il suo posto, quantùnque insieme capisse, che se le parti, com'egli bramava, fòssero
state invertite, a lui Alberto Pisani nulla sarebbe avvenuto. Gli altri, dàvano in mille
avventure non ne cercando; egli, desioso di una, non ne trovava mai. Dùnque, sospinto da
una bufera di fantasìa, camminava impetuoso; e dove' certo pensare, chi l'incontrò, ch'ei
s'affrettasse in cerca d'ajuto per un che veniva od uno che andava.
E così giunse in un quartiere della città, fuori di mano, nella contrada Moresca; lunga
contrada, vèrgine di marciapiedi e rotaje, a suolo ineguale, ma verdeggiante e fiorita, in cui
la dimora dei signori Fabiani, disadorno casone a un sol piano e dalle gronde sporgenti,
prendeva tre quarti di un lato. Dall'altro, si sciorinava un murello.
Ivi, Alberto siede' su 'na colonna rovescia dirimpetto alla casa, e, avvolto nell'ombra
del pìccolo muro che si allungava sino a mezzo la via, mirò, con gli occhi gonfi di pianto,
la vasta e nuda facciata, pinta dal raggio lunare, interrogàndone le gelosìe una per una, e
sopratutto il portone, il quale, sbarrato, gli rispondeva un decisìssimo «no»; di di cui
rantolava un mastino.
E il nostro amico lungamente stette nella pietosa contemplazione.
Sonàrono passi ad un estremo della contrada; un uomo vi s'avanzava, canterellando.
Ma di botto, azzittì... Perchè?
Avea scorto nell'ombra la siloètta di Alberto e udito il ringhio del cane. E, lor
passando nel mezzo, la gelata paura gli dovette gocciare, e, passato, far la restante contrada
sotto lo spago che il raggiungesse una palla. Vôlto il cantone, dièdela a gambe.
E, quando Alberto si dipartì dal suo sedile di pietra, ne levò seco il freddo. Di bella
prima, ei si diresse al cuore della città, ma poi, cambiando consiglio, rifece il cammino
verso il perduto quartiere, dove piegò e tenne per una via a cenciosi tuguri in su 'n lato, che
si serràvano l'uno contro dell'altro, tanto per sostenersi, mentre loro di fronte correva una
roggia, negra, profonda e tentatrice; indi, arrivò ad una antica chiesola.
Era essa di quelle, per così dire, di getto; non già un'accolta di mattoni e di pietre
foggiati a uno stile. Era di quelle, che non potèvano uscire se non da una mente di artista,
dalla certezza infiammata di averne il cielo a compenso, in quella età in cui si poteva èssere
artisti, e null'altro; quando la fede, effetto dell'ignoranza, teneva luogo di scienza. E la
roccia degli anni, che è il culottement delle fàbriche, fomentava or da lei quel rispetto che
in gioventù nascea ai passanti spontàneo.
Se ne apriva la porta. Alberto entrò e siedette in un banco.
E di vide il chiaro di luna, che si frangeva nelle finestre ogivali, fòndersi in quello
dell'alba; e di là udì scoccare cìnque ore, poi un pressoso scampanellìo.
Nell'àere fosco si disegnàvano, intanto, delle persone. Ciascuna forse veniva,
imaginando appostare, prima dell'altre, l'attenzione di Dio, il sordomuto eterno. E
glisciàvano zitte nei banchi, e s'appoggiàvano ai balaustrati, ed accosciàvansi sul
pavimento dalle nòbili pietre tombali, cui i devoti ginocchi del pòpolo, che li scolpìvano
già, avèano quasi smarrito i tìtoli e i segni di tirannìa e insolenza.
La prima messa era fuori. Udìvasi il borbottìo balogio del sacerdote, che si tingeva di
tanto in tanto di stizza, allorchè il chierichetto gli avvicinava un po' troppo la stoppiniera al
leggìo, e gli amen del chierichetto, sbadigli usufruiti. Ed all'intorno, le volte, mormoràvano
anch'esse le mattutine lor preci.
