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TITOLO: Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799
AUTORE: Vincenzo Cuoco
TRADUZIONE E NOTE:
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: "Saggio storico sulla rivoluzione
napoletana del 1799"
Editore Laterza,
Collana Universale Laterza,
a cura di Pasquale Villani, 1980
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 16 novembre 1998
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Catia Righi, [email protected]
REVISIONE:
Claudio Paganelli, [email protected]
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SAGGIO STORICO
SULLA
RIVOLUZIONE DI NAPOLI
SECONDA EDIZIONE
CON AGGIUNTE DELL'AUTORE
1806
Caedo cur vestram rempublicam tantam perdidistis tam cito?
POMPONIO ATTICO, presso CICERONE, De senectute.
PREFAZIONE
ALLA SECONDA EDIZIONE
Quando questo Saggio fu pubblicato per la prima volta, i giudizi pronunziati sul medesimo
furon molti e diversi, siccome suole inevitabilmente avvenire ad ogni libro, del quale l'autore ha
professata imparzialitá, ma non sono imparziali i lettori. Il tempo però ed il maggior numero han
resa giustizia, non al mio ingegno alla mia dottrina (ché quello questa abbondavano nel
mio libro), ma alla imparzialitá ed alla sinceritá colla quale io avea in esso narrati avvenimenti che
per me non eran stati al certo indifferenti.
Della prima edizione da lungo tempo non rimaneva piú un esemplare; e, ad onta delle molte
richieste che ne avea, io avrei ancora differita per qualche altro tempo la seconda, se alcuni, che han
tentato ristamparla senza il mio assentimento, non mi avessero costretto ad accelerarla.
Dopo la prima edizione, ho raccolti i giudizi che il pubblico ha pronunziati, ed ho cercato, per
quanto era in me, di usarne per rendere il mio libro quanto piú si potesse migliore.
Alcuni avrebbero desiderato un numero maggiore di fatti. Ed in veritá io non nego che nella
prima edizione alcuni fatti ho omessi, perché li ignorava; altri ho taciuti, perché ho creduto prudente
il tacerli; altri ho trasandati, perché li reputava poco importanti; altri finalmente ho appena
accennati. Ho composto il mio libro senza aver altra guida che la mia memoria: era impossibile
saper tutti gl'infiniti accidenti di una rivoluzione, e tutti rammentarli. Molti de' medesimi ho saputi
posteriormente, e, di essi, i piú importanti ho aggiunti a quelli che giá avea narrati. Ad onta però di
tutte le aggiunzioni fatte, io ben mi avveggo che coloro, i quali desideravano maggior numero di
fatti nella prima edizione, ne desidereranno ancora in questa seconda. Ma il mio disegno non è stato
mai quello di scriver la storia della rivoluzione di Napoli, molto meno una leggenda. Gli
avvenimenti di una rivoluzione sono infiniti di numero; e come no, se in una rivoluzione agiscono
contemporaneamente infiniti uomini? Ma, per questa stessa ragione, è impossibile che tra tanti
avvenimenti non vi sieno molti poco importanti e molti altri che si rassomiglian tra loro. I primi li
ho trascurati, i secondi li ho riuniti sotto le rispettive loro classi. Piú che delle persone, mi sono
occupato delle cose e delle idee. Ciò è dispiaciuto a molti, che forse desideravano esser nominati; è
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piaciuto a moltissimi, che amavano di non esserlo. I nomi nella storia servon piú alla vanitá di chi è
nominato che all'istruzione di chi legge. Quanti pochi sono gli uomini che han saputo vincere e
dominare le cose? Il massimo numero è servo delle medesime; è tale, quale i tempi, le idee, i
costumi, gli accidenti voglion che sia: quando avete ben descritti questi, a che giova nominar gli
uomini? Io sono fermamente convinto che, se la maggior parte delle storie si scrivesse in modo di
sostituire ai nomi propri delle lettere dell'alfabeto, l'istruzione, che se ne ritrarrebbe, sarebbe la
medesima. Finalmente, nella considerazione e nella narrazione degli avvenimenti, mi sono piú
occupato degli effetti e delle cagioni delle cose che di que' piccioli accidenti che non sono effetti
cagioni di nulla, e che piaccion tanto al lettore ozioso sol perché gli forniscono il modo di poter
usare di quel tempo che non saprebbe impiegare a riflettere.
Dopo tali osservazioni, ognun vede che i fatti che mi rimanevano ad aggiugnere eran in minor
numero di quello che si crede. Ragionando con molti di coloro i quali avrebbero desiderati piú fatti,
spesso mi sono avveduto che ciò che essi desideravano nel mio libro giá vi era: ma essi
desideravano nomi, dettagli, ripetizioni; e queste non vi dovean essere. Per qual ragione distrarrò io
l'attenzione del lettore tra un numero infinito d'inezie e lo distoglierò da quello ch'io reputo vero
scopo di ogni istoria, dalla osservazione del corso che hanno, non gli uomini, che brillano un
momento solo, ma le idee e le cose, che sono eterne? Si dirá che il mio libro non merita il nome di
«storia»; ed io risponderò che non mi sono giammai proposto di scriverne. Ma è forse indispensabile
che un libro, perché sia utile, sia una storia?
