piaciuto a moltissimi, che amavano di non esserlo. I nomi nella storia servon piú alla vanitá di chi è
nominato che all'istruzione di chi legge. Quanti pochi sono gli uomini che han saputo vincere e
dominare le cose? Il massimo numero è servo delle medesime; è tale, quale i tempi, le idee, i
costumi, gli accidenti voglion che sia: quando avete ben descritti questi, a che giova nominar gli
uomini? Io sono fermamente convinto che, se la maggior parte delle storie si scrivesse in modo di
sostituire ai nomi propri delle lettere dell'alfabeto, l'istruzione, che se ne ritrarrebbe, sarebbe la
medesima. Finalmente, nella considerazione e nella narrazione degli avvenimenti, mi sono piú
occupato degli effetti e delle cagioni delle cose che di que' piccioli accidenti che non sono né effetti
né cagioni di nulla, e che piaccion tanto al lettore ozioso sol perché gli forniscono il modo di poter
usare di quel tempo che non saprebbe impiegare a riflettere.
Dopo tali osservazioni, ognun vede che i fatti che mi rimanevano ad aggiugnere eran in minor
numero di quello che si crede. Ragionando con molti di coloro i quali avrebbero desiderati piú fatti,
spesso mi sono avveduto che ciò che essi desideravano nel mio libro giá vi era: ma essi
desideravano nomi, dettagli, ripetizioni; e queste non vi dovean essere. Per qual ragione distrarrò io
l'attenzione del lettore tra un numero infinito d'inezie e lo distoglierò da quello ch'io reputo vero
scopo di ogni istoria, dalla osservazione del corso che hanno, non gli uomini, che brillano un
momento solo, ma le idee e le cose, che sono eterne? Si dirá che il mio libro non merita il nome di
«storia»; ed io risponderò che non mi sono giammai proposto di scriverne. Ma è forse indispensabile
che un libro, perché sia utile, sia una storia?
Una censura mi fu fatta, appena uscí alla luce il primo volume. Siccome essa nasceva da un
equivoco, credei mio dovere dileguarlo; e lo feci con quell'avvertimento che, nella prima edizione,
leggesi al principio del secondo volume, e che ora inserisco qui:
Tutte le volte che in quest'opera si parla di «nome», di «opinione», di «grado», s'intende
sempre di quel grado, di quella opinione, di quel nome che influiscono sul popolo, che è il grande, il
solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni.
Taluni, per non aver fatta questa riflessione, hanno creduto che, quando nel primo tomo,
pagina 34, io parlo di coloro che furono perseguitati dall'inquisizione di Stato, e li chiamo
«giovinetti senza nome, senza grado, senza fortuna», abbia voluto dichiararli persone di niun merito,
quasi della feccia del popolo, che desideravano una rivoluzione per far una fortuna.
Questo era contrario a tutto il resto dell'opera, in cui mille volte si ripete che in Napoli eran
repubblicani tutti coloro che avevano beni e fortuna; che niuna nazione conta tanti che bramassero
una riforma per solo amor della patria; che in Napoli la repubblica è caduta quasi per soverchia virtú
de' repubblicani... Nell'istesso luogo si dice che i lumi della filosofia erano sparsi in Napoli piú che
altrove, e che i saggi travagliavano a diffonderli, sperando che un giorno non rimarrebbero inutili.
I primi repubblicani furono tutti delle migliori famiglie della capitale e delle province: molti
nobili, tutti gentiluomini, ricchi e pieni di lumi; cosicché l'eccesso istesso de' lumi, che superava
l'esperienza dell'etá, faceva lor credere facile ciò che realmente era impossibile per lo stato in cui il
popolaccio si ritrovava. Essi desideravano il bene, ma non potevano produrre senza il popolo una
rivoluzione; e questo appunto è quello che rende inescusabile la tirannica persecuzione destata
contro di loro.
Chi legge con attenzione vede chiaramente che questo appunto ivi si vuol dire. Io altro non ho
fatto che riferire quello che allora disse in difesa de' repubblicani il rispettabile presidente del
Consiglio, Cito; e Cito era molto lontano dall'ignorare le persone o dal volerle offendere.
Sarebbe stoltezza dire che le famiglie Carafa, Riari, Serra, Colonna, Pignatelli... fossero
povere; ma, per produrre una rivoluzione nello stato in cui allora era il popolo napoletano, si
richiedevano almeno trenta milioni di ducati, e questa somma si può dir, senza far loro alcun torto,
che essi non l'aveano. La ricchezza è relativa all'oggetto a cui taluno tende: un uomo che abbia
trecentomila scudi di rendita è un ricchissimo privato, ma sarebbe un miserabile sovrano.
Si può occupare nella societá un grado eminentissimo, e non essere intanto atto a produrre una
rivoluzione. Il presidente del Consiglio occupava la prima magistratura del Regno, e non potea
farlo: ad un reggente di Vicaria, molto inferiore ad un presidente, ad un eletto del popolo,
moltissimo inferiore al reggente, era molto piú facile sommovere il popolo.
Lo stesso si dice del nome. Chi può dire che le famiglie Serra, Colonna, Pignatelli... fossero