Alberto sentì presso di lui un singulto, poi uno scoppio di pianto, tosto affogato. Gli
s'era a fianco seduta, una donna, che, dal fruscìo dell'àbito e per quel mai, che il fioco lume
pingea, non dava certo a pensare che supplicasse il Signore pel panem quotidianum; la era
forse la mamma di uno, fuggente dal mondo o dalla virtù; oppure la moglie...
Ma quì una luce improvvisa abbarbagliò tra di loro. Il sacrestano, col lanternino e la
borsa, lor ricordava «i pòveri morti». Anche la donna si volse, e Alberto ed ella si vìdero.
E, a lui, risovvenne uno sfreguccio di tosa, in gruppo sullo scalino di una portella,
tristamente girando il collo di un fiasco, e a lei, un giovanetto pietoso, che le avea riavuta la
speme e germogliato l'amore, quell'amore che poi, un marchese Andalò dovea côrre e
sciupare.
Pur non fu che un baleno. Essi tornàron nell'ombra e il sacrestano continuò la sua via,
brontolando e scotendo la mendìca bolgetta. Si riconòbbero essi, ma tàquero. Più non era
stagione di potersi ajutare. Ci ha mali, il cui rimedio è uno solo, quello di prevenirli. La
bottiglia spezzata, ora, tutto l'oro di Alberto l'oro tutto del mondo avrebbe saputo
aggiustare.
Capitolo decimoquarto
Se il signorino permette... direi una cosa cominciò Paolino, il dopo, in sulle
cìnque del pomeriggio, versando il tè ad Alberto.
Di'.
Lei, signorino, soffre... l'ha i calamai... studia troppo...
Bravo! fe' Alberto con uno scoppio di risa forzato hai proprio scelto il buon
punto per una sìmile osservazione!... Studio? Ma se fui tutta notte in stondèra! Al diàvolo i
libri! vo' divertirmi, capisci? ho venti anni, e denari; vo' divertirmi, fino a cadere per terra
sfilato, ubriaco di Vènere e Bacco
Ma, intanto, pigliò a centellare l'innocentìssimo tè. Paolino uscì. Poi, preso il tè,
dimèntico affatto delle sue belle promesse, vinto dall'antica abitùdine, tolse un volume dal
tavolino e lo aprì. Era l'ànima sua in quello stupore, durante il quale, se tu mai guardi non
vedi, e, se vedi, non senti. Ei non s'accorse di avere un libro tra mani se non allorquando fu
per voltare la pàgina.
S'arrestò vergognoso. Avea egli letto? sì. Compreso? no. E, secondo il suo vezzo,
gettò per aria il libro.
Per lui, addìo bella! Come se non bastasse una vita odiosamente calma, or si trovava
essiccato quel sentimento, che, a volte, a minuti, gliela facea parere tale qual'ei avrebbe
voluto, senza pensare che, spento il mezzo creatore d'ogni illusione, era pur spento quello
per ne sentir la mancanza. Nè ricordava le pene della imaginazione.
E cominciò a lagrimare e gli venne «un desìo di morte tanto soave» che il viso gli
scolorì. Nelle quali stanchezze di cuore, pietà lo stringeva. Pigliò compassione del pòvero
libro rimasto per terra col cartone all'insù, e arrossì. Che ci poteva la crosta, s'ei non avea
più denti? sì che il raccolse, lo accarezzò, lo riaggiustò nelle pieghe, e gli chiese perdono.
Poi, stette assorto alcun tempo... Ma, a un tratto, si scosse e gridò «vado in China!»
non ricordando, l'amico, ch'egli viaggerebbe con sè.
