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TITOLO: L'idioma gentile
AUTORE: De Amicis, Edmondo
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: L'idioma gentile
di Edmondo De Amicis
Fratelli Treves editori
Milano, 1905
CODICE ISBN: mancante
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 6 dicembre 2002
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Vittorio Volpi, [email protected]
REVISIONE:
Ruggero Volpes, [email protected]
PUBBLICATO DA:
Claudio Paganelli, [email protected]
Stefania Ronci, [email protected]
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EDMONDO DE AMICIS
L’IDIOMA GENTILE
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1905
[1]
PARTE PRIMA.
[2 bianca]
[3]
LA LINGUA DELLA PATRIA.
A un giovinetto.
Tu ami la lingua del tuo paese, non è vero? L’amiamo tutti. È inseparabilmente congiunto l’amore
della nostra lingua col sentimento d’ammirazione e di gratitudine che ci lega ai nostri padri per il
tesoro immenso di sapienza e di bellezza ch’essi diedero per mezzo di lei alla famiglia umana, e che
è la gloria dell’Italia, l’onore del nostro nome nel mondo. L’amiamo perchè l’hanno formata,
lavorata, arricchita, trasmessa a noi come un’eredità sacra milioni e milioni d’esseri del nostro
sangue, dei quali, per secoli, ella espresse il pensiero, e le sue sorti furon le sorti d’Italia, la sua vita
la nostra storia, il suo regno la nostra grandezza. L’amiamo perchè la parola sua ci scaturisce d’in
fondo all’anima insieme con ogni nostro sentimento, si confonde con le nostre idee fin dalle loro
sorgenti più intime, e non è soltanto forma, suono, colore, ma sostanza del nostro pensiero.
L’amiamo perchè è la nostra nutrice [4] intellettuale, il respiro della mente e dell’animo nostro,
l’espressione di quanto è più intimamente proprio della nostra indole nazionale, l’immagine più
viva e più fedele e quasi la natura medesima della nostra razza. L’amiamo perchè è il vincolo più
saldo della nostra unità di popolo, l’eco del nostro passato, la voce del nostro avvenire, verbo non
solo, ma essenza dell’anima della patria.
*
E anche l’amiamo perchè è bellissima, ricchissima, potentissima, varia tanto, come disse uno dei
più grandi cultori suoi, da parere, più che un idioma, un aggregato d’idiomi; capace di prendere
infinite forme e sembianze, stupendamente pieghevole a tutti gli stili, unica nell’attitudine a
riportare la nobil dello stile latino e del greco, insuperata nell’abbondanza del vocabolario e nella
vivezza del colorito comico, maravigliosa “per l’immensa facoltà delle metafore e per la fecondità
della sua natura sempre propria a produrre nuovi modi„ onde “è tutta coperta di germogli„ come una
terra fertilissima in perpetua primavera; fresca ancora nella maggior parte dei suoi fiori e delle sue
fronde di sette secoli, e armoniosa come nessun’altra al mondo. “Lodata e ammirata dagli stranieri,
e anche invidiata„; ma noi più l’amiamo per quella bellezza che soltanto a noi si palesa. Le sue
parole hanno per noi un suono che è come un secondo significato nascosto, sfuggente a ogni
espressione; la sua armonia ci risveglia infiniti ricordi di sensazioni, di luoghi e di forme umane, di
voci e d’accenti conosciuti e cari di viventi e di morti, [5] e pensieri e immagini e versi di maestri
immortali, diventati nostro spirito e nostro sangue; essa è per noi la musica dell’affetto, del dolore,
della gioia, dell’amor di patria, piena di forze e di dolcezze misteriose, che non salgono fino alle
nostre labbra, ma vibrano e germinano nel più profondo dell’anima nostra, come virtù secrete della
nostra natura. Anche per questo, perchè è voce del nostro cuore e lume della nostra coscienza,
l’amiamo.
*
ads:
Ma che vale amar la propria lingua se non si studia? Non solo; ma chi non la studia, e quindi la sa
poco e male, quasi come una lingua straniera, la può amar veramente? E c’è bisogno di dimostrare
che, non soltanto per amore, ma per interesse nostro, per necessità la dobbiamo studiare? Pensa un
poco. In qualunque parte d’Italia tu sia nato, nella lingua, non nel dialetto, quando piglierai in mano
la penna, dovrai sempre esprimere i tuoi pensieri e i tuoi sentimenti, e mille volte anche di viva
voce. Mille volte, scrivendo e parlando, dovrai manifestare italianamente, con la maggior efficacia
possibile, desidèri e bisogni tuoi, trattare i tuoi interessi, movere l’affetto e la volontà altrui,
raccontare, argomentare, pregare, giustificarti, difenderti; e se la lingua non conoscerai bene, ti sarà
sempre una pena e una vergogna il non poter dire come vorrai quello che avrai da dire, il trovarti
come a maneggiare uno strumento che ti sfugga dalle mani, il sentire che dei tuoi sentimenti più
profondi e più gentili e dei tuoi [6] pensieri e delle tue ragioni migliori una gran parte andrà perduta
per gli altri nell’espressione rozza, manchevole, priva d’evidenza e di forza. Quello che hai inteso
dire: che molti non riescono a farsi strada nel mondo per mancanza di facoltà comunicativa, non è
vero soltanto per coloro che mancano di naturale eloquenza; ma anche per quei moltissimi che,
eloquenti nel proprio dialetto, sono invece nel parlar la lingua, non conoscendola, incerti, confusi,
diffidenti di sè, inceppati continuamente dal timore e dalla coscienza di parlar male. Quante volte
nella vita dipende un grave danno o un grande vantaggio nostro da un nostro pensiero o sentimento
espresso in un modo infelice, onde non è inteso o è franteso, o significato invece in una forma che
svela tutto l’animo e va dritta alla mente e al cuore della persona a cui è diretta! Quante cognizioni,
quante idee rimangono in molte menti, per sempre, come materia informe e senza valore, perchè
manca a chi le possiede il possesso della lingua per comunicarle alla mente altrui? Si dice che
l’uomo vale per quello che sa; ma vale anche in gran parte per come sa dire quello che sa. Più che
per il passato, ora che son sempre più frequenti per tutti il bisogno e le occasioni di comunicare ad
altri le proprie idee, scrivendo per la stampa, parlando in pubblico, partecipando in diversi modi alla
trattazione d’interessi comuni, la conoscenza della lingua è necessaria. Non è soltanto un ornamento
intellettuale: è arma nella lotta per la vita, è forza e libertà dello spirito, è chiave dei cuori e delle
coscienze altrui, è strumento di lavoro e di fortuna.
[7]
*
E dobbiamo studiar la lingua anche per dovere di cittadini. Le lingue si trasformano col tempo,
come ogni cosa si trasforma: acquistano nuove voci e locuzioni, come gli alberi mettono nuove
foglie; ne pèrdono; di molte che esse conservano, il significato si muta; si mutano le lingue nella
sostanza e nella struttura: è effetto d’una legge naturale. Ma con la trasformazione naturale e
inevitabile della lingua non si deve confondere la corruzione, la quale consiste nell’introdurvi, come
si fa dai più, parole e frasi barbare e non necessarie, idiotismi oziosi, modi dell’uso spurio, forme
che ripugnano all’indole sua. Ora, da questa corruzione è dovere d’ogni cittadino colto preservare la
lingua della patria, perchè, come ciascuno fa la parte sua, sia pure minima, nella grande opera
collettiva, da cui la lingua resulta, così concorre ciascuno a corromperla, sia pure in parte
infinitesima, parlando e scrivendo male. Non è dovere soltanto degli scrittori, è di tutti; perchè dove
tutti maltrattano e guastan la lingua, finiscono anche gli scrittori con essere travolti dall’universale
barbarie. Nel grande commercio nazionale della lingua è onestà il non mettere in giro monete false.
È vergogna per un italiano colto l’esprimere barbaramente pensieri e sentimenti che scrittori insigni
di trenta generazioni espressero in forme italiane pure e ammirabili. È irragionevole il vantarsi
d’amare il proprio paese quando si concorre a imbastardirne il linguaggio, considerandolo come un
campo che a tutti sia lecito di calpestare e [8] lordare. Per la ragione stessa che rispettiamo e
custodiamo gelosamente la ricchezza infinita d’opere d’arte, che i nostri padri ci lasciarono,
dobbiamo rispettare e custodire il patrimonio della lingua, che essi trasmisero e affidarono a noi
come una tradizione gloriosa, e che da noi si ha da tramandare ai nostri figli, intatto e immaculato
quanto lo consentano la legge del tempo e la forza delle cose. Per amor di patria, dunque, per
sentimento di dignità nazionale e d’onestà cittadina, per nostro interesse individuale e per vantaggio
di tutti, noi dobbiamo studiare la nostra lingua, quanto ci è possibile, in qualunque classe sociale ci
abbia posto la fortuna, qualunque sia il nostro ufficio nella società e la natura dei nostri studi
professionali, in qualunque parte d’Italia siam nati o destinati a vivere; dobbiamo studiarla perchè
sono una cosa patria e lingua, pensiero e parola, parola e vita.
*
Ebbene, io scrivo con lo scopo unico di farti prendere amore a questo studio, provandoti che non è
punto uno studio arido e noioso, come lo credono i più; ma che si può fare con lo stesso diletto col
quale si studia la pittura e la musica da chi non vi cerca altro che il diletto. Tu hai già compreso: non
scrivo un trattato; non scenderò a disquisizioni grammaticali minute, salirò a quistioni alte di
filologia, chè non sarebbe affar mio, e non gioverebbe al mio scopo: tratterò la materia
semplicemente e praticamente, nella forma che mi pare convenga meglio all’età tua. E scrivo non
soltanto per [9] te; ma anche per quella molta gente d’ogni ee condizione, che potrebbe studiar la
lingua con piacere e con vantaggio, pure senza il sussidio utilissimo della conoscenza del latino,
d’altra preparazione letteraria, e che ci si metterebbe volentieri, se non la trattenesse il pregiudizio
comune che v’occorra uno sforzo enorme della volontà e una pazienza infinita, come per lo studio
d’una scienza astrusa. Per questo, strada facendo, mi staccherò da te qualche volta, per rivolgermi
ad altri; ma tu mi potrai venire accanto anche allora, perchè non mi scorderò mai che m’ascolti.
Faremo insieme un viaggio d’istruzione, e farò il possibile perchè riesca pure un viaggio di piacere.
Può darsi che in qualche punto tu t’annoi; ma spesso ti soffermerai a pensare, e di tanto in tanto
sorriderai, e ti farai buon sangue. Non sono un maestro: sono una guida. Alla dottrina che mi manca
supplirò in qualche modo con la dottrina degli altri. Non imparerai gran cosa da me lungo il viaggio;
ma moltissimo poi da te stesso, e con l’aiuto altrui, se io riuscirò, come spero, a trasfondere
nell’animo tuo un poco del vivo amore e dell’allegra fede con cui mi metto al lavoro.
A QUELLI CHE NON VORREBBERO LEGGERE.
Vedo parecchi lettori, che dopo avere scorso la prefazione, fanno l’atto di chiudere il libro.
Un momento, signori.
Chiedo il permesso di rivolgere poche parole a ciascun di loro.
Poi ritornerò a te, giovinetto.
A chi dice che la lingua si sa.
– Che bisogno c’è di studiar la lingua? La lingua si sa!
È un’opinione di molti. Ella la saprà meglio di molti altri, non ne dubito; ma si lasci dire che, se
non l’ha studiata, non la può sapere, non solo come dovrebbe, ma neppure quanto i suoi bisogni
richiedono. Ella possiede un materiale di lingua che non è la terza parte di quello che le sarebbe
necessario per parlar bene, un piccolo corredo di vocaboli e di frasi, che le servono a dire
impropriamente e a un di presso una grande quantità di cose, ciascuna delle quali può esser detta
con una parola o una frase [11] propria, che dice per l’appunto quella cosa sola. Nel parlare come
nello scrivere, a ogni tratto, ella gira intorno al proprio pensiero, non lo esprime che a mezzo, ed è
costretta ad aggiungere e a correggere per compiere e chiarire l’espressione che non le riuscì
compiuta e chiara alla prima. E, confessi la verità: molte cose ella non le dice per non mettersi in un
impaccio. Vuol vedere che io le nomino subito venti, trenta oggetti, operazioni, qualità o particolari
d’oggetti, che a tutti occorre di rammentare quasi ogni giorno, e che ella designa sempre con una
perifrasi o con una parola sbagliata? Vuol che le dica lì per una filza di modi della lingua viva,
usatissimi in tutta l’Italia, e che non hanno sinonimi, ma che lei non ha mai usati e che le
riuscirebbero nuovi come modi d’un’altra lingua? Ella conosce il francese? Non molto. Vuole
scommettere che se mi racconta in italiano l’aneddoto più semplice, io, che non sono un linguista nè
un pedante, ci trovo altrettante improprietà quante ce ne troverebbe un francese s’ella gli
raccontasse l’aneddoto in francese? E mi sostiene che la lingua si sa? Capisco come non si sappia
d’ignorare le cose che non si sa che esistano. Ma ella somiglia a chi credesse di saper la botanica
perchè conosce i legumi che gli portano in tavola e i nomi dei fiori che coltiva sul terrazzino.
A chi dice: – Che cosa importa?
– È uno studio di parole, insomma; che cosa importano le parole?
Che cosa importano le parole? Questa è grossa, mi perdoni. È come dire: Che cosa [12] importa
parlare e scrivere con chiarezza e con efficacia? Che cosa importa l’usare, invece d’una parola o
d’una frase propria, un’altra parola o un’altra frase che, non esprimendo per l’appunto il nostro
pensiero, può farlo frantendere e costringerci perciò ad esprimerlo un’altra volta in un’altra maniera,
che può esser peggiore della prima? Che cosa importa, parlando e scrivendo, inciampare ogni
momento in una difficoltà, essere arrestati a ogni passo da un dubbio, lasciare a mezzo una frase per
cercare un vocabolo, doversi spiegare coi gesti come i bambini e gl’idioti, e qualche volta urtare,
non volendolo, e offendere una persona, non per altro che per non saper scegliere, nel farle
un’osservazione o un rimprovero o nel dirle una verità sgradita, la parola o la frase che
esprimerebbe lo stesso pensiero senza ferirla nell’amor proprio? Che cosa importano le parole? Ma
infiniti malintesi, risentimenti, diverbi dolorosi nascono di continuo fra gli uomini da una parola
usata a sproposito, non per mal animo, ma per pura ignoranza o mancanza di finezza nel sentimento
della lingua. Ma mille volte nella vita il primo giudizio che facciamo dell’ingegno, della cultura, del
grado d’educazione d’una persona, si fonda (e sia pure a torto sovente, chè questo cresce valore
all’argomento) sopra il suo modo di parlare, e anche su poche parole che le abbiamo udito dire,
sopra una sgrammaticatura, sopra un’espressione ridicola, sopra l’ignoranza d’una parola comune.
Ma ella stessa, signore, ella che dice che le parole non importano, quando le occorre di parlar la
prima volta con una persona che le ispira reverenza, e di cui le preme [13] d’acquistarsi la stima e la
simpatia, ella stessa, sempre, anche inconscientemente, s’ingegna di parlar meglio del solito,
scegliendo i vocaboli con cura e filando i periodi con garbo! O come si può dire: Che cosa
importano le parole?
A un uomo d’affari.
– Quanto a me, consentirà che non ho bisogno di studiar l’italiano. Sono un uomo d’affari!
Mi scusi. È forse il dialetto la lingua ufficiale degli affari? E in ogni modo, non pare a lei che un
uomo d’affari che ha studiato e parla e scrive correttamente e facilmente la lingua, valga, a parità
d’ingegno e d’esperienza, qualche cosa di più d’un altro, il quale la scriva come un barbaro e la
balbetti come un ragazzo? Ma gli uomini d’affari hanno soventissime volte da esporre, da
dimostrare, da discutere gl’interessi propri, con la penna o di viva voce, a quattr’occhi e in riunioni
private o pubbliche, in lingua italiana. Ma se c’è gente al mondo a cui sia utile, necessaria
nell’espressione del proprio pensiero la lucidità, la brevità, l’esattezza del linguaggio, son loro, che
hanno molte cose da dire e importanti e non facili, e le hanno da dire alla lesta, a gente che non ha
tempo da perdere; cose nelle quali il non farsi bene intendere produce ben più gravi inconvenienti
che nei discorsi ordinari. Ma gli uomini d’affari vivono pure fuor del giro dei propri interessi, fra
amici d’altre professioni, con signore, con artisti, con gente di varia cultura, in mezzo ai quali
portano il loro amor proprio, non solo d’uomini d’affari, ma d’uomini di mondo, l’ambizione di
contar [14] qualche cosa anche fuor delle faccende e dei numeri, il desiderio di farsi ascoltare, di
divertire, di piacere, e se non altro la cura di non far ridere parlando rozzamente e lasciandosi
scappare strafalcioni. E in fine, signor uomo d’affari, vale per lei, come per tutti, questa ragione: che
la lingua nazionale, in certe classi della società, si deve imparare non soltanto per sè, ma per i propri
figliuoli; i quali ad impararla, almeno fin che son piccoli, debbono essere aiutati dal padre e dalla
madre. Che figura farebbe un padre che dicesse al suo figliuolo: Caro mio, tu hai dieci anni; in
materia di lingua io non son più in grado d’insegnarti nulla perchè.... sono un uomo d’affari!
A chi non ci ha attitudine.
– Lo credo anch’io una buona cosa; ma allo studio della lingua non ci ho attitudine.
Oh bella! Che risponderebbe lei a chi le dicesse: Non son fatto bene, son di complessione
debole: per questo non faccio ginnastica? Ma il non aver attitudine allo studio della lingua è una
ragione di più per istudiarla. Chi non è dotato di buona memoria, e non ha facilità d’esprimersi,
un vivo sentimento naturale della lingua, deve e può supplire alla deficienza di queste qualità con lo
studio. Un’attitudine particolare ci vuole per diventare scrittore o linguista; ma per imparar la lingua
quanto lo richiedono il dovere, l’interesse e la dignità di qualunque cittadino colto, basta la volontà.
Ci si provi un poco. Ella non immagina quanto possa acquistare in materia di lingua anche chi [15]
non ci ha disposizione di natura, in un periodo di tempo anche breve, e senza far grande fatica. Mi
dirà: Non ci avendo disposizione, non ci ho amore, e senza questo non si riesce a nulla. Ma
l’amore viene a poco a poco, man mano che dello studio si riconoscono i profitti, come viene
all’erborizzatore esordiente, che, dopo aver classificato nella sua mente un certo numero di piante,
prosegue con più alacrità, per il piacere d’accrescere il suo patrimonio di cognizioni, e perchè il
lavoro gli riesce sempre più facile. Può ella affermare che se stèsse chiusa un mese fra quattro pareti
senz’altri libri che di lingua, non prenderebbe amore a questo studio quanto uno che ci avesse
disposizione? No, non è vero? E ci prenderebbe amore per il solo fatto che sarebbe costretta, per
cacciar la noia, a vincere la prima riluttanza, insistendo su quella materia col pensiero, come non ha
fatto mai. Provi dunque a insistervi col pensiero una volta, a fare una volta di proposito ciò che
farebbe in quel caso per forza, e vedrà che il difficile non sta che nel principiare. E poi: Non ci ho
attitudine! E come lo sa? La mente umana è piena di sorprese; certe attitudini vi stanno nascoste;
scavi un po’; anche nel cervello, chi cerca trova.
A chi non ci ha tempo.
– Ci ho pensato molte volte, mi ci metterei; ma ho altro da fare, mi manca il tempo.
Non le può mancare. Non c’è altra materia che si presti meglio a uno studio frammentario, fatto
nei ritagli di tempo libero, e anche nei momenti di riposo; a uno studio [16] somigliante a quelle
occupazioni fra intellettuali e meccaniche, a cui si dànno molti per isvago. Se non chiuderà il mio
libro alle prime pagine, vedrà che può studiare la lingua senza togliere un’ora alle sue faccende
quotidiane, anzi facendo servire queste a quello scopo, imparando qualche cosa a ogni proposito,
raccogliendo le cognizioni quasi senza far deviare il suo pensiero dall’andamento abituale. Ella mi
dirà: – Ma ho mille pensieri, mille cure; quando ci avrei tempo, non ci ho testa; per codesto studio ci
vuol l’animo tranquillo. Ma appunto, ella ci troverà quiete e sollievo, perchè non c’è altro studio
che giovi quanto questo a distrarci dalle passioni che ci turbano, che occupi e svaghi la mente, come
questo fa, con una serie continua di curiosità nascenti l’una dall’altra, contentando ad un tempo
l’animo con molte piccole conquiste quotidiane determinate, con infinite piccole compiacenze
prodotte dal continuo ripetersi delle occasioni in cui si può spendere quello che s’è guadagnato. E
non mi dica neppure che è uno studio per i giovani, ai quali è stimolo l’idea di ricavarne un
vantaggio per l’avvenire, non per gli uomini maturi, a cui quello stimolo manca. No; bisogna pure
che ci si trovi un piacere indipendente da ogni concetto d’utilità futura, poichè per tanti uomini,
anche non letterati e scrittori, è uno studio amoroso e costante, un conforto nella vecchiaia e nella
solitudine, l’ultima forma d’attività della loro mente, come è per altri lo studio della natura. Col
quale, infatti, ha questo di comune lo studio della lingua: che è infinitamente vario, e che i suoi
confini s’allontanano dinanzi a chi vi procede.
[17]
A chi dice che ci avrà tempo.
A lei, signorino, che mi dice: Ci avrò tempo! darei volentieri una tiratina d’orecchio. Se c’è
studio che un ragazzo non debba rimandare a poi, è questo della lingua. Non t’hai per male ch’io
paragoni la tua memoria a un foglio di carta asciugante? Vedi, quando questo è fresco e pulito,
come vi s’imprimono nette tutte le parole dello scritto su cui lo premi, e vedi poi, quando è un
pezzo che l’usi ed è già nero in gran parte, come le parole vi s’imprimono confuse, o non vi restano,
o se ne perde l’impressione in quella dello scritto che già lo ricopre. La tua bella età è quella in cui
la mente vergine e chiara è più atta ad appropriarsi il materiale della lingua, non soltanto per virtù
della memoria ancor fresca, ma anche perchè, essendo tu spettatore più che attore della vita, dalle
parole non ti distraggono ancora le cose così fortemente come faranno più tardi, quando avrai mille
cure, faccende e pensieri. Per questo tu hai inteso dire mille volte che i ragazzi imparano le lingue
più facilmente degli uomini. Via via che s’allargherà il campo e crescerà la difficoltà dei tuoi studi,
ti mancherà sempre più il tempo di dedicarti alla lingua e dovrai fare uno sforzo sempre maggiore
per impararla. E non pensare che sia uno studio puramente letterario, che a te, chiamato a questa o a
quella scienza, non possa giovare. È un errore madornale. Nel campo di qualunque scienza il
possesso della lingua, la facoltà di esprimersi con chiarezza e con proprietà è parte della scienza [18]
stessa. Vedi che differenza c’è nel profitto che fanno fare ai giovani gl’insegnanti che parlano bene
e quelli che parlano male. E non credere d’imparar la lingua con quel tanto che te ne insegnano: la
scuola non ti può che mettere sulla via d’impararla: al modo particolare che ha ciascun di noi di
sentire e di pensare, noi soli possiamo trovar la lingua che lo esprima. E poi, che logica è questa?
Dici che a studiar la lingua ci hai tempo, ossia, che è uno studio che non preme; ma d’ogni
sproposito o anche piccolo errore di lingua che sfugga a chi che sia, se tu lo avverti, ne fai un
carnevale. Non ti dar la zappa sui piedi, dunque; mettiti all’opera; per qualunque via tu abbia da fare
il tuo cammino nel mondo, benedirai le fatiche che avrai dedicate a questo studio nei tuoi primi
anni.
A un giovane d’ingegno.
Lo studio della lingua è per le teste piccole, che, non avendo idee, hanno bisogno d’imparar
parole....
Lo crede davvero? Veda come andiamo d’accordo. Io penso l’opposto. Credo che le teste piccole
abbian meno bisogno di studiar la lingua che le teste grandi, perchè, avendo poche idee, basta a loro
un ristretto materiale di lingua ad esprimerle; perchè, pensando meno profondamente e meno
sottilmente, non occorre loro grande efficacia e finezza di linguaggio per rendere il proprio pensiero.
Ma chi ha vero ingegno, se non sa la lingua bene, si trova tanto più impacciato a farsi valere quanto
ha più ingegno. Come non lo comprende? Non è verità evidente [19] che deve posseder la lingua
meglio degli altri chi ha idee originali e sentimenti vivi e delicati da esprimere, chi sa, intuisce e
ricorda molte cose, e in ogni cosa vede particolari che la maggior parte non vedono, chi dalla forza
del proprio ingegno e del proprio sentimento è portato più degli altri ad analizzare, ad argomentare,
a raccontare, a descrivere, e nel descrivere, a scolpire e a colorire le proprie immagini? E tanto più
se il suo ingegno è di quella natura particolare che si chiama spirito, inclinato a coglier delle cose il
lato ridicolo, e le relazioni riposte di affinità e di contrasto comico intercedenti fra di esse, e a
giocare coi significati diretti e traslati dei vocaboli, tanto più avrà bisogno di maneggiar con
destrezza la lingua, che appunto nel campo dello scherzo è ricchissima. Se si paragona la lingua al
danaro, si può dire che chi non ha ingegno è rispetto ad essa come un uomo quieto e assestato, senza
vanità e senza desidèri, che campa con pochi soldi, e chi ha molto ingegno è un uomo pien di vita e
d’ambizione, di raffinatezze aristocratiche e di voglie giovanili, che ha bisogno di spendere e di
spandere. Studi dunque la lingua anche lei, che è un gran signore intellettuale, per non ridursi poi a
campare come un pitocco.
A chi studia le lingue straniere.
Mi dice un giovinetto, con accento d’alterezza: Io studio le lingue straniere. Vuoi dire con
questo che ti preme più di saper le lingue straniere che la tua? Non me ne maraviglierei più che
tanto. C’è degli italiani [20] che, volendo fare un viaggio di piacere e d’istruzione, vanno prima a
Parigi che a Roma; ce n’è altri, i quali dicono sorridendo, con l’aria di darsi un vanto, che della più
parte dei propri pensieri s’affaccia loro alla mente l’espressione francese o inglese prima che
l’italiana; e conobbi anche un tale, che a un esame di geografia, dopo aver detto benissimo i confini
della Persia, mise Firenze a settentrione di Bologna. No? Tu non sei di quel numero? E tanto
meglio. Ma non sarai mai abbastanza persuaso di questa verità: che non si studia con amore, che
non s’impara bene nessuna lingua straniera, se non s’è prima studiato con amore e imparato bene la
propria; poichè, se imparare una lingua straniera non è altro che imparare a tradurre in questa i
nostri pensieri da quella che usualmente parliamo, come si può fare una buona traduzione d’un
cattivo testo? Come riuscire a dir con esattezza e con garbo in un’altra lingua quelle cose che non
sappiamo dire se non confusamente e senza garbo nella nostra? E in che maniera intendere e sentire
le qualità degli scrittori stranieri, se queste, in qualunque lingua, non s’intendono e non si sentono se
non paragonando le parole, le frasi, le forme a quelle che loro corrispondono nella lingua che ci è
famigliare? E ti seguirà anche questo: che mentre non imparerai che male altre lingue, ti si
corromperà e confonderà nella mente quel poco che sai della tua, perchè, essendo poco e mal fermo,
non reggerà il materiale straniero che gli verserai sopra, e ti troverai così ad aver acquistato varie
mezze lingue, senza possederne una intera; sarai come chi a un vestito tutto [21] buchi ne
sovrapponga un altro pieno di strappi, che riman mezzo nudo a ogni modo. Dammi retta: fatti prima
un buon vestito italiano.
A chi dice che basta leggere.
– La lingua – dicon molti – s’impara leggendo.