Una censura mi fu fatta, appena uscí alla luce il primo volume. Siccome essa nasceva da un
equivoco, credei mio dovere dileguarlo; e lo feci con quell'avvertimento che, nella prima edizione,
leggesi al principio del secondo volume, e che ora inserisco qui:
Tutte le volte che in quest'opera si parla di «nome», di «opinione», di «grad, s'intende
sempre di quel grado, di quella opinione, di quel nome che influiscono sul popolo, che è il grande, il
solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni.
Taluni, per non aver fatta questa riflessione, hanno creduto che, quando nel primo tomo,
pagina 34, io parlo di coloro che furono perseguitati dall'inquisizione di Stato, e li chiamo
«giovinetti senza nome, senza grado, senza fortuna», abbia voluto dichiararli persone di niun merito,
quasi della feccia del popolo, che desideravano una rivoluzione per far una fortuna.
Questo era contrario a tutto il resto dell'opera, in cui mille volte si ripete che in Napoli eran
repubblicani tutti coloro che avevano beni e fortuna; che niuna nazione conta tanti che bramassero
una riforma per solo amor della patria; che in Napoli la repubblica è caduta quasi per soverchia virtú
de' repubblicani... Nell'istesso luogo si dice che i lumi della filosofia erano sparsi in Napoli piú che
altrove, e che i saggi travagliavano a diffonderli, sperando che un giorno non rimarrebbero inutili.
I primi repubblicani furono tutti delle migliori famiglie della capitale e delle province: molti
nobili, tutti gentiluomini, ricchi e pieni di lumi; cosicché l'eccesso istesso de' lumi, che superava
l'esperienza dell'etá, faceva lor credere facile ciò che realmente era impossibile per lo stato in cui il
popolaccio si ritrovava. Essi desideravano il bene, ma non potevano produrre senza il popolo una
rivoluzione; e questo appunto è quello che rende inescusabile la tirannica persecuzione destata
contro di loro.
Chi legge con attenzione vede chiaramente che questo appunto ivi si vuol dire. Io altro non ho
fatto che riferire quello che allora disse in difesa de' repubblicani il rispettabile presidente del
Consiglio, Cito; e Cito era molto lontano dall'ignorare le persone o dal volerle offendere.
Sarebbe stoltezza dire che le famiglie Carafa, Riari, Serra, Colonna, Pignatelli... fossero
povere; ma, per produrre una rivoluzione nello stato in cui allora era il popolo napoletano, si
richiedevano almeno trenta milioni di ducati, e questa somma si può dir, senza far loro alcun torto,
che essi non l'aveano. La ricchezza è relativa all'oggetto a cui taluno tende: un uomo che abbia
trecentomila scudi di rendita è un ricchissimo privato, ma sarebbe un miserabile sovrano.
Si può occupare nella societá un grado eminentissimo, e non essere intanto atto a produrre una
rivoluzione. Il presidente del Consiglio occupava la prima magistratura del Regno, e non potea
farlo: ad un reggente di Vicaria, molto inferiore ad un presidente, ad un eletto del popolo,
moltissimo inferiore al reggente, era molto piú facile sommovere il popolo.
Lo stesso si dice del nome. Chi può dire che le famiglie Serra, Colonna, Pignatelli... fossero
famiglie oscure? Che Pagano, Cirillo, Conforti fossero uomini senza nome?... Ma essi aveano un
nome tra i saggi, i quali a produr la rivoluzione sono inutili, e non ne aveano tra il popolo, che era
necessario, ed a cui intanto erano ignoti per esser troppo superiori. Paggio, capo de' lazzaroni del
Mercato, è un uomo dispregevole per tutti i versi; ma intanto Paggio, e non Pagano, era l'uomo del
popolo, il quale bestemmia sempre tutto ciò che ignora.
Credo superfluo poi avvertire che i giudizi del popolo non sono i miei; ma è necessario
ricordare che, in un'opera destinata alla veritá ed all'istruzione, è necessario riferire tanto i giudizi
miei quanto quelli del popolo. Ciascuno sará al suo luogo: è necessario saperli distinguere e
riconoscere; e perciò è necessario aver la pazienza di leggere l'opera intera, e non giudicarne da
tratti separati.