E fu questa un'idea che gli nàque in cervello, abbigliata ed armata, siccome in Giove,
Minerva. Con la foga febbrile con cui principiava ogni cosa, salvo a lasciarla ammezzata
per intraprènderne altre, in men di tre giorni, avea al suo agente fatto procura, e, a sè,
provvisto informazioni e denaro.
Tira fuori i bauli comandò a Paolino Tutti aggiunse.
E Paolino, scendèndone alcuni dai spazzacasa traèndone altri dai sotto-scala e altri
ancor dagli armadi, giunse a riunirne un congresso di ogni forma e misura nell'anticàmera.
Chè, a fianco di uno, vestito in tela grigiastra, quà e segnata dai bolli della via
ferrata e dagli indirizzi-réclames degli alberghi, se ne vedeva uno grosso, nero, dalle
pesanti maniglie, con un lato in iscarpa, già di una berlina scomparsa. Esso era un vecchio
di casa. Comprato da don Gelasio Pisani, il nonno, avea seguito i genitori di Alberto nel lor
viaggio di nozze. Pur non avea potuto ingraziàrseli mai. «Va, sei ben goffo!» dicèagli
sempre Arrighetta. E il disgraziato, riempiuto di stregghie e gualdrappe, di cavezze e
stivali, dovea dormire nelle rimesse, invidiando il compagno e le sacche, portate sopra in
istanza, e più che tutti, una certa borsetta con su un cagnolino in ricamo che la padrona mai
non lasciava. La quale borsetta, poggiàvasi ora contra il grosso baule; il cagnolino era quasi
sparito, difeso invano dal pepe.
E, dietro a costoro, uno corto, a volta, peloso, mangiato mezzo dai topi. Esso avea
servito il canònico Sisto, prozìo paterno di Alberto. Puzzava ancor di caprino. E, più di una
volta e di due, avea fatto il viaggio di Roma (per ordir qualche male, s'intende) a triplo
fondo e a segreti, come il padrone. Tutto al contrario di quella cassa-baule verniciata in
celeste del capitano Pisani, spensierata e mai chiusa, come il cuor di colui; ora, zeppa di
roba, nuova, fiammante, quando... tàbulis rasis.
Poi se ne vedèan ben altri, servi fedeli, amici della famiglia. E il lungo e stretto
baule, il quale insieme a Nicola, cugino del capitano, avea passato tre anni nei Barnabiti e
gli avea nascosto i dolci e i romanzi... per rincasare da solo! e il cassone foderato in velluto
del ciambellano Etelrèdi, padre di donna Giacinta, che rinchiudea chincaglierìa di Corte e
livree, e che scampava la vita ad un Contardo Pisani, altro prozìo di Alberto, il quale usava
firmarsi Cajus Calpurnius Piso, e agiva da tale; poi, tanti altri, e casse e bauli e valigie,
screpolate e sdipinte, il cui ricordo era ito, ma tutti cari, già un tempo, all'èsule e al
viaggiatore, come porzioni della casa natìa. E astucci senza posate, e cappelliere senza
cappello.
Che compagnìa, eh? disse Paolino, battendo l'una contro dell'altra le mani
impolverate.
Hum! straccerìa! fe' Alberto Guarda di aprirmi quel là
Ma udissi una scampanellata: Paolino corse ad aprire.
C'è? disse Enrico Fiorelli, apparendo; e, come vide il nostro e suo amico oh
bravo! bravo Guido Etelrèdi...
Alberto imbragiò.
Dùnque, sei proprio? osservò Enrico.
E come fai a sapere?
Eh! un uccelletto!
O piuttosto un corbacchio? ribattè Alberto, occhieggiando Paolino.
No, no; non è un corvo. È tutt'altro. È una gentil capinera.
Chi?
Enrico allungò di rispòndere; poi:
Donna Claudia Sàlis...
Al che, Alberto, commosso, lo pigliò per un braccio e lo tirò nel suo studio; gli
siedette d'accosto, e:
Dùnque? gli dimandò com'è andata?... Curiosìssimo caso!
È andata fe' Enrico che mi recavo da lei per la prima mia vìsita... Sai; la
contessa mi ha gentilmente invitato...
Sì, sì disse Alberto.
Be', la trovai nella sala con la marchesa Oleari. Non la conosci? Una vecchia
baffuta, che a prima vista del tu, la quale, per aver leggicchiato qualche dozzina di
Cosmorami Pittòrici, si crede in diritto di dottorare su tutto. Guai contraddirla! insulta;
dice tai cose da farne rosso un treccajo. Ed essa pettegolava di un libro che donna Claudia
avea in mano, libro con la coperta gialliccia...
Alberto arrossì.
E che dicea? chiese.
Non so. Ero lontano le miglia dal sospettare che si parlasse di te; e come la
sciocca marchesa non ammette lingua negli altri, allorchè apre la bocca, io chiudo le
orecchie. Solo, di tempo in tempo, mi arrivava all'udito «il mio chiarìssimo amico A dice...
il professore B scrive...» In conclusione, il tuo libro, era, secondo lei, una sudicerìa. Vedi,
eh? cos'hai fatto.
No, che non è oppose Alberto con fuoco.
Calma! hai dalla tua la Sàlis. Appena la dottoressa finì, cominciò donna Claudia
con una voce soave, che sarebbe stato un peccato il non ascoltarla. La ti difese da
Paladino. E la vecchiaccia, a replicare agremente; sul che, attaccàrono lite, rimanendo
ciascuna, com'è ben naturale, del suo proprio parere. Ma, allora, si ricordàron di me,
chièsero il mio. Ed io risposi, che di quel libro avea visto il cartone e non più. «Io non
leggo» aggiunsi «che librerìa vecchia, per risparmiar la fatica di tagliare le pàgine...»
E Alberto:
Ne ho di belli e tagliati.
Grazie. Esse mi domandàrono poi, se sapevo alcunchè dell'autore del libro...
Guido Etelrèdi? Tornai a dire di no. Quì la marchesa cristianamente notò, ch'egli era,
scommetterebbe la testa, un libertino, un poco di buono... «Guido Etelrèdi però» disse la
Sàlis «non è che un nome di guerra».
Ma e come sa?
Per via, credo, di un suo librajo a Firenze... Tant'è, proferì il tuo nome e cognome.
E, figùrati io! Io, che ti conobbi ciliegia! Pigliai tosto a difènderti. E ti difesi col pìngerti.
Dissi di te, quello che avrei, un sècolo fà, detto di un santo...
Troppo, troppo sclamò impazientito Alberto.
No, sai; inquantochè, sul finire della mia tirata, a quale ebbe la gloria di ròmpere
quella della marchesa e d'imballàrcela via, la gentile contessa desiderò di conòscerti...
O amico! interruppe Alberto, balzando; e abbracciollo Gli è un caso
strano! miracoloso! E volle uscir con Enrico, chiacchierò tutta strada, e, allorchè si
lasciàrono, lo riabbracciò e baciò.
Guarda, bimbo fe' Enrico che per domènica a sera ti apposto. Siamo intesi,
n'è?... E non mi fare capricci; se no!... se no, ti rapisco
Oh! Alberto, per il momento, non avrèbbene fatti; sentìvasi troppo bene; e, appena a
casa, volle riposti i bauli. La fantasìa di lui, prepotente, che in un bàttere d'occhio gli
costruiva immensi edifici, salvo a lasciàrseli poi sgretolare da mille dubbi ed arlìe, glien
erigeva ora uno, in foglie di rosa. Dal soddisfacimento che a Claudia fosse piaciuto il suo
libro, passò all'inquieta speranza che a lei avesse anche a piacerne l'autore, poi, tolto il
forse, sen persuase già amato, adorato, e, di maglia in uncino, riuscì a trovarsi impacciato
della situazione. Altro è scrìver romanzi; altro, farne. Ed ei cominciò a star male, a
cambiare di stanza e di sedia senza riposo, a uscire di casa per rientrare sùbito.