Lo crede davvero, signor mio? Ma se anche ella non legga che libri, dai quali la lingua si possa
imparare, le dico che ella vive in una grande illusione, salvo che li legga principalmente con quello
scopo, ossia badando più alla forma che alla sostanza; cosa ch’ella non fa, senza dubbio, o che può
far tanto meno quanto più la sostanza dei libri l’attrae e la diverte. Della ricchezza e della proprietà
della lingua, leggendo, ella sentirà qua e là, e complessivamente, l’effetto; ma provi, finita la lettura
d’un libro, a cercar quante parole e frasi le sian rimaste nella mente, in maniera da diventar sue, e da
venirle poi sulla bocca o alla penna nel parlare o nello scrivere, e vedrà che poco o nulla le sarà
rimasto. La memoria della lingua non si rafforza che con l’esercizio, e nella lettura essa non si
esercita. S’impara la lingua anche leggendo, ma leggendo pochi libri molte volte e attentamente,
non già molti una volta sola e di corsa, come dai più si suol fare; e l’avrà esperimentato ella pure
non scoprendo che alla terza o alla quarta lettura, in libri scritti bene, una quantità di bellezze di
lingua, d’effetti particolari che fanno certi vocaboli collocati in un certo punto, di ragioni profonde e
sottili per cui certe espressioni, e non cert’altre, furono usate. E se anche [22] leggendo soltanto per
ispasso, s’imparasse molta lingua, come si potrebbe imparare la nomenclatura d’innumerevoli cose,
di cui solo una parte minima, in un certo numero di libri, può ritrovarsi? Come apprendere la lingua
viva e famigliare che, fuor d’un certo genere di letteratura, manca nei libri quasi affatto? E come
acquistare l’agilità e la prontezza della mente che occorrono per maneggiare il materiale linguistico
e farlo servire con garbo al pensiero? Tenga per fermo che leggendo libri per vent’anni non
imparerà tanta lingua quanto studiandola di proposito un anno solo. Legga e rilegga senza studiare,
e verserà dell’acqua in un crivello.
A chi dice che s’impara la lingua dall’uso.
Qui sento un coro d’italiani settentrionali che esclamano: Studiare la lingua! Ma la lingua
s’impara dall’uso!
Da qual uso l’imparate voi, cari signori? In casa voi parlate quasi tutti e fuor di casa quasi sempre il
vostro dialetto, e quando non parlate questo, parlate e sentite parlare un italiano povero e scorretto,
pieno zeppo d’idiotismi e di francesismi. In materia di lingua s’usa fra noi non toscani, perchè
parliamo tutti male, una grande tolleranza reciproca, per effetto della quale nessuno studia di
correggersi, e ognuno sèguita per tutta la vita a ripetere gli stessi spropositi, senz’arricchire il
proprio linguaggio di dieci parole in un anno. Anche quei pochi che hanno studiato la lingua e che,
scrivendo, sono corretti e sfoggiano una certa ricchezza di vocaboli e di frasi, quando parlano,
parlano poco meno [23] scorrettamente e poveramente degli altri, appunto perchè della lingua non
hanno l’uso, perchè delle frasi e dei vocaboli, che cercano e trovano nello scrivere, non vien loro
alla bocca, non avendoli essi famigliari, che una minima parte. Come si può dunque imparare la
buona lingua da un uso cattivo? Come imparare centinaia e centinaia di voci e locuzioni che intorno
a noi nessuno dice mai? V’è mai occorso di sentir degli stranieri che credono d’aver imparato
l’italiano dall’uso in dieci anni di soggiorno in una città dell’Alta Italia? V’avranno fatto scappare.
Dall’uso, fra noi, si può imparare a parlar con scioltezza; ma con proprietà, con varietà, con
colorito, con grazia! Corbellerie. Perdonatemi: m’è scappata dalla penna.
A una signorina.
O signorina, anche lei? Ma come? Metterà tanta cura ad abbigliare la sua graziosa persona e non ne
vorrà metter punto a vestire i suoi pensieri? Porrà tanto studio a camminare con grazia e nessun
impegno a parlar con garbo? Cercherà con tant’arte di modular dolcemente la sua voce e non le
importerà di pronunziare con dolcezza parole spurie e frasi barbare? E le parrà che non abbia a
studiar la lingua la donna, che per ragione di natura e per gli uffici a cui è destinata, di madre, di
consigliera, d’educatrice, di consolatrice della famiglia, avrà tanti sentimenti amorosi e pensieri
gentili da esprimere, tante cose da dire, delle più difficili a dire e a sentire, e che può e sa dire essa
sola, e che da lei sola si vogliono udire! E [24] come farà, se non avrà studiato la sua lingua, a
compiere con la voce e con la penna questi uffici, per i quali occorre conoscer della lingua tutte le
grazie e le sfumature, possedere tutte quelle parole e locuzioni proprie, morbide, agili, sottili, che
entrano quasi inavvertite nella coscienza e nel cuore, persuadono e commovono, accarezzano e
consolano? Non è uno studio per la donna? Ma direi che è il primo studio che ella ha da fare, poichè
la madre è la prima maestra dei suoi figliuoli, e perchè in ogni società colta sono, e non possono
esser che le donne quelle che insegnano ed impongono nella conversazione la dignità del
linguaggio, la finezza dello scherzo, l’urbanità della contraddizione. E come si può far questo non
conoscendo la lingua? Ah, ella scuote il capo, con un sorrisetto: ho capito. È bella, ed ha vanità
femminea, non ambizione letteraria, e pensa che un viso come il suo basterà, senza il sussidio del
vocabolario e della grammatica, ad attirarle da per tutto l’ammirazione e l’ossequio. Ma s’inganna,
signorina. Se sapesse che peggior effetto fa una parola brutta sur una bocca bella, e com’è più
ridicola la sgrammaticatura detta con un sorriso vanitoso! E se sentisse con che barbara
compiacenza le belle amiche commentano e portano in giro il piccolo sproposito dell’amica bella!
Andiamo, mi confessi che ha torto, e mi conforti anche lei, almeno per un tratto di strada, della sua
cara compagnia.
LA LINGUA E L’AMOR PROPRIO.
Ritorno a te, giovinetto.
Hai visto che cosa s’ha da rispondere a chi dice: Che importano le parole? A quella risposta
debbo fare un’aggiunta, che ti persuaderà anche meglio della necessità di studiare la lingua.
In tutti i paesi del mondo sono argomento di ridicolo gli errori di lingua. Non è qui il caso di cercare
da quale intima sorgente della ragione e del sentimento questo ridicolo nasca. Si ride degli errori dei
bambini, piacevolmente, perchè nei bambini è naturale l’errore; si ride degli errori della gente del
popolo, con un senso di compatimento, perchè derivano da un’ignoranza scusabile; si ride degli
spropositi di chi appartiene alle classi colte, facendone le beffe, perchè sono effetto d’un’ignoranza
colpevole. E avrai osservato che si ride involontariamente, spesso a nostro malgrado, anche degli
errori delle persone che amiamo e rispettiamo. È quasi un istinto irresistibile, come al veder fare
certe smorfie a chi mangia e certi traballoni a chi cammina.
[26]
Ora, com’è naturale in tutti questo sentimento, è anche naturale che tutti, chi più, chi meno, si
vergognino e si stizziscano di suscitarlo. Benchè ancora giovinetto, tu avrai visto più volte anche
uomini che non hanno alcuna pretensione a letterati, e che tollerano ogni specie di scherzi, risentirsi
al veder ridere d’una parola o d’una frase sbagliata che sia loro sfuggita di bocca. Esiste veramente
nell’uomo un particolare amor proprio, che si potrebbe definire l’amor proprio della parola, e che è
singolarmente delicato e irritabile. Non ti lasciar ingannare da chi lo nega e dice di ridersene. Che
cosa importano le parole? Ma l’importanza loro, che tanta gente finge di disconoscere, è dimostrata
di continuo e da per tutto da infiniti segni. Domanda a quanti bazzicano caffè e trattorie da molti
anni, quante volte hanno inteso a un tavolino accanto, anche fra gente di professioni lontanissime
dalla letteratura, discussioni accanite e interminabili sull’italianità o sul significato d’un vocabolo.
Vedi nei giornali che pubblicano corrispondenze dei piccoli comuni, quante volte i corrispondenti,
polemizzando, si scherniscono e si dànno a vicenda dell’asino per uno svarione di lingua o di
sintassi. Interroga qualunque scrittore noto, che non abbia reputazione di strapazzar la grammatica,
e ti dirà quante lettere di sconosciuti riceve, che invocano il suo giudizio sulla legittimità d’una voce
o d’una locuzione, sulla quale è corsa una scommessa. Fatti dire da maestri e da professori quante
lettere ricevano da padri e da madri, che rivendicano la correttezza d’una parola o d’una frase
segnata come errore in un componimento del loro figliuolo, ragionando, citando [27] esempi e
accalorandosi come linguisti offesi nell’orgoglio. E quanti battibecchi seguono negli uffici di tutte le
amministrazioni, per piccole quistioni di lingua, fra redattori di minute risentiti d’un appunto
linguistico e superiori feriti nel sentimento della propria autorità letteraria! E in quante assemblee un
discorso per ogni verso sensato fallisce allo scopo per una frase sgrammaticata che fa ridere! E
quanti sono gli uomini politici, anche illustri, al cui nome è rimasto appiccicato per tutta la vita,
come un’insegna derisoria, uno sproposito di lingua, sfuggito loro una volta più per sbadataggine
che per ignoranza! Vedi se importano o no le parole, e per l’effetto che producono negli altri gli
errori, e per il risentimento e le amarezze che da quegli effetti vengono a noi, e se sia da darsi retta a
chi sconsiglia i giovani dallo studio della lingua, come da un perditempo.
E puoi farne la prova tu stesso. A chiunque ti dica che studiar la lingua è tempo perso, se te lo dice
in italiano, prova a dir per ch’egli ha fatto un errore di proprietà o di grammatica, e vedrai che
salta su, smentendo subito stesso, e ti rimbecca: – Come? Vuoi fare il maestro a me?... Ma studia
prima la lingua!
E qui, supponendo che tu sia oramai arcipersuaso, chiudo la triplice prefazione, e mi metto in
cammino.
[28]
DEL PARLARE.
Le miserie della loquela.
La prima cosa che ti devi proporre, mettendoti a studiare la lingua, è d’imparare a parlarla
correttamente e facilmente.
A darti fermezza in questo proposito gioverà più che altro la consuetudine, che tu devi prendere,
d’osservare la scorrettezza, la rozzezza, lo stento, le infinite miserie e ridicolaggini del modo di
parlare dei più, non già nelle classi sociali inferiori, ma in quella medesima a cui tu appartieni.
Troverai molti che, parlando italiano, perdono ogni vivacità dello spirito, come se cambiassero
natura; che ti fanno sospirar mezzo minuto ogni parola, come avari a cui ogni parola costasse uno
scudo, e par che le posino l’una dopo l’altra con gran riguardo come oggetti fragili e preziosi; che
per raccontar la cosa più semplice e più futile fanno una lunga e lenta tiritera, che metterebbe alla
prova la pazienza d’un santo.
Conoscerai altri che, per parlar corretto, si [29] rifanno ogni momento indietro a rettificar una parola
o a correggere una frase, ti presentano due volte un periodo, prima in brutta copia e poi messo a
pulito, ti fanno assistere a tutta la faticosa fabbricazione del proprio discorso, pezzo per pezzo e
giuntura per giuntura, e quando credi che l’abbian finito, v’aggiungono ancora qualche commento e
gli dànno qualche ritocco; dopo di che, affaticati dal lavoro fatto, non hanno più capo ad ascoltare la
tua risposta.
Sentirai parecchi, che metton fuori ogni tanto una parola o una frase francese, o del dialetto, o del
loro gergo professionale, con l’aria di non avvedersene, o di dirla per dar varietà capricciosa o
colorito comico al discorso; ma in realtà perchè non sanno l’espressione corrispondente italiana; e
screziano così il loro italiano per modo, che non si sa ben dire che lingua parlino, e par di sentire di
quei sonatori ambulanti che suonano tre strumenti, tutti e tre malamente, in una volta sola.
Udirai certi tali, che cercano di nascondere gli spropositi come i prestigiatori fanno sparire le
pallottole, assordandoti con un precipizio di parole; che per distrarre la tua attenzione dalla loro
grammatica alzano la voce o dànno in risate fuor di proposito, e si mangiano a mezzo le forme
verbali di cui non sono sicuri, e confondono le frasi dubbie con l’accompagnamento d’una specie di
rantolo catarrale, somigliante al rugliare che fanno i cani tra l’uno e l’altro latrato.
Ma chi può dire tutte le industrie puerili e ridicole a cui si ricorre per salvare il decoro nella
disperata lotta con la lingua italiana? Gli uni si riducono a parlare più coi gesti e con gli [30]
ammicchi che con le parole; gli altri vanno avanti a furia d’intercalari e di luoghi comuni, coi quali
coprono tutti gli sbrani e tappano tutti i buchi del discorso; questi, per prender tempo a cercare il
vocabolo, sciorinano dei ma che non hanno più fine, o piantano dei però enormi, su cui
s’appoggiano come sopra un bastone; quelli, per poter raccogliere il periodo che scappa da tutte le
parti, fanno lunghe pause, anche nel dire una bazzecola, fingendo un lavorìo profondo del pensiero,
o una distrazione improvvisa, o una svogliatezza di gente annoiata, che dica tanto per dire, senza
badare a quello che dice. Quante arti, quante fatiche e figure ridicole per iscansare il ridicolo di non
saper parlare la propria lingua!
Ma per compier la mostra bisogna ricordare anche quelli che non parlano; quelli che nelle
compagnie dove si parla italiano non vanno, o ci vanno come a un castigo, e ci stanno come sulle
spine, senza rifiatare, o parlando il meno possibile, anche con danno proprio, e a costo di parere
imbronciati o villani; quelli che, per la stessa ragione, pigliano in uggia i conoscenti, e anche gli
amici italianeggianti, e da questi si fanno prendere in uggia alla volta loro, burlandoli come d’una
ostentazione di saccenti e d’aristocratici; quelli che vanno più oltre, che non nascondono la propria
antipatia, dandole un altro colore, verso tutti quegli italiani d’altre regioni, coi quali, per farsi
intendere, dovendo trattar con loro per forza, sono costretti a parlare italiano. E c’è ancora la
famiglia numerosissima degli screanzati incorreggibili, che in qualunque compagnia si trovino, pure
sapendo di non esser capiti, s’ostinano sfacciatamente a parlare il [31] proprio dialetto, a sventolare
la bandiera della propria ignoranza, sulla quale hanno scritto: Chi mi capisce, bene; chi non mi
capisce, s’accomodi –; somiglianti a quegli ubbriachi allucinati, che tiran via a ragionar coi pilastri.
Ma c’è nella gran famiglia dei poveri della parola un personaggio, che tu devi conoscere più
intimamente degli altri, perchè rappresenta una tendenza pericolosa e comunissima, dalla quale più
che da ogni altra ti hai da guardare. Egli sarà il primo d’una serie di personaggi singolari, che io
conobbi, e che ti farò conoscere man mano, per ammaestramento e per ricreazione, nel corso del
viaggio che faremo insieme.
Ti presento per il primo il signor Coso.
[32]
IL SIGNOR COSO.
Le sue qualità più notevoli erano un profondo disprezzo per l’arte della parola e un grande amore
per la pesca con l’amo; il quale amore derivava in parte da quel disprezzo, perchè diceva egli stesso
che spessissimo andava a pescare non per altro che per isfuggire alla noia di barattar del fiato col
prossimo.
Quando lo conobbi non era più giovane; ma anche da giovane dicevano i suoi vecchi amici che era
sempre stato restìo al parlare come un tirchio allo spendere. Non che fosse propriamente taciturno:
alle conversazioni degli amici prendeva parte; ma accennava ogni suo pensiero con poche sillabe, in
modo informe, e masticava il resto con voci inarticolate, e con un atto del capo e un cenno
trascurato della mano invitava l’uditore a fare in vece sua il molesto lavoro di compiere
l’espressione dell’idea ch’egli aveva abbozzata. Con un come si dice? si liberava dalla seccatura di
dir la cosa; lasciava a mezzo ogni periodo con un insomma, tu capisci; e con la parola coso faceva
di meno di mille vocaboli. [33] Per questo gli avevan dato il soprannome di Coso. “Sai, questa
mattina ho veduto coso, laggiù.... Dice che per quell’affare.... tu sai.... niente; salvo il caso.... ma
neanche nel caso.... Tu m’intendi –„. Era questa la forma tipica del suo discorso. Tu sai.... coso
diceva d’un amico ammalato, e non si curava neppure di dir che era morto: indicava con un gesto
che se n’era andato. Fu lui che annunziò agli amici l’elezione del nuovo Papa, il cardinale Pecci.
Eletto disse. Chi hanno eletto? Coso rispose; e non pronunziò il nome che alla seconda
domanda.
Era in parte affettazione, come si dice che usasse fra certi nobili francesi del secondo Impero; ma
era più che altro una grande pigrizia, venuta a poco a poco a tal segno, che gli dava molestia anche il
parlare degli altri. Quando sentiva un amico esprimere, discutendo, il proprio pensiero con un
periodo filato e lunghetto, lo guardava con l’aria di deriderlo per quella fatica inutile ch’egli faceva,
come avrebbe guardato uno che si stroncasse a sollevare un baule per la curiosità di saper quanto
pesa. Quando il racconto di qualcuno si prolungava oltre un minuto, non faceva complimenti:
chiudeva gli occhi e fingeva di dormire. Dal tempo che andava a scuola, dove a nessun professore
era mai riuscito di cavargli più di quindici righe su qualunque soggetto di componimento, egli era
venuto restringendo sempre più il suo linguaggio, nel quale ai vocaboli si sostituivano i gesti, e alla
pronunzia scolpita un barbugliamento d’addormentato. Egli aveva un gesto per dire: Non ti fidar
del tale: è un briccone; un gesto per annunziare che una [34] commedia aveva fatto fiasco, che un
certo affare non premeva, che d’un altro affare non si voleva impicciare; e tutte le gradazioni dello
stupore, della maraviglia, del dispiacere esprimeva con una sola esclamazione, diversamente
intonata: – Oh diavolo! E s’aveva un bel burlarlo di questa sua stranezza: egli scrollava le spalle e
rispondeva: Chiacchieroni! Una volta sola, ch’io mi ricordi, egli fece il miracolo di esprimere
senza reticenze, benchè in forma laconica, un suo pensiero filosofico, per dar ragione della sua
maniera di parlare. Udendo ripetere una sentenza del Michelet: Nous mangeons immensément
trop; da che derivano alla società, secondo lo scrittore francese, infiniti mali, egli disse che a
quella si doveva sostituire un’altra sentenza: Noi parliamo troppo poichè di quasi tutti i nostri
guai la vera cagione era questa.
Ma non si può credere fino a che punto arrivasse nel far economia di sillabe: fino a non farsi capire
dal fiaccheraio, al quale, invece di: – Alla Stazione di Porta Nuova diceva: – Alla Nuova –; fino a
non pronunziar mai che una delle due parole di cui si componesse il titolo del giornale, ch’egli
chiedeva al rivenditore; fino a bandire dal suo vocabolario tutti i superlativi e gli avverbi lunghi;
tanto che a sentirgli dire un giorno: irremissibilmente e un’altra volta: mortificatissimo, lo
guardammo tutti stupiti. Da ultimo, poi, avendo inteso da un amico toscano un verbo non prima
conosciuto: cosare, se n’era impadronito con la gioia d’un matematico che scopre una nuova
formola algebrica, e con quello s’alleggeriva anche più la fatica [35] ingrata del parlare. Non diceva
più al cameriere della trattoria che levasse l’olio dal fiasco; ma: Cosami quel fiasco –, e così,
cosare un plico, per mettervi il suggello, e a un amico, indicandogli un uscio fresco di vernice:
Bada, che ti cosi l’abito. Se avesse trovato nella lingua altre dieci parole come cosa e cosare, non
gli sarebbe occorso altro vocabolario, e ne avrebbe avuto d’avanzo.
Poichè pensiero e parola nascono nella mente gemelli, chi si disavvezza dall’esprimere il proprio
pensiero, si disavvezza a poco a poco anche dal pensare. Questo era seguìto a lui: le facoltà di
pensare e di parlare gli s’erano arrugginite ad un tempo. Egli pensava a pensieri indeterminati,
monchi e sconnessi come il suo linguaggio, e dall’inerzia del cervello gli era venuta una grande
indifferenza per ogni cosa. È questo l’ultimo e peggior danno nel quale incorrono tutti coloro che
per pigrizia rifuggono usualmente dalla fatica di tradurre il proprio pensiero in parole. Negli ultimi
suoi anni Coso non leggeva nemmeno più i giornali: si contentava di raccoglier le notizie politiche
al caffè o per la strada, e quando gliele davano con troppi particolari, tagliava la parola in bocca
all’amico, dicendogli: Insomma, hanno cosato il bilancio oppure: alle corte, avremo un
ministero Coso –, e aggiungeva un gesto che significava: – Basta, basta; ho capito; oh che fastidio!
Coso abbandonò questa valle di lacrime e di parole una diecina d’anni fa, in una città dell’Italia
meridionale, dove era andato per ragion d’impiego. E tal morì qual visse, se è vero quanto si riseppe
da un suo nipote, che [36] l’assistette negli ultimi giorni: un capo armonico, a dir la verità, che
potrebbe aver inventato una fiaba. Io la ripeto com’egli la disse, affermandoci che non ci metteva
nulla di suo.
Presentendo la propria fine, il buon Coso, che aveva avuto sempre religione, fece chiamare il prete.
A un certo punto il nipote, che stava all’uscio, sentì il prete dire con voce grave, in cui la pietà
velava il rimprovero: No, caro signore, io non posso acconsentire a una domanda fatta in
codesto modo.
Il malato gli aveva espresso il suo desiderio con la sua parola solita: il coso.
Pensando ch’egli volesse qualche oggetto, un ricordo caro di famiglia, da rivedere l’ultima volta, il
sacerdote aveva guardato intorno per la camera. Poi, da un atto dell’infermo avendo compreso, s’era
risentito. Il coso era il Viatico.
L’infermo s’espresse meglio, e fu contentato. Ma per poco il suo malaugurato vezzo di cosare non
gli costò la salute dell’anima.
Certo quelli che si lasciano andare fino a un tal segno son rari. Ma quanti non sono quelli che
parlano presso a poco al modo di Coso; che, per infingardaggine intellettuale o per disprezzo
dell’arte volgare del discorso, non dànno del proprio pensiero che briciole e sgoccioli, non mettono
nella conversazione che la materia bruta del loro concetto, lasciando agli altri la cura di lavorarla,
come una faccenda indegna di loro? Il mondo n’è pieno. Ma se l’uomo si può definire “l’animale
parlante„, codesti non sono uomini.... sono cosi.
[37]
TRA LO SCRIVERE E IL PARLARE C’È DI MEZZO IL MARE.
Per dimostrarti che a parlar bene non basta studiar la lingua, ma occorre fare uno studio e un
esercizio particolare a quel fine, ti racconto un aneddoto.
Circa trent’anni fa, ebbi una sera la fortuna di desinare con una brigata di milanesi, fra i quali c’era
uno scienziato illustre, autore d’un libro notissimo di scienza popolare, che è una delle opere più
eloquenti e meglio scritte della letteratura scientifica d’Italia. Lo scienziato, ch’era un uomo
d’indole vivace e di spirito argutissimo, aveva poche sere avanti rallegrato quella stessa compagnia
raccontando in dialetto certi episodi comici d’un suo recente viaggio nella Scozia; e il suo racconto
era piaciuto per modo, che anche quella sera, alle frutte, tutti i commensali vollero che lo ripetesse,
e mi dissero parecchi, mentre egli si disponeva a parlare: – Sentirà, e riderà come non ha mai riso.
L’illustre uomo incominciò, parlando italiano per riguardo al nuovo uditore, e andò un pezzo
innanzi nel [38] racconto; ma l’uditorio, benchè avesse la miglior voglia di ridere, rimase freddo;
volevo ridere anch’io, ma non potevo; mi sconcertava il disinganno che leggevo sul viso degli altri;
i quali aspettavano tutti qualche cosa che non veniva mai, e parevano stupiti che non venisse, e
intenti a cercarne dentro di la ragione. E, infatti, il racconto procedeva male; lo sforzo che faceva
il parlatore per trovar parole e frasi comiche, che poi non lo appagavano, ratteneva la sua vena;
l’espressione del suo viso che, manifestando quello sforzo, discordava dalla comicità del discorso,
ne distruggeva quasi al tutto l’effetto; il suo gesto stesso riusciva impacciato come il suo linguaggio;
mancava al racconto la spontaneità, il colorito, la vita. A un certo punto egli s’interruppe, facendo
un atto brusco d’impazienza, ed esclamò ridendo: – Oh, lasciatemi un po’ parlare il mio milanese! –
e ripreso in milanese il discorso, tirò via col vento in poppa, con tutt’altro viso e tutt’altro accento,
libero, arguto, amenissimo, accompagnato fino alla fine dall’ilarità unanime e sonora degli
ascoltatori.
Mille casi consimili vedrai tu pure nella vita, perchè migliaia d’italiani colti, e che scrivono bene, si
ritrovano, parlando italiano, nello stesso impaccio nel quale si trovò lo scienziato milanese. E la
ragione dell’impaccio sta in ciò: che fra il parlare e lo scrivere passa la stessa differenza che fra il
correre ed il camminare. Come, se non è esercitata alla corsa, anche una persona ben formata, e che
ha nel camminare un portamento sciolto e elegante, corre senza leggerezza e senza grazia e rimane
senza fiato dopo un breve tratto, così ogni italiano, che parli per [39] uso il suo dialetto, pur
conoscendo la lingua benissimo, se a parlarla non s’è esercitato con particolare studio, se non ha
acquistato con quest’esercizio la prontezza intellettuale e l’agilità meccanica necessaria al parlar
bene, che è come un comporre all’improvviso, non troverà per le parole proprie, snaturerà il
proprio pensiero, parlerà stentato e slavato, traballando e inciampando a ogni passo. Vedi dunque
quanto importa che, prima d’ogni cosa, tu t’eserciti a ben parlare; e dico: prima d’ogni cosa, perchè
è un esercizio che puoi cominciare utilmente anche prima di metterti a studiare il materiale della
lingua nel modo che vedremo poi. E ora t’accenno i preliminari della ginnastica; dopo i quali
passeremo agli attrezzi.
[40]
PER IMPARARE A PARLAR BENE.
Il parlar malamente, in chi più o meno conosce la lingua, deriva in gran parte dalla consuetudine di
non pensar mai un momento, prima di aprir la bocca, al modo di dire il meglio che si può quello che
si vuol dire. E tu avvèzzati a pensarci. Dirai: Non s’ha sempre tempo. Basterà che ci pensi tutte
le volte che ci hai tempo, e non tarderai a ricavarne un profitto maggiore di quello che t’immagini,
perchè ti riuscirà di dir meglio che per il passato anche molte di quelle cose che sarai costretto a dire
all’improvviso.
Si parla male generalmente anche per effetto della consuetudine, che si prende per pigrizia, di
lasciar quasi sempre a mezzo l’espressione del proprio pensiero quando si vede che l’ha capito a
volo la persona a cui si parla. Questa consuetudine pigra ci rende faticoso e difficile l’esprimer bene
tutti quegli altri pensieri, dei quali, perchè sian compresi, dobbiamo dare l’espressione compiuta.
Ebbene, e tu abìtuati, parlando, ad esprimere sempre tutto il tuo [41] pensiero, anche quando non sia
necessario, come faresti se lo dovessi mettere sulla carta.
Fa’ qualche volta, mentalmente, quest’altro esercizio, dopo che hai fatto o veduto qualche cosa, o
sentito una commozione, o ricevuto un’impressione qualsiasi; domanda a te stesso: Come direi se
dovessi raccontare questo fatto, o descrivere questa cosa, od esprimere questa commozione? e
pròvati a farlo, supponendo di parlare a una persona colta, con la quale tu non abbia famigliarità, e
di cui ti prema la stima e la simpatia.