Questo Saggio è stato tradotto in tedesco. Son molto grato al signor Kellert, il quale, senza
che ne conoscesse l'autore credette il libro degno degli studi suoi: piú grato gli sono, perché lo ha
tradotto in modo da farlo apparir degno dell'approvazione de' letterati di Germania; de' favorevoli
giudizi de' quali io andrei superbo, se non sapessi che si debbono in grandissima parte ai nuovi pregi
che al mio libro ha saputo dare l'elegante traduttore. Pure, tra gli elogi che il libro ha ottenuti, non è
mancata qualche censura, ed una, tra le altre, scritta collo stile di un cavalier errante che unisce la
ragione alla spada, leggesi nel giornale del signor Archenholz, intitolato: La Minerva. L'articolo è
sottoscritto dal signor Dietrikstein, che io non conosco, ma che ho ragion di credere essere al tempo
istesso valentissimo scrittore e guerriero, poiché si mostra pronto egualmente a sostener contro di
me colla penna e colla spada che il signor barone di Mack sia un eccellente condottiero di armata,
ad onta che nel mio libro io avessi tentato di far credere il contrario. In veritá, io dichiaro che valuto
pochissimo i talenti militari del generale Mack. Quando io scriveva il mio Saggio, avea presenti al
mio pensiero la campagna di Napoli e la seconda campagna delle Fiandre, ambedue dirette da
Mack: vedeva nell'una e nell'altra gli stessi rovesci e le stesse cagioni di rovesci; e credei poter
ragionevolmente conchiudere che la colpa fosse del generale. Ciò che è effetto di sola fortuna non si
ripete con tanta simiglianza due volte. Quando poi pervenne in Milano l'articolo del signor
Dietrikstein, era giá aperta l'ultima campagna. L'amico, che mi comunicò l'articolo, avrebbe
desiderato che io avessi fatta qualche risposta. Ma, due giorni appresso, il cannone della piazza
annunziò la vittoria di Ulma, ed io rimandai all'amico l'articolo, e vi scrissi a' piè della pagina: «La
risposta è fatta».
Questo mio libro non deve esser considerato come una storia, ma bensí come una raccolta di
osservazioni sulla storia. Gli avvenimenti posteriori han dimostrato che io ho osservato con
imparzialitá e non senza qualche acume. Gran parte delle cose che io avea previste si sono avverate;
l'esperimento delle cose posteriori ha confermati i giudizi che avea pronunziati sulle antecedenti.
Mentre quasi tutta l'Europa teneva Mack in conto di gran generale, io solo, io il primo, ho vendicato
l'onor della mia nazione, ed ho asserito che le disgrazie da lui sofferte nelle sue campagne non eran
tanto effetto di fortuna quanto d'ignoranza. Fin dal 1800 io ho indicato il vizio fondamentale che vi
era in tutte le leghe che si concertavano contro la Francia, e pel quale tutt'i tentativi de' collegati
dovean sempre avere un esito infelice, ad onta di tutte le vittorie che avessero potuto ottenere; e
tutto ciò perché le vittorie consumano le forze al pari o poco meno delle disfatte, e le forze si
perdono inutilmente se son prive di consiglio, vi è consiglio ove o non vi è scopo o lo scopo è
tale che non possa ottenersi.
Desidero che chiunque legge questo libro paragoni gli avvenimenti de' quali nel medesimo si
parla a quelli che sono succeduti alla sua pubblicazione. Troverá che spesso il giudizio da me
pronunziato sopra quelli è stata una predizione di questi, e che l'esperienza posteriore ha confermate
le antecedenti mie osservazioni. Il gabinetto di Napoli ha continuato negli stessi errori: sempre lo
stesso incerto oscillar nella condotta, la stessa alternativa di speranze e di timore, e quella sempre
temeraria, questo sempre precipitoso; moltissima fiducia negli aiuti stranieri, nessuna fiducia e
perciò nessuna cura delle forze proprie; non mai un'operazione ben concertata; nella prima lega, il
trattato di Tolentino e la spedizione di Tolone conchiuso e fatta fuori di ogni ragione e di ogni
opportunitá; nella seconda, l'invasione dello Stato pontificio fatta prima che l'Austria pensasse a
mover le sue armate, le operazioni del picciolo corpo che Damas comandava in Arezzo
incominciate quando le forze austriache non esistevano piú; nella terza finalmente, un trattato
segnato colla Francia, mentre forse non era necessario poiché si pensava di infrangerlo; i russi e
gl'inglesi chiamati quando giá la somma delle cose era stata decisa in Austerlitz; l'inutile macchia di
traditore, e l'inopportunitá del tradimento, e l'obbrobrio di vedere un re che comanda a sette milioni
di uomini divenire, per colpa de' suoi ministri, quasi il fattore degl'inglesi e cedere il comando delle
sue proprie truppe entro il suo proprio regno ad un generale russo. Ricercate le cagioni di tutti questi
avvenimenti, e trovate esser sempre le stesse: un ministro che traeva gran parte del suo potere
dall'Inghilterra, ove avea messe in serbo le sue ricchezze; l'ignoranza delle forze della propria
nazione, la nessuna cura di migliorare la di lei sorte, di ridestare negli animi degli abitanti l'amor
della patria, della milizia e della gloria; lo stato di violenza che naturalmente dovea sorgere da
quella specie di lotta, che era inevitabile tra un popolo naturalmente pieno di energia ed un ministro
straniero che volea tenerlo nella miseria e nell'oppressione; la diffidenza che questo stesso ministro
avea ispirata nell'animo de' sovrani contro la sua nazione; tutto insomma quello che io avea
predetto, dicendo che la condotta di quel gabinetto avrebbe finalmente perduto un'altra volta, ed
irreparabilmente, il Regno.
Avrei potuto aggiugnere alla storia della rivoluzione anche quella degli avvenimenti posteriori
fino ai nostri giorni. Riserbo questa occupazione a' tempi ne' quali avrò piú ozio e maggior facilitá
di istruirmene io stesso, ritornato che sarò nella mia patria. Ne formerò un altro volume dello stesso
sesto, carta e caratteri del presente. Intanto nulla ho voluto cangiare al libro che avea pubblicato nel
1800. Quando io componeva quel libro, il gran Napoleone era appena ritornato dall'Egitto; quando
si stampava, egli avea appena prese le redini delle cose, appena avea incominciata la magnanima
impresa di ricomporre le idee e gli ordini della Francia e dell'Europa. Ma io ho il vanto di aver
desiderate non poche di quelle grandi cose che egli posteriormente ha fatte; ed, in tempi ne' quali
tutt'i princípi erano esagerati, ho il vanto di aver raccomandata, per quanto era in me, quella
moderazione che è compagna inseparabile della sapienza e della giustizia, e che si può dire la
massima direttrice di tutte le operazioni che ha fatte l'uomo grandissimo. Egli ha verificato l'adagio
greco per cui si dice che gl'iddii han data una forza infinita alle mezze proporzionali, cioè alle idee
di moderazione, di ordine, di giustizia. Le stesse lettere, che io avea scritte al mio amico Russo sul
progetto di costituzione composto dall'illustre e sventurato Pagano, sebbene oggi superflue, pure le
ho conservate e come un monumento di storia e come una dimostrazione che tutti quegli ordini che
allora credevansi costituzionali non eran che anarchici. La Francia non ha incominciato ad aver
ordine, l'Italia non ha incominciato ad aver vita, se non dopo Napoleone; e, tra li tanti benefíci che
egli all'Italia ha fatti, non è l'ultimo certamente quello di aver donato a Milano Eugenio ed alla mia
patria Giuseppe.
Lettera dell'autore a N.Q.
Quando io incominciai ad occuparmi della storia della rivoluzione di Napoli, non ebbi altro
scopo che quello di raddolcire l'ozio e la noia dell'emigrazione. È dolce cosa rammentar nel porto le
tempeste passate. Io avea ottenuto il mio intento; avrei pensato ad altro, se tu e gli altri amici, ai
quali io lessi il manoscritto, non aveste creduto che esso potesse esser utile a qualche altro oggetto.
Come va il mondo! Il re di Napoli dichiara la guerra ai francesi ed è vinto; i francesi
conquistano il di lui regno e poi l'abbandonano; il re ritorna e dichiara delitto capitale l'aver amata la
patria mentre non apparteneva piú a lui. Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la minima
parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto ciò ha fatto che io sia stato esiliato,
che sia venuto in Milano, dove, per certo, seguendo il corso ordinario della mia vita, non era
destinato a venire, e che quivi, per non aver altro che fare, sia diventato autore. «Tutto è concatenato
nel mondo», diceva Panglos: possa tutto esserlo per lo meglio!
In altri tempi non avrei permesso certamente che l'opera mia vedesse la luce. Fino a ier l'altro,
invece di princípi, non abbiamo avuto che l'esaltazione de' princípi; cercavamo la libertá e non
avevamo che sètte. Uomini, non tanto amici della libertá quanto nemici dell'ordine inventavano una
parola per fondare una setta, e si proclamavan capi di una setta per aver diritto di distruggere
chiunque seguisse una setta diversa. Quegli uomini, ai quali l'Europa rimprovererá eternamente la
morte di Vergniaud, di Condorcet, di Lavoisier e di Bailly; quegli uomini, che riunirono entro lo
stesso tempio alle ceneri di Rousseau e di Voltaire quelle di Marat e ricusarono di raccogliervi
quelle di Montesquieu, non erano certamente gli uomini da' quali l'Europa sperar poteva la sua
felicitá.
Un nuovo ordine di cose ci promette maggiori e piú durevoli beni. Ma credi tu che l'oscuro
autore di un libro possa mai produrre la felicitá umana? In qualunque ordine di cose, le idee del vero
rimangono sempre sterili o generan solo qualche inutile desiderio negli animi degli uomini dabbene,
se accolte e protette non vengano da coloro ai quali è affidato il freno delle cose mortali.
Se io potessi parlare a colui a cui questo nuovo ordine si deve, gli direi che l'obblio ed il
disprezzo appunto di tali idee fece che la nuova sorte, che la sua mano e la sua mente avean data
all'Italia, quasi divenisse per costei, nella di lui lontananza, sorte di desolazione, di ruina e di morte,
se egli stesso non ritornava a salvarla.
- Un uomo - gli direi, - che ha liberata due volte l'Italia, che ha fatto conoscere all'Egitto il
nome francese e che, ritornando, quasi sulle ali de' venti, simile alla folgore, ha dissipati, dispersi,
atterriti coloro che eransi uniti a perdere quello Stato che egli avea creato ed illustrato colle sue
vittorie, molto ha fatto per la sua gloria; ma molto altro ancora può e deve fare per il bene
dell'umanitá. Dopo aver infrante le catene all'Italia, ti rimane ancora a renderle la libertá cara e
sicura, onde né per negligenza perda né per forza le sia rapito il tuo dono. Che se la mia patria, come
piccolissima parte di quel grande insieme di cui si occupano i tuoi pensieri, è destino che debba pur
servire all'ordine generale delle cose, e se è scritto ne' fati di non poter avere tutti quei beni che essa
spera, abbia almeno per te alleviamento a quei tanti mali onde ora è oppressa! Tu vedi, sotto il piú
dolce cielo e nel piú fertile suolo dell'Europa, la giustizia divenuta istrumento dell'ambizione di un
ministro scellerato, il dritto delle genti conculcato, il nome francese vilipeso, un'orribile carneficina
d'innocenti ch'espiano colla morte e tra tormenti le colpe non loro; e, nel momento istesso in cui ti
parlo, diecimila gemono ancora ed invocano, se non un liberatore, almeno un intercessore potente.
Un grande uomo dell'antichitá che tu eguagli per cuore e vinci per mente, uno che, come te,
prima vinse i nemici della patria e poscia riordinò quella patria per la quale avea vinto, Gerone di
Siracusa, per prezzo della vittoria riportata sopra i cartaginesi, impose loro l'obbligo di non
ammazzare piú i propri figli. Egli allora stipulò per lo genere umano.
Se tu ti contenti della sola gloria di conquistatore, mille altri troverai, i quali han fatto, al pari
di te, tacere la terra al loro cospetto; ma, se a questa gloria vorrai aggiungere anche quella di
fondatore di saggi governi e di ordinatore di popoli, allora l'umanitá riconoscente ti assegnerá, nella
memoria de' posteri, un luogo nel quale avrai pochissimi rivali o nessuno.
L'adulazione rammenta ai potenti quelle virtú de' loro maggiori, che essi non sanno piú
imitare; la filosofia rammenta ai grandi uomini le virtú proprie, perché proseguano sempre piú
costanti nella magnanima loro impresa...
NB. Ogni volta che si parlerá di moneta di Napoli, il conto s'intenda sempre in ducati: ogni ducato corrisponde a
quattro lire di Francia.
I
INTRODUZIONE
Io imprendo a scriver la storia di una rivoluzione che dovea formare la felicitá di una nazione,
e che intanto ha prodotta la sua ruina
(
1)
. Si vedrá in meno di un anno un gran regno rovesciato,
mentre minacciava conquistar tutta l'Italia; un'armata di ottantamila uomini battuta, dissipata,
distrutta da un pugno di soldati; un re debole, consigliato da ministri vili, abbandonare i suoi Stati
senza verun pericolo; la libertá nascere e stabilirsi quando meno si sperava; il fato istesso
combattere per la buona causa, e gli errori degli uomini distruggere l'opera del fato e far risorgere
dal seno della libertá un nuovo dispotismo e piú feroce.
Le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia dell'uomo quel luogo istesso che tengono
i fenomeni straordinari nella storia della natura. Per molti secoli le generazioni si succedono
tranquillamente come i giorni dell'anno: esse non hanno che i nomi diversi, e chi ne conosce una le
conosce tutte. Un avvenimento straordinario sembra dar loro una nuova vita; nuovi oggetti si
presentano ai nostri sguardi; ed in mezzo a quel disordine generale, che sembra voler distruggere
una nazione, si scoprono il suo carattere, i suoi costumi e le leggi di quell'ordine, del quale prima si
vedevano solamente gli effetti.
Ma una catastrofe fisica è, per l'ordinario, piú esattamente osservata e piú veracemente
descritta di una catastrofe politica. La mente, in osservar questa, segue sempre i moti irresistibili del
cuore; e degli avvenimenti che piú interessano il genere umano, invece di aversene la storia, non se
ne ha per lo piú che l'elogio o la satira. Troppo vicini ai fatti de' quali vogliam fare il racconto, noi
siamo oppressi dal loro numero istesso; non ne vediamo l'insieme; ne ignoriamo le cagioni e gli
effetti; non possiamo distinguere gli utili dagl'inutili, i frivoli dagl'importanti, finché il tempo non li
abbia separati l'uno dall'altro, e, facendo cader nell'obblio ciò che non merita di esser conservato,
trasmetta alla posteritá solo ciò che è degno della memoria ed utile all'istruzione di tutt'i secoli.
La posteritá, che ci deve giudicare, scriverá la nostra storia. Ma, siccome a noi spetta di
prepararle il materiale de' fatti, cosí sia permesso di prevenirne il giudizio. Senza pretendere di
scriver la storia della rivoluzione di Napoli, mi sia permesso trattenermi un momento sopra alcuni
avvenimenti che in essa mi sembrano piú importanti, ed indicare ciò che ne' medesimi vi sia da
lodare, ciò che vi sia da biasimare. La posteritá, esente da passioni, non è sempre libera da
pregiudizi in favor di colui che rimane ultimo vincitore; e le nostre azioni potrebbero esser
calunniate sol perché sono state infelici.
Dichiaro che non sono addetto ad alcun partito, a meno che la ragione e l'umanitá non ne
abbiano uno. Narro le vicende della mia patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de'
quali sono stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei miei concittadini, che non debbo,
che non posso, che non voglio ingannare. Coloro i quali, colle piú pure intenzioni e col piú ardente
zelo per la buona causa, per mancanza di lumi o di coraggio l'han fatta rovinare; coloro i quali o son
morti gloriosamente o gemono tuttavia vittime del buon partito oppresso, mi debbono perdonare se
nemmen per amicizia offendo quella veritá che deve esser sempre cara a chiunque ama la patria, e
debbono esser lieti se, non avendo potuto giovare ai posteri colle loro operazioni, possano almeno
esser utili cogli esempi de' loro errori e delle sventure loro.
Di qualunque partito io mi sia, di qualunque partito sia il lettore, sempre gioverá osservare
come i falsi consigli, i capricci del momento, l'ambizione de' privati, la debolezza de' magistrati,
l'ignoranza de' propri doveri e della propria nazione, sieno egualmente funesti alle repubbliche ed ai
regni; ed i nostri posteri dagli esempi nostri vedranno che qualunque forza senza saviezza non fa
che distrugger se stessa, e che non vi è vera saviezza senza quella virtú che tutto consacra al bene
universale.
(
1)
Questo libro fu scritto nell'anno 1800, e quindi si comprende facilmente di quale ruina si vuol parlare.
II
STATO DELL'EUROPA DOPO IL 1793
Ma, prima di trattar della nostra rivoluzione, convien risalire un poco piú alto e trattenersi un
momento sugli avvenimenti che la precedettero; veder qual era lo stato della nazione, quali cagioni
la involsero nella guerra, quali mali soffriva, quali beni sperava: cosí il lettore sará in istato di
meglio conoscere le sue cause e giudicar piú sanamente de' suoi effetti.
La Francia, fin dal 1789, avea fatta la piú gran rivoluzione di cui ci parli la storia. Non vi era
esempio di rivoluzione, che, volendo tutto riformare, avea tutto distrutto. Le altre aveano
combattuto e vinto un pregiudizio con un altro pregiudizio, un'opinione con un'altra opinione, un
costume con un altro costume: questa avea nel tempo istesso attaccato e rovesciato l'altare, il trono,
i diritti e le proprietá delle famiglie, e finanche i nomi che nove secoli avean resi rispettabili agli
occhi de' popoli.
La rivoluzione francese, sebbene prevista da alcuni pochi saggi, ai quali il volgo non suole
prestar fede, scoppiò improvvisa e sbalordí tutta l'Europa. Tutti gli altri sovrani, parte per parentela
che li univa a Luigi decimosesto, parte per proprio interesse, temettero un esempio che potea divenir
contagioso.
Si credette facile impresa estinguere un incendio nascente. Si sperò molto sui torbidi interni
che agitavano la Francia, non tornando in mente ad alcuno che all'avvicinar dell'inimico esterno
l'orgoglio nazionale avrebbe riuniti tutt'i partiti divisi. Si sperò molto nella decadenza delle arti e del
commercio, nella mancanza assoluta di tutto, in cui era caduta la Francia; si sperò a buon conto
vincerla per miseria e per fame, senza ricordarsi che il periglio rende gli entusiasti guerrieri, e la
fame rende i guerrieri eroi. Una guerra esterna, mossa con eguale ingiustizia ed imprudenza, assodò
una rivoluzione, che, senza di essa, sarebbe degenerata in guerra civile.
L'Inghilterra meditava conquiste immense e vantaggi infiniti nel suo commercio sulla ruina di
una nazione che sola allora era la sua rivale. La corte di Londra, piú che ogni altra corte di Europa,
temer dovea il contagio delle nuove opinioni, che si potean dire quasi nate nel seno dell'Inghilterra;
e, per renderle odiose al popolo inglese, mezzo migliore non ritrovò che risvegliare l'antica rivalitá
nazionale, onde farle odiare, se non come irragionevoli, almen come francesi. Pitt vedeva che gli
abitanti della Gran Brettagna, e specialmente gl'irlandesi e scozzesi, eran disposti a fare altrettanto:
la rivoluzione sarebbe scoppiata in Inghilterra, se gl'inglesi quasi non avessero sdegnato d'imitare i
francesi
(
2)
.
L'Inghilterra, sebbene non fosse stata la prima a dichiarar la guerra, fu però la prima a soffiare
il fuoco della discordia. L'Austria seguí l'invito della sua antica e naturale alleata. Le corti di Europa
non conoscevano le repubbliche. Dalla perdita inevitabile della Francia speravano un guadagno
sicuro. La Prussia l'avea giá ottenuto nel congresso di Pilnitz colla divisione della Polonia.
L'Inghilterra e la Prussia mossero lo statolder, il quale volea distrarre con una guerra esterna gli
animi non troppo tranquilli de' batavi, resi da poco suoi sudditi, ed amava veder distrutti coloro che
potevan essere un giorno non deboli protettori de' medesimi.
La Prussia e l'Austria strascinarono i piccoli principi dell'impero, i quali, piú che dalla perdita
di pochi, incerti, inutili dritti, che la rivoluzione di Francia avea lor tolti in Alsazia ed in Lorena,
erano mossi dall'oro degl'inglesi, ai quali da lungo tempo erano avvezzi a vendere il sangue de'
propri sudditi. Il re di Sardegna seguí le vie di sua antica politica, ed avvezzo ad ingrandirsi tra le
dissensioni della Francia e dell'Austria, alle quali vendeva alternativamente i suoi soccorsi, tenne
sulle prime il partito della lega, che gli parve il piú forte. Finalmente anche la Spagna seguí
l'impulso generale; e la guerra fu risoluta.
Si aprí la campagna con grandissime vittorie degli alleati; ma ben presto furono seguite dai
piú terribili rovesci. I francesi seppero distaccar la Prussia dalla lega; la quale, ottenuta la sua
porzione di Polonia, comprese che, tra due potenze di prim'ordine che si laceravano e distruggevano
a vicenda, suo meglio era quello di rimaner neutrale.
La corte di Spagna s'ingelosí ben presto dell'Inghilterra, che sola voleva ritrar profitto dalla
(
2)
Tutto ciò era stato previsto da Burke. Egli solo tra gl'inglesi avea predetto che la guerra dovea per necessitá riuscir
funesta, che l'interesse dell'Inghilterra era quello di far cessare la rivoluzione colla mediazione, ecc. ecc. ecc.
guerra comune. La condotta degl'inglesi in Tolone fece scoppiare il malumore che da lungo tempo
covava nel suo seno, e Carlo quarto non volle piú impiegar le sue forze ad accrescere una nazione
che egli dovea temere piú della francese. Mentre i suoi eserciti erano battuti per terra, le sue flotte
rimanevano inoperose per mare; mentre i francesi guadagnavano in Europa, egli avrebbe potuto aver
un compenso in America e dar fine cosí alla guerra con una vicendevole restituzione, senza quelle
perdite che fu costretto a soffrire per ottenere la pace. Il desiderio de' francesi era appunto quello che
molti lor dichiarassero la guerra e niuno la facesse con tutte le sue forze; cosí ogni nuovo nemico
dava ai francesi una nuova vittoria, e quella lega, che dovea abbassarli, serviva ad ingrandirli.
La guerra era ormai divenuta, come nell'antica Roma, indispensabile alla Francia, tra perché
teneva luogo di tutte le arti e di tutto il commercio, che prima formavano la sussistenza del popolo,
tra perché un governo quasi sempre fazioso la considerava come un mezzo di occupare e distrarre
gli animi troppo attivi degli abitanti ed allontanare i torbidi che soglion fermentar nella pace. Quindi
si sviluppò quel sistema di democratizzazione universale, di cui i politici si servivan per interesse, a
cui i filosofi applaudivano per soverchia buona fede; sistema che alla forza delle armi riunisce
quella dell'opinione, che suol produrre, e talora ha prodotti, quegl'imperi che tanto somigliano ad
una monarchia universale.
III
STATO D'ITALIA FINO ALLA PACE DI CAMPOFORMIO
In breve tempo li francesi si videro vincitori e padroni delle Fiandre, dell'Olanda, della Savoia
e di tutto l'immenso tratto ch'è lungo la sinistra sponda del Reno. Non ebbero però in Italia sí rapidi
successi; e le loro armate stettero tre anni a' piedi delle Alpi, che non potettero superare, e che forse
non avrebbero superate giammai, se il genio di Bonaparte non avesse chiamata anche in questi
luoghi la vittoria.
Quando l'impresa d'Italia fu affidata a Bonaparte, era quasi che disperata. Egli si trovò alla
testa di un'armata alla quale mancava tutto, ma che era uscita dalla Francia nel momento del suo
maggiore entusiasmo e che era da tre anni avvezza ai disagi ed alle fatiche; si trovò alla testa di
coraggiosi avventurieri, risoluti di vincere o morire. Egli avea tutti i talenti, e quello specialmente di
farsi amare dai soldati, senza del quale ogni altro talento non val nulla.
Se le campagne di Bonaparte in Italia si vogliono paragonare a quelle che i romani fecero in
paesi stranieri, si potranno dir simili solo a quelle colle quali conquistarono la Macedonia. Scipione
ebbe a combattere un grandissimo capitano che non avea nazione; molti altri non ebbero a fronte né
generali nazioni guerriere: solo nella Macedonia i romani trovarono potenza bene ordinata,
nazione agguerrita ed audace per freschi trionfi, e generali i quali, se non aveano il genio, sapevano
almeno la pratica dell'arte. Bonaparte cangiò la tattica, cangiò la pratica dell'arte; e le pesanti
evoluzioni de' tedeschi divennero inutili come le falangi de' macedoni in faccia ai romani. Supera le
Alpi e piomba nel Piemonte. Costringe il re di Sardegna, stanco forsi da una guerra di cinque anni,
privato di buona porzione de' suoi domini, abbandonato dagli austriaci, ridotti a difendere il loro
paese, a sottoscrivere un armistizio, forse necessario, ma al certo non onorevole, ed a cedere a titolo
di deposito fino alla pace quelle piazze che ancora potea e che difender dovea fino alla morte. Dopo
ciò, la campagna non fu che una serie continua di vittorie.
L'Italia era divisa in tanti piccoli Stati, i quali però, riuniti, pur potevano opporre qualche
resistenza. Bonaparte fu destro da dividere i loro interessi. Questa è la sorte, dice Machiavelli, di
quelle nazioni le quali han giá guadagnata la riputazione delle armi: ciascuno brama la loro
amicizia, ciascuno procura distornare una guerra che teme. Cosí i romani han combattuto sempre i
loro nemici ad uno ad uno e li han vinti tutti. Il papa tentò di stringere una lega italica.
Concorrevano volentieri a questa alleanza le corti di Napoli e di Sardegna, la prima delle quali
s'incaricò d'invitarvi anche la repubblica veneta. Ma i «savi» di questa repubblica alle proposizioni
del residente napolitano risposero che nel senato veneto era giá quasi un secolo che non parlavasi di
alleanza, che si sarebbe proposta inutilmente; ma che, se mai la lega fosse stata stretta tra gli altri
principi, non era difficile che la repubblica vi accedesse. Ma, quando il gabinetto di Vienna ebbe
cognizione di tali trattative, vi si oppose acremente e mostrò con parole e con fatti che piú della
rivoluzione francese temeva l'unione italiana!
Allora si vide quanto lo stato politico degl'italiani fosse infelice, non solo perché divisi in tanti
piccoli Stati (ché pure la divisione non sarebbe stata il piú grave de' mali), ma perché da duecento
anni o conquistati o, quel che è peggio, protetti dagli stranieri, all'ombra del sistema generale di
Europa, senza aver guerra tra loro, senza temerne dagli esteri, tra la servitú e la protezione, avean
perduto ogni amor di patria ed ogni virtú militare. Noi, in questi ultimi tempi, non solo non abbiam
potuto rinnovar gli esempi antichi de' nostri avi antichissimi, i quali, riuniti, conquistarono tanta
parte dell'universo, ma neanche quei meno illustri dei tempi a noi piú vicini, quando, divisi tra noi,
ma indipendenti da tutto il rimanente dell'Europa, eravamo italiani, liberi ed armati.
Gli austriaci, rimasti soli, non poterono sostener l'impeto nemico: tutta la Lombardia fu
invasa, Mantova cadde, ed essi furono respinti fino al Tirolo. Bonaparte era giá poco lontano da
Vienna, l'Europa aspettava da momento a momento azioni piú strepitose; quando si vide la Francia
condiscendere ad una pace, colla quale essa acquistava il possesso della sinistra sponda del Reno e
dell'importante piazza di Magonza, e l'Austria riconosceva l'indipendenza della repubblica cisalpina,
in compenso della quale le si davano i domíni della repubblica veneta. Questa, col risolversi troppo
tardi alla guerra, altro non avea fatto che dare ai piú potenti un plausibile motivo di accelerare la sua
ruina.
Per qual forza di destino avrebbe potuto sussistere un governo, il quale da due secoli avea
distrutta ogni virtú ed ogni valor militare, che avea ristretto tutto lo Stato nella sola capitale, e
poscia avea concentrata la capitale in poche famiglie, le quali, sentendosi deboli a tanto impero, non
altra massima aveano che la gelosia, non altra sicurezza che la debolezza de' sudditi e, piú che ogni
nemico esterno, temer doveano la virtú de' propri sudditi? Non so che avverrá dell'Italia; ma il
compimento della profezia del segretario fiorentino, la distruzione di quella vecchia imbecille
oligarchia veneta, sará sempre per l'Italia un gran bene. Ed io che, tra i beni che posson ricevere i
popoli, il primo luogo do a quelli della mente, cioè al giudicar retto, onde vien poi l'oprar virtuoso e
nobile; io credo esser giá sommo vantaggio il veder tolto l'antico errore per cui i gentiluomini
veneziani godevan nelle menti del volgo fama di sapienti reggitori di Stato.
Il trattato di Campoformio era vantaggioso a tutt'e due le potenze contraenti. L'Austria, sopra
tutto, vi avea guadagnato massimo; e, se rimaneva ancora qualche altro oggetto a determinarsi, era
facile prevedere che a spese de' piú piccoli principi di Germania essa avrebbe guadagnato anche
dippiú. Ma era facile egualmente prevedere che l'Inghilterra, avendo sola tra gli alleati colla guerra
guadagnato e dovendo sola restituire, esser dovea lontana dai pensieri di pace.
Il governo che allora avea la Francia, checché molti credessero, avea, almen per poco,
rinunciato al progetto di democratizzazione universale, il quale, al modo come l'aveano i francesi
immaginato, era solo eseguibile in