Infine, ecco il posto; di a tre ore, lasita. Enrico Fiorelli, alle otto, ha da venire
a pigliarlo, ed ella gli parlerà, sorriderà, gli stringerà la mano due volte. Oh potesse saltare
a pie' giunti quelle tre ore!
Ma quì si discopre una batterìa nascosta. Gli è il suo vecchio nemico, il dubbio.
Quale impressione farà la presenza di lui a Claudia? Chè, la presenza è la prima se non
in tempo in grado, delle commendatizie. Darai un due-lire a una birba artisticamente a
strappi; mancherai di moneta per colui che non può, o non avverte, di far la macchietta. E
Alberto, adocchiando lo specchio, pensò, che, presentàtosi a lei, perderebbe ad un tratto
quel fil sottile di amore, che con sì grande fatica avea giunto, e dopo tanto desìo.
In quella, entra Enrico.
Siamo pronti? fà: poi, osservando come non si era: Tò, l'avrei detto!
Va tu dice Alberto con un far desolato io mi sento a traverso.
Oh diàvolo! cosa?
Male, malìssimo.
Vero? dimandò Enrico a Paolino, il quale sopragiungeva con un sopràbito in
mano.
Pure notò il servitore il signorino ha mangiato con molto appetito a tàvola.
Signorino! aggiunse ho quì il sopràbito nuovo. Vuole provarlo?
È elegantìssimo, ve'? disse Enrico, ammiràndone il taglio.
Alberto di malincuore il provò.
Va di pittura! esclamò Enrico.
Come stà bene! ribadì Paolino.
E non èran bugìe. E il nostro amico sorrise.
Dùnque; andiamo! disse Fiorelli ho da basso il mio brougham.
Sì; ma così... così non vestito
Ben si vedeva che Alberto non rampinava che per onor della firma; fece un po'
ancora le smorfie, ma si abbigliò. E, per buon tratto di strada, tènnesi zitto, impalato.
Influiva allora su lui l'àmido e la mantèca; il mondo esterno cioè. Tuttavìa, allo svolto della
contrada Moresca, il mondo interno ripigliò il sopravvento. E Alberto disse allora ad
Enrico:
O caro te, mi sento male davvero. Non vengo
Enrico die' in un'allegra ridata; poi:
Èccoci al tuo sacchetto di pulci. Credevo proprio, che, almeno 'stavolta, lo avessi
scordato a casa. Capricciosìssimo! Ma non la vinci! sai. Vieni o io ti porto in ispalla
Il nostro amico si rannicchiò sul fondo del brougham.
Enrico smonta:
Giù dùnque!
Alberto borbotta, si morde le labbra; ma, come si addà che il cocchiere s'è messo a
guardarlo, scende. E, rimorchiato da Enrico, passa una portinarìa deserta.
Dove vanno, eh? grida una vecchia, venendo loro all'incontro da mezzo il
cortile.
Da donna Claudia Sàlis fà Enrico.
E la vecchia:
Donna Claudia è morta.
Capitolo decimoquinto
I pensieri di Bàrnaba, io v'assicuro, non èrano di metafisica; potèvano èssere, chè,
Bàrnaba, era stato allevato al mestier del becchino, cioè a non vedere nei morti se non
funerali di prima, di seconda, e di terza, o la tutta parata od i calzoni del prete,
corrispondenti ad una certa tariffa. E, avesse avuto anche il ticchio di scoppiar bolle di aria,
gliene mancava il tempo; troppo egli avea già a fare, coprendo i dotti errori dei mèdici.
Ora, Bàrnaba, se ne stava seduto presso una buca non peranco acciecata, al di dentro
le gambe. E riposava. Con una mano, rompeva, di tanto in tanto, da una pagnotta che gli
era alla dritta, un pezzo di pane e sel recava alla bocca, mentre, con l'altra, fregava sopra il
ginocchio un coso... come un bottone; rompea un altro pezzo di pane, poi adocchiava il
bottone. Oh! gli eredi han ben cura di conservare ogni ricordo prezioso del loro pòvero
morto! Non si tròvan che ossa, non si trova che stagno! e lì, scotendo la testa, Bàrnaba
gettò nella buca il bottone.
Nonno chiamò una vocina di tra le croci; e una bimba con i capegli sciolti, vere
accie di seta, apparve, tiràndosi appresso un carrozzino di latta con su legata una bàmbola.
E disse:
Un signore ti cerca
Venìa dietro di lei un magro e malincònico giòvine.
Ecco il nonno fece la bimba, additando Bàrnaba.
E Alberto, accennato al becchino che non si movesse, costeggiava la fossa e
siedèvagli accosto.
Sono un chirurgo cominciò a dire, tremando.
Bàrnaba si toccò il calottino con il rispetto dovuto a un che dàvagli pane.
E Alberto, continuando, dopo un giro e rigiro di frasi, disse, che un caso, tra i più
interessanti per l'arte sua e la scienza, era accaduto nella città con letale esito, ma che i
parenti del trapassato gliene avèan negata la salma...
Io non vendo i miei morti interruppe il becchino, abbujàndosi in viso.
Alberto tremò.
Pure aggiunse voi ne avete venduti.
Fu, di tremare, la volta di Bàrnaba.
È vero egli rispose ma sono corsi tanti e tanti anni... E feci male allora,
malìssimo.
Ora, fareste bene esclamò Alberto.
No, no disse Bàrnaba ne ho già traditi abbastanza. Son vecchio, e, fra non
molto, dovrò io pure dormire quà. I morti tèngon rancore.
Ma quel vostro angioletto di nipotina fe' Alberto pregherà sempre per voi...
Io vi offro... dieci biglietti da mille
Bàrnaba trasalì: guardò la sua bimba, la quale, seduta su 'n monticino di terra,
mangiava pane e sole; vide il visetto di lei, delicato; ed i pieducci, nudi; vide le proprie
mani in cui la vita essiccava; e, con la voce, come lo sguardo, bassa, mormorò: Fiat
voluntas Dei!
Notte. Un padiglione di nubi, si stende sulla pianura; il bujo tinge. È una di quelle
notti, in cui i viaggiatori sàlgono a contracuore nelle carrozze, e i cavalli agùzzano spesso
inquietamente le orecchie, e le perdute vigilie sèntono più che mai il desìo di pigliare la
fuga.
Alberto stà asserragliando la pìccola porta in fondo al giardino della casa del mago.
Bàrnaba ne è appena uscito con una carriola vuota.
Solo!
E se ne stette, un momento, soggiogato dal peso della sua tanta sciagura; poi, corse
alla casa, corrèndogli il sàngue ancor più.
Ma, di botto, arrestossi. Era alla porta; e, di là, ella attendeva. S'arrestò còlto da
raccapriccio, battendo i denti e i ginocchi...
Si vinse. Con uno slancio, aperse le imposte, precipitossi al didentro. Dal davanzale
del vasto camino, un lume, schiarava sul tavolone di marmo una bara, nuda, sìmbol di
morte il più odioso. Ma il chiaro non arrivava alla volta. Ombre paurose stendèvansi sulle
pareti.
E Alberto chiese coraggio ad una folla di lumi. La nuova luce lo rinfrancò; la nuova
luce e i fiori, ch'essa pingeva all'intorno glìcini e rose pendenti dalle lumiere, appese
alle sedie; in ceste; in cestini. E Alberto, afferrato un martello, salì sopra la tàvola.
Risonò il primo colpo. Udissi un crac nella stanza. Egli rimase col martello sul
còfano, non osando vòlgere gli occhi, e neppure di chiùderli. Pareva a lui, fosse entrato
qualcuno... Ci volle proprio uno sforzo per obbligar la pupilla a guardare... Niente! E
respiro.
Dùnque, cominciò a tempestare rabbiosìssimi colpi. Tardàvagli di rivederla. Giunto a
ficcare in una fessura il martello, diede leva al coperchio. Il quale si distaccò, seco traendo,
pei chiodi, un lenzuolo. E Alberto strappollo, e il rovesciò giù dalla tàvola.
Quasi nel medèsimo tempo, le pareti sconnesse si aprìrono e càddero, cedendo al
peso di un corpo, che si allungava e allargava lentissimamente.
Apparve una figura di donna, tutta di bianco, dalle mani intrecciate e guantate; i
calzari di raso e un fazzoletto sul viso.
Il martello sfuggì ad Alberto. Ei restò presso di lei rannicchiato; immoto e freddo
com'essa. Sotto quel fazzoletto, era lo spasimato sembiante; avrebb'egli avuto coraggio di
discoprirlo? E, quì, un serrato contrasto di e di no. Fe' per stènder la mano; la mano non
gli ubbidì. Volea, ma non poteva; i polsi gli rallentàvano; momenti, durante i quali, il
legame tra lo spìrito e il corpo era interrotto.
Ma, infine, si riappiccò. E, Alberto, potè allungare la mano sul fazzoletto...
Ella! Bianca del muto bianco della camelia, finamente aperte le labbra, gli occhi
velati, si dormìa tranquilla, come se in luogo fuor dalle nubi del mondo. Parea sfinita
d'amore. Morte, avèala fatta sua con un bacio lievìssimo.
E a dire, che, proprio in questo momento, egli avrebbe forse potuto trionfando di
lei e di lui attìnger la vita, tra le sue braccia di fuoco!
Oh fosse, quel che vedea, un sogno!... Sì! lo dovea; sogno bene sensìbile, ben
agghiacciante, ma sogno. Il ribrezzo lo strinse. E pensò ch'era un sogno, ma il grande, quel
della vita, quello di cui ci svegliamo morendo se ci svegliamo.
La fantasìa di lui infiammava; i suoi nervi strappàvano.
Sì; ci svegliamo. L'ànima non può finire. Quella di lei, forse intorno, tristamente
mirava il bel corpo dal quale era stata divisa... E se peranco indivisa? E se fluita al cervello,
ùltimo spaldo?... Ma già il nulla si avanza da tutte le parti; ancora un secondo, ed ogni vita
è scomparsa; e, sulla vita, si riunisce l'oblìo.
Senonchè, il nulla, come il finito, è inconcepibile.
E... se fosse... non-morta?
Quì, Alberto si piegò su di lei, speranzoso, bramoso di un segno che dicèssegli , di
un fuggitivo rossore, un sospiro.
Orribilmente gli battèan le tempie.
Ah!... egli ha scorto, tra le socchiuse palpèbre, rianimàrsele l'occhio. E le apre, o
meglio, le straccia, in sul petto, la veste; e le preme la mano sopra il nudo del cuore...
Ed ascolta...
Un bàttito!... Vive! Per lui essa deve rinàscere...
No! Un medaglione che le giace sul seno tosto risponde «rivivrà per un altro».
Incendia di gelosìa. Attorno a lui, tutto gira. Strappa di tasca una terzetta a due colpi,
e gliela scàrica contro. Il medaglione, salta in cento frantumi. Poi, volge l'arme a sè. Ci ha
un terrìbile istante, in cui la paura gli aggroviglia le vene: ei serra gli occhi; ma il colpo...
parte.
L'arme, piomba fumante, giù dalla tàvola, in una cesta di rose; Alberto, cade sul
desiato corpo di lei, morto.
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