Studia in special modo di dir bene tutte quelle piccole cose che occorre dire ogni giorno, e anche più
volte il giorno; ti riuscirà facile trovarle e fissartele in mente, poichè sono, per così dire, i luoghi
comuni della vita quotidiana e del linguaggio di ciascuno; e quando ti sarai avvezzato a dirle
facilmente e correttamente, riconoscerai, dal vantaggio acquistato, maggiore della tua aspettazione,
che nel dir male quelle piccole cose, benchè non sian molte e sian semplici, consiste principalmente
il parlar male di quasi tutti.
Bada anche a questo. Una delle nostre miserie, parlando, è l’incertezza che ci arresta nel designare
certi oggetti, atti, fatti, sentimenti, per i quali sono usati comunemente due o tre vocaboli di senso
affine, ma di cui è proprio uno solo; poichè, nell’atto che c’indugiamo a scegliere, perdiamo il
concetto della frase o del periodo, che poi ci riescono alla peggio. Se nel dir la cosa più semplice,
come, per esempio, che siamo andati a cercare un tale a casa, che abbiamo salito quattro branche di
scale, e dopo [42] aver picchiato all’uscio, sentito abbaiare un cagnolino, e una voce domandar: – chi
è? mentre scorreva il paletto se dubitiamo un momento fra branche e rami, fra picchiato e
battuto, fra uscio e porta, sentito e udito, abbaiare e latrare, domandare e chiedere, paletto e
chiavistello, è facile che facciamo un brutto garbuglio d’un periodo che dovrebbe correr liscio como
l’olio. Fìssati dunque in mente le parole proprie che in tutti quei casi dubbi, frequentissimi, sono da
usarsi, in modo che sian sempre le prime a venirti sulle labbra, e avrai fatto con questo un gran
passo innanzi sulla via del parlar facile e corretto ad un tempo.
Un altro consiglio. Ti accadrà spesso di sentir strapazzare la lingua italiana, e di ridere dentro di te
delle parole sbagliate, delle frasi barbare e dei costrutti sgrammaticati del cattivo parlatore. È bene
che in questi casi tu t’eserciti alla critica; ma se vuoi che ti giovi, non dev’essere puramente
negativa: non basta che tu noti gli errori, bisogna che tu cerchi e fissi nel tuo pensiero le parole, le
frasi, i costrutti corretti corrispondenti a quelli erronei, che hai osservati; perchè, bada bene, noi
burliamo assai spesso gli altri di errori che sfuggono usualmente a noi pure, e la prima cagione del
nostro persistere nel parlar male è appunto la consuetudine del criticare senza correggere; per la qual
cosa non ricaviamo nessun frutto degli errori altrui, che dovrebbero farci aprir gli occhi sui nostri.
Ancora un’avvertenza. Il parlar bene richiede un esercizio vivo e rapido delle facoltà intellettuali.
Vedi che l’uomo acceso da una passione, appunto perchè ha le facoltà eccitate, parla quasi [43]
sempre meglio che ad animo riposato e a mente tranquilla. Conviene perciò, quando hai qualche
cosa da dire che ti prema di dir bene, quando hai da fare un racconto, per esempio, o una descrizione
o un ragionamento anche breve, che tu ti ci metta di buona voglia e con vivo impegno. Come per
fare uno sforzo fisico dài prima quasi una scossa alla volontà e tendi i muscoli e i nervi, così,
nell’atto di parlare, tu devi cacciar l’indolenza e dar alla mente un abbrivo risoluto. Ma non ti
mettere alla corsa; va’ adagio per ora; avvèzzati a parlare pensando, a frenarti. A correre senza
inciampare imparerai a poco a poco; devi prima esercitarti a camminar bene. E bada sempre, nel
parlare, al viso di chi t’ascolta, che è un critico muto utilissimo, perchè d’ogni parola stonata, d’ogni
oscurità, d’ogni lungaggine ci vedi il riflesso, sia pure in barlume, in un’espressione di stupore, o
canzonatoria, o interrogativa, o annoiata, o impaziente; anche se gli ascoltatori sian gente che,
facendo lo stesso discorso, cadrebbe negli stessi errori tuoi, o assai peggio; poichè la facoltà critica è
in tutti di gran lunga più acuta e più attiva quando s’esercita sugli altri che quando lavora sul suo.
In questo studio del parlare potrai avvantaggiarti molto e presto se in casa tua c’è la buona
consuetudine di parlare italiano. Se non c’è, tu devi fare il possibile, rispettosamente, per farcela
entrare. Ma....
Quello che dovrei dirti dopo questo ma lo troverai nella lettera seguente; della quale ho ritrovato la
minuta sotto un monte di vecchi manoscritti.
[45]
LA LINGUA ITALIANA IN FAMIGLIA.
Cara cugina,
Ringrazio te, tuo marito e i tuoi figliuoli grandi e piccoli dell’allegra giornata che mi faceste passare
in casa vostra, e mantengo la promessa, che ti feci nell’accomiatarmi, di rispondere per iscritto alle
tue domande: Ho fatto bene a metter l’uso della lingua italiana in famiglia? Ti pare che i ragazzi
ne facciano profitto?
Risponderei di sì, con gran piacere, alla prima domanda, se non avessi un gran dubbio sulla risposta
da dare alla seconda.
Osservai in casa tua che l’uso dell’italiano in famiglia non giova gran fatto, che, anzi, riesce quasi
più dannoso che utile, se non è accompagnato dalla cura continua di parlar bene, se non è vigilato,
illuminato, corretto assiduamente dal padre e dalla madre, se non si riduce, in somma, a essere uno
studio costante di tutti.
Osservai nella tua famiglia, come già in altre, che i ragazzi si sono avvezzati a parlar l’italiano con
troppa disinvoltura. Sono belle [45] cose nel parlare la vivacità, la scioltezza, la sicurezza di sè; ma
solo quando non derivino dal disprezzo della grammatica e dall’inconsapevolezza dello sproposito.
Ora, lascia che te lo dica, i tuoi figliuoli parlano con facilità ammirabile un italiano
compassionevole, d’un tessuto tutto piemontese, ricamato d’ogni specie d’idiotismi e di modi di
conio gallico, e in tutto il tempo che stetti con voi non gl’intesi correggere, da te da tuo
marito, neanche una volta. In casa vostra, per quello che riguarda la lingua, regna la più scapigliata
anarchia. Girando per le stanze, feci ai tuoi figliuoli molte domande, e sentii che a quasi tutte le cose
dànno il nome dialettale o francese: chiamano tiretto il cassetto, robinetto la chiavetta, comò il
cassettone, sopanta il palco morto. A tavola, in quella discussione che fecero fra di loro intorno ai
propri insegnanti, e in cui parlarono, a dire il vero, con molto brio e con molta arguzia, intesi dire
dall’uno: mi sono sbagliato, dall’altro: niente del tutto, da questo:gli ho fatto un bacio, da
quello: Mio professore di aritmetica, da più d’uno: Che s’immagini! e: Mai più! per:
nemmen per sogno; da tutti, e parecchie volte, vizio per vezzo o consuetudine (pover’a noi, se anche
il carezzarsi la barba fosse un vizio!) e chiamare (Dio di misericordia!) per domandare. Parlai di
mode con la tua Eleonora, e trovai che ha preso da te tutta quanta la terminologia francese che tu hai
presa dalla tua sarta, e discorrendo con Alberto dei suoi prossimi esami raccolsi dalla sua bocca non
so quante parole e frasi del nefando linguaggio burocratico che tuo marito [46] porta a casa
dall’ufficio. In verità, s’io avessi ceduto alla tentazione, udendo parlare italiano a quel modo, avrei
fatto alla tua cara prole una continua distribuzione di biscottini e di pacche. E quello che faceva più
forte la tentazione era il vedere che straziavano così ferocemente la lingua con una faccia fresca da
innamorare, senz’essere arrestati mai dal minimo dubbio, senza dar mai segno di sentire le proprie
stonature, tirando via con una speditezza e con un tono, che uno straniero non pratico della nostra
lingua, a sentirli, li avrebbe presi per toscani pretti sputati, e di quelli che hanno la parola più pronta
e sicura.
Ah no, cara cugina. Codesta non è una scuola di conversazione italiana; ma una baldoria linguistica,
dove si fa del vocabolario e della grammatica quello che in certe baldorie bacchiche si fa delle
stoviglie e del Galateo. A una scuola così fatta mi par quasi preferibile l’uso del dialetto, col quale i
tuoi figliuoli, se non altro, non contrarrebbero abitudini viziose, che è un danno grandissimo, poichè
i barbarismi, gl’idiotismi, le frasi errate che il ragazzo s’avvezza a dire in famiglia, dove si parli
italiano a vanvera, gli si attaccano alla lingua per modo che gli riesce poi difficile liberarsene anche
da uomo. Dicono che Napoleone primo abbia detto per tutta la vita section per session, rentes
voyagères per rentes viagères, point fulminant per point culminant, e altri spropositi, per essersi
avvezzato da ragazzo a pronunziare in quel modo quelle parole, che in casa sua si pronunziavano
male. In certe famiglie, come tutti usano certi intercalari e hanno un certo modo di gestire, così [47]
dicono tutti gli stessi spropositi. Io ho osservato che i figliuoli dei padri mal parlanti quasi tutti
parlano male, anche se sono più colti dei padri. Conosco un tale che disse per vent’anni scavezzare
per scavizzolare, traccheggiare per inseguire e vita libertina per vita libera: un giorno lo chiarii dei
tre errori, ed egli mi confessò che erano un’eredità di famiglia, che in casa sua, dove s’era sostituita
la lingua al dialetto, egli aveva sempre inteso usar quelle parole in quel senso: alle correzioni che gli
erano state fatte da ragazzo, fuor di casa, non aveva badato; poi nessuno non aveva più osato di
correggerlo, per timore che se ne vergognasse, e così era andato innanzi fino ai cinquanta, perdendo
prima il pelo che il vizio.
Dunque, segui il mio consiglio: o ripigliate il dialetto in casa, o mettetevi d’accordo, tu e tuo marito,
per frenare la licenza linguistica dei vostri rampolli, costituite fra voi una commissione di vigilanza
e di censura, che non lasci passare nessuno sproposito, che ristabilisca nella vostra famiglia,
filologicamente anarchica, l’impero della legge. I ragazzi, sulle prime, s’impazientiranno,
tenteranno di ribellarsi; ma finiranno con riconoscere la ragione, e parleranno forse con minor
facondia, che non sarà una gran disgrazia, ma con maggior correttezza, che sarà una gran fortuna; e
ve ne saranno grati più tardi.
Intanto, ti prego di dar loro qualche avvertimento, in forma canzonatoria, che è la più efficace. Di’ a
Eleonora che se mi racconterà qualche altra disgrazia arrivata a qualche sua amica di scuola, vorrò
sapere una buona volta di dove le disgrazie partono e con che treno arrivano, [48] per potermi
regolare. Di’ a Enrico che me ne impipo per me ne rido e buggerìo per baccano non sono parole
pulite, e che il dire che un ragazzo di sette anni è più vecchio d’uno di cinque, è ridicolo. A Luigina,
che mi disse tre volte: Ho fatto una malattia di’ che mi son dimenticato di domandarle se non
aveva di meglio da fare quando le è venuta quella brutta idea. Avverti Mario che il dir che un
ufficiale ha tre medaglie sullo stomaco, invece di sul petto, è come dire che le medaglie gli sono
indigeste. Dirai anche nell’orecchio a tuo marito che il verbo consumare, in italiano, è transitivo, e
che quindi la candela consuma è un piemontesismo, ch’egli non deve tramandare ai suoi
discendenti.
E anche a te un’osservazione nell’orecchio: brutto come tutto è brutto di molto. Spero d’averti
persuasa. E scusa la franchezza del critico poichè vien dall’affetto del cugino.
Il tuo
***
[49]
A CIASCUNO IL SUO.
(A UNA SCHIERA DI RAGAZZI DI DIVERSE REGIONI DITALIA).
Avete riso dei piemontesismi, non è vero? E non ci ho a ridire. Ma non ne ridete troppo forte, vi
prego, perchè quello che dissi della famiglia piemontese, dove si parla un italiano piemontizzato, si
può dire a un di presso di migliaia di famiglie d’altre regioni, badando soltanto a sostituire a quelli
che citai altri dialettismi e idiotismi; dei quali ciascuna serie vi farebbe rider pure tutti quanti, fuori
che uno. Volete che ne facciamo la prova? Desiderate ch’io vi persuada con gli esempi? E io vi
contento, nel miglior modo che m’è possibile, così alla lesta.
E comincio da te, piccolo milanese. Ce n’è così anche a Milano di famiglie per bene, nelle quali i
ragazzi credon mica di parlar male dicendo porsi giù per “mettersi a letto„ e menar su per “condurre
in prigione„ e su e giù a ogni proposito; e qui dietro per “qui attorno„ e andar addietro a fare per
“continuare a fare„ e aver [50] una cosa addietro per “averla con sè„ e si può no, e morir via, e
mangiarsi fuori e smaniarsi, e che bello! e che caro! e con più ne vuoi, più te ne metto. Ti basterà
questo piccolo saggio, m’immagino.
A noi, piccolo veneziano. A te pure, quando che parli italiano, vien fatto di ficcare il che da per
tutto, e non sei buono da liberartene, e dici: non so cosa che voglia dire, non so cosa che ci
vorrebbe; e ti scappa detto lasciarsi tirar giù perlasciarsi indurre„ e incapricciarsi in una cosa, e
non s’indubiti, e l’aspetta un momento; e ti sfugge ben sovente scampare per “scappare„ e balcone
per “finestra„ e altana per “terrazza„ e sgabello per “comodino„. E che dire del tuo in fatti che usi
così spesso nel senso di “in somma„, mettendo nella frase una contraddizione di termini che mi fa
spalancare la bocca? Sarà un capolavoro, come tutti dicono; ma in fatti non mi piace. Hai
ragione di burlarti degli idiotismi altrui; ma in fatti ne dici tu pure.
Sono da lei, caro bolognese. Pensava ch’io la potessi dimenticare? Mo’ ci pare! Venga qua,
s’accomodi bene. Godo di trovarla in buona salute. E il padre suo di lei? E la ragazzola? E quel
bazzurlone di suo cugino, come sta? Fa sempre l’ammazzato con la signorina del terzo piano? Ella
riconosce certamente che anche ai bolognesi ne scappano di carine, che è frequentissimo fra di loro
il si per il ci, e il faressimo e il diressimo e il questa cosa che qui e che lì; e che non è rarissimo il
sentir da loro, anche da gente colta, ghignoso per “antipatico„, gnola per “seccatura„, benzolino per
“panchetto„, zucca per “fiasco„, chiarle per “ciarle„. E, mi perdoni, intesi anche [51] dire qualche
volta “ubbriaco patocco per ubbriaco “fradicio„. Questa è patocca! Ma ne ride ella pure, e tutti
contenti.
E tu, bel garzonetto genovese, non ti dar l’aria d’impeccabile, se dunque sciorino anche a te una
bella lista di dialettismi comici che raccolsi a casa tua.... e in casa mia. Se dunque per “se no„ è uno
dei più preziosi, non lo puoi negare. Non me ne capisco per “non me n’intendo„ non è men
peregrino. Scorrere per “rincorrere o inseguire„ è un’altra bella perla. E uomo di sua obbligazione
per “uomo che sa il fatto suo„ è poco bello? Certo, tu non dirai mai mugugnare, frusciare,
frugattare, camallare, dar recatto alla casa, in luogo di “brontolare, infastidire, frugacchiare, portar
sulle spalle, mettere in ordine„, come da non pochi concittadini tuoi intesi dire. Ma sii sincero: non
t’è mai scappato angoscia per “nausea„ e angoscioso per “molesto„ e inversare per “rovesciare„?
Non ti scappa proprio mai bugatta per “puppattola„, rango per “zoppo„, marsina per “giubba„?
Pensaci un po’, figgio cäo....
Cittadino romano, ti saluto, e mi fo lecito di dirti, rispettosamente, che spesso sento dire dai tuoi
concittadini: ce sto, me dài, ve prometto, te parlo, se dice, e io so’ contento, e il tale non vo’ venire,
e troncare gl’infiniti: anda’, sta’, di’, e dire andiedi e stiedi, e li fiori e li cavalli, e le mela e le pera,
e subito che per “poichè„ e al contrario per “d’altra parte„ e apposta per “appunto per questo„ o
imbottatore e tiratore e spogliatore e lavatore per “imbuto, cassetto, armadio, acquaio„: una
quantità d’ore e d’altri idiotismi d’altre desinenze, che si volessi citartene mezzi [52] no me
basterebbe du’ ora. Lascio stare il magnassimo e il bevessimo per l’indicativo, che a te non c’è caso
che sfugga; ma chi sa quante volte tu pure, parlando italiano, esclami: Guarda che bellezza! o
dici che hai rifame o che un Tizio t’ha fatto una vassallata o che non sai se quanto una certa cosa ti
convenga. A ciascuno il suo. Non ti stranire, figliolo.
Partenopeo carissimo! Conosco un bravo avvocato napolitano, che tiene due cari figlioli, i quali,
parlando italiano con me, chiamano qualche volta, senz’avvertirsene, gradinata la scala, coppola il
berretto, cartiera la cartella, borro la brutta copia, spiega la traduzione; che dicono cacciar
l’orologio per “tirarlo fuori„, abbiamo rimasto per abbiamo “lasciato„ l’ombrello a casa, nostro
padre è andato a parlare una causa a Salerno, voglio essere spiegato, esser levata questa difficoltà,
essere aperto il portone, e non mi fido per “non mi sento„ e vado trovando per “vado cercando„ e
nel contempo per “nello stesso tempo„. Stesso il padre, dispiaciuto di quel modo di parlare, li
avverte sovente che dicon troppi napolitanismi; ma non serve: lo voglion bene, ma non dànno retta a
lui più che a me, e tiran via. Non ho detto per canzonare a te, bada bene; ma vedi un po’ se dei modi
citati non ne scappa qualcuno a te pure. Potrebb’essere. Se te ne scappa, sei prevenito; colpisci
l’occasione per correggerti, e stammi buono.
O piccolo abruzzese, e tu, non ancor baffuto figliolo della Calabria, non vi fate corrivi se vi dico che
sfuggono allo spesso dei provincialismi a voi pure; e il senso lor m’è duro, potrei aggiungere. Come
v’ho da intendere quando mi [53] dite scolla, andito, versatoio, coppino, ceroggeno, raschio,
quartino, pizzo del tavolino per “cravatta, ponte, acquaio, cucchiaione, candela, sputo, quartiere,
canto del tavolino„? e lento per “magro„ e sofistico per “discolo„ e fanatico per “vanesio„? Quando
vi sento di parlare in quella maniera, sospetto che vogliate scherzarmi, e non tanto mi piace. E vada
quando vi scappa detto che vi siete imprestato (per “fatto imprestare„) un vocabolario, che avete
donato gli esami, fatto maturare un compagno permaloso, liberato un pugno a un insolente, o che in
mezzo al vostro giardino ci vorrebbe piantato un bell’albero, o che vi par mill’anni di giungere il
ferio di Natale: si sorride, e null’altro. Ma che si possa scoprire un canuto nella barba d’un uomo, è
incredibile, e mettersi un calzone solo non è decente, e sparare gli uccelli alla caccia è feroce, e
dire: Mio fratello ha picchiato, vado ad aprirlo è orrendo. Vi raccomando a porre attenzione a
questi errori; e perdonatemi la franchezza, perchè, se ve n’avreste per male, ne fossi troppo dolente.
Son da te, caro siciliano. Molte volte, nel tuo bel paese, un ospite gentile mi disse sull’uscio:
Entrasse, signore, s’accomodasse; mi facesse il piacere.... Lo dici qualche volta tu pure, non è
vero? E accoppii non di rado il condizionale col condizionale: se avrei tempo, v’andrei, o: se avessi
tempo, v’andassi; dico giusto? E per voi è fare un complimento anche il regalare un orologio d’oro,
e dite spesso buono per “bello„ e bello per “buono„ e più meglio e più peggio, e insegnarsi la
lezione per impararla„ e mi scanto per “mi perito„ e accudire per “rivolgersi„ [54] e qualche volta
la prima del mese, e questa, senz’altro, per “questa città„ e anche casa palazzata per “palazzo„.
Chiamate bevanda il caffè e latte, come se non beveste altro nell’isola, o zuppa ogni minestra, e
galantuomo ogni signore; e così fosse, che sotto un bel sopratutto e dentro una camicia arricamata
non si nascondesse mai una birba! Te n’ho da metter fora dell’altre? No? Queste bastano? E
dunque, come dice il tuo Meli,
dunca ascuta a lu patri, e teni accura
a sti pochi e sinceri avvirtimenti.
E anche a te, bruno Sardignolo, poichè ti vedo ridendo dei sicilianismi, dirò amorevolmente il fatto
tuo, quantunque del tuo bel dialetto latineggiante io sia un po’ innamorato: a te che qualche volta,
parlando italiano, alzi le scale invece di salirle, e culli il tuo fratellino per dormirlo, e non pigli caffè
perchè non ti prova, e chiami cotti i fichi d’India maturi, e occhi cattivi gli occhi malati; a te che
parti al villaggio, e torni da campagna, e vai al braccetto con gli amici, e a chi ti domanda l’ora alle
dodici e dieci rispondi che è assai ora che è sonato mezzogiorno, e a chi ti rivolge domande
indiscrete dici che non entri il naso negli affari tuoi, e se non la smette subito, che finisca da una
volta d’importunarti. Per farla corta, non t’ho citato che una dozzina d’esempi; mi dispiace d’esser
troppo pochi; ma te ne potrei pienare più pagine. A si biri, piseddu.
Come? A me pure? Sì, signorino, a lei pure, e spero che me lo permetta, poichè sa che le voglio
un gran bene. Per insegnar la lingua [55] ai tuoi fratelli d’Italia, che ti riconoscono maestro dalla
nascita, devi guardarti anche tu dai dialettismi, non con altrettanta, ma con maggior cura degli altri;
non devi lasciarti sfuggir mai, neppure una volta l’anno (e ti sfuggono non di rado) voi dicevi, voi
facevi, voi andavi, e dichino e venghino, e leggano per leggono, temano per temono, e lo stai e il
vai imperativi, e il dove tu vai? e il che tu vuoi? e nemmeno sortire per uscire, e bastare per durare,
e tornar di casa per “andar a stare„ in un luogo dove non s’è mai stati. E sebbene Dante abbia detto
“lascia dir le genti è meglio che tu non dica genti in quel senso per non farmi pensare che tu parli
di tutti i popoli della terra; e che suoi per “loro„ abbia esempi classici, non toglie che sia più corretto
il far concordare l’aggettivo col sostantivo; e m’ammetterai che a dire ignorante per “maleducato
si corre pericolo di calunniare dei sapientoni; e una “minestra diaccia se vuoi esser giusto, non
s’è mai portata in tavola da che mondo è mondo. A rivederci, bocca fortunata, e porta un bacio alla
torre di Giotto.
E ora che giustizia è fatta, tiriamo innanzi.
[56]
*FQ*IL MALANNO DELL’AFFETTAZIONE.
Vi son due modi di parlar male: la sciatteria e l’affettazione. Ma questo è peggior di quello, perchè
chi parla sciatto è soltanto ridicolo, e chi parla affettato è ridicolo e insopportabile. Non occorre
ch’io ti dica che cos’è l’affettazione. Te lo dicono i modi proverbiali che la deridono: Star sul
quinci e sul quindi. Parlare in punta di forchetta. – Parlar come un libro stampato. È un misto di
pedanteria e di leziosaggine. È la consuetudine di scegliere fra i modi della lingua i meno
comunemente usati, credendo che il parlar bene consista nel parlar diversamente dagli altri; è il
servirsi di vocaboli e di frasi poetiche, anche nei discorsi famigliari, per dir le cose più usuali e più
semplici; è l’usar locuzioni e costrutti del bello stile letterario, per isfoggio di cultura e d’eleganza,
in luogo d’altre locuzioni e d’altri costrutti alla mano, che si sdegnano come volgari, e che paiono
volgari per la sola ragione che tutti li sanno.
Hai visto mai dei bellimbusti che fanno il [57] bocchino e par che sorridano continuamente alla
propria immagine, o tengon la bocca sempre aperta per mostrare i denti bianchi; che pigliano
atteggiamenti d’Apolli, gestiscono coi gomiti stretti al busto e camminano in punta di piedi,
dondolandosi come le anitre e guardando intorno con gli occhi socchiusi o dilatati o languenti! Sono
caricature buffe e antipatiche, non è vero? E lo stesso effetto producono quelli che parlano affettato.
Ci dispiacciono perchè, parlando diversamente da noi, hanno l’aria di dirci che noi parliamo male e
che dovremmo parlare come loro; non ci paiono sinceri perchè la sincerità parla semplicemente, ed
essi parlano con artificio; e non li possiamo prender sul serio perchè, lambiccando a quel modo il
proprio linguaggio, mostrano di dar più importanza alle parole che alle cose e di parlar soltanto per
farci sentire che parlan bene.
Senti un po’. Se uno t’annunzia la morte d’un suo amico dicendoti: – Ieri, dopo una malattia lunga e
dolorosa, morì il tal dei tali, mio carissimo amico; morì fra le mie braccia; le sue ultime parole
furono per raccomandarmi i suoi poveri bambini, che stavano accanto al letto piangendo –, tu sei
preso da un sentimento di pietà. Ma se ti dice invece: Ieri, dopo un lungo e fiero morbo, mancò ai
vivi il tal de’ tali, amico mio dilettissimo; spirò sul mio seno, e i suoi supremi accenti furono per
commettere alle mie cure i suoi sventurati pargoletti, che stavano all’origliere lacrimando; tu,
invece di commoverti, non credi al suo dolore, e gli dài del buffone.
L’affettazione falsa l’espressione d’ogni affetto, [58] spunta l’arguzia, toglie forza alla ragione, vela
la verità, distorna la confidenza, getta il ridicolo su ogni cosa, rende uggiose e moleste, e qualche
volta anche odiose, facendole apparire sotto un falso aspetto, persone dotate di eccellenti qualità
d’animo. Ed è un difetto terribile, che guai a chi s’attacca, perchè diventa in lui come una seconda
natura, della quale egli perde la coscienza, e non se ne libera più per la vita. Ed è un difetto
disgraziatissimo, che il mondo deride e flagella anche nelle persone più rispettabili, senza tregua e
senza pietà, fino alla morte.
*
In quest’affettazione eccessiva e ridicola non c’è pericolo che tu cada. Ma ti devi guardare anche
dall’ombra dell’affettazione, anche da quel difetto, nel quale quasi tutti cadiamo, di usare, parlando,
una quantità di parole e di locuzioni non proprie del linguaggio parlato; fra le quali e le proprie, che
non ignoriamo, e che usiamo anche spesso, ci siamo avvezzati a non far differenza. Di tali parole e
locuzioni non ti posso fare un elenco compiuto, che sarebbe troppo lungo; ma ti do qualche esempio
in un dialogo nel quale un Tizio mi racconta una sua avventura, ed io faccio il pedante della
naturalezza sui fiori della sua letteratura.
[59]
FRA UN PARLATORE RICERCATO E UNO CHE PARLA ALLA BUONA.
TIZIO. – Giunto che fui al bivio, stetti un momento in forse se dovessi volgere a destra o a sinistra.
IL PEDANTE. – Mi permetta. Io direi: arrivato che fui al bivio, stetti un momento in dubbio se dovessi
voltare....
T. ....Se dovessi voltare a destra o a sinistra. M’arrestai, attendendo che passasse qualcuno, per
chiedergli l’indicazione che mi faceva d’uopo....
P. Mi faceva d’uopo! E se dicesse semplicemente: che m’occorreva? E invece di “attendendo„:
aspettando? E domandargli invece di “chiedergli?„
T. – Ma, non scorgendo anima nata....
P. – Non vedendo anima viva....
T. Piegai a destra e procedetti fino a una chiesetta, cinta di cipressi, della quale mi sovvenne che
m’aveva parlato mio padre, quando mi narrò la sua gita al castello.... Trova qualche cosa a ridire?
[60]
P. Cinque cosette. Io direi presi invece di “piegai„, andai innanzi invece di “procedetti„,
circondata invece di “cinta„, mi ricordai invece di “mi sovvenne„, mi raccontò invece di mi “narrò
„. Vuol seguitare?
T. – Quivi scorsi due uomini distesi al suolo....
P. – Quanto amore per quello scorgere! E perchè non invece di “quivi?„ E stesi per terra in luogo
di “distesi al suolo?„ Il suolo!
T. – ....che sembravano assopiti....
P. – ....parevano addormentati, se non le par troppo comune.
T. – Sostai....
P. – Si soffermò....
T. ....e, osservandoli, venni in sospetto che facessero sembianza, ma che non dormissero davvero.
Non m’ero male apposto....
P. – Com’è detto bene! Sospettai sarebbe troppo andante; “far sembianza„ è più nobile di far mostra
e di fingere; “non m’ero male apposto„ non è un modo di dozzina come non m’ero ingannato.
T. – Mi dileggia ella forse, signore?
P. – “Tolga il cielo!„ O come può ella “accogliere„ un tal pensiero? “Proceda„.
T. – Di repente, infatti, quasi per accordo, si destarono entrambi, e l’un d’essi....
P. – Un momento. Mi lasci ammirare quel “di repente„ per a un tratto, e quell’“entrambi„ per tutti e
due, e l’“un d’essi„ per uno di loro. Questo si chiama “favellare„! Riprenda.
T. – (Capisco).... E l’un d’essi, con accento di cortesia, che mal s’accordava con l’atteggiamento del
suo volto, mi disse: Se passa di [61] qui per recarsi al castello, ha errato; la riporremo noi sul retto
cammino....
P. Mi perdoni. Qui, benchè ammiri ancora, mi parrebbe più naturale il dire: in tono cortese, e non
corrispondeva all’espressione del suo viso. Quell’“un d’essi„, poi, le avrà detto andare e non
“recarsi„, la rimetteremo, non “la riporremo„, sulla buona strada, non “sul retto cammino....„
T. (Che insopportabile seccatore!) Ciò dicendo, sorsero ambedue da terra, e mossero alla mia
volta....
P. Approvato, e con plauso. Io avrei detto: dicendo questo, s’alzarono tutt’e due, e vennero verso
di me –; ma riconosco che avrei parlato con meno squisita eleganza....
T. Insospettito, indietreggiai. Essi accelerarono il passo. Avevano in animo d’assalirmi, non
cadeva dubbio. Si figurerà di leggieri il mio spavento! Volli gridare; ma mi venne meno la voce. Mi
volsi in fuga; ma fu indarno: mi sentii afferrare da tergo; mi fu forza arrestarmi....
P. L’arresto anch’io per un momento, per farle osservare che parla troppo bene. Avrebbe potuto
dire in forma più modesta: Mi feci indietro. Quelli affrettarono il passo. Volevano assalirmi; non
c’era dubbio. S’immaginerà facilmente il mio spavento! Volli gridare; ma mi mancò la voce. Mi
diedi alla fuga; ma fu inutile; mi sentii afferrare di dietro; mi dovetti fermare… E allora?
T. Allora gridai: Aiuto! Per buona ventura, transitava là presso una brigata di villici, che i
malfattori non avevano veduti, perchè eran celati dagli alberi....
[62]
P. – Respiro! Ma quel “transitava„ per passava, e “celati„ per nascosti, e “villici„ per contadini....
T. – Quelli trassero tosto alle mie grida....
P. – Vuol dire che accorsero subito....
T. – I malandrini dileguarono....
P. – Come nebbia al vento.
T. Fui salvo. Mi palpai. Non rinvenni più il portamonete nella scarsella. Non c’eran che poche
lire; non porta il pregio di parlarne. Il peggio fu la paura, che non le saprei ritrarre in parole.
P. Capisco! “Ritrarre in parole„ dev’essere una cosa più difficile che l’esprimere semplicemente.
Ma ella si compiace troppo del difficile. Perchè non dire alla buona che non si ritrovò più il
portamonete in tasca? E perchè dire “non porta il pregio„ invece di non mette conto? In somma, se
l’è cavata con la paura.
T. – Se non mi toccò maggior danno, debbo saperne grado....
P. – Basta che ne sia grato....
T. – A quei buoni contadini. Ma la sera mi sopravvenne la febbre.
P. – Le “sopravvenne„?
T. Mi prese, andiamo; mi saltò addosso. Questo m’incolse.... mi seguì per aver posto in non
cale....
P. – Se dicesse per aver trascurato....
T. .... l’avvertimento di mio padre: che non è saggio l’aggirarsi in quei pressi senza compagnia.
Me ne ricorderò quind’innanzi.
P. Suo padre le avrà detto che non è prudente l’andare in giro soli in quei dintorni. E farà bene a
ricordarsene. Ma farà anche bene d’ora in avanti a parlare in un altro modo....
[63]
T. – Ma, insomma, non m’è sfuggito un errore!
P. No; ma il suo discorso è stato una stonatura da capo a fondo, un tessuto di parole e di frasi che
non s’usano mai da chi parla con naturalezza e con gusto, e che riescono sgradevoli quanto gli
errori, e rendono il suo parlar corretto poco meno ridicolo d’un parlare sgrammaticato.
T. – Troppo gentile! La ringrazio.
P. “Non porta il pregio.„ Ma non ponga “in non cale„ i miei consigli.Se ne rinverrà„ contento e
me ne “saprà grado.„ La riverisco e “mi dileguo.„
T. – (Impertinente!)
Varie altre osservazioni che ti dovrei esporre intorno all’affettazione nel parlare, le farai tu stesso
intrattenendoti qualche minuto con una rispettabile e amabile signora, che ho l’onore di presentarti.
[64]
LA SIGNORA PIESOSPINTO.
Le avevan messo questo soprannome perchè il bel modo letterario a ogni piè sospinto era uno dei
fiori più frequenti del suo linguaggio abituale, tutto fiorito di parole e di frasi eleganti.
Era vedova e sola, come la Roma di Dante; non più giovane, d’ottimo cuore, stimata da tutti; ma
aveva un difetto terribile, per il quale s’eran ridotti pochissimi i frequentatori del suo salottino, un
tempo assai numerosi: il difetto di parlare poeticamente. Cosa tanto più strana in quanto la buona
signora non la pretendeva punto a letterata, quantunque di letteratura e d’arte discorresse quasi
sempre; era anzi in tali discorsi molto guardinga e modesta. Quel linguaggio, che a noi riusciva
affettato, per lei era naturalissimo, ed era in fatti in perfetto accordo con tutte le altre manifestazioni
del suo essere. La sua voce, il suo accento, il suo modo d’atteggiarsi e di camminare, la sua bizzarra
pettinatura, tutta cernecchi e riccioli artefatti, che le tremolavano intorno al capo come bùbboli, e il
suo abbigliamento tutto gale e fronzoli di gusto [65] dubbio: ogni cosa rassomigliava al suo
vocabolario e alla sua fraseologia prescelta, che pareva fatta di rottami di versi. Parlava in maniera
da far credere che ogni parola d’uso comune fosse per lei una parola triviale, che ogni frase
famigliare le ripugnasse come una frase indecorosa. Per esempio: allegrezza, gioia, desiderio,
ricordo, avvenimento, momento, erano modi sbanditi dal suo dizionario; diceva: letizia, giubilo,
vaghezza, rimembranza, evento, istante. All’amico che entrava in casa sua gettava qualche volta
addosso una manata di fiori poetici anche prima ch’egli si fosse seduto. Ah, la riveggo alla fine!
Che accadde di lei? Credevo che avesse spiccato il volo verso altri lidi o che fosse di mal ferma
salute; vissi in affanno; s’assida, ingrato amico, e si scagioni. Anche parlando delle cose più
comuni usava questo linguaggio di gala. Era famosa fra i suoi conoscenti la frase con cui aveva
annunziato a un di loro una piccola disgrazia toccata a una sua cagnetta, ricciuta e infronzolata come
lei; la quale faceva un certo mugolo strano, che certi capi ameni dicevano un’affettazione. Ah,
signor mio! aveva detto. Tale era la moltitudine di piccoli insetti che infestavano la cute di
questo sventurato animaletto....
Ma benchè affettato il linguaggio, era sempre sincero il sentimento ch’ella esprimeva. Era
commossa veramente quando raccontava d’esser stata costretta, con suo gran dolore, ad espellere
una vecchia fante, dopo molti anni che l’aveva in casa, per aver risaputo che quella la vilipendeva
nel vicinato con le più nefande calunnie. Quale atroce disinganno! Chi avrebbe potuto [66]
sospettare che con quel sembiante tutto dolcezza ella albergasse nel petto un animo così malvagio!
Che schianto era stato per lei lo scoprire una nemica in quella donna, con la quale essa aveva
sempre largheggiato di doni e di favori, per lei che aveva tanto bisogno di sentirsi aleggiare intorno
la benevolenza e la simpatia!
Naturalmente, il maggior piacere che ci attirasse nel suo salotto era quello d’ammiccarsi l’un con
l’altro e di sorridere di nascosto alle più belle delle sue frasi: dico le più belle perchè il suo discorso
era un ordito così fitto di poeticherie, che non si sarebbe potuto rilevarle tutte senza farsi scorgere;
del che ci saremmo vergognati. Ma essa non sospettava. Povera signora Piesospinto! Se ci avesse
sentiti giù per le scale! Il suo frasario c’era diventato così famigliare che, fra di noi, andando da lei
ed uscendo, non parlavamo quasi più altro che alla sua maniera. E, com’è naturale, glie n’erano
affibbiate anche parecchie che non le appartenevano. Ma la più amena di tutte, qualcuno sosteneva
che l’avesse detta davvero a una delle sue amiche più strette, ed era un modo comunissimo, che dice
un’occorrenza altrettanto comune, nobilitato da lei nella nuova forma: – andare della persona. –
Ammirabile era la costanza con cui usava certi modi illustri invece di altri volgari, i quali non le
venivano mai alla bocca, come s’ella non li avesse mai intesi letti, da tanto che le si era
connaturata l’affettazione. Non diceva mai sposare, per esempio, ma impalmare; mai, non so una
cosa, ma la ignoro; mai mi fa pietà, ma mi move a pietà; mai aversi per male, ma recarsi ad onta.
Gli aggettivi, più che altro, erano [67] il suo forte; non poteva metter fuori un sostantivo senza
attaccargliene uno, che era sempre pescato fra i più signorili della lingua.
– È un pezzo, signora, che non è stata a Napoli?
– Da dieci anni non ho più veduto quella nobilissima città.
– Ha letto la notizia della morte del tale?
– Si, ho letto la malaugurosa notizia.
– Le ha fatto piacere la promozione di suo cugino?
– Sì, ne ho avuto un piacere ineffabile.
Colta un inverno da grave malore, e condotta in forse della vita, giacque a letto per lo spazio d’oltre
due mesi, e chi la trasse a salvamento, prodigandole ogni più amorevole cura, fu un giovine medico
amico nostro e suo, che della sua vezzosa favella prendeva diletto grandissimo. Con lui e con un
altro frequentatore del salotto, non tosto ella fu fuor di pericolo, mi recai a visitarla. Poi che
fummo seduti accanto al letto, la buona signora chiamò la fante, e le disse con fievole voce:
Appressati, Carolina; dischiudi lievemente le imposte, che entri un po’ di chiarore....
Poi ci ringraziò, espresse la sua gratitudine al medico, ci raccontò la storia del suo malore. E fu una
tal pioggia di fiori poetici da far pensare che durante la malattia glie ne fosse germinato in casa un
nuovo giardino. La malattia le era saltata addosso ad un tratto, a guisa d’un colpo di folgore. Stava
per uscire di casa, era già sul limitare dell’uscio, quando una subita nube le aveva come offuscato
l’intelletto, e s’era impossessata di lei una così grande debolezza, che [68] appena aveva fatto in
tempo a invocar soccorso, e le erano mancati i sensi. Il portinaio, la portinaia, la fante, accorsi tosto,
vedendo il pallore mortale del suo volto, l’avevano creduta esanime, e s’eran sciolti in pianto; poi
l’avevan portata sul suo letticciuolo, ed essa era rimasta tre giorni così, quasi inconsapevole, come
in istato di sopore, agitato da torbidi sogni. E in questo modo continuò a fiorettare, fin che ci
accomiatò cortesemente lei stessa, dicendoci d’uscire a più spirabil aere, ma che tornassimo presto a
riportarle il refrigerio della nostra cara amicizia.
Scendendo le scale, il medico faceto ci disse che la povera signora era stata veramente gravissima;
ma che anche quando si trovava in pericolo aveva sempre parlato nel modo solito. Egli si ricordava
le parole testuali. Ah, signor dottore! gli aveva detto. Non mi lusinghi di vane speranze: io
sento bene che questa mia spossatezza è foriera di prossima fine. E soggiunse che, sentendola
parlare a quel modo, aveva riconosciuto la grande verità d’una osservazione fatta da Vittor Hugo, a
proposito d’un condannato a morte, il cui discorso gli era parso mancante di naturalezza: che tutto
si cancella davanti alla morte, eccetto l’affettazione: che la bontà svanisce, che la malvagità
scompare, che l’uomo benevolo diventa amaro, che l’uomo duro diventa dolce; ma l’uomo affettato
rimane affettato. E concluse: Basta, è scampata; fra un mese sarà guarita; e io ne sono
felicissimo perchè, con tutti i suoi fiori poetici, è una gran buona signora.
– Ah, questo è fuor di dubbio – disse il comune amico – di gentili sensi dotata....
[69]
– E di non inculto intelletto – aggiunse il medico.
– E di non illeggiadro sembiante....
Finiamola; non sta bene scherzare fin che non s’è rimessa; ricominceremo quando sulla sua
guancia “torni a fiorir la rosa„.
E si ricominciò, come Dio volle, con diletto ineffabile.
[70]
VERGOGNA FUOR DI LUOGO.
Non basta, per parlar bene, sfuggire l’affettazione; bisogna pure, quando occorre, non aver timore di
parere affettati; bisogna vincere un sentimento naturale e comunissimo, specie fra noi italiani
dell’Italia settentrionale, che si potrebbe chiamare la “vergogna fuor di luogo„ della lingua.
Noi, parlando italiano, siamo tutti riluttanti ad usare parole e frasi che non appartengano a quello
scarso materiale linguistico che si possiede comunemente nella nostra regione, e la nostra riluttanza
deriva dal timore di parer pedanti e ricercati adoperando modi insoliti; i quali appunto ci paiono
strani e affettati per la sola ragione che non siamo assuefatti a dirli e a sentirli.
Per ispiegarti chiaramente la cosa ti riferisco una discussione che, mutate poche parole, dovetti
sostenere e m’occorse di sentire cento volte.
Mi domanda un tale se non c’è in italiano una parola che significhi “stringer molto la persona con
cintura o con busto o con altro, in modo [71] che essa paia meglio disposta, ma che non abbia più
liberi i movimenti.„
– Certo che c’è. Striminzire. Una ragazza striminzita nel busto. Dice anche il Giusti, per analogia, di
persone striminzite in una carrozza troppo piccola.
Striminzire! Che parola strana!
Strana perchè? Per il suono? Non è mica più strana d’impazientire e d’indolenzire, che tutti
dicono.
– Ma questa non l’ho mai intesa.
– È d’uso comune in Toscana, è in tutti i dizionari, la usano molti italiani d’ogni provincia.
– Eppure, che so io? Parlando, non l’userei.
– Per che ragione?
– Non so.... Non oserei.
Ma per la stessa ragione si dovrebbe interdire l’uso d’una quantità d’altre parole proprie,
necessarie, italianissime. Per esempio, userebbe le parole rimpulizzire, spericolarsi, spiaccicare,
stintignare, baluginare, che in certi casi significano una cosa che non si può dire per l’appunto con
un altro modo?
Spiaccicare! Baluginare! Stintignare! (dopo aver pensato un po’, sorridendo). No, glielo dico
sinceramente, non oserei. Saranno parole italianissime, e anche usatissime in altre parti d’Italia; ma
fra noi paiono strane.
E picchia sullo strano! Ma strana le parrà ogni parola che non abbia mai intesa. Quelle parole non
paiono punto strane e affettate, paiono naturalissime a tutti coloro che le usano dove sono
generalmente usate. La cagione dell’effetto che producono in lei non sta in esse medesime; ma nel
fatto che lei non è usato a sentirle. Lei [72] stesso adopera ora come naturali parole e frasi che, anni
fa, la prima volta che le intese, le saranno parse cercate col lumicino. Il tipo dell’affettato e
dell’inaffettato, in materia di lingua, ha detto un grande maestro, non è altro che l’assuefazione.
Avrà ragione. E non di meno.... che vuol che le dica? Se, parlando in famiglia o fra amici, mi
venissero sulla punta della lingua le parole stintignare, striminzire, baluginare, me le terrei in
bocca, perchè son certo che tutti quanti, udendole da me, rimarrebbero come stupiti, e direbbero fra
sè, e fors’anche forte: – Cospetto! Tu peschi nel vocabolario; tu diventi un linguista. Che lusso!
Ma se tutti ragionassero così, la lingua italiana, fra noi, rimarrebbe sempre allo stesso punto;
nessuno arricchirebbe mai il suo vocabolario d’una sola parola; dai dieci anni in su si
rimpasterebbero sempre lo stesso miserabile frasario elementare. Se tutti avessero sempre ceduto a
codesto sentimento, nell’Italia settentrionale, in Piemonte, per esempio, si parlerebbe ancora
l’italiano come si parlava quarant’anni fa.
– O non si parla ora come si parlava allora?
Ah no, per fortuna. Sono usati ora anche fra noi, parlando italiano, sono anzi diventati
comunissimi una quantità di vocaboli e di locuzioni che quand’ero ragazzo erano affatto
sconosciuti. Quarant’anni fa non le sarebbe mai occorso di sentir dire da un piemontese schiacciare
un sonno, appisolarsi, fare uno spuntino, fare ammodo, uomo di garbo, gente per bene, mi frulla
per il capo, andare in visibilio, prendere in tasca, faticare parecchio, e via discorrendo. Ora io [73]
sento questi modi ogni momento da giovani, da signore, da gente che non pensa neppur per ombra a
parlare scelto, e non c’è caso che chi li ascolta si stupisca e sorrida con l’aria di dire: Che lusso!
Eppure, quando furono intesi qui le prime volte, tutti quei modi debbono esser parsi strani come
paiono a lei quelli che ho citati.
– Le ripeto che avrà ragione; ma.... (tra sè, scrollando il capo) Striminzire! Stintignare! Baluginare!
Così è. E l’ha detto un grande scrittore, che di queste cose s’intendeva: La locuzione della lingua
in cui si scrive, la locuzione propria, unica, necessaria, può far ridere, esclamare, urlare, dov’essa
non è conosciuta in fatto; e però sono impicci da cui uno non può uscir solo: l’unico mezzo
d’uscirne è d’uscirne tutti insieme. Il che vuol dire che tutti quanti dobbiamo adoperarci a mettere
in commercio, parlando, quella parte di lingua che manca al nostro uso regionale, e che ci è
necessaria, anche a costo di far ridere, esclamare e urlare. Incomincia dunque tu a far la tua parte.
Ricordo certe famiglie d’impiegati piemontesi e lombardi, stabilite in Firenze capitale, nelle quali i
bambini, che in casa parlavano italiano, portavano ogni giorno dalla scuola una parola o una frase
nuova, di cui il padre e la madre ridevano: ne ridevano la prima volta, poi ci s’avvezzavano, e poi
dicevano quelle parole e quelle frasi essi medesimi, da prima come per celia, dopo
senz’avvedersene; e così il bambino arricchiva il dizionario e insegnava a parlare alla famiglia. E
così devi far tu nel giro delle persone fra cui vivi, usando [74] francamente le parole insolite, come
se ti venissero spontanee, vincendo la “vergogna fuor di luogo„ che è la cagione principale della
nostra perpetua miseria in materia di lingua. Miseria che conserviamo di conseguenza anche nello
scrivere, perchè tutto quel materiale di lingua, che conosciamo ma non usiamo parlando, non ci
verrà mai pronto all’occorrenza quando scriviamo, lo dovremo sempre andar a cercare, e non lo
cercheremo per pigrizia, o lo useremo male, e sarà sempre per noi come quelle stoviglie di casa che
non si tiran fuori dall’armadio che per i pranzi solenni, dove gl’invitati s’accorgono alla prima che
non siamo assuefatti ad usarle.
[75]
BELLA MUSICA SONATA MALE.
Impara a pronunziar bene. Non parla bene chi pronunzia male. E noi, quasi tutti, pronunziamo
l’italiano scelleratamente.
Una bella lingua pronunziata male è come una bella musica sciupata da un cattivo sonatore. Che
vale che la nostra sia una lingua ammirabilmente musicale se noi in mille modi ne alteriamo i suoni,
come se fosse per noi una lingua straniera? Che serve che tanti grandi poeti, nei quali erano
profondi e finissimi il senso e l’arte dell’armonia, abbiano faticato a comporre tanti versi
squisitamente armoniosi, quando noi li pronunziamo in maniera che se ci sentisse chi li fece ci
tratterebbe di cani e si tapperebbe gli orecchi? Che giova che la lingua italiana abbia tante parole
dolci, forti, gravi, agili, graziose, che suonano come note di canto, se le dolci noi inaspriamo
pronunziando delle s che sembrano fischi di serpenti, se fiacchiamo le forti scempiando le
consonanti doppie, se facciamo ridere con le gravi raddoppiando le consonanti semplici, se
aggraviamo le leggiere e deformiamo le [76] graziose strascicando o squarciando o strozzando le
vocali, e dando all’u un suono barbaro che trapassa l’orecchio come lo stridore d’un chiavistello
arrugginito? E predichiamo agli stranieri l’armonia della nostra lingua! E ci vantiamo d’aver
orecchio musicale! C’è da riderne, e da averne vergogna.
*
Come ho da fare? domanderai. Ho da toscaneggiare? Così chiamano, per canzonatura, il
pronunziar corretto tutti coloro che pronunziano barbaro e se ne trovan contenti, come se non si
potesse pronunziar l’italiano correttamente senza rifare il verso ai Toscani; chè non è altro, in fatti,
la cattiva imitazione della loro pronunzia che fanno certuni fra noi. No, non c’è bisogno di
toscaneggiare per pronunziar bene, che consiste nel dare a ogni lettera il suo vero suono e a ogni
parola il suo giusto accento, come sono indicati nelle grammatiche, nei vocabolari e in trattatelli
speciali. Tu non hai che da prendere uno di questi libri, e con la scorta delle regole e delle
indicazioni che vi troverai, badare a correggere i difetti della tua pronunzia dialettale, cominciando
dai più grossi e più ridicoli, i quali son quasi tutti comuni agl’italiani delle regioni subalpine.
Avvèzzati prima d’ogni cosa a pronunziare l’a larga, che noi tendiamo a restringere; poichè c’è chi
dice:
tanto gentile e tanto onesta pore,
e
cantando come donna innamorota
e
giunta sul pendìo
precipita l’etó;
[77] Dei del cielo! E a dir l’e e l’o larghe o strette nelle parole in cui hanno l’uno o l’altro suono: a
non allargar la bocca come un imbuto per dir vérde, frésco, césto, Róma, dóno, enórme, e le
desinenze degli avverbi in ente, che sono uno degli orrori della nostra pronunzia, veramante! E a
dare il suono duro o molle all’s, e dolce o aspro alla z dove tale dev’essere; non come si suol fare da
noi, che pronunziamo ad un modo rosa fiore e rosa participio, zaino e zampa, cosa e sposa, pranzo
e pazzo; quando non si dice pranso e passo, come da molti si dice. Ma abbiamo altri difetti di
pronunzia, dei quali i libri non ci possono correggere, come quello di triplicare spesso le consonanti
per timore di non far sentire abbastanza le doppie, come usano i nostri burattinai quando fanno
parlare i personaggi terribili: ferrro, guerrra, sconquassso, trapassso; di raddoppiare l’r in nero,
fiero e simili, per rafforzarne il significato; di non far sentire l’sc nelle parole come scendere e
scempio, che pronunziamo sendere e sempio; di pronunziare la doppia n faucale, come nel dialettale
laña, luña, nelle parole donna, ginnastica e simili; di raddoppiare la c in molte parole dov’è
semplice, come bacio, cacio, mendacio, e di metter la g in molte dove non entra (la povera Amaglia
non sa gniente), e di sopprimerla in altre dove dev’esser pronunziata (sua filia li tien compania). Ma
perchè quell’atto d’impazienza?...
[78]
*
Ho capito. Ti pare ch’io metta alla berlina della cattiva pronunzia la nostra cara provincia, e questo
ti dispiace. Ma non temere. Nessuno dei tuoi fratelli italiani ti lancerà la prima buccia di mela,
perchè hanno tutti coscienza d’esser grandi peccatori. Oltre che parecchi dei nostri difetti di
pronunzia sono comuni a varie regioni d’Italia, ciascuna ne ha altri suoi propri, che stanno a paro
coi nostri peggiori. Rassicùrati. Non ti canzonerà il milanese che allarga l’e senza discreziune e
converte in u le o finali, e pronunzia l’u alla francese cont una frequenza lacrimevole; nè il genovese
che muta in ou il dittongo au, dice aritemetica per aritmetica, e fa strage delle z; il tuo fratelo
veneziano che di tutti i cittadini dell’aregno d’Italia è il più indomabile ribelle alla leie della doppia
consonante. E il bolognese sostituisce l’e all’a nella finale dell’infinito dei verbi, fa rimar Roma con
gomma, toglie la z alle ragaze, fa scomparir le vocali quanto pió gli è possibile; e il romano ti dice
che lo interressano le notizie della guera, che le sue crature son ghiotte delle brugne e ch’egli ha un
debbole per i fonghi; e il napoletano.... No, non darà la baia al piemondese il napolitano, che muta il
t in d dopo ln, che pronunzia inghiostro e angora, e mobbile e doppo; e neppure l’abruzzese che
distende il dittongo uo in maniera da attribuire a ogni buono una bontà infinita, e mette fra due
vocali un suono gutturale aspirato: non ti burlerà neppur per idega. E neanche il siciliano sarrà fra i
tuoi canzonatori, egli che cangia in ea il dittongo ia e in u [79] tante o e che all’s davanti alle
consonanti il suono dello sh inglese, e ficca cossí spesso l’i fra il c e l’e, anche chiamando la
Concietta del suo cuore; e nemmeno il sardo, che nel raddoppiar la consonante dove è semplice, e
scempiarla dov’è doppia, non la cede a nessuno. Intesi appunto ieri note due proffessori che
discuttevano su quest’argomento.
*
Dunque, stùdiati di correggere la tua pronunzia. Ma pronunziar le parole corrette non basta. Il nostro
parlare manca generalmente d’armonia e di speditezza perchè non facciamo abbastanza troncamenti
e elisioni, perchè diciamo una quantità di vocaboli e di sillabe superflue, che allungan le frasi e
rompono l’onda armonica e c’impacciano la lingua. Sono, ciascuna per sè, superfluità minime e
durezze appena sensibili; ma che quando s’affollano, come segue spesso, in un breve giro di parole,
fanno un brutto sentire. Se, per esempio, in un periodo, dove t’occorra di dire: gl’impeti d’amore,
l’ha detto senz’arrossire, m’ha fatto girar la testa, quell’ingrato, un altr’anno, quella gran virtù, in
un mar di guai, non facevan nulla, non m’accorsi in tempo, per la qual ragione, tu non tronchi e
non elidi nulla, e dici invece: gli impeti di amore, lo ha detto senza arrossire, mi ha fatto girare la
testa, quello ingrato, un altro anno, quella grande virtù, in un mare di guai, non facevano nulla, per
la quale ragione, tu senti che il tuo parlare riesce assai meno armonico e sciolto che nell’altra forma.
Ed è singolare che, mentre [80] riusciamo duri nel parlare per non far troncamenti e elisioni dove
potrebbero farsi, riusciamo spesso egualmente duri in più d’un caso, in cui, in luogo di togliere,
aggiungiamo appunto per evitar la durezza, come nel dire: fanciulli ed adolescenti, scrissi ad Edvige
o ad Edgardo, selvatici od addomesticati.
Bada a tutte queste piccole cose, e se vuoi avere una buona norma, prendi l’edizione del romanzo I
promessi sposi, dove è raffrontato il primo testo con quello corretto nel 1840. Il Manzoni, nel
troncare e nell’elidere, s’è attenuto rigorosamente alla norma del parlar fiorentino; e si potrà
discutere sulla sua idea, che la lingua parlata a Firenze debba esser la lingua di tutti; ma non sul
fatto che l’uso fiorentino, per ciò che riguarda l’armonia del discorso, si possa seguir da tutti
fedelmente, senza timor di sbagliare. Bada all’armonia nelle due edizioni comparate del romanzo, e
ci troverai un insegnamento utilissimo a scansar nel parlare ogni ridondanza e ogni durezza di suoni.
*
Un’altra cosa. Ciascun dialetto è parlato con certe intonazioni, modulazioni, cadenze, strascicamenti
di voce e raggruppamenti di suoni, che noi, quasi tutti, facciamo sentire anche parlando italiano, e
che dànno al nostro italiano il colorito musicale, per dir così, del dialetto medesimo. Dirai che
questa musica dialettale essendo naturale in noi, noi non la sentiamo, e quindi non possiamo
liberarcene. No: la sentiamo, chi più chi meno, perchè mettiamo in canzonatura [81] chi la esagera.
La sentiamo in ogni modo quando udiamo parlare italiano uno della nostra regione con uno
d’un’altra, perchè, anche non conoscendolo di persona, lo riconosciamo dei nostri. Ebbene, quando
questo t’accade, osserva le modulazioni e le cadenze a cui lo riconosci, e t’avvedrai che sono
proprie a te pure. E non pensare che perchè tu non le avverti abitualmente o non ti riescono
sgradevoli, non siano sentite dagli italiani delle altre regioni, o non riescano sgradevoli neppure a
loro. Tanto le sentono che non son pochi quelli che, pure non comprendendo il nostro dialetto, ci
rifanno il verso per modo che noi stessi ci riconosciamo nella caricatura; la quale essi non farebbero
se la nostra musica dialettale non li facesse ridere. Ora, ogni volta che ti segua un caso simile, sta’
bene attento, chè ti può molto giovare. Io mi corressi di certe intonazioni del dialetto udendo un
attore toscano che imitava mirabilmente il modo di recitare d’un celebre attore piemontese, perchè
sentii la prima volta in quella imitazione quelle intonazioni, come un’eco della mia voce. E credi
che non riuscirai a pronunziar bene l’italiano fin che non ti sarai liberato di questa specie di melopea
vernacola, perchè è quella che ti fa forza, in certo modo, nella pronunzia viziosa delle parole, che
quasi ti costringe, senza che tu te n’avveda, a pronunziare ciascun vocabolo all’uso dialettale, in
maniera che suoni in tono con essa. Fa a questo caso il proverbio francese, che dice: è la musica
quella che fa la canzone.
[82]
*
Un mazzetto di consigli, per finire. Avvèzzati a leggere a voce alta scolpendo bene le parole.
Quando vai al teatro, sta’ attento alla pronunzia degli attori che pronunzian bene, e paragonala con
quella di quegli altri attori, dei quali riconosci il dialetto nativo. Fa’ attenzione al modo di
pronunziare di tutti quegli italiani, dei quali non ti riesce di capire in che parte d’Italia sian nati. E
non dar retta ai pigri che ti dicono: È tempo perso; a nascondere il dialetto nella lingua non si
riesce. Non è vero, e non è tanto difficile riuscirvi. Tutte le regioni d’Italia, anche quelle dove si
parla un dialetto più dissimile dalla lingua, dànno oratori forensi e politici, attori drammatici,
conferenzieri, professori, conversatori, che pronunziano l’italiano perfettamente, o quasi; nei quali
non si sente indizio alcuno dei loro propri dialetti. Fa’ il proposito di riuscire a questo tu pure,
ridendoti di chi chiama affettazione il pronunziar l’italiano da italiani, e induci a farlo anche le
signorine di casa tua; poichè io m’immagino che tu abbia delle sorelle, una almeno. E poichè me
l’immagino, e vedo che la signorina scrolla il capo, mi rivolgo a lei pure. Sì, signorina, lei che
sentirà molte volte nella sua vita lodar la dolcezza della sua voce, si studi anche lei di pronunziar
meglio; ciò che riuscirà facile ai suoi muscoli labiali fini ed elastici; perchè a che serve avere la
voce dolce se la sciupa una pronunzia ingrata? Se viaggerà fuori d’Italia vedrà molte volte degli
stranieri, che l’avranno riconosciuta italiana, porger l’orecchio [83] per raccoglier dalla sua bocca la
musica decantata della sua lingua: vorrà che rimangano disingannati? E faccia anche propaganda di
buona pronunzia, perchè la può fare senza suo incomodo. Basterà che torca leggermente la bocca
quando sentirà lodare la sua bellessa, o dir che è graziosa come un fiure, o splendida come una
stela, o seducende come una dega, o che si darebbe la vita per darle un baccio. E non risparmi
neppure quei toscaneggianti che, credendo di pronunziar toscano, non fanno di quella bella
pronunzia che una caricatura stucchevole.
[84]
STRETTA FINALE.
Animo, dunque. Comincia fin d’oggi ad avvezzarti a parlar bene, e vedrai come sarai presto
incoraggiato a proseguire dai vantaggi che ne ricaverai. Primissimo dei quali sarà quello di pensar
meglio, perchè dal parlar chiaro, proprio, preciso, scolpito, dalla consuetudine di esprimer tutto il
proprio pensiero nel miglior modo che ci è possibile, s’è immancabilmente condotti a “spiegarci con
noi stessi e a meglio intenderci noi medesimi„, a formulare con maggior chiarezza e maggior
precisione il pensiero anche nell’officina silenziosa della nostra mente. E sarai anche incoraggiato a
proseguire dalla sodisfazione che il tuo parlar bene produrrà evidentemente negli altri, poic è un
fatto che chi parla con chiarezza, precisione, facilità e speditezza, facendoci risparmiar tempo e
sforzo d’attenzione e imprimendoci nette nella mente quelle cose che ci preme di ricordare, ci
procaccia, oltre che un piacere di natura artistica, un vantaggio, di cui gli siamo grati. E ti sarà
incoraggiamento e compenso quello ch’io molte volte osservai ed [85] osservo: che è per quasi tutti
una sodisfazione d’amor proprio il sentir parlar bene l’italiano da un concittadino della loro stessa
regione, perchè vedono in lui una prova che essi pure, volendo, ci riuscirebbero, un argomento
vivente contro l’opinione di quegli italiani d’altre regioni, i quali li dicono e li stimano inetti (la
cosa è frequente e reciproca) a parlare un italiano italiano. E queste sodisfazioni avrai per tutta la
vita, e con queste molte altre, in mille casi, a mille diversi propositi, in mille forme diverse e
inaspettate, poichè non puoi immaginare quante simpatie, quanti atti cortesi, quanti consensi, quante
agevolezze non ci derivan da altro nel mondo che dalla scioltezza, dalla grazia, dalla convenienza
della parola.
Ma per parlare bene bisogna possedere il materiale della lingua, e in che maniera questo s’acquisti
vedrai nella seconda parte del libro. Chiuderà la prima un bell’originale, che non è forse inutile che
tu conosca.
[86]
L’AMÍO ENRÍO.
Aveva passato parecchi anni a Firenze; ma quello che per ogni altro italiano, come direbbe l’Alfieri,
boreale, desideroso d’imparar la lingua, sarebbe stata una buona fortuna, per lui era stata una
disgrazia, perchè in riva all’Arno aveva perduto la naturalezza del parlare, e raccattato soltanto le
scorie idiomatiche che gli stessi toscani colti ributtano. Aveva fatto una gran retata d’idiotismi e
di vezzi di lingua mercatina, come se la fiorentinità non consistesse in altro, e preso per giunta il
malanno di pronunziar più fiorentino dei fiorentini, esagerando istrionicamente tutte le inflessioni di
voce loro proprie, e aspirando la c perfin nelle parole dov’essi non l’aspirano. Per questo lo
chiamavamo l’amío Enrío, essendo Enrico il suo nome di battesimo. Non diceva più un tu, neanche
a pagarglielo. Vieni te a ber la birra? Se’ stato te, se’ stato! Te mi vorresti canzonare!
Bandiva il dittongo uo da ogni parola: non diceva più che core, omo, bono, spalancando la bocca
come per [87] inghiottire un ovo sodo. E gl’icché t’ho da dire e i questecchequí e i l’aresti a avere li
spacciava a canestrelli. Figurarsi la faccia che facevano a questa roba i suoi “rozzi„ amici
pedemontani!
Ma quello che rendeva più uggioso il suo toscaneggiamento era l’inettitudine dell’imitazione,
poichè spesso, anzi ogni momento, fra due parole pronunziate alla fiorentina ne pronunziava una
alla piemontese, che sonava come una stecca falsa; ciò che faceva dire con ragione agli amici che in
ogni suo periodo dietro Stenterello saltava fuori Gianduia.
E sarebbe stato un amico piacevole, perchè in fondo era di buona indole, e di spirito arguto; ma
riusciva insopportabile per quella sua parlata artifiziosa e bastarda. C’era fra gli altri, nella brigata
degli amici, un genovese, che pativa una vera tortura a sentirlo. Che volete? ci diceva.
Quand’io gli sento dire aritmetica per aritemetica, Enna per Etena, austríao per austriaco, mi vien
la pelle d’oca. – E allora era un doppio spasso, perchè si rideva insieme del critico e del criticato.
Un altro, che avesse parlato a quel modo, l’avremmo corretto a furia di canzonature e di risate; ma a
questo con lui nessuno s’arrischiava, perchè era un buon giovane, ma ombroso, che non reggeva la
celia, e tirava bene di scherma. I tolleranti se ne spassavano senza che se n’avvedesse, gli altri
gonfiavano in silenzio, e così egli non aveva mai un sospetto di far ridere le gente alle proprie
spalle, e toscaneggiava a tutto pasto, altero e felisce di tener lo scettro della buona lingua e della
bella pronunzia. Ma non riusciva a ingannar nessuno, neppur la prima [88] volta che lo sentivano, e
nemmeno persone incolte, o che non fossero mai state in Toscana, tanto è giusto il verso
Troppo toscano non toscan l’accusa.
Anche costoro, dopo venti parole, sentivano la caricatura, la contraffazione grossolana, e
sorridevano, incerti, come domandando a stessi s’egli parlasse sul serio o per burla, e aspettando
che da un momento all’altro ripigliasse il parlar naturale.
Di quando in quando, per effetto di quel suo parlare, gli seguivano dei casi comici.
Un giorno, credendo d’aver lasciata la canna (com’egli chiamava alla subalpina la mazza) in un
caffè, vi ritornò mezz’ora dopo, e domandò al padrone: – Ha veduto la mi’ anna?
Quegli, pensando che domandasse se era stata a cercarlo nel caffè la sua signora, benchè gli paresse
un po’ troppo famigliare quel modo di nominarla, gli rispose di no, perchè signore, in fatti, non ce
n’era state.
E allora l’amío, rivolgendosi al cameriere: – Guarda un po’ sotto il biliardo.
Immaginate la risata.
Un’altra volta, a un conoscente che gli andò a chiedere informazioni intorno a un nuovo professore
destinato al Ginnasio del proprio figliuolo, disse fra l’altro: È d’umore un po’ vivo; bocia, bocia
sempre; ma in fondo è un omo bono. E quegli, scattando: La grazia di quella bontà! Da un
professore che boccia tutti il mio ragazzo non ce lo mando.
Ma queste piccole contrarietà non lo correggevano. Egli seguitava a ingollar le c e a [89] profondere
i te sempre più allegramente; e con maggiore esagerazione e a voce più alta toscaneggiava nei caffè
e nei teatri, dove ci occorreva spesso d’osservare intorno a lui quel fatto psichico curiosissimo, che
si potrebbe chiamare l’inversione o la traslazione della vergogna: persone sconosciute che,
udendolo, chinavano il capo e restavan impacciate, e qualche volta arrossivano, come se quel
linguaggio falsificato e ridicolo uscisse a loro malgrado dalla loro bocca, nel modo che escon le
parole dalla bocca dei farneticanti.
Ma quel mal vezzo finì con portargli disgrazia.
Fu un caso curioso. Una sera, nella platea d’un teatro, mentre egli toscaneggiava con un suo amico,
a voce alta, com’era solito, fu inteso da un signore toscano, che discorreva con altri, accanto, e
che, riconoscendo apocrifa quella toscanità ostentata, sospettò che parlasse a quel modo per rifare il
verso a lui. Risentito, gli domandò spiegazione. L’amío rispose con buon garbo, ma rimangiando
due o tre c di quelle che i toscani non mangiano; ciò che ribadì il sospetto nell’altro, che gli tirò
un’impertinenza, la quale ebbe per risposta un urtone. Alle corte, si barattarono i biglietti di visita,
non ci fu modo di raggiustarla, ne seguì un duello, e l’amío Enrío ebbe una leggiera sdrucitura al
braccio destro.
Andai a visitare il ferito con un comune amico; il quale, prima di tirare il campanello, fece
un’osservazione consolante. Tutto il male non vien per nuocere disse. Quest’avventura l’avrà
guarito dalla toscanite. – E lo credevo io pure.
Lo trovammo sulla poltrona, col braccio al [90] collo, d’ottimo umore. E proprio le prime parole che
disse, rispondendo al mio: – Com’è andata? – furon queste: – O che vo’ tu ch’i’ ti dia?
È incurabile! – esclamò l’amico quando uscimmo. – E glie ne toccherà dell’altre. È il suo destino.
Egli ha da morir sul terreno, e di ferro etrusco.
[91]
PER IMPARARE I VOCABOLI.
Bisogna, la prima cosa, acquistare il materiale della lingua.
Parlando a te, italiano, intendo dire con materiale della lingua„ tutti quei vocaboli e quelle
locuzioni che mancano generalmente all’italiano parlato fuor della Toscana.
Gli uni e le altre si possono cercare ad un tempo; ma sarà meglio che tu incominci coi vocaboli, che
sono i più necessari, e che per qualche tempo non t’occupi d’altro.
Ci sono, prima di tutto, certe consuetudini del pensiero, che tu devi prendere.
Delle moltissime parole che non sappiamo molte le abbiamo lette o intese dire; ma non ci sono
rimaste nella memoria perchè non abbiamo fermato su esse, neppure un momento, l’attenzione.
Bisogna dunque, ogni volta che ci cade sott’occhio o ci viene all’orecchio una parola non compresa
nel nostro vocabolario abituale, guardarla in faccia come si guarda una persona sconosciuta che ci si
presenti, fare un atto della volontà per ritenerla, metterci sopra, per così [92] dire, il suggello del
nostro pensiero. Se, leggendo o ascoltando, avessimo fatto questo, non dico sempre, ma soltanto una
volta su cinque, anche senza ricorrer mai alla penna, avremmo tutti nella memoria molte centinaia
di vocaboli di più di quelli che possediamo.
Poi: ogni volta che discorrendo ci manca una parola per designare una data cosa, prender nota nella
nostra memoria di quella mancanza, e ripararvi quanto prima ci è possibile, cercando quella parola.
Ogni volta che ci càpita alle mani o ci si presenta in qualunque modo un oggetto usuale od insolito,
domandare a noi stessi, non solo se lo sapremmo nominare a chi non lo conoscesse, ma se glielo
sapremmo descrivere nominando le sue varie parti, e, non sapendo, cercare il nome delle sue varie
parti, per metterci in grado di descriverlo. Ogni volta che troviamo in un libro una parola nuova,
della quale non comprendiamo il significato, non cercarla immediatamente nel vocabolario, chè,
trovata così subito senza fatica, non ci rimane impressa; ma pensarci un po’, cercare d’intenderla da
noi stessi, segnarla nella nostra mente con un punto interrogativo; al quale essa rimarrà poi attaccata
come a un gancio quando sapremo che cosa significa, perchè non si dimenticano mai le parole
nuove sulle quali s’è esercitata la curiosità, e di cui c’è costato qualche sforzo l’apprendere il senso.
Ma questo non basta. Tu, che sei sulla via degli studi, devi fare questo studio in forma ordinata e
metodica.
Proponiti, da principio, d’imparare i nomi di tutte le cose che t’occorre ogni giorno di vedere, [93]
toccare, adoperare. Prendi uno di quei Prontuari dove son registrati tutti i nomi degli oggetti d’uso
domestico, con la descrizione di ciascun oggetto, la quale comprende i nomi d’ogni sua parte.
Comincia dalla roba che porti addosso, per poi passare alle cose che hai sempre tra mano, ai mobili
della tua camera, alla mensa, allo scrittoio, agli arredi e utensili di tutta la casa, alle varie parti della
casa stessa. Va’ innanzi con ordine, a poco a poco, fissandoti d’imparare ogni giorno un certo
numero di nomi. Non ti costerà alcuno sforzo il ritenerli, avendo sempre sott’occhio le cose a cui si
riferiscono, e a ritenerli t’aiuterà il dirli spesso a voce alta, con pronunzia netta. Passerai poi dalla
casa al cortile, al giardino, a tutti gli annessi e connessi della casa, e poi alle varie parti della città e
ai luoghi e ai servizi pubblici, e alle arti e ai mestieri più comuni. E non considerar neppure come
uno studio quest’occupazione; fattene uno svago dello spirito. E ogni volta che te ne sentirai un po’
svogliato, pensa che ciascuna delle parole che ti si stamperà stabilmente nella memoria ti
risparmierà mille volte, nel corso della vita, un’incertezza, un impaccio, una piccola vergogna; che
mille volte la cognizione di una data parola ti toglierà, nel parlare e nello scrivere, un intoppo, il
quale romperebbe il corso del tuo pensiero e la foga del tuo discorso; che ogni vocabolo che
s’impara, anche se paia superfluo, è come uno di quegli utensili da nulla, dei quali non s’ha bisogno
quasi mai, ma che una o due volte in molt’anni son necessari, e se non si ritrovano, non si sa che
pesci pigliare.
E poi vedrai che anche questo studio, che ora [94] ti par materiale, ti darà sodisfazioni che non
t’aspetti. Quando il tuo corredo di vocaboli sarà già considerevole, t’accorgerai che ogni nuova
parola ti rimarrà impressa assai più facilmente che per il passato, perchè in quel particolare esercizio
ti si sarà fortificata e fatta tenace la memoria mirabilmente. Riconoscerai, quando potrai nominare
molte cose e particolari di cose di cui prima non sapevi il nome, di quanti giri di parole, di quante
definizioni e descrizioni e lungaggini, che prima non potevi scansare, potrai far di meno parlando, e
che nuovo sentimento di libertà e di sicurezza avrai nel parlare, non essendo più impensierito di
continuo dal timore d’inciampare nell’impedimento d’una cosa comunissima, che tu debba
nominare e non sappia, o nella necessità di fare una svoltata col discorso per non averla da
nominare. E vedrai quante volte, dopo che ti ci sarai avvezzato per proposito, ti sarà un passatempo
piacevole, trovandoti ad aspettare in qualche luogo, come un’officina o una bottega o una sala, rifar
nella tua mente la nomenclatura di tutte le cose che avrai dintorno; e come ti divertirai a osservare
gli artifizi curiosi coi quali la gente s’ingegna, nella conversazione italiana, di nascondere la propria
ignoranza dei vocaboli più necessari, e di farsi in qualche modo capire; e che piacere sarà per te in
molti casi il levar d’impaccio chi parla, anche persone d’età maggiore e di cultura superiore alla tua,
porgendo loro gli spiccioli per le minute spese del discorso.
Mettiti dunque a questo studio, non con l’impazienza di chi ha uno scopo immediato; ma [95]
tranquillamente, adagio adagio, nei tuoi ritagli di tempo, contentandoti di poco ogni giorno, e
rimarrai maravigliato ben presto della quantità di materiale linguistico, che senza fatica, quasi
senz’avvedertene, ti troverai accumulato nella memoria.
[96]
DIVERSI MODI DI STUDIAR LA LINGUA.
Suppongo ora che tu mi domandi in qual modo dovrai proseguire, allargando il campo dello studio,
dopo aver fatto la preparazione che accennai riguardo ai vocaboli.
Darò alla tua domanda cinque risposte, le quali mi furon date (quattro per iscritto e una a voce) da
cinque studiosi, che interrogai per conto tuo.
L’aristocratico.
Io non sono un registratore un magazziniere della lingua. Non mi servii mai della penna per
questo studio. Lessi e leggo gli scrittori migliori di tutti i secoli con la matita alla mano, sottolineo
ogni parola e ogni locuzione che mi riesca nuova, e mi paia efficace, e usabile anche da uno
scrittore del tempo presente, e cerco d’imprimerla nella memoria insieme con la frase o col periodo
a cui appartiene, e, più che altro, con l’idea ch’essa esprime o concorre ad esprimere. Non volli mai
trascrivere a parte frasi, locuzioni o parole perchè, se si metton sulla [97] carta, non si fa più sforzo
della memoria per ritenerle, sapendo che si rileggeranno poi; e anche perchè, quando si hanno di
queste raccolte, facilmente si cede alla tentazione d’andarvi a far provvista prima di mettersi a
scrivere, onde avviene che nello scritto si scopra la mano del raccoglitore; e per quest’altra ragione,
finalmente, che i modi registrati così solitari, quando poi s’è dimenticato il posto che occupavano, la
serie d’idee a cui eran legati, il significato e il valore che ricavavano dal contesto, s’adoperano
spesso in un senso che non è quello per l’appunto che avevano dove li abbiamo trovati. Dunque,
sottolineo soltanto, e questo mi basta a riparare poi alle dimenticanze. Tutti i miei libri son pieni di
sottolineature. Quando, dopo un pezzo, ne riapro uno, scorrendolo con l’occhio solamente, vi
ritrovo in pochissimo tempo tutto quanto v’è di meglio in materia di lingua, e con la memoria delle
voci e delle frasi mi ravvivo quella dei pensieri, la quale corregge alla sua volta, se mi s’è alterato
nella mente, il concetto del significato e del valore d’ogni frase e d’ogni voce. Così le mie note
linguistiche sono sparse in centinaia di volumi, e questa, a mio giudizio, è la maniera più
intellettuale di studiar la lingua. Per me un periodo è come un viso umano: certi studiosi della lingua
ne staccano un occhio, un orecchio, il naso, il mento, e li conservano a parte: io mi stampo nella
mente tutto il viso; voglio dire che affido la memoria della parola a quella dell’idea. Aggiungo che
quest’uso di sottolineare i libri me ne rende particolarmente piacevole e utile la seconda lettura,
perchè, ritrovandovi segnate tutte le mie prime [98] impressioni, dalle quali spesso riescon diverse le
seconde, mi vien fatto di cercare le ragioni delle diversità, che derivano o da un diverso stato
dell’animo, o da nuove cognizioni acquisite, o da gusti mutati, e quest’operazione mentale ha per
effetto d’imprimermi più profondamente nella memoria le parole e le frasi. E non è da credere che
riesca poi troppo difficile il ritrovare, per chiarirsi d’un dubbio, una data parola o locuzione in quel
mare di segni, perchè quest’uso di sottolineare fortifica ed estende straordinariamente la facoltà
della memoria locale; tanto che di moltissime di quelle si ricorda fino il punto della pagina dove
restano e il tratto particolare della matita con cui si sono segnate. Io ho dinanzi agli occhi della
mente centinaia di frasi e di vocaboli sottolineati in centinaia di pagine, in cima, in fondo, nel
mezzo, da un lato e dall’altro, chiari e netti per effetto della sottolineatura come se fossero in
caratteri rilevati. Il mio dizionario, il mio frasario è la mia biblioteca. I miei fiori di lingua non sono
stretti in mazzi, ordinati in tepidari, affollati in aiuole; ma sparsi sur un vastissimo spazio, piantati
nella terra dove nacquero, olezzanti all’aria aperta e viva; e le corse che ho da fare col pensiero per
rivederli mi fanno bene alla salute dello spirito, mi accrescono le forze e l’agilità della mente. Per
mantenermi nel possesso del mio materiale linguistico mi debbo rimettere ogni tanto in
conversazione diretta coi grandi maestri da cui lo presi, e questo mi occasione e modo di
raccogliere dalla loro bocca nuovi tesori. Ecco il modo di studiar la lingua, ch’io consiglierei ai
giovani. Non empite dei quaderni di note, chè [99] v’avvezzate a pescar la parola per la parola, la
frase per la frase. Non serve avere in mente una locuzione se non è legata a un pensiero, e se il
pensiero vi resta, vi resterà quella con esso, senza bisogno di metterla a sedere sulla carta, di dove
non accorrerà più pronta al vostro bisogno, e dovrete andarla a prendere e tirar fuori a forza. Trattate
la lingua da gran signori, non da pitocchi. Ospitatela nel grande palazzo della vostra memoria; non
la soffocate nei ripostigli oscuri degli scartabelli. La lingua è pensiero, è sentimento, è bellezza;
cercate nei grandi scrittori queste tre cose; pensate, commovetevi, dilettatevi, e imparerete la lingua;
essa vi deve entrare nella mente e nell’animo a raggi d’idee, a ondate d’affetto, a scosse
d’ammirazione. E il modo ch’io consiglio è anche il solo che non stanchi mai; chè, anzi, tanto più
riesce gradevole e profittevole quanto più, andando innanzi con gli anni, s’impara a pensare, e il
leggere con la matita alla mano diventa un abito che non si può più smettere; dovechè la pazienza di
raccogliere, trascrivere e rileggere delle note morte, facilmente si perde, tanto più quanto si fa più
vivo e acuto il pensiero. Il mio è uno studio, un modo da pensatore e da artista; l’altro è una fatica,
come direbbe il Carducci, da spazzaturai di parole. Nello studio della lingua sono aristocratico.
Il classificatore.
Io sono nello studio della lingua, come in ogni altra cosa, un uomo d’ordine, e in questo vo fino alla
pedanteria. Fin da quando principiai, mi persuasi che il metodo migliore di studiare [100] era quello
di raccogliere con la penna e di disporre nella mia raccolta il materiale della lingua come si
dispongono i libri nelle biblioteche, per ordine di materie. Mi fissai prima una serie di titoli, sotto i
quali potessi raggruppare tutte le voci e locuzioni che venivo notando negli scrittori man mano che
procedevo nelle mie letture. Presi tanti quaderni, scrissi sopra ciascuno uno dei titoli, e sotto ciascun
titolo feci una seconda serie di divisioni. Per esempio, nel quaderno Natura: Cielo, mare,
fenomeni meteorologici, vegetazione, ecc. –; nel quaderno Passioni: amore, gioia, ira, odio, e via
discorrendo. Un quaderno per i ritratti fisici, uno per i ritratti morali, uno per il movimento (sia
d’esseri viventi, sia di cose inanimate), uno per il vestire, per il mangiare, per il parlare, per le arti
belle, per la critica letteraria, per il linguaggio faceto, per i suoni e rumori; e potrei proseguire.
Ogni parola o locuzione ch’io legga negli scrittori, o senta dire, o trovi nel vocabolario, la quale io
mi voglia appropriare, la scrivo nel quaderno, e sotto il titolo, a cui si riferisce. Dopo che cominciai
questo lavoro, furon fatte varie pubblicazioni informate allo stesso concetto, ad uso degli studiosi;
ma io tirai innanzi egualmente, con la persuasione che nessuna di quelle opere, anche se più ampia e
meglio ordinata, m’avrebbe giovato quanto quella che andavo facendo io medesimo; perchè fra il
materiale di lingua scelto e raccolto da altri e quello scelto e raccolto da noi, per ciò che riguarda la
memoria, corre presso a poco la stessa differenza che tra il ricordare dei versi propri e il ricordare
dei versi altrui. In pochi anni, facendo [101] poco ogni giorno, ho raccolto un materiale ricchissimo.
Questo metodo presenta due grandi vantaggi. Il primo è che, ricorrendo ogni tanto ciascuna serie di
note, per l’affinità che è fra di esse, che l’una tira l’altra come le ciliege, molto facilmente si
richiamano alla memoria tutte o in gran parte. Il secondo è che, per la stessa ragione dell’affinità,
riesce singolarmente piacevole il rileggerle. Ogni volta ch’io ripasso ciascuna di quelle filze di
parole e di modi di dire, che si riferiscono tutti a un soggetto unico, mi si ravviva, con
l’ammirazione della ricchezza e della varietà della nostra lingua, la volontà e il piacere di studiarla.
Mi par di sentire un linguista maraviglioso che sfoggi tutta la sua dottrina mettendo fuori
rapidamente tutto il vocabolario e tutto il frasario che si possono usare a quel dato proposito, o che
si diverta a dire in cento modi diversi, con cento gradazioni di significato, con cento sfumature di
colore quella data cosa; o una folla di persone che della stessa cosa discorrano tutte insieme,
rivoltando l’idea per tutti i versi, accennandone tutti i particolari, studiandosi ciascuna di non
servirsi della espressione altrui. È anche un altro diletto dell’immaginazione vivissimo. Quando
leggo le pagine del movimento, per esempio, io vedo passare con tutte le andature, scarrierare,
arrancare, ballettare, sbalzellare, saltabeccare, giravoltolare, capitombolare, volicchiare, sguizzare,
frullare, sfarfallare, ecc., ecc., movere in tutti i modi possibili mille forme animate e inanimate, una
danza universale, un caos agitato d’immagini, che m’eccita il pensiero come lo spettacolo reale d’un
vasto movimento [102] svariatissimo d’esseri viventi e di cose. Quando entro nella partizione
dell’Ira, mi par d’entrare in una bolgia dell’inferno, in mezzo a una moltitudine d’energumeni, dove
ciascuno grida una delle parole o delle frasi notate, e in queste vedo le immagini delle facce accese e
gli atti violenti che accompagnano le voci, di cui l’una risponde all’altra, come in un’assemblea
politica fuor della grazia di Dio. E le pagine dell’Amore! Non avete idea della dolcezza che mettono
nell’animo tutte quelle parole e frasi d’amore ardente, tenero, voluttuoso, disperato, beato, che
paiono di tante coppie d’innamorati invisibili, le quali spandano nell’aria, passando di volo, il grido
del loro cuore. E così nel vocabolario dei Suoni, voci, rumori, mi par di passare da una sala di
concerti in un’officina, dall’officina sur un campo di battaglia, dal campo di battaglia nell’arca di
Noè; e scorrendo le pagine del mangiare e bere ho l’illusione di sedere a una mensa di gastronomi
eccitati, che non parlino d’altro che di pappatoria, sfoggiando tutta la loro dottrina terminologica
intorno all’oggetto della loro passione; e ripassando la raccolta relativa alla Natura, vedo aurore e
tramonti, rapide variazioni di tempo, aspetti diversi della campagna, e passo fiumi, corro mari, salgo
montagne, scendo nelle viscere della terra, percorro in poche pagine tutte le latitudini e assisto a
cento diversi fenomeni del cielo e della terra. V’ho data un’idea del mio metodo? Il quale offre
ancora altri vantaggi. Ogni volta che ho da scrivere, rileggo prima le pagine dov’è raccolto un
materiale di lingua relativo al mio soggetto, e non solo mi ravvivo nella memoria, in quel modo, in
pochi [103] minuti, una quantità di voci e di locuzioni che mi possono giovare; ma quella rapida
lettura miuna scossa alla fantasia, mi desta nella mente una folla d’immagini, che formano come
un preludio sinfonico, che sono per me come una prima ispirazione efficacissima al lavoro che sto
per imprendere. Aggiungete che, raccogliendo e ordinando il materiale della lingua in questa forma,
l’atto di riflessione che s’ha da fare sopra una quantità di parole e di frasi dubbie per determinare la
divisione in cui si debbono inscrivere, vi fa penetrar più addentro con la mente nel significato di
ciascuna; e che la lettura ripetuta di tante serie di modi di senso affine vi assuefà a meditare sulle
sfumature dei significati, vi chiarisce il criterio della scelta, vi raffina il senso della lingua. In fine,
quello che io feci e continuo a fare è un dizionario mio, del quale ho una grande padronanza, nel
quale ritrovo con grande facilità ogni parola o frase di cui non abbia o tema di non avere esatta
memoria; un dizionario in cui godo a tuffar le mani come in un mucchio di monete o di gemme che
io mi sia guadagnate o che abbia trovate io stesso a una a una; un tesoro di lingua accumulato con
gran cura, che io amo, che mi compiaccio d’arricchire e d’abbellire, come una casa piena di cose
belle e utili, perfezionandone a mano a mano l’ordine e l’assetto, con sentimento di proprietario e
d’artista. Ecco come studiai e studio la lingua. Mi ci volle molta pazienza in principio; poi feci il
lavoro con piacere; ora lo continuo con amore. E non credo che ci sia metodo migliore: per le teste
costrutte come la mia, ben inteso.
[104]
Lo mnemonico.
In che modo studiai la lingua? In un modo semplicissimo, per il quale non occorre il calamaio. È la
buon’anima di mio padre, dantista appassionato, che me ne diede l’idea. Un giorno, dopo avermi
letto e commentato il canto dei Serpenti, ch’egli considerava come un miracolo di potenza
descrittiva: Vedi mi disse in queste cinquanta terzine, oltre le stupende bellezze d’invenzione
e d’armonia, in quanti diversi modi son dette mirabilmente cose difficilissime a dirsi, quale
maravigliosa proprietà di vocaboli, e quanta ricchezza di lingua! Chi impara questo canto a
memoria si mette in capo più materiale di lingua che non ne potrebbe raccogliere da qualche volume
di bella prosa. Io imparai quel canto a memoria. Fu questo il mio primo passo sulla via che tenni
poi. Avendo esperimentato che con quel canto m’ero appropriato una quantità di modi, i quali mi
venivano facilmente alle labbra o alla penna anche nel discorrere o nello scrivere di cose che non
avevano alcuna relazione con la materia del canto medesimo, pensai: Non sarebbe un buon modo
d’imparar la lingua quello di mandar a mente della poesia, che è facile a imparare e a ritenere? E
d’allora in poi andai cercando e studiando poesie e frammenti di poesie, particolarmente ricche di
buona lingua; ma, si noti, di lingua più conforme a quella della prosa che non sia il così detto
linguaggio poetico; la quale si trova in special modo nella poesia faceta o satirica, famigliare o
popolare che si voglia dire. Ricordo che la seconda cosa che [105] imparai fu un capitolo del Berni, e
la terza i duecento versi sciolti della Gita a Montecatini del Giusti: uno dei componimenti poetici,
ch’io mi conosca nella letteratura italiana, più fitti di modi e di costrutti del linguaggio parlato, e più
facili a ritenersi, benchè non rimato, per la fluidità insuperabile dello stile. Con questo criterio scelsi
poi tutte le altre poesie. Esperimentai un particolare vantaggio nell’imparar sonetti; le cui locuzioni,
entrando nella mente strette e chiuse in una breve forma compiuta, vi rimangono impresse più
distintamente, quasi in disparte, e pronte tutte insieme a ogni richiamo del pensiero; e però imparai
centinaia di sonetti di tutti i secoli. La facilità, che acquistai con quest’esercizio, di mandar versi a
mente, non è credibile da chi non n’abbia fatto la prova; sarei creduto se dicessi quanti me ne
insaccai nella testa. E non ne perdetti, in molti anni, che un’assai piccola parte, perchè ebbi ed ho
ancora la consuetudine di riandare di quando in quando, un poco per volta, e con cert’ordine, la
materia acquistata. Spesso, nei ritagli di tempo, nelle passeggiate solitarie, e di notte, quando non
viene il sonno, e dovunque aspetti qualcuno, mi ridico mentalmente dei versi. Ma quello che me li
stampò nella memoria in forma incancellabile è l’uso, a cui sempre m’attenni e m’attengo, quando
m’occorrono lacune e incertezze, di non ripararvi mai ricercando il testo; ma di cercare
tranquillamente e pazientemente nel mio capo le parole e le frasi che mancano, o che si sono
alterate; nel qual lavoro mi move una curiosità d’indovinatore d’enigmi, che me lo rende oltremodo
piacevole. Dopo aver studiato per [106] lungo tempo nient’altro che versi, mi diedi alla prosa,
scegliendo nei migliori scrittori quelle pagine diventate celebri per forza d’eloquenza, nelle quali è
un ritmo oratorio che rende più facile l’impararle a mente. E studiai e so a menadito parecchie delle
più belle parlate dei personaggi del Decamerone, decine di pagine del Machiavelli, quasi intera
l’apologia di Lorenzino dei Medici, lettere del Caro, frammenti di dialoghi di Galileo, discorsi del
Carducci, molti dei passi migliori dei Promessi sposi. Il maggior vantaggio di questo studio è che
con le parole e le frasi mi restano nella mente la struttura dei periodi, la musica dello stile,
l’andamento del pensiero, proprio di ciascuno scrittore. E in che modo vi restano! Non lo può
immaginare chi non ha fatto un’egual prova. A rischio di farla ridere alle mie spalle, le dico che
tutta quella prosa, quando la ridico a me stesso, o alla muta o di viva voce, non mi par più roba
d’altri, ma mia; che mi par veramente che tutti quei pensieri siano usciti in quella data forma dal
fondo del mio cervello; ed è così fatta l’illusione, che quando in luogo d’una parola o d’una frase
del testo me ne scappa un’altra, sento l’errore subito e scatto, quasi offeso, come un musicista che
senta una stonatura in una melodia propria sonata da un altro. Da questo segue che nel parlare e
nello scrivere non m’accorgo punto delle locuzioni che adopero, prese dalle pagine che so a
memoria; poichè mi son tutte così profondamente fitte nel capo, così intimamente compenetrate coi
pensieri abituali, che non le posso più discernere da quell’altro materiale linguistico che abbiamo
tutti nella mente fin dall’infanzia, senza [107] saper quando come vi sia penetrato. La ho
persuasa della bontà del mio metodo? Io ne son persuaso per modo dall’esperienza, che a quanti
giovani mi chiedon consiglio, do questo consiglio: Studiate a mente. Una pagina di prosa o di
poesia, bella e ricca di lingua, che vi stampiate nella memoria, che vi appropriate, che vi assimiliate
in maniera da parervi che sia pensiero, arte, musica vostra, vi gioverà più di cento letture, più d’un
monte di note, più d’un mese impiegato a scartabellar dizionarî. Studiate anche una cosa sola ogni
mese e vedrete qual vantaggio ne avrete dopo un anno. Cominciate con la poesia, passate poi alla
prosa. Oltre all’imparare il materiale della lingua, scoprirete a poco a poco le più segrete virtù
musicali degli stili, le finezze più squisite dell’arte dello scrivere, senza sforzo, per il solo effetto
della ripetizione. Vi formerete una biblioteca mentale in cui troverete un piacere e un conforto
grandissimo in mille congiunture della vita, ogni giorno, ogni momento; un’Antologia che avrete
sempre aperta dinanzi agli occhi, dovunque siate, come una visione permanente dello spirito; una
raccolta inestimabile di bellezze di lingua, non solitarie e fredde, ma contessute e armonizzate
dall’arte dei grandi maestri, animate dal pensiero, scaldate dall’ispirazione: forma e sostanza,
splendore e sapienza ad un tempo. Io pensavo da principio che l’amore di questa maniera di studio
mi sarebbe scemato con gli anni; ma non scemò: si fece più vivo. Ogni passo di scrittore ch’io so a
memoria è per me come un amico e un maestro di lingua che m’accompagna da per tutto, sempre
pronto a rallegrarmi e a insegnarmi qualche cosa. Oggi ancora, quando leggo una poesia [108] o uno
squarcio di prosa magistrale, dico a me stesso: Facciamoci un nuovo amico, e me lo faccio, con
una facilità maravigliosa oramai. Ella, per bontà sua, dice che sono uno scrittore. Ebbene, sono
diventato uno scrittore in questo modo. E può scrollar le spalle chi vuole: io continuo.
Il miscellaneo.
Un metodo, io? Ma le pare che un arruffone par mio possa avere un metodo? Io non sono che un
dilettante, che studia la lingua per ispasso, in una maniera affatto irragionevole. Ho un così detto
Gran libro della lingua, nel quale esperimento tutti i metodi; ma seguo di preferenza quello che
tengono inconsciamente i bambini nell’imparare a parlare: un curiosissimo libro, in cui si rispecchia
il disordine matto della mia mente, il perpetuo trescone che ballano le idee nel mio capo. Lo vuol
vedere? È una maraviglia di scapigliatura intellettuale. Mentre lei lo sfoglierà, io le darò le
spiegazioni occorrenti, e può darsi che si diverta.
Dicendo questo, tirò giù da uno scaffale un grosso registro, che pareva il Libro maestro di una Casa
di commercio, e me lo mise aperto sul tavolo.
– Veda – mi disse – le prime pagine. Io vi cominciai a notare parole e frasi prese dagli scrittori, man
mano che li andavo leggendo, senz’ordine di tempo nè di materie. Vede che si salta dal Boccaccio al
Giusti, da Gino Capponi al Guicciardini, dal Cellini al Leopardi. Noti qui, fra gli estratti di due
trecentisti, uno studio sulla [109] terminologia del vestiario femminile, che feci sulla traduzione d’un
romanzo francese, fatta da Ferdinando Martini; e più oltre, accanto a una pagina d’aggettivi
prediletti da Dante, una serie di locuzioni relative al vino, pescate nel ditirambo del Redi. Questo le
può dare un’idea del metodo. E ora veda lei, più innanzi, se ci si raccapezza. Nelle pagine seguenti,
in fatti, trovai il più strano disordine che si possa immaginare. Elenchi di proverbi toscani; infilzate
di vocaboli e di frasi ingiuriose; una pagina intitolata: Vari modi di dar dell’asino al prossimo; in
un’altra pagina, sotto un grosso titolo: Alla gogna registrati tutti i più marchiani francesismi e
idiotismi d’uso corrente nei giornali e nella conversazione, e ad alcuni di quelli scritto accanto:
Guardati! –; quelli appunto, mi spiegò l’amico, che solevano più spesso scappare anche a lui nello
scrivere e nel parlare. Alternati con questi, altri elenchi di frasi e di parole, abbracciati da grandi
graffe, lungo le quali era scritto: Ti fanno paura? e disse ch’erano modi efficaci ch’egli non
usava mai, e che aveva messi in mostra in quella forma per rammentare a stesso d’usarli. Poi una
serie di dizionarietti speciali: di giochi fanciulleschi, di difetti fisici, di motti scherzosi, di colori, di
piante, di strumenti di lavoro, illustrati di figurine schizzate con la penna, per chiarire il significato e
facilitare la memoria delle parole. C’eran disegnati un violino e una finestra, con su scritti i nomi di
tutte le loro parti, e una figura umana in caricatura, che aveva scritto sopra il capo: pera, sul naso:
nappa, sul mento: bietta, su ventre: buzzo, sulle mani: mestole, sulle gambe: seste, [110] sulle scarpe:
ciotole. Lessi una Pagina delle busse, nella quale erano notate tutte le forme di percossa possibili,
dal rovescione al biscottino, con tutti i verbi con cui si può designare l’azione: accoccare,
appiccicare, appioppare, allungare, ammenare, appoggiare, assestare, azzeccare, ammollare,
affibbiare, barbare, distendere, consegnare, fiancare, misurare, piantare, rifilare, rivogare,
somministrare, tirare: un tesoro di gentilezze. Di tanto in tanto, in grandi caratteri: Esercizi
ginnastici e sotto, un dialogo strambo, nel quale due persone, collegando a dispetto dei santi le
idee più disparate, si palleggiano tutte le locuzioni registrate nelle dieci o venti pagine precedenti; o
aneddoti o descrizioni bizzarre, in cui tutte quelle locuzioni sono pigiate a forza, o periodi a
chiocciola, dove una stessa idea è espressa parecchie volte di seguito in forma diversa. Alcuni di
questi esercizi, intitolati Scrigni poetici, erano sonetti e versi sciolti, nei quali l’amico aveva
incastrato una quantità di modi, per ricordarli meglio, in grazia del ritmo. Fra due di queste poesiole
c’era un discorso d’un pedante marcio, tutto tessuto di quei vocaboli e di quelle frasi antiquate, che
nessuno usa più parlando, ma che qualcuno s’ostina ancora a scrivere, sfidando eroicamente il
ridicolo; altrove il discorso d’un lezioso; più il soliloquio d’uno sgrammaticante, con le
sgrammaticature più frequenti nella conversazione della gente per bene. Mi cadde sottocchio, fra
l’altro, una pagina di Spazzature, dov’era raccolto un buon numero di quelle frasi fatte, calìe
letterarie, o fiori secchi di rettorica, che ricorrono di continuo nei discorsi e nei brindisi, e che son
diventati odiosi [111] a tutti oramai, anche a quelli che li usano, quando li sentono usare dagli altri.
Ma sopra ogni cosa attirò la mia attenzione e mi parve strana una grande quantità di parole e di frasi
segnate a capo e a piè di pagina, sui margini, tra riga e riga, a traverso lo scritto, un po’ da per tutto,
alcune in istampatello, altre inquadrate in quattro tratti di penna, o scritte con matita rossa, verde o
turchina, o sormontate da un Nota bene, o fiancheggiate da un punto esclamativo, o da un crocione,
o da una bandierina disegnata: parole e frasi, che l’amico mi disse d’aver appuntate così a caso,
dove prima gli veniva, man mano che le intoppava nei libri, e contrassegnate in quella maniera,
perchè attirassero il suo sguardo e gli si rinfrescassero nella memoria quando egli sfogliava il
librone per cercarvi o per notarvi altre cose. Tutto il librone n’era tempestato, e anche molte di
queste note illustrate da piccoli schizzi di figure umane, di mobili, d’utensili, d’oggetti d’ogni
genere; e v’eran qua e là delle pagine bianche, preparate per altre note, coi titoli già scritti. Trovai in
ultimo un elenco di quei modi dialettali, che si sogliono scansare con gran cura, benchè
appartengano pure alla lingua, e siano correttissimi, e nella pagina accanto una raccolta di frasi di
complimento antiche e moderne, alla quale faceva riscontro un piccolo dizionario di moccoli
smorzati, di quelle esclamazioni vigorose di maraviglia o di dispetto, che la gente ben educata
sostituisce ai sacrati autentici, quando è in una compagnia a cui si devono dei riguardi. Arrivato a
questo punto, benchè mi destasse un senso d’ammirazione l’amor della lingua vivissimo che si [112]
manifestava in quella strana rigatteria filologica, non potei trattenere una risata. Ma il bottegaio non
se n’ebbe per male; tutt’altro. Bene! mi disse. Mi fa piacere di vederla ridere. È il commento
che desideravo e aspettavo, perchè giustifica la mia mancanza di metodo, ed è un modo di
riconoscere che si può far dello studio della lingua uno spasso amenissimo, come io faccio appunto.
Studiando la lingua io scrivo versi, recito la commedia, lavoro di mosaico, faccio ginnastica con la
penna, rivedo le bucce agli altri e a me stesso, rido, tesoreggio, disegno, fantastico, e serbo una
libertà di spirito che esclude ogni fatica e ogni noia. Non è un metodo; ma un modo che credo
convenientissimo a tutte le teste disordinate e svolazzatoie com’è quella che porto sulle spalle.
Veda, io non darei questo libraccio per un peso eguale di biglietti da cento. E se lo stampassi, credo
che farebbe furore. Certo sarebbe il trattato linguistico più originale che si sia pubblicato mai, e
forse non il più inutile. Dopo la mia morte, chi sa! O lo lascerò alla Biblioteca Vittorio Emanuele, di
Roma.
Il vocabolarista.
Per imparar la lingua io leggo assiduamente, oltre gli scrittori, il Vocabolario. Non lo leggo soltanto
perchè è il solo libro che, se non tutta, contiene quasi tutta la lingua; ma anche perchè mi diletta
l’immaginazione, senza turbarmi l’animo, non movendo in alcun modo le passioni; dalle quali
rifugge la mia indole tranquilla. Dico di più: che per me non c’è altro libro che diletti altrettanto, per
poco che l’immaginazione [113] del lettore si presti a vivificar la lettura. Per me le parole sono
creature umane, e le colonne, strade, dove passa una folla maravigliosa. In questa folla incontro
conoscenti e sconosciuti; indifferenti che lascio passare, figure curiose con cui mi soffermo, vecchi
amici che mi son famigliari fin dai primi anni, persone con le quali ebbi relazione un tempo, e che
dimenticai in seguito, e che riconosco con piacere, e altre che cercai un pezzo nel regno dei libri,
senza trovarle, e a cui faccio festa, come si fa a un amico inaspettato, che ci venga a cavar da un
impiccio. Vedo nelle parole immagini di scienziati, di poeti, di pedanti, di villani, di beceri, di
patrizi, d’operai, facce benigne e sinistre, e buffe, e tragiche, e figure di ragazze snelle e gentili, di
donnine semplici o affettate, e di vecchie venerabili, sei volte secolari, che parlarono col Boccaccio
e con Dante, e serbano la fresca vivacità della giovinezza. E ciascuna mi desta un pensiero, e alla
più parte mi scappa detto qualche cosa, passando. Ti saluto, simpatia! Mi rallegro con lei,
finalmente assunta all’onore del Vocabolario. – Passa via, svergognata. – O lei, che mille volte m’è
entrata e mille volte sfuggita dalla mente, quando si risolverà a rimanervi? Te non ti ci voglio, chè
non t’ho mai potuta patire. – Si fermi lei, e mi dica bene una volta quello che vuol dire, chè non l’ho
mai saputo per l’appunto. – Le parole seguite da derivati e diminutivi mi danno l’immagine di padri
o di madri con un codazzo di figliuoli e di nipoti grandi e piccoli; quelle cadute fuor d’uso, di
superstiti d’altre età, che si trascinino, e non si ritrovino in mezzo alla folla giovanile [114] che
passa, o d’ombre di trapassati, ricordate nel dizionario da una lapide; quelle di significati diversi, di
faccendieri che facciano ogni arte; le nuove, d’origine straniera, di viaggiatori arrivati di fresco, con
la valigia alla mano. E incontro greci e romani antichi, e italiani d’ogni secolo, e visi e vestiari di
tutte le regioni d’Italia. Tutti i mestieri, tutte le scienze, usi e costumi di ogni classe sociale e d’ogni
popolo, tutti gli stati dell’animo, tutte le forme e tutti gli strumenti dell’operosità umana, tutti gli
aspetti della natura e tutte le epoche della storia mi passano dinnanzi nel Vocabolario. Ed è il mio
maggior diletto appunto questo passaggio continuo dall’una all’altra idea disparatissima, questo
procedere a salti, a volate subitanee da cose materiali a cose ideali, da un polo all’altro del mondo
intellettuale, questa fuga vertiginosa di luoghi, d’oggetti, di genti, d’orizzonti, di secoli, nella quale
il mio pensiero balena più fitto, la mia fantasia batte più rapidamente l’ali che nell’impeto
d’un’inspirazione creatrice. E quanti ricordi mi destano le parole! Moltissime, sonandomi nella
mente, risvegliano e fanno uscire dai recessi della memoria volti, nomi, casi, momenti della vita,
che da più o meno tempo vi stavano rimpiattati e ignorati. Una parola antiquata o poetica mi
rammenta una persona che spesso la diceva, facendone pompa fra gli amici, i quali ne sorridevano,
toccandosi a vicenda col gomito; un’altra mi fa riudir l’accento d’un lontano o d’un morto, che la
pronunziava in certo modo suo proprio; questa mi richiama alla mente un linguista che le mosse
guerra e uno che la difese, e le dispute che vi fecero intorno, e le impertinenze che si [115]
scambiarono pel fatto suo; quella mi ricorda un verso celebre o un motto storico o una scena di
commedia o un angolo di salotto dove la intesi dire storpiata o a sproposito. E a certi nomi di
malattie mi si levan davanti le immagini di amici perduti; rivedo certe tavole di banchettanti a
leggere certi vocaboli gastronomici; in certe parole onomatopeiche infantili risento la voce dei miei
figliuoli bambini; e molte mi fanno balenare alla mente le sembianze degli scrittori che le
predilessero: la fronte grave del Machiavelli, gli occhi ardenti del Foscolo, il viso pallido del
Leopardi. Ho detto in che modo mi diverto: mi domanderete in che modo imparo. Vi dico come.
M’arresto ogni momento a pensare. Ecco, per esempio, un vocabolo, che soglio usare in un
significato che non è propriamente il suo: bisogna che me ne fissi nella mente, una volta per sempre,
il significato vero. Eccone un altro del quale abuso: vi segno accanto: liberarsene, e segnerò poi
quelli che troverò, che vi si possano sostituire. Segno una parola d’uso comune, che non uso mai,
benchè sia spesso necessaria: perchè non l’uso? quale altra adopero invece? che differenza passa fra
l’una e l’altra? Trovo parole efficacissime e generalmente usate che in nessun modo mi si vogliono
appiccicare alla memoria, come se ci fosse nella loro forma e nel loro suono qualche cosa di
ripugnante all’occhio della mia mente e al mio senso dell’armonia: e faccio un atto vivo della
volontà per istamparmele nel cervello. Ad ogni vocabolo segnato come fuor di corso, o d’uso non
comune, cerco quello che vi si è sostituito o che s’usa più comunemente in sua [116] vece; mi provo
a definire il significato di certe parole prima di leggere la definizione stampata, e raffronto con
questa la mia; m’esercito a cercare esempi di scrittori o dell’uso parlato corrente da aggiungere a
quelli che il Vocabolario registra; e via discorrendo. Vedete come e quanto si può studiare sul
Vocabolario! E non dico delle nuove parole che imparo, che ignoravo affatto; delle nozioni
elementari d’ogni scienza, che acquisto o rettifico e chiarisco nella mia mente; dei proverbi, delle
sentenze, dei consigli pratici, utili alla vita, delle infinite immagini, sussidio all’arte dello scrivere,
che raccolgo passando. Sin dalla prima lettura segnai con lunghi tratti di penna sui margini tutte le
serie di parole che non giova rileggere, e così procedo ora senza perder tempo. E di questa lettura
non mi stanco mai. Sebbene io abbia letto il Vocabolario tante volte che certe pagine, certe colonne
mi son rimaste nella memoria come armadi aperti, in cui vedo ogni parola al suo posto, quasi
nell’ordine alfabetico col quale v’è collocata, mi sempre un nuovo diletto ogni lettura; qualche
cosa da imparare trovo sempre, sempre nuovi passaggi e contrasti inaspettati e strani fra vocaboli
che si toccano, nuovi richiami di ricordi, nuove sorgenti di comicità, nuovi segreti e virtù e
maraviglie del verbo umano. E v’entro con un senso sempre più vivo di reverenza pensando di
quale enorme lavoro di generazioni è il prodotto quell’enorme materiale di lingua, che lunga e varia
e venturosa vita ogni parola ha vissuta, e per che mirabili vicende passeranno ancora la maggior
parte nei secoli, e che tesoro immenso di pensiero fu accumulato e si spargerà [117] ancora per il
mondo per mezzo di quelle parole. Il Vocabolario! Ma è il grande Museo, il tempio nazionale, la
montagna sacra, sul cui vertice risplende il genio della razza. E si tratta di freddo e vuoto pedante
chi lo studia! Ma io istituirei delle cattedre per leggerlo e per commentarlo; ma.... Suona l’ora.
Faccio punto. È l’ora della mia lettura quotidiana. Salute.
[118]
IL MODO MIGLIORE.
Ora, dei cinque modi, che abbiamo visti, di studiare la lingua, tu domanderai quale sia il meglio.
Il meglio, a mio parere, è il sesto. Voglio dire un metodo, il quale raccolga quanto v’è di buono in
quei cinque.
Leggere attentamente i buoni scrittori, segnando sul libro, se si può, per ritrovarle poi facilmente, le
voci e le locuzioni che ci riescon nuove e che ci vogliamo appropriare, cercando di fissarcene nella
mente, senza l’aiuto della penna, il maggior numero possibile, con quanto occorre del testo a
chiarirne bene il significato e a farne sentire tutto il valore; mandar a memoria poesie e squarci di
prosa, nei quali al pregio del pensiero o del sentimento e alla bellezza dello stile sia congiunta una
particolar ricchezza di lingua; notare il meglio del materiale che si ricava dalle letture, dividendolo e
raggruppandolo intorno a certi soggetti, perchè riesca più facile ritenerlo e ritrovarlo; esercitarsi,
scrivendo, a maneggiare il materiale [119] raccolto con abbozzi di componimenti, di periodi, anche
di semplici frasi, che siano come i bozzetti che buttan giù i pittori per acquistare la padronanza della
tavolozza; e leggere ad un tempo, rileggere, studiare il vocabolario.
Quest’ultimo studio ti raccomando in particolar modo, perchè è quello che più difficilmente
s’inducono a fare i giovinetti.
Ma occorre intendersi bene.
Una trentina d’anni fa, con uno scritto diretto particolarmente ai giovani, io raccomandai la lettura
del vocabolario. Nel corso di questi trent’anni parecchi mi scrissero, e altri mi dissero presso a poco
quello che segue: Abbiamo seguìto il suo consiglio, o meglio, ci siamo provati a seguirlo; ma non
c’è riuscito di tirare innanzi: la lettura del vocabolario ci addormentava; ci vuole una pazienza di
Benedettini per reggerci; abbiamo smesso.
Ecco. Rispondo prima di tutto che senza pazienza non si riesce a imparar la lingua in nessuna
maniera, e che la pazienza di studiare il vocabolario l’ebbero scrittori di grande ingegno, come il
Manzoni che postillò la Crusca per modo da non lasciarne vedere i margini, Teofilo Gautier, che
teneva il vocabolario sul tavolino da notte, Gabriele d’Annunzio, che legge persino dei vocabolari
tecnici, dalla prima all’ultima parola. Rispondo in secondo luogo che quella è una lettura che non va
fatta a modo dell’altre. Se tu ti metti a leggere il vocabolario come un romanzo o una storia, con
l’idea di correrlo tutto d’un fiato, per finirlo il più presto possibile, e liberarti dalla fatica, non solo ti
farai nella mente una grande confusione, senza [120] cavarne alcun frutto; ma non reggerai a
leggerne una decima parte, si capisce, chè t’ammazzerà la noia prima d’arrivarci. È una lettura che
si deve fare a poco per volta, a pezzi e bocconi, con l’animo tranquillo, quando ci si ha disposto lo
spirito, e non di corsa, ma a rilento, accompagnandola passo per passo, come ti disse il
Vocabolarista, con un lavoro di memoria, di ragionamento e d’immaginazione. Bisogna, insomma,
mettersi alla lettura e procedervi per modo, che quello studio finisca a poco a poco con non più
richiedere uno sforzo di volontà, e diventi una consuetudine, cessi d’essere una fatica, e si muti in
un piacere.
Dirai: – È presto detto.
Hai ragione: è presto detto. Ebbene, farò qualche cosa di più. Ti propongo di fare una prova
insieme. Pigliamo, per esempio, il Novo dizionario italiano del Petrocchi: una lettera qualunque, la
lettera P, e leggiamola tutta. M’ingegnerò di farti vedere come si deve leggere il vocabolario, o, per
dir meglio, ti farò vedere come io lo leggo, in che maniera mi ci diverto e c’imparo, che è la maniera
in cui mi pare che anche tu ti ci possa divertire, imparando; e nel far questo, userò con te la più
grande sincerità, come con un compagno di scuola: ti confesserò le mie ignoranze, i miei stupori e i
miei dubbi, che ti gioveranno forse, se te ne ricorderai, nelle tue letture avvenire. Sarà una prova un
po’ lunghetta, benchè io proceda alla lesta, omettendo le parole più comuni, e anche molte che non
son tali, e un gran numero di vocaboli tecnici e storici; ma ci occorrerà spesso di ricrearci divagando
e scherzando. All’opera, [121] dunque. Apro il secondo volume, alla lettera P. Incominciamo.
Ma no. Tu avrai bisogno di respirare. Svaghiamoci prima insieme con qualche personaggio ameno:
con un nemico del vocabolario, questa volta, per non uscir d’argomento.
[122]
IL FALSO MONETARIO.
Falso monetario della lingua, s’intende. Era un pittore ligure, digiuno di lettere, ma pieno d’ingegno,
che parlava il più bizzarro italiano ch’io abbia mai inteso dagli scali di Levante alle Colonie del rio
de La Plata: tutte parole storpiate, mutate di desinenza e di genere, o usate in tutt’altro significato da
quello loro proprio. Il suo magazzino linguistico era come una tesoreria di monete false, adulterate o
calanti, ch’egli dava via a casaccio e in tutta buona fede. Questo derivava principalmente dal fatto
strano (ma nella gente incolta non raro), che ogni parola insolita ch’egli leggesse o sentisse si
confondeva nella sua mente con un’altra parola usuale di suono affine, o acquistava stabilmente nel
suo concetto il primo significato che, per certe analogie misteriose con altri vocaboli, gli pareva
dovesse avere. E siccome, avendo immaginazione viva e spirito arguto, aveva bisogno, per
esprimersi, d’un gran numero di parole, e se ne appropriava di continuo, così gli fiorivano sulla
bocca gli spropositi con una [123] fecondità maravigliosa. Per lui, ad esempio, donna in ghingheri e
donna in gangheri, inciprignita o incipriata erano la stessa cosa, e faceva tutt’uno d’immerso e
sommerso, evento e avvento, immane e immune, stame e strame, eminente e imminente. Parlava nel
modo che può parlare un orecchiante della lingua, che ode a frullo e legge a vànvera, com’egli
infatti udiva e leggeva. Usava sgattaiolare per imitar la voce del gatto, sobbillare per fare il
solletico, cincischiato per azzimato. Diceva a un amico che s’era fatto rader la barba: Come sei
tutto cincischiato questa mattina! e quello subito si tastava il viso, credendo che il suo Sfregia lo
avesse lavorato d’intaglio. Ricordo sfruconare, che per lui era verbo omnibus. –. Questa mattina mi
sono sfruconato a colazione mezzo pollo. Mi sfruconai l’abito contro il muro. Lo colsero sul
fatto e lo sfruconarono ben bene. Ho pagato dieci lire questo straccio di cappello: m’hanno
sfruconato. Ad altre parole faceva far cento servizi. Per esempio ad ambiente. Quando il cielo era
sereno: Che bell’ambiente questa sera! Che cos’hai? Oggi non ti trovo nel tuo ambiente. Per
gli amici era uno spasso. N’aveva ogni giorno una nuova, o parecchie. Fra le più belle, che non
riuscimmo mai a fargli smettere, c’era voce stentorea per voce stentata e aureola per arietta.
Tirava un’aureola deliziosa! Un giorno, ritornando da Cavoretto, ci disse che aveva trovato il
paese tutto infestato. Da qual malanno? domandammo. Ma che malanno! Voleva dire: il
paese in festa. Ma il più comico era la sicurezza con cui le diceva, senza un sospetto al mondo dei
[124] suoi reati filologici, il colpo ardito con cui piantava lo sproposito, come una bandiera
vittoriosa. Le nostre risate non lo sconcertavano minimamente. Alle osservazioni critiche scrollava
le spalle. Oh che pedanti! diceva. Digrignare, digrugnare, ammaccare, ammiccare, ruzzolare
e razzolare, su per giù è lo stesso. So bene che parlo un po’ così, all’insaputa. Ma mi capite sì o no?
E tanto basta. Di certi suoi qui pro quo si capiva l’origine: era l’analogia fonetica fra due parole:
da sfracellare cavava sfracelo; gemicare credeva che volesse dire: gemere sommesso. Ma come
diamine poteva dire “una scaramuccia di bicchieri sopra una tavola„ per dire una quantità di
bicchieri in disordine, e si attuffarono per vennero alle mani? E anche per quei nomi delle citazioni
storiche proverbiali, che si sogliono dir giusti anche da chi non ha cognizione alcuna del fatto,
faceva lo stesso lavoro. La spada d’Empedocle. L’anello di Gigi. L’orecchio di Dionisia.
Una che è una non l’infilava, e aveva una grande smania di citare. Per gli amici che conoscevano il
suo ingegno, il suo modo vivo e colorito di raccontare e di descrivere e la vera eloquenza con cui
parlava qualche volta dell’arte sua, quella profluvie di svarioni era una singolarità piacevole, non
derivante che da un’imperfezione del suo organo uditorio e della sua facoltà mnemonica; ma chi
non lo conosceva, la prima volta che l’udiva parlare a quel modo, sospettava che n’avesse un ramo,
e lo guardava con diffidenza.
Fra le molte scene lepide di cui fu causa la sua maniera di parlare, ricordo quella che seguì in casa
d’una colta signora, alla quale lo presentammo. [125] – Signora – le diss’egli, appena presentato –, io
son fatto alla buona, non so spiaccicare complimenti; ma so che lei preferisce la sincerità alla
raffineria.
La signora lo guardò, stupita; poi rispose: È vero. Preferisco mille volte la brusca sincerità alla
finzione cortese.
– Quanto a questo – ribattè l’artista – le assicuro che l’infingardaggine non è fra i miei difetti.
Ciò detto, si staccò dal crocchio, per parlar con altri; ma, voltatosi a un tratto e colto a volo un atto
che faceva a noi la signora, come per dirci: – Ma quest’artista non ha il cervello a segno – credendo
ch’ella accennasse d’aver male al capo, le disse cortesemente: – È effetto del tempo, signora. Anche
a me questo tempo linfatico rende la testa pesante.
Fu quello uno dei suoi più “brillanti successi.„ E appunto quello strano epiteto affibbiato da lui al
tempo, confondendo l’idea della linfa, umore del corpo umano, che somiglia all’acqua, con l’idea
dell’acqua piovana, è un esempio che spiega
come si formassero nella sua mente certi strafalcioni.
E son più frequenti che non si creda i parlatori di questo stampo, questi sbadatoni e fracassoni
terribili, che nel campo della lingua rovesciano e rompono ogni cosa, come farebbe un toro
imbizzarrito in un magazzino di chincaglierie. Ma di maravigliosi come lui non n’intesi altri. Quanti
ameni ricordi ci lasciò, che sono nella nostra mente sorgenti inesauribili di buon umore! Che
impareggiabili trovate! Quel tenore del teatro Balbo che gli stralciava gli orecchi con le sue [126]
detonazioni! E quel certo suo amico che gli aveva raccomandato che gli telegrafacesse
immediatamente l’esito di non so quale concorso! E quel Crispi, il suo adorato Crispi, che sarebbe
diventato il perno motrice della politica europea! E quelle guerre intestinali della Francia!
Tu mi perdonerai, mio buon anarchico della grammatica e del dizionario, d’aver fatto ridere
qualcuno alle tue spalle: tu comprenderai che non l’ho fatto per mal animo. Non posso aver mal
animo con te, poichè per te serbo la più viva gratitudine. Vedendoti pigliare quei granchi enormi,
imparai a scansare certi granchi minori, che di tanto in tanto pescavo io pure; tu m’infondesti
nell’animo, meglio d’ogni professore di lettere, il terrore salutare del farfallone; e un’altra saggia
cosa m’insegnasti: a non giudicar mai per dal modo di parlare, per malandato che questo sia, le
facoltà intellettuali d’un mio simile. Ti ringrazio dunque pubblicamente; e non per burla, ma per
affetto mi servo ancora delle tue parole per dirti che la tua memoria mi è sempre sommersa nel
cuore, e che vi rimarrà finchè la Parca non recida lo strame della mia vita.
[127]
UNA CORSA NEL VOCABOLARIO.
P.
P. Quattordicesima lettera dell’alfabeto. Che novità! Un momento. Nota che è in generale
maschile; più spesso maschile che femminile, dicono altri. Ma sul genere delle lettere bisogna
fissarsi bene perchè occorre spesso di rammentare questa o quella vocale o consonante per
canzonare errori d’ortografia o di pronunzia del prossimo, ed è ridicolo, nell’atto stesso che si
canzona un errore d’altri, sbagliare o mostrare incertezza riguardo al genere della lettera a cui
s’accenna. Nota anche quel P. C., per congratulazioni o condoglianze. Siccome le condoglianze si
fanno quasi sempre per morti, non ti pare che quel p. c., usato da molti, sia un po’,... villanamente
asciutto, salvo che si tratti della morte d’un cane? Chi, per condolersi con me d’una disgrazia
qualsiasi, mi scrive un semplice p. c., m’ha l’aria di voler dire per canzonatura o per cavarmela. Ed
è veramente canzonatura il fare un atto di gentilezza con un’avarizia così spilorcia d’inchiostro.
[127]
PACCA, PACCHINA. – Colpo della mano aperta. – Non m’occorre, dirai; ci sono tant’altre parole per dir
la stessa cosa! Adagio un po’. Se tu dici a un bambino, per ischerzo: Bada che ti do una manata o
uno scapaccione –, all’orecchio della mamma può sonar male lo scherzo. Se dirai una manatina o
uno scapaccioncino, dirai una parola che non è d’uso corrente. Pacchina è la parola che fa al caso.
Inezie! Ma, nel parlare come nello scrivere, si manifesta appunto in queste inezie il senso della
convenienza e della finezza.
Hai ragione, invece, se mi dici che si può far di meno della parola PACCHÉO, che vien dopo, per dir
baggeo, uomo stupido. È da notarsi che di queste parole che suonano scherno o disprezzo, come di
quelle che designano percosse, il vocabolario è mirabilmente ricco: se lo leggerai tutto, ci troverai
una miniera di modi d’ingiuriare il prossimo e di termini relativi all’arte di menar le mani; ciò che
non è un segno consolante della gentilezza della natura umana. Non c’è forse altra famiglia di modi
più numerosa, se non è quella che si riferisce alla “noia di mangiare e bere„.
E a proposito, ecco la parola PACCHIARE, mangiare, che molti lombardi stupirebbero di trovar nel
vocabolario italiano: è il loro paciáa, donde paciada, mangiata, d’uso volgare. E tu, piemontese,
troverai, andando innanzi, un gran numero di parole del tuo dialetto, che credi non siano della
lingua. Rideresti, per esempio, se sentissi dire in italiano: PACCHIUCO, che è il piemontese paciocc;
fango, mota e simili. Ed eccolo qua, seguito da Pacchiucone, pasticcione, che è il [129] piemontese
paccioccon. E c’è poco sotto Pacioccone, più somigliante dell’altro al vocabolo dialettale, ma che
in italiano ha significato diverso, cioè di persona grassa, e par che dica la cosa anche col suono.
Questo pacioccone anonimo ci conduce nel regno della pace.
Il pane è la pace della casa. Che profonda verità! A quante cose fa pensare questo semplice
proverbio, in cui balenano tutte le tristezze e le tempeste domestiche che derivano dalla miseria! E
nota l’esempio: Viene avanti con tutta la sua pace. Non c’è l’immagine viva dell’indole,
dell’aspetto, dell’andatura d’una persona?
PACIERE. Ebbene? Niente. Sorrido a un ricordo mio, d’un’antica edizione del Conte di Carmagnola
del Manzoni, che ebbi tra mano da ragazzo, nella quale all’ultima scena, dove il Conte dice di
sperare che la propria morte riconcilierà il duca Visconti con la figliuola, in vece di: è un gran
pacier, era stampato: è un gran piacer la morte; ed è quasi mezzo secolo che ogni volta ch’io trovo
quella parola mi ricordo d’essermi scervellato un bel pezzo a pensare come fosse potuta sfuggire ad
Alessandro Manzoni quella stramberia.
PACIFICONE. Ecco una parola comunissima che in venti volumi che ho sulla coscienza sono ben
sicuro di non aver usata mai, benchè mi sia occorso chi sa quante volte d’esprimere l’idea ch’essa
esprime; ciò ch’io feci senza dubbio con più d’una parola, o con un’altra meno propria. Dunque,
memento.
Come? mi domanderai –; anche alla Padella ci dobbiamo fermare? Sì, signore, e [130] c’è il
suo perchè; sono anzi due. Lo sai che si chiama occhio il foro che è nel manico dell’utensile
benemerito, per attaccarlo al chiodo? E sai che si chiama padella il piattello di latta, di cristallo o
d’altro, che si mette sotto il lume o sul candeliere per riparar l’olio o la cera? Ma son minuzie,
mi rispondi –; o se m’occorrerà due volte o tre nella vita di nominar quelle cose! E batti! Ma
siccome (e già lo dissi) ci sono altre migliaia di piccole cose, che nella vita avrai da nominar poche
volte, se tu trascurerai d’impararne i nomi perchè son cose di poco conto, ti troverai migliaia di
volte impacciato. Ti capaciti? E nota il vantaggio che ti dà la lettura del Vocabolario, dove, essendo
detti tutti i significati di ciascun vocabolo, tu puoi imparare insieme i nomi di diversi oggetti,
ciascun dei quali ti rammenterà l’altro. Vedi, per esempio, più avanti, la parola PALA. Pala, attrezzo
comune, pala del remo, pala del timone, pala delle ruote dei molini. – Vedi PALCO. I palchi fronzuti
d’una quercia, i palchi delle corna, i palchi delle pine, un vestito di seta con trine a tre palchi; palco
morto, quello che si dice in piemontese sopanta. Poi PALLINO. Pallino da caccia, pallino delle
bocce, della sella, della balaustrata, della chiave maschia; soprannome d’un cane, d’un cavallo, ecc.;
bambino grassoccio. Più sotto, dietro PARACADUTE, una filza di cose che parano: PARACAMINO,
PARAFOCO, PARAFUMO, PARAMOSCHE, PARAOCCHI, PARATASCHE, PARACENERE, PARACIELO d’un pulpito, d’una
carrozza, d’un tetto, ecc. Si piglia la lingua a retate.
Rifacciamoci indietro. Ecco una bella parola per dire una cosa che ci occorre di dire [131]
spessissimo: PADREGGIARE, d’un figliolo o d’una figliola che somiglia al padre, o, come si dice
famigliarmente, che tira dal padre. Per solito le figliole padreggiano, i figlioli madreggiano.
Ecco la parola PAESANO, che noi dell’Italia settentrionale non adoperiamo quasi mai nel senso di
contrapposto a forestiero o a militare: Vino paesano, ufficiale vestito da paesano. Ecco alle
parole PAGA e PAGARE una serqua di modi quasi tutti relegati fuor del nostro vocabolario parlato.
PAGACCIA, un cattivo pagatore. – Essere il PAGA della compagnia – dar le paghe, le busse. – Pagare a
sgocciolo, alla stracca, coi gomiti, a chiacchiere, a respiro, sul tamburo, sulla cavezza, alla banca
dei monchi, il giorno di San Mai, pagar di schiena. E alla parola: PAGLIA: aver altra paglia in
becco – (un altro amore) mangiarsi la paglia di sotto i piedi (rifinire ogni cosa) batter la paglia
(vagar col discorso) rompersi il collo in un fil di paglia per ogni fuscello di paglia (per un
nonnulla)....
Segue una serie di nomi di cose utili a sapersi. PALIOTTO, l’arnese di stoffa o altro che si mette
davanti all’altare; PALLA, il quadretto di tela per coprire il calice, e il globo di vetro che si mette ai
lumi; PALMENTO, la grande cassa dove casca la farina che esce dalle macine (donde il modo:
mangiare a due palmenti); PEDANA, tappeto per sotto i piedi; PEDAGNÓLO, il fusto dell’albero ancor
giovane; PEDALE, il fusto dell’albero da terra all’inforcatura; PELLÉTICA, pelle della carne da mangiare,
o pelle floscia o cascante della persona; PELO, di marmi o pietre o vasi, fenditura sottilissima
somigliante ad un pelo. Sapevi tu i nomi di tutte queste cose? No? [132] Ebbene, ti dico
nell’orecchio che parte gl’ignoravo anch’io, e parte li avevo dimenticati. E PALANDRA, per abito
d’uomo a lunga falda? Che cosa dice il Sor Palandra? Mi par di vederlo.
Una sosta.
Sostiamo un poco, e voltiamoci indietro. Vedi, nel breve tratto percorso, quante parole abbiamo
trovate, che ci hanno destato un ricordo storico, portato l’immaginazione in ogni parte del mondo, a
cose remotissime di spazio e di tempo, dalle palafitte lacustri dell’età preistorica alle architetture
palladiane, dai paleosauri fossili ai bacilli del Pacini! Abbiamo visto passare la paggeria pomposa
delle Corti, i principi orientali portati in palanchino, i trionfatori romani in veste palmata, i giovani
greci lottanti al Pancrazio, e dame e sonatori di lira e poeti tragici e ninfe cacciatrici di Diana
ravvolte nella palla, e i lottatori delle feste panatenée in onor di Pallade, e i Bolognesi antichi
plaudenti alla battaglia d’ova e di porci della Pachetta. Ci son balenati dinanzi Attilio Regolo, che
con le palpebre arrovesciate, spasimando, guarda il sole, e Carlomagno circondato di Paladini, e i
Palleschi e i Piagnoni, partigiani e avversari dei Medici, e i Francesi caduti nel sangue delle Pasque
Veronesi, e Paisanetto, la maschera genovese, e Pantalone, la maschera veneziana, e Pantagruele,
figlio di Gargantua; e di là da questa maravigliosa processione, una fuga di palazzi famosi, i palmizi
ridenti di Liguria e di Sicilia, e il Palatino e il Panteon e le paludi Pontine e l’orizzonte immenso
della Pampa. Pensasti mai, leggendo [133] altri libri, a tante cose e così diverse in così breve tratto di
lettura? E quante n’ho tralasciate! Ma
Rimettiamoci in cammino.
PANACÈA. Tu non sei di quelli che pronunziano panácea, non è vero? Non t’aver per male della
domanda: non di rado io sento dire stentoréo per stentóreo, e qualche volta anche Satìro per Sátiro,
santissimi numi! E come sono efficaci le maniere: LEVAR DI PAN DURO –, per mangiar molto, non
lasciar che il pane diventi duro in casa; MANGIARE IL PAN PENTITO FINIR DI MANGIAR PANE, per morire,
e PAN DI RICATTO che si dice quando uno rifà agli altri quello che hanno fatto a lui. E
RIMBRONTOLARE IL PANE a uno non è più espressivo di rimproverare e rinfacciare? E com’è ben
significato e quasi effigiato l’ipocrita untuoso in BOCCA PARI, poichè FAR LA BOCCA PARI vuol dire
accomodar la bocca per ipocrisia! Un’altra parola, PARI, che non s’usa quasi punto fuor di Toscana,
benchè serva a dire molte cose che non si possono dire altrimenti che meno bene, o con più parole,
ciò che in fondo è il medesimo. Per esempio, come diresti tu in altre parole: camminar pari pari o
portar una cosa pari pari, perchè non si spanda l’acqua che v’è dentro?
PARARE. È una di quelle tante parole comuni alla lingua e al dialetto, le quali noi non usiamo in certe
forme perchè, essendo queste anche dialettali, non le crediamo forme italiane. Di’ la verità: oseresti
dire che una stanza è buia perchè c’è la casa di faccia che PARA? PARA, senz’altro, sottintendendosi il
sole, la luce? E dire: [134] Escimi davanti che mi PARI? E: un pastrano che PARA il freddo? E a un
bambino, offerendogli qualche cosa: PARA bocca? PARA mano? PARA il grembiule? PARA il sacco?
No. Vedi, dunque. Ma di queste parole e locuzioni dialettali e italiane ne abbiamo già trovate
parecchie nelle pagine antecedenti, e ne troveremo di più in seguito. – TIRAR LA PAGA, per riscuoterla.
Essere una cattiva paga, un cattivo pagatore. PAGHEREI che tu provassi il gusto che c’è a far
questi lavori – Non PAPPARE d’una cosa, non intendersene – Non aver PAURA, non temere il confronto.
PELAR gli uccelli, le castagne, PELARSI una mano con un ferro rovente. Farsi PELARE, per farsi
tagliare i capelli. – PRENDERE di qui, di là, da questa parte, da questa strada, per avviarsi. – PIGLIARSI,
per isposarsi. Pare che que’ due si PIGLINO. Lo so DA PER ME, viene DA PER . PILUCCARE uno
(plucchè, piemontese) per pigliargli i denari. È un PIGLIA PIGLIA (ciapa, ciapa). – E PAPPINO, PASTONE,
PATAFFIONE, PATATUCCO, PIOTA, QUEI POCHI, per servo d’ospedale, pasto per le galline, uomo grossolano,
uomo stupido e bizzarro, pianta di piede grosso, quattrini. Vedi di quanti vani scrupoli e paure ti
puoi liberare leggendo il vocabolario.
Conosci i modi: PARLARE con le seste, PARLUCCHIARE sul conto altrui, PASSAR PAROLA a qualcuno d’un
affare, aver PASSATO con alcuno POCHE PAROLE, entrar in parole, pigliarsi a parole? Provati a
trovare un altro modo che equivalga appunto quest’ultimo, e vedi se PARTICOLARE, nella frase: Tu
sei PARTICOLARE, veh! da noi non mai usato, non dice qualche cosa di [135] più di curioso e qualche
cosa di meno d’originale o strano, che qualche volta sarebbe troppo. E diciamo mai pascolare in
senso attivo, come nell’esempio: Andò a PASCOLARE le pecore ? PASSATELLA, di donna avanzata in
età, è uno di quei modi riguardosi, da registrarsi nel Galateo della lingua, i quali possono attenuare,
in certi casi, il risentimento d’una signora rispettabile. E nota pure, perchè ti può occorrere: tirare
una PASSATELLA, che è mandar la boccia in modo che tocchi quella dell’avversario per rimoverla.
CANTARE A PAURA, che bel modo di dir: cantare per ingannar la paura! E PENCOLARE nel senso di esser
dubbio tra il sì e il no? Ricordo un ragazzetto fiorentino che mi disse: – Io volevo che mi lasciassero
andar solo a vedere il serraglio: la mamma pencolava, pencolava.... Nota (e noto anch’io, perchè
son parole che imparo con te): PECETTA, per seccatore (bellissimo): Levami questa PECETTA di
torno. PASTRANAIO, chi alla porta d’un teatro o altro prende e conserva i pastrani. PATACCONE, un
orologio grosso e vecchio. PATATE (volgarmente) i calli. PECORELLE, la schiuma dei cavalloni.
PEDINARE, il correre per terra degli uccelli....
In confessionale.
Qui apro una parentesi, che già volevo aprire alla parola Paleografia, poi a Paleolitico, a
Paleontologia, a Palingenesi, a Palinsesto, a Paralipomeni, e che dovrei poi aprire a Pirronismo o a
Prammatica e ad altri vocaboli, se non lo facessi in questo punto. Zitto! Non ti domando [136] se di
tutti quei vocaboli sai il significato: ti tratto da uomo. Quelle ed altre molte appartengono a una
famiglia di parole che si potrebbero chiamare: della scienza sottintesa: parole che si senton dire
sovente nelle conversazioni della gente colta o mezzo colta, e che spessissimo si leggono nei
giornali; le quali molti non sanno o sanno soltanto per nebbia che cosa significhino, e sarebbero
impacciatissimi a dirlo; ma fingono di capirle, perchè hanno coscienza che è alquanto vergognoso il
non conoscerne il significato. Fra quanti bravi signori, se fossero sinceri, seguirebbe la scena di quei
due giurati del Fucini, i quali, di parola in parola, finiscono col dichiararsi a vicenda di non sapere
che cosa voglia dir recidiva, che credevano un delitto snaturato! Ebbene, questo è uno dei tanti
vantaggi della lettura del Vocabolario: che tutti, scorrendo le sue pagine, possiamo colmare una
quantità di piccole lacune della nostra cultura, le quali non confesseremmo neppure a un amico,
aggiustare i conti della nostra coscienza letteraria, di nascosto, senza dover arrossire, come con un
maestro fidato, che s’interroga a quattr’occhi, e che le risposte nell’orecchio, e non risponde
soltanto alle nostre domande, ma ci svela pure molte nostre ignoranze inconsapevoli, e vi ripara ad
un tempo. Cito fra le tante che ci passeranno sott’occhio una sola parola: preconizzare, che quasi
tutti sanno, ma che moltissimi non intendono nel suo significato vero, poichè cento volte io l’intesi
usare nel senso di presagire, dove significa propriamente: proclamare l’elezione d’un vescovo, e
quindi, per traslato, proclamare che che sia. Il Giordani [137] preconizzò all’Italia l’ingegno del
Leopardi. E si sente dire: Io preconizzai la pioggia fin da ieri! E a proposito di pioggia: una
PASSATA DACQUA, una PASSATINA, per piccola pioggia, e che passa presto, come dice bene la cosa!
Da “Pencolone„ a “Piaccicone„.
Credo che avrò detto cento volte uno che pencola o pende camminando, e non dissi scrissi mai:
PENCOLONE, che m’avrebbe fatto risparmiare parecchie parole. Notiamolo per ragione d’economia.
L’albero cade dalla parte che pende. I timorati della grammatica direbbero: dalla parte da cui o
dalla quale pende; ma è un modo che stride come un paletto arrugginito. PENNA. Qui c’è un
grappolo di modi che ti possono occorrere ogni momento: PENNA CHE FA, CHE INTACCA, SCRIVE CORRENTE,
FA GROSSO, SOTTILE, STRIDE, SCHIZZA, LASCIA (non finisce il tratto), SBAVA. PENNATA, quanto inchiostro
prende in una volta la penna. PENSIERO. Nota la locuzione: HO FATTO PENSIERO di ritirarmi: è più che
ho pensato e meno che ho fatto proposito. PENSUCCHIARE, pensare meschinamente. Questo scrittore
non pensa, ma pensucchia. PENTOLINO. È bello il modo: TORNARE AL PENTOLINO, per tornare alla
sobrietà, alla vita parsimoniosa di casa, dopo aver scialato. To’: c’è anche un modo per dir l’atto di
riunire i cinque polpastrelli della mano. FA PEPINO, se ti riesce, si dice a chi ha le mani aggranchiate
dal freddo. E giusto, mostrami la mano: questa pellicola staccata dalla carne vicino all’unghia si
chiama PEPITA. Tágliatela, e osserva l’uso del per nei modi seguenti, che [138] per noi sono insoliti: –
Si volsero PER ponente Assalirono il nemico PER fianco PER bambino, ha molto giudizio. PER
gobbo, dicono in Toscana, è fatto bene Levò quel ragazzo DI PER le strade Dare una cosa PER DI.
Gli hanno dato questo quadro PER DI Raffaello. E l’uso del PERCHÈ in quest’altro esempio: La
cagione PERCHÈ io lo cacciai di casa – più svelto che per la quale. PERDOVE. Volle sapere il perchè, il
percome e IL PERDOVE. Vedi com’è graziosa la parola PERSONALINO per figura: Quella ragazza ha
un bel PERSONALINO –, e com’è espressivo il costrutto: I facchini la mancia la pesano –; il quale tu
usi ogni momento nel dialetto, e non l’useresti in italiano, pensando che sia un errore l’oggetto
doppio: corbellerie! PESTARE uno di nerbate, un modo vigoroso. PESUCCHIARE, per pesare abbastanza.
Questo bambino non pare; ma PESUCCHIA. PETTATA, salita piuttosto forte: fare una pettata.
PETTEGOLATA, azione da pettegoli; bada: non pettegolezzo. PRENDERE PER IL PETTO uno, fargli violenza.
Un piacere lo fo; ma non voglio esser PRESO PER IL PETTO. PIACCICHICCIO. Con questo PIACCICHICCIO di
fango, non si cammina. – PIACCICONE, PIACCICONA, chi fa le cose lentamente. – PIPA, per naso grosso....
altrimenti Nappa, che è la napia del nostro dialetto....
A proposito di Piaccicone, è da notarsi il gran numero di parole comprese nella sola lettera P, le
quali definiscono il carattere, l’aspetto, il modo di moversi e d’operare d’una persona; tutte
occorrenti spessissimo, in special modo nel linguaggio parlato. Per esempio: Quel PALLIDONE
d’Eugenio. Se tu dici invece: quella faccia [139] pallida, non fai capir così bene che Eugenio è
pallido sempre, naturalmente. – PANCETTA, chi ha la pancia grossa. Maestro Pancetta; scherzoso, ma
non impertinente. PAPPATACI, chi soffre, mangia e tace. PEPINO, è un PEPINO, di ragazzo o donna
arguta e frizzante. PETECCHIA, uomo spilorcio. – PIDOCCHIO riunto, rivestito, rifatto, rilevato,
ignorante arricchito e superbo. – PISPOLETTA, PISPOLINO (da pispola, uccello cantatore), donnetta
vezzosa, o ragazzo o bambino piacente. E ne tralascio molte altre, che vedremo un’altra volta, per
finir con Puzzone, persona che puzza, e anche persona superba. – Tìrati in là, puzzone, che mi mozzi
il fiato. Che si crede d’essere quella puzzona? E poichè si parla di puzzo, nota, com’è detto
bene di persona senza sentimenti e senza idee: SENZA PUZZI E SENZA ODORI –; che si potrebbe riferire
anche a scrittori e a libri corretti, ma vuoti e freddi, che lasciano nel lettore.... il tempo che trovano.
E ora, per riprender fiato, un’altra occhiata alla
Lanterna magica.
Quante cose, oltre la lingua, in quest’altro breve tratto che abbiamo percorso, e in altre poche pagine
che possiamo precorrere con lo sguardo! Armati ad ogni passo: Pentacontarchi, Peltasti, Petardieri,
Pretoriani; magistrati romani, con la pretesta strisciata di porpora, plaudenti ai gladiatori dal
Podio; e poeti e re e numi e genti d’ogni età e d’ogni latitudine, dai Pelasgi ai Lapponi.... che
fabbricano pane con la corteccia del PIN DI RUSSIA. E che strana processione, Pilade, Pilato, Pindaro,
Plinio, re Pipino, Petrarca, [140] Platone, Plutone! Abbiamo visto Pegaso trasvolare nelle nubi,
passare il pétaso alato di Mercurio, Psiche spiar le forme dell’amante incognito, Ulisse sterminare i
Proci, Teseo giustiziare Procuste, Pirra far degli uomini coi sassi, Progne cangiarsi in rondine e
Proteo in cento forme, e Perillo fabbricare l’orrendo bue ciciliano, rogo e tomba di bronzo di corpi
vivi. Abbiamo visto fender l’acque le piroghe degl’Indiani, scorrer sull’Egeo la nave capitana del
Morosini il Peloponnesiaco, errar sul Ponte Eusino l’ombra d’Ovidio; e Aristotele passeggiare nel
Peripato e la procuratessa Grimani in piazza San Marco; e meditar sulla pila Alessandro Volta, e
fuggire dalle Tuileries la testa a pera di Luigi Filippo; e lontano, verdeggiar nell’azzurro i giardini
pensili di Babilonia e la vetta del monte Pimpla, sacro alle Muse. Che fantasmagoria, per gli Dei
Penati!
Cento pagine di corsa.
Di corsa, perchè è ancora lunga la strada, e tu la rifarai da te a più bell’agio. PIAGGELLARE, lodare, dar
dell’unto, più discreto di piaggiare, e anche nel senso di ninnolare, divertir con ninnoli. PIANGERE.
Di un vestito che non si confà a una persona si dice con traslato felicissimo che le PIANGE addosso,
perchè fa le grinze d’un viso piangente, e di scarpe tutte rotte: scarpe che PIANGONO a cent’occhi.
Dire che ho cercato tante volte il contrapposto di valligiano, colligiano, senza trovarlo, ed eccolo
qua: PIANIGIANO: me lo appiccico sulla fronte. PIANTACAROTE.... Ma questa è una parola comunissima,
come l’azione che esprime. Ora, ecco una manciata di modi [141] comuni a vari dialetti, di grande
efficacia. PIANTAR spropositi. PIANTAR uno a un dato posto (in senso canzonatorio). L’hanno
PIANTATO agli arresti. PIANTARE una ragazza. PIANTARE un amico su due piedi. (Un poeta usò
argutamente, in questo senso, la parola Piantagione). – PIANTAR gli occhi in faccia a uno. PIANTARE
il discorso, e andarsene. PIANTAR casa. PIARE, degli uccelli che cantano in amore, e O PÍO; e si
dice anche PIARE delle castagne e delle patate che mettono: Non lo vedete che queste castagne
PÌANO? PIENO, una delle tante parole che nel vocabolario hanno il sacco: PIENO zeppo, pinzo,
colmo, gremito bicchiere PIENO RASO piatto PIENO a CUPOLA nel PIENO INVERNO nel PIENO DELLA
NOTTE. – e così PIGLIARE: PIGLIARE a cambio, a chiodo, a calo, e nel senso d’accendersi: – questo lume
non PIGLIA – e in altri significati: – vino che PIGLIA d’aceto – pianta che non PIGLIAmastice che PIGLIA
appena.... Ah che miseria! Pensare che io pure, vecchio al mondo, dico quasi sempre queste cose in
altri modi tanto meno spicci e meno propri! – PINZO, PINZARE è proprio del morso degl’insetti. – Nota
i modi: Starà poco a piovere. Piove a paesi (in qua e in là). PÍPPOLO, che è una piccola
escrescenza delle piante in forma di bacca, si dice pure d’un’escrescenza della carne: ho un amico al
quale una gallina portò via un píppolo dal naso con una beccata. PÍTTIMA, per persona noiosa, è
anche del nostro dialetto. A POCHINI A POCHINI se ne spende tanti, molto più espressivo e garbato che
a poco a poco. POPONE fatto, strafatto. POPONE per gobba. Mi ricorda il sonetto del Fucini, dove
al [142] prete gobbo che dice che l’uomo è fatto a somiglianza di Dio, Neri risponde: Con quel
popone non me l’ha a dir lei. – O sciocco, va’ a dare il colore ai poponi.
Amenità del vocabolario.
Da quest’ultimo esempio possiamo prender le mosse a una corsettina allegra, per vedere una
quantità di modi proverbiali e di motti e d’esempi lepidi e arguti, che nelle pagine precedenti
abbiamo saltato a piè pari. Se leggerai tutto il vocabolario, vedrai che ce n’è a profusione, che alle
immagini e ai pensieri tristi vi predominano di gran lunga gli ameni, che il libro della lingua,
insomma, è generalmente un libro gaio, gran motteggiatore e burlone; e nei suoi motti non troverai
soltanto fiori e vezzi di lingua faceta, ma anche molte sagge sentenze e verità utili e sani consigli.
Rifacciamoci un po’ indietro, e spigoliamo alla lesta, senza tralasciarvi certi modi un po’ volgari,
ma efficacissimi, che è bene conoscere, benchè non sia bene adoperarli.
Fàtti in là, disse la padella al paiolo. Non si può esprimere più argutamente il concetto d’una
persona di cattiva reputazione che ostenta timore d’insudiciarsi nella compagnia d’un’altra della
stessa tacca. Sei come la padella, che tinge e scotta. C’è da rivomitar le palle degli occhi, a
mangiar certe bazzoffie delle trattorie. Ti s’ha a portare il panchetto? A chi non finisce di
chiacchierare per la strada. A Parigi, quando due comari stanno a chiacchiera un pezzo davanti a
una bottega, esce il bottegaio [143] con due seggiole, dicendo: Ces dames seront peut-être mieux
sur des chaises. Aver della pappa frullata nel cervello, essere un baggeo. Di una cosa nauseante: –
Fa venir su la prima pappa. Soffiar nella pappa, fare la spia. Da pappardelle (certe lasagne): il
condotto delle pappardelle, la gola. Pappa tu che pappo io (comune, credo, a tutti i dialetti),
alludendo a due persone che mangiano d’accordo in un affare. Eh, non mi pappar vivo! A chi
risponde arrogante. Aspetto che passi la mia, diceva quell’ubbriaco che si vedeva girar intorno le
case e non riusciva a trovar la sua porta. Far passare il vino da Santa Chiara, degli osti che lo
annacquano. – Nella sua testa c’è andato a covare un passerotto, di persona senza senno. Il SE, il
MA, il FORSE, è il patrimonio dei minchioni. – Dottor Pausania, a persona che parla con molte pause e
con prosopopea. Di una persona magra: – gli si sentono i paternostri nella schiena: – da paternostri,
le pallottoline maggiori della corona del Rosario, alle quali somigliano i nodi della spina dorsale. A
chi fa il superbo perchè è arricchito, per ricordargli il tempo quand’era povero: Ti ricordi quando
con una pedata ti rifacevi il letto? ossia, quando dormivi sulla paglia. Il caldo dei lenzuoli non fa
bollir la pentola (anche dialettale), la poltroneria non è guadagno. Pare una pentola di fagioli (si
sottintende “in bollore„) di persona catarrosa. Dio ti benedica con una pertica verde. Pillole di
gallina (le ova) e sciroppo di cantina aiutano a star sani. Di persona segreta: P chiuso delle
pine verdi. Tu fai piovere! A chi parla con affettazione o canta male. [144] E ponza e ponza e
ponza, venne fuori la Monaca di Monza, fu detto del Rosini, che con quel romanzo credeva d’aver
ammazzato I Promessi Sposi; e si dice di chi fa un grande sforzo, che poi non degno frutto. E
udendo un suono di quel vento che esce dallo stomaco: Al tempo dei porci erano sospiri.
Proserpina, di donna scarruffata. Vatti a pettinare, che con codesti ciuffi mi pari una Proserpina (la
figlia di Giove e di Cerere, rapita da Pluto). Non esce mai dal bagno: o che ci sta in purgo? Dal
mettere una cosa in purgo, o in molle, perchè prenda o perda certe qualità. È meglio puzzar di
porco che di povero, dicono i poveri che si vedon malmenati. Vespasiano a Tito, che gli chiedeva
come mai avesse messo un’imposta sull’orina, mise una moneta sotto il naso, e domandò: Puzza
questa?
Ultima verba.
POLIARCHÍA. Tu capisci la mia strizzatina d’occhio: questa è una di quelle tali parole che è convenuto
che tutti intendano, e di cui non è prudente domandare la spiegazione, in presenza d’altri, a una
persona che si rispetta. POLPETTA, tu saprai per prova che cosa significhi in traslato: sgridata. Bello
il verbo PORGERE nel senso di suggerire: Fa’ quello che la natura ti porge. Dice il popolo, in
Toscana: Un animo mi PORGE, il cuore mi PORGEVA di fare una data cosa. POSARE. Nota bene. Noi
diciamo troppo spesso deporre, che è ricercato, per posare il cappello sopra una seggiola o il
candeliere sul tavolo o altro simile; io intesi anche gridare a un cane: Deponi quell’osso, come
nelle tragedie si dice a un re: Deponi quel serto. Corbezzoli! Positivo. Si dice famigliarmente di
positivo per sicuramente, senza dubbio. A primavera c’è la guerra DI POSITIVO. Posteggiare, far la
posta, non si dice soltanto d’un animale alla caccia, ma anche d’una persona: L’ho POSTEGGIATO un
pezzo all’angolo di via Garibaldi, dove passa ogni giorno; ma non comparve. Si dice che P il
sole, il vento in un luogo, per dire che ci batte forte, ed è un modo tanto efficace quanto lesto.
Eccoci a PRATICA. E qui ammonisco me stesso: Si ricordi bene, signor E. D., che si dice far LE
PRATICHE da avvocato, e non la pratica, come dice lei, e far pratiche, non le pratiche, per far quello
che occorre a riuscire in un intento. E tu pure, figliuolo, a proposito di PRECIPIZIO, avverti,
discorrendo, di non PRECIPITAR le parole, le sillabe, il racconto, che è un vezzo per cui si dice un
PRECIPIZIO di spropositi; e già fanno tutto male gli uomini PRECIPITOSI; e non te la PRENDERE un modo
anche dialettale) se t’ammonisco con tanta franchezza. Su PRESA tiriamo via, perchè tu capisci che
cosa significa negli esempi: un muro che non ha fatto ancora PRESA, una colla, una pasta che non fa
PRESA. Ma facciamo alto a PRESTIGIO, che il vocabolario definisce: influenza, forza abbagliante, ma di
cui si fa ora un abuso ridicolo, adoperandolo nel significato più ristretto di stima e d’autorità, e
anche di serietà solamente, tanto che tutti credono d’aver del prestigio da perdere, e io intesi dire
persino d’un cane da guardia, che aveva perduto ogni prestigio in una fattoria, per averci lasciato
entrare [146] i ladri di notte. Grazioso il verbo PROSPERARE in senso transitivo: Il Signore vi
PROSPERI! PUGNO, ribeccarsi un pugno, mescere fior di pugni. Sentii dire in Toscana: Quattro
pugni bene scolpiti, che è proprio uno scolpire l’idea. Mi piace PUNTARE nel senso di fissare con
insistenza una persona: La smetta, giovanotto, di PUNTAR quella ragazza; e anche riflessivo, per
ostinarsi: Se si PUNTA, non ottieni nulla. Ed ecco alla parola PUNTO un mazzo di modi da
ricordarsi: – Far punto e da capo, stare a punto e virgola, ci sono i punti e le virgole (in uno scritto
perfetto), capitare in brutto punto, prendere in buon punto (nel momento buono), se s’affatica
punto punto s’ammala, non è ancora in punto (all’ordine). Per primo punto ti dirò.... PURE DI, in
senso ellittico. PUR di campare, fa di tutto: esprime il concetto con assai più forza che per campare,
dicendo l’amor della vita anche più forte del sentimento della dignità e della rettitudine. PUZZARE,
PUZZACCHIARE. Passa di qui a naso ritto: par che si PUZZI tutti! Il pesce PUZZA DAL CAPO. Azioni
che PUZZAN di ladro. Diciamo anche noi nel dialetto che una cosa non pagata, ma presa a credito,
puzza d’inchiostro, e d’una cosa che si ritrova o si riceve inaspettatamente, e che ci fa comodo:
Un pastrano a questi freddi? Non puzza. Nota che noi usiamo quasi sempre, in vece di PUZZO,
puzza, che è del linguaggio letterario. Un puzzo che assaetta, un puzzo che si schianta, che si
scoppia. – Di questo puzzo non ce n’ho mai avuto in casa mia: s’intende di questi peccati, di queste
cattive azioni. E per rumore, putiferio: Per un nulla non importava far tanto puzzo! [147] E
ancora vari nomi di cose, d’uso raro fra noi, ma che è bene aggiungere al nostro vocabolario
manchevole: POSATURA, quella che lascia l’acqua nella boccia, e che noi diciamo fondo, che è
proprio del caffè, com’è del vino e dell’aceto fondigliólo. PRODA del campo, del tavolino, del letto,
del muro, del fosso, che noi diciamo malamente orlo. PULCESECCA, sinonimo faceto di strizzatura o
pizzicotto, o anche il segno che ne rimane. Mi son fatto una pulcesecca con la fibbia, e in un
sonetto del Fucini: e giù na pulcesecca ’n tel nodello. PULCIAIO, un luogo pieno di pulci o sudicio.
Son capitato in un pulciaio di locanda! PULCINAIO, un luogo pieno di pulcini. PULISCISCARPE e
PULISCIPIEDI, che si mette all’entrata delle case, e che si chiama Raschino se è di ferro. PULSANTINO,
la mollettina degli orologi, che serve, calcandola e girando il gambo, a rimetter l’ore. PUNZONE,
forte colpo dato con le nocche o con la mano puntata. Gli diede un punzone nel petto che lo mandò
con le gambe levate. E questo è l’ultimo vocabolo della processione del P, che se finisce poco
bellamente con due scarpe per aria, non è mia colpa.
Per finire.
Credo di non averti seccato. Non ti saresti seccato neppure, credo, s’io non avessi fatto molte
omissioni per abbreviarti il cammino. Ho detto molte, ma sono moltissime, e in special modo di
nomi storici, di termini architettonici, matematici, filosofici, chimici, nautici; ai quali forse,
leggendo in luogo mio, tu ti saresti arrestato. [148] Anche ho trascurato un monte di vocaboli con cui
ti sarebbe passata dinanzi una varietà grande d’animali rari, di minerali, d’erbe, di fiori, d’alberi, di
frutti, di medicinali, d’alimenti, d’abitazioni e di paesaggi, e d’armi e di macchine d’offesa e di
difesa antiche e moderne, e di vestimenta e di costumanze e di giochi e di feste dell’età passate e del
tempo presente, che alla mia immaginazione presentavano, durante la lettura, un’altra fuga
ammirabile d’immagini, di da quella che tu vedevi con me, seguitando le mie citazioni. E ho
tralasciato voci imitative, interiezioni, esclamazioni, facezie, proverbi, quanto era necessario che
tralasciassi, insomma, per ridurre in una ventina di pagine più di quattrocento colonne di stampa. E
queste quattrocento colonne non rappresentano che una lettera. Vedi che vasta e succosa e
dilettevole lettura è quella del Vocabolario, e immagina quanto avrai imparato quando su tutte le
lettere dell’alfabeto avrai fatto il lavoro che abbiamo fatto insieme sopra una sola, ma con più
attenzione, e smettendolo e ripigliandolo a intervalli, dopo ciascun dei quali ritornerai all’opera con
maggior curiosità e con più vivo ardore e con la mente meglio esercitata a scegliere, a osservare e a
imparare. Sei persuaso? E dopo questo, se qualcuno ti dirà che a leggere il Vocabolario si muor di
noia e si sciupa il tempo e il cervello, mandalo.... alla lettera P.
[149]
LA MEMORIA LATENTE.
Ora ti debbo dire alcune cose per preservarti da un senso di scoraggiamento, dal quale è probabile
che tu sia preso a quando a quando, nel primo corso dei tuoi studi.
T’accadrà qualche volta di passare in rassegna mentalmente il materiale di lingua che crederai
d’aver accumulato in vari mesi di letture e di appunti, e troverai nella tua memoria ben poca cosa, ti
parrà che una gran parte di quel materiale ti sia sfuggito come un liquido da un vaso forato, e che
un’altra parte ti sfugga nell’atto che lo cerchi, e rimarrai scoraggiato da quel disinganno, e quasi
avvilito.
Ebbene, sarai in errore.
Una gran parte del materiale della lingua si va a riporre da in certi scompartimenti secreti della
memoria, dove noi lo portiamo senz’esserne consapevoli, e donde non esce se non quando è
chiamato fuori da certe idee, con le quali è legato da fili sottilissimi, invisibili, per così dire, al
nostro pensiero, e quindi non afferrabili dalla nostra volontà. Ma, nel parlare e [150] nello scrivere,
quando vorrai esprimere certi pensieri e nella ricerca viva dell’espressione le tue facoltà intellettuali
si ecciteranno, tu vedrai che ti verranno sulle labbra e alla penna una quantità di parole, di frasi e di
costrutti, che non sapevi di possedere, e che ti parrà di non aver cercati. È una cosa che segue a tutti
quelli che studiano la lingua, e che è per loro una sorpresa gradevole, come di trovare nelle tasche o
nei cassetti carte preziose o danari dimenticati. Non ti sgomentare, dunque, se dai ripostigli della tua
memoria non esce che pochissima lingua, quando a questa tu gridi: Fuori! non per bisogno, ma
per vederla soltanto, per metterla in mostra a te stesso. Quando n’avrai bisogno davvero, saranno le
tue idee urgenti e imperiose che andranno a picchiare all’uscio delle mille celle in cui le parole
stanno nascoste, ciascuna alla cella di quella che le conviene e le appartiene, e te le porteranno di
volo sulla carta e alla bocca. E ti porteranno vocaboli e frasi che da lungo tempo non s’eran più fatte
vive nella tua mente, e che ti parrà d’imparare in quel punto, e della forma felice in cui ti verranno
espressi certi pensieri, rimarrai maravigliato come di roba non tua, che ti fosse suggerita da un altro,
o come se scoprissi in te un altro te stesso, che parli e scriva una lingua più ricca, più propria, più
efficace di quella che tu possiedi. Sii certo di questo. Molto spesso, ritrovando nel dizionario o nei
tuoi appunti certi modi segnati da te un pezzo addietro, esclamerai: Guarda! Questo m’era
scappato di mente. No, non t’era scappato; vi stava rimbucato, e dormiva, aspettando che venisse
a risvegliarlo [151] un’altra parola o frase di senso o di suono affine, una voce sfuggevole
dell’animo, un’idea sua parente od amica, alla quale egli si sarebbe manifestato ed offerto. Prosegui
dunque con animo a leggere, a notare, a raccogliere, poichè tutto il materiale di lingua che ti metti in
capo vi si ordina e vi si collega in mille modi, come in una officina oscura, a poco a poco, con un
lavorìo spontaneo, del quale tu non hai coscienza. E non ne sarà affatto perduta neppur quella parte
che non verrà fuori al bisogno, perchè di molte voci e locuzioni effettivamente dimenticate, tu
sentirai nella tua memoria il vuoto che v’avranno lasciato, e di le spierai e moverai per
rintracciarle e prima o poi le ripiglierai al laccio per sempre. Prosegui nello studio, con viva fede
nelle forze latenti e nel lavoro misterioso e maraviglioso della memoria, che ti sarà per sè medesimo
un argomento di studio e una fonte di diletto profondo.
[152]
IL PERICOLO.
Ancora un’avvertenza, prima di rimetterci in cammino.
Bada che nello studio della lingua, in special modo per chi v’ha inclinazione naturale, c’è un
pericolo: il pericolo d’un così brutto malanno, che se io avessi anche solo un leggerissimo dubbio di
potertelo tirare addosso con le mie esortazioni e i miei consigli, vorrei piuttosto che tu buttassi il
mio libro sul fuoco come un libro scellerato. Sì, se nel culto della letteratura tu dovessi fare allo
studio della lingua una troppo gran parte, riporre in essa il meglio dei tuoi sforzi e dei tuoi
godimenti intellettuali, ridurti a considerarla, in somma, non come un mezzo, ma come un fine, e
diventare uno di quei perdigiorni delle lettere che badano soltanto a baloccarsi con le parole e con le
frasi, come se queste non fossero forme e suoni vanissimi quando non servono a dir qualche cosa
che piaccia o che giovi, io ti direi che è meglio per te rinunziare a questo studio, e continuare a
scrivere e a parlar male per tutta la vita. E sappi [153] che il malanno c’entra dentro lentamente,
senza che ce n’avvediamo. La nostra innata pigrizia intellettuale c’induce a poco a poco a tenere in
conto d’un nobile esercizio dell’ingegno il facile lavoro di accumular vocaboli e locuzioni, e a
credere che sia arte e scienza ciò che con l’arte ha che fare come la preparazione dei colori con la
pittura, e con l’alta matematica lo studio della tavola pitagorica.
Non occupandoci più d’altro che di lingua, finiamo con non cercare e non raccoglier più altro nelle
opere dell’ingegno altrui; ci avvezziamo a non veder più bellezza che nella bellezza della parola, a
non badar più che alla forma anche nelle pagine più splendide di pensiero e più calde d’affetto, a
non più pensare noi medesimi, scrivendