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TITOLO: Saggio sopra la necessità di scrivere nella propria lingua
AUTORE: Francesco Algarotti
TRADUTTORE:
CURATORE: Ettore Bonora
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: Illuministi italiani
R. Ricciardi Editore
Collana: La Letteratura Italiana
Milano-Napoli, 1969
Comprende:
2: Opere di Francesco Algarotti
e di Saverio Bettinelli
a cura di Ettore Bonora
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 12 gennaio 2000
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Alessandro Levati, [email protected]
REVISIONE:
Edda Valsecchi, [email protected]
PUBBLICATO DA:
Alberto Barberi
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SAGGIO SOPRA LA NECESSITÀ DI SCRIVERE
NELLA PROPRIA LINGUA
Atque ego cum Graecos facerem natus mare citra
versiculos, vetuit me tali voce Quirinus.
Horat., Sat. X, Lib. I
_____
AL MOLTO REVERENDO PADRE SAVERIO BETTINELLI
DELLA COMPAGNIA DI GESÙ
Dovrebbe farmi levare in superbia il giudizio che ha recato V. R. di quella mia scrittura in
francese e darmi animo sopra tutto a vieppiù coltivare quel bello idioma, in cui Ella ha posto tanto
studio e pare che faccia le sue più care delizie. Se non che quanto sia difficile impresa il piacere a
così superbi giudici, come sono le sue orecchie o quelle de' Parigini, io l'ho provato abbastanza; ed
ho potuto conoscere il pericolo a che altri si mette scrivendo in una lingua non sua. Sopra di tal
materia ho distese alcune considerazioni che a lei trasmetto. Non già per distorla dallo scrivere in
francese o in qualunque altro idioma a lei più piacesse, ché dai pericoli non hanno da essere
ritenuti gli eroi, ma per eccitarla più che mai a nobilitare con le opere del suo ingegno questa
nostra lingua e a renderla sempre più degna dello studio degli stranieri.
Posdammo, 8 novemb. 1750.
_____
SAGGIO SOPRA LA NECESSITÀ DI SCRIVERE
NELLA PROPRIA LINGUA
Di non pochi vantaggi, parte fisici parte morali, vogliono i più dei dotti che, per quanto si
spetta alle umane lettere e singolarmente alla eloquenza e alla poesia, godessero gli antichi sopra di
noi. Donde si rende in buona parte ragione della eccellenza a cui da essi recate furono quelle facoltà.
Tra i quali vantaggi forse non è il meno considerabile quello, che dissipati non venivano, come noi,
in vari studi di differente natura, e sopra tutto che dietro ad altre lingue oltre alla propria non
ispendevano l'opera ed il tempo.
Appresso a' Greci una cosa era la lingua volgare e la dotta; non sapevano che dir si volesse una
morta favella che da fanciulli, quasi prima della materna si dovesse apprendere; e il dispregio in cui
tenevano tutte le nazioni che altra lingua usavano dalla greca era effetto, non è dubbio, del loro orgoglio, ma
era forse anche una delle principali cagioni del loro sapere. Invitati a legger poco potevano considerar
molto; e quel tempo che non erano obbligati a consumar dietro alle parole poteano collocarlo nelle cose, o
almeno darlo tutto a ben conoscere, a coltivare, ad abbellire la propria lingua, che è il fondamento primo
degli studi della eloquenza e della poesia.
Ai Romani convenne, egli è vero, se e' vollero sentire avanti nelle scienze e in ogni maniera di
lettere, apprendere la lingua dei Greci, i quali nel tempo che divennero soggetti di Roma ne divennero anche
i maestri. Ma per quanto avessero per le mani gli esemplari di quelli, e in quelli ponessero ogni loro studio,
di comporre in lingua greca non si piccavano punto, sdegnando di scrivere in altra lingua fuorché nella
propria; in quella lingua trionfale e sovrana che dal Campidoglio dettava leggi all'universo.
I moderni, all'incontro, si trovano costretti di apprendere le varie lingue in cui parlano e
scrivono nazioni che hanno tra loro comunione di trattati, di letteratura, di traffici, che non la
cedono l'una all'altra né per ingegno, né per imperio; ed hanno da studiare inoltre la lingua latina e la
greca, le quali sono come l'erario di ogni nostro sapere.
(
1
a)
Tanto da noi esige una certa necessità
1
(a)
"In early days, mankind had little else to study but a few maxims of life, or rules of conduct; which from their
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letteraria, dirò così, e politica, che risulta dalla presente constituzione del mondo.
Molte varietà hanno quindi da nascere, per quanto alle lettere si appartiene, tra gli antichi e
noi; e tra le altre che, dove quelli scrivevano soltanto nella propria lingua, alcuni de' nostri debbano
preferire di comporre in qualche forestiero linguaggio, come pur fanno, perché da esso loro riputato
più gentile o perché è più generalmente inteso del proprio. E coloro che si danno veramente agli
studi ed hanno tra noi il titolo di letterati, non degnano depositare i loro pensamenti che dentro al
sacrario delle lingue morte, le quali hanno il vanto, dicono essi, di essere intese in tutti i paesi, si
trovano fissate dall'autorità degli scrittori, non vanno più soggette a verun cambiamento, e sono in
certo modo divenute il linguaggio dell'universo e della eternità.
Per quanto speciose parer possano tali ragioni alla turba dei letterati, i quali si persuadono
agevolmente, scrivendo nelle lingue dotte, di salire in fama a paro degli antichi maestri e di levare nel
mondo una più gran vampa di ammirazione del proprio ingegno, sono pure in effetto i mal consigliati coloro
che si mettono a scrivere in altra lingua fuorché nella lor propria e nativa. Diversi sono appresso nazioni
diverse i pensamenti, i concetti, le fantasie; diversi i modi di apprendere le cose, di ordinarle, di esprimerle.
Onde il genio, o vogliam dire la forma di ciascun linguaggio, riesce specificamente diversa da tutti gli altri,
come quella che è il risultato della natura del clima, della qualità degli studi, della religione, del governo,
della estensione dei traffici, della grandezza dell'imperio, di ciò che constituisce il genio e l'indole di una
nazione. A segno che una dissimilitudine grandissima conviene che da tutto ciò ne ridondi tra popolo e
popolo, tra lingua e lingua; e i politici tengono per naturalmente nemici quei popoli che parlano lingue
diverse.
Gli orientali hanno un metaforeggiare, starei per dire, così caldo quanto è il cielo che sotto al
quale son nati. La lingua latina, ch'era nelle bocche d'un popolo di soldati, non è lingua così rotonda
e soave come la greca, ma è più ardimentosa e concisa. Orazio parago l'una al Falerno, vino
gagliardo ed austero; l'altra al vino di Scio, generoso insieme ed amabile.
(
b)
La nostra favella è
maneggevole, immaginosa, armonica; disinvolta e gentile la francese; così questa come quella
prende quasi l'impronta delle nazioni che in esse si esprimono. Gli Spagnuoli, signori di tanto
mondo, parlano un linguaggio tutto sostenutezza e gravità. Gl'inglesi hanno moltissime forme di
dire tolte dal commercio, dal bel mezzo delle scienze, e singolarmente dalla nautica tanto da essi
coltivata. E quella loro lingua egualmente libera, che coloro che in essa parlamentano, soffre meno
che qualunque altra la briglia dei fastidiosi grammatici.
Ora perché altri fosse atto a scrivere acconciamente in uno idioma non suo, converrebbe egli
fosse un altro Proteo, atto a vestire qualunque più strana forma dipendente da un governo, da un
clima, da un sistema di cose, nel quale non è altrimenti nato, e a svestire del tutto la propria sua e
natural forma, che vuol pur vincere ad ogni istante, per quanto un faccia, e mostrarsi al di fuori.
Come di cosa oltremodo singolare e mirabile si parla tuttavia di quel Greco il quale poteva cogli
Ateniesi gareggiare di finezza d'ingegno, di austerità di maniere cogli Spartani, e quasi scordarsi tra
gli Asiatici di esser nato in Europa, che sapeva divenir cittadino di ogni paese. Ennio per possedere
tre lingue diceva di avere tre cuori.
(
c)
Diis geniti potuere.
Non pochi belli ingegni francesi tentarono nel passato secolo di comporre nella nostra
lingua, quando le cose italiane erano di da' monti in tanta riputazione, che non era tenuto gentile
chi non sapeva delle nostre maniere, non dotto chi non avea gran dimestichezza co' nostri autori.
Venne fatto a quel tempo ad alcuni Francesi di raccozzare a forza d'imitazione un qualche
fewness and simplicity, it was easy both to learn and to practise. When Arts and Sciences began to spread through a
larger circle, as they did in Greece, still people could learn the whole Encyclopedia in their own language. And even at
Rome, when they set about studying Greek, as it was then a living language, spoken in a neighbouring country, they
could have a little more trouble in learning it, then we have in learning French. It was reserved for modern times to have
two or three dead languages to learn. So that during the greatest part of that time, in which the Ancients were teaching
their children to be Citizens we are teaching ours to be little better than Parrots". A New Estimate of Manners and
Principles, or a Comparison between ancient and modern Times, in the three great articles of Knowledge, Happiness,
and Virtue, part III.
(
b)
)... at sermo lingua concinnus utraque
suavior, ut Chio nota si commixta Falerni est.
Sat. X, Lib. I.
(
c)
"Q. Ennius tria corda habere sese dicebat, quod loqui Graece, et Osce, et Latine sciret". Aul. Gel., Noct. Att., Lib.
XVII, cap. XVII.
componimento che aveva assai di sembianza e anche di genio italiano. Tali sono tra parecchi altri
esempi che addurre se ne potrebbono, le vite di Lionardo da Vinci e di Leonbatista Alberti scritte da
Raffaello Dufresne, e alcune cose singolarmente del Menagio.
(
d)
Pochi de' nostri uomini furono nella
nostra lingua più dotti di lui. Ma a niun Francese meglio riuscì di scrivere in italiano quanto
all'abate Regnier, il quale all'Accademia della Crusca seppe ordire quell'illustre suo inganno
contrafacendo una canzone come se fosse del Petrarca, ed arricchì la Toscana di una versione di
Anacreonte, che sopra quelle medesimamente de' Toscani meritò palma e corona. Se non che, a
parlar giustamente, fu il Regnier nella poesia come il Pussino nella pittura, uomo francese e autore
italiano: tanto è lo studio ch'egli pose ne' nostri scrittori, oltre a quel molto ch'egli poté apprendere
nella dimora ch'e' fece tra noi.
E in ogni modo egli è molto meno difficile a scrivere come si conviene in una lingua non sua
ma vivente, che in una che si rimane solamente dipinta in sulle morte carte de' libri. Perché in fine
né i principi del pensare, né gli studi sono tra le varie nazioni di Europa così differenti,sono così
diseguali gl'imperi, che tra esse non vi abbia molta proporzione ed analogia. Oltreché di un
grandissimo aiuto ti può essere la viva voce di coloro che pur parlano quella lingua in cui tu ti
proponi di scrivere.
Dove altrimenti va la faccenda in una lingua morta. E pigliando in esempio la latina, in cui si
suole dai dotti più comunemente scrivere, la educazione dei Romani avea per fondamento principi
di religione, instituzioni, studi, costumanze e modi in tutto diversi da' nostri. Donde nascevano
espressioni ad essi modi corrispondenti e per niente adattabili alle nostre istituzioni ed usanze.
Litare Diis manibus, come disse il Bembo, per celebrare la messa dei morti, interdicere aqua et igni
per fulminar la scomunica, Collegium augurum per il Concistoro dei cardinali, sono
sconvenevolezze tali, che maggior non sarebbe il mettere indosso a uno de' nostri dottori la toga
romana, il voler porre su' nostri altari la statua di Venere anadiomene o di Marte vendicatore.
Non mihi mille placent, non sum desultor Amoris,
(
e)
spectatum satis et donatum iam rude quaeris,
Maecenas, iterum antiquo me includere ludo,
(
f)
erano immagini vivissime appresso ai Romani per dire che uno non fa il zerbino in amore, che
l'altro dopo un lungo servigio domanda il riposo. Appresso di noi, che non siamo soliti assistere allo
spettacolo de' gladiatori e abbiam perduto l'arte dell'antica cavallerizza, non sono intese che per via
di comento; sarebbono immagini disconvenienti, se da un moderno poeta si usassero, da fare
almeno sulla nostra fantasia così poca impressione, che farieno a un Samoiedo o a un Lappone quei
versi del nostro poeta:
E quale annunziatrice degli albori
l'aura di maggio movesi ed olezza
tutta impregnata dall'erba e da' fiori.
Dalla grandezza similmente del romano imperio, di tanto superiore in potenza agli imperi
del tempo presente, nascevano maniere di esprimersi elevate e grandiose, che male si confanno con
(
d)
Assai grazioso tra gli altri è quel suo madrigale:
O strana sorte e ria!
E chi lo crederia?
A te pur sola dissi,
a te pur sola scrissi
l'amoroso mio affanno;
a tutt'altri 'l celai:
e pur tutti lo sanno,
tu sola non lo sai.
(
e)
Ovid., Amorum Eleg., III, Lib. I.
(
f)
Horat., Epist. I, Lib. I.
le cose di oggidì. Doveano quelle maniere corrispondere a' concetti di una gente che vedea i loro
propri concittadini avere per clienti dei re, che gli vedeva far costruire dodici mila sale per
banchettare il popolo, trionfare ad un tempo delle tre parti del mondo; intantoché fu detto da un
bello ingegno che quando leggeva le cose de' Romani, gli era avviso che un passerotto leggesse la
storia delle aquile. Qual nuova disconvenevolezza adunque il vedere i fatti de' Pieri, de' Giovanni e
de' Mattei descritti con le frasi di Tito Livio e di Giulio Cesare, udire un pedante arringare i suoi
ragazzi con quella gravità che un consolo parlava in Senato, voler suggellare le moderne imprese
col Regna adsignata, coll'Orbis Restitutori, col Pace terra marique parta Ianum clusit, e con altre
simili antiche leggende, adattare alla picciolezza delle cose nostre la maestà del linguaggio di quel
popolo re?
Ma diamo che tale e tanta sia la discrezione di giudizio in chi compone, ch'egli venga a
schivare lo inconveniente della magniloquenza, che è quasi connaturale ai latini scrittori, dov'è colui
che possa sedere a scranna e farsi a decidere della Crusca latina? Sicché non ci rimanga scrupolo
alcuno di aver usato il termine naturale e proprio; che è pur nello scrivere la importantissima cosa di
tutte, onde nella mente dell'uditore si viene ad eccitare quella precisa idea che conviene, e non altra,
ed equivale alla intonazione perfetta, al toccar giusto nella musica. A ciò fare ci vogliono altri
maestri che i semplici libri. E il più delle volte la moltitudine è una miglior guida, che esser nol
possono gli scrittori. Il Satirico francese, volendo dimostrare e mordere a un tratto la presunzione di
coloro che si piccavano in Francia di scrivere latinamente, introduce in certo suo dialogo Orazio a
parlare la lingua francese, da esso lui appresa nell'ozio degli Elisi per via della lettura degli scrittori
e de' migliori libri che ne dieno le regole. Con tutto il suo ingegno e il suo studio commette in
parlando di non piccioli errori; per esempio si serve della parola cité, dicendo la cité de Rome, dove
conviene dire la ville de Rome; dice le pont nouveau, e va detto le pont neuf; e cade in simili altri
barbarismi, dando di che ridere a un Francese col quale s'intrattiene. Si mette costui a correggerlo;
Orazio a difendersi. Replica il Francese, e a tutte le autorità addotte in suo favore dal poeta latino
egli va contrapponendo le leggi sovrane dell'uso corrente, che è il vero padron delle lingue,
quem penes arbitrium est, et ius, et norma loquendi.
E Orazio, sconfitto dalle sue proprie armi, ammutolisce, e colle trombe nel sacco se ne torna
a raggiungere i suoi compagni nella beatitudine dell'Eliso.
Ma senza andar dietro agli apologhi e alle finzioni, di tale verità ne siamo testimoni noi
medesimi in Italia. E non si vede egli bene spesso le scritture di quei nostri italiani i quali, senza
voler badare a quella favella che è nelle bocche degli uomini, hanno volti unicamente i loro studi a
imitare gli antichi autori di nostra lingua, sono piene di affettazione, di parole insolite e diciamo
anche d'improprietà, sono alle persone di gusto uno isfinimento di cuore? E già credettero dover
fare, per bene scrivere in italiano, qualche dimora in Firenze l'Ariosto, il Caro, il Chiabrera, il
Guarino, il Castiglione e il Bembo, tuttoché nati e cresciuti nel bel mezzo d'Italia.
Al pericolo di non usare scrivendo per latino le voci proprie, si aggiunge anche quello non
punto minore, che nello stile che nasce dall'insieme di esse non vi abbia naturalezza, unità. Dal
dover noi raccogliere le parole di pochi e morti scrittori quasi gocciole dalle grondaie, dice il
Davanzati, tutti differenti di genere e di stile, e non potere attingere al perenne fonte della città, ne
viene in conseguenza che si va riducendo insieme un componimento di frasi latine bensì, ma che
non è per niente latino. Unus et alter assuitur pannus; e il risultato non può essere altro che uno stile
rotto, stentato e non di vena. Onde de' latinanti della età sua ebbe a dire ne' giudiziosi suoi capricci
quel bell'umore del Gelli: "Facciano quanto fanno; e' non si vede mai ne' loro scritti quel candore,
né quello stile che è ne' Latini propri".
Nello stato presente della lingua latina ristretta, come abbiam detto, in picciol numero di
autori, non basterebbe già ella a' Romani stessi per esprimere tutti i loro concetti: e molto meno
dovrà bastare a noi, i quali dovremmo in essa esprimere tante nuove cose apparite nel mondo, per
quanto si spetta alle arti, alle scienze, ai traffici, ai governi, alle religioni, dopo che è spenta quella
lingua. Né lecito è a noi, essendo ella pur morta, il pensare di potervi aggiugnere nulla di nuovo. Le
lingue nascono povere, dice Bernardo Tasso
(
g)
; e siccome i principi fanno agli uomini le donazioni e
(
g)
Lettere di Bernardo Tasso al Caro, vol. I, ediz. Com., lettera I del primo volume.
i privilegi degli onori e degli stati, così la liberalità degli ingegni di alto sapere forniti e di purgato
giudizio fanno le donazioni e i privilegi alle lingue delle parole, delle locuzioni, delle figure e degli
altri ornamenti del dire; e con la loro autorità li confermano per tutti i secoli. In tal maniera quel
chiaro ingegno incoraggisce il Caro a voler ampliare, arricchire la nostra lingua, ad aggiugnervi
nuovi modi di dire e nuove bellezze. La qual cosa non avrebbe già egli fatto, se trattato si fosse della
lingua latina. Noi non abbiamo sopra di essa, che punto a noi non si appartiene, ragione alcuna
diritto. In essa, come in ogni altra lingua morta, conviene esaminare quali sieno le donazioni e i
privilegi, che già le furono conceduti dalla munificenza degli antichi: a quelle donazioni e a quei
privilegi unicamente bisogna stare, senza che vi sia luogo alla liberalità dei moderni. E qualunque
cosa vorremmo noi aggiugnere alle vecchie pergamene, sarebbe rigettato a ragione come
interpolato, falso ed apocrifo.
Finalmente, per quanto grandi sieno le difficoltà che incontrano coloro i quali si danno a
scrivere in prosa latina, maggiori ancora sono quelle che s'incontrano nei versi. E ciò perché ivi si
ricercano modi di dire di somma gagliardia o di somma dilicatezza, e in ogni cosa il fiore ultimo
della espressione. Il che non si può ottenere se non hai come schierata dinanzi alla mente la
suppellettile tutta e il tesoro delle parole, delle locuzioni e delle metafore della lingua in cui tu
scrivi. Anzi non basta quello che dagli altri fu detto: è necessario formarsi talvolta come una nuova
lingua; perché la espressione penetrando addentro nell'animo non sia, come altri disse,
(
h)
superficiale, perché si dia sfogo a quell'estro che ha invaso ed agita il poeta. Le quali cose pur
sappiamo aver fatte i poeti latini non già in tempo che povera esser trovavasi la romana favella, ma
quando sotto al dominio di Augusto pervenuta era al colmo della ricchezza. Per vie maggiormente
animare i loro concetti hanno inventato di nuove parole, per dare alla espressione più vivacità e più
mossa sonosi serviti di ellenismi come di più pronti atteggiamenti, e brillano a ogni verso metafore
da esso loro formate quasi nuovi lampi d'ingegno. Ma qual cosa potranno fare coloro che si danno a
poetare in una lingua ristretta dentro a' confini che vi han posto gli antichi scrittori, che maneggiare
non posson a lor talento, dove non è loro permesso niuno ardire, anzi hanno da temere del continuo
di non mettere piede in fallo e si trovano esser sempre tra il Calepino e la grammatica, quasi direi tra
l'ancudine e il martello? Sarà pur loro forza rintuzzare il proprio entusiasmo, porre i piedi nelle
pedate altrui, accrescere la greggia degl'imitatori.
La moderna schiera in effetto de' poeti latini, quelli eziandio che hanno il maggior grido tra
noi, non meritano forse altro titolo che quello di centonisti, facendo soltanto bella comparsa quando
si mostrano rivestiti delle spoglie o delle divise altrui. Assai facilmente le riconosce chiunque è
versato nella latina poesia. Anzi bene spesso si può accorgere come le espressioni che negli antichi
autori trovansi belle e fatte, guidano esse e formano il sentimento del poeta, in luogo che i
pensamenti si tirino dietro le espressioni. E tale autore che in lingua italiana è poeta casto e
platonico, diviene licenzioso ed epicureo in lingua latina, trattovi come a forza dalle frasi di Catullo
e di Ovidio, suoi maestri e suoi duci.
Che se pure vogliono alcuni esprimere le particolari loro impressioni, rappresentar
nettamente le modificazioni del loro animo, troppo male ne riescono. Assecondare il proprio
naturale, trovare modi di dire che sieno il nostro caso in una lingua da tanti secoli morta, è
impossibile. Perc avendo, come si è detto, per tante cause variato le cose, non vi possono più
rispondere le espressioni. E così, dovendo noi accomodare le immagini ai colori e non i colori alle
immagini, ogni cosa riesce languido e fosco.
Guai al divino Ariosto se dava orecchio al Bembo, il quale lo consigliava di lasciar da banda
le muse italiane e darsi tutto in braccio a quelle del Lazio. Né già lo stile di Dante sarebbe così vivo,
che si trasforma nelle cose medesime, s'egli avesse disteso il suo poema in latino. E ben si potrebbe
dire di lui
che la dritta via era smarrita,
quando egli avesse proseguito giusta quel suo principio:
Infera regna canam supero contermina mundo.
(
h)
Essays de Montaigne, Liv. III, chap. V.
Che se a cagione del poema latino dell'Affrica fu coronato il Petrarca in Campidoglio,
conviene considerare che ciò avvenne in tempi che il raccozzare pochi versi in quella lingua era
tenuto a miracolo; e la verità si è che il Petrarca non per altro è famoso, letto e studiato, che per le
sue rime volgari.
Degna adunque di somma lode, per quanto in favore della lingua latina vadano predicando
gli Aldi, i Romoli Amasei ed altri simili invasati nell'antichità, è la usanza che si va di in
facendo più comune, che ogni scrittore, là dove specialmente gioca la fantasia, scriva nel materno
suo linguaggio. In esso solamente gli è conceduto di esercitare tutte le sue forze, di spiegarle con
franchezza e disinvoltura; come a quel soldato che non si serve della corazza e de' braccialetti altrui,
ma ha l'armatura fatta al suo dosso. In tal modo solamente potrà nutrire fondata speranza di emulare
quei Greci e quei Latini che scrissero essi pure nel proprio loro linguaggio, in quello cioè che si
affaceva unicamente a' loro modi di sentire, di apprendere, di pensare; e potrà con ragione
appropriarsi di quelle memorabili parole di Dante,
... I' mi son un che quando
Natura spira, noto et a quel modo
che detta dentro, vo significando;
che è il solo mezzo di giugnere alle altezze più sublimi dell'arte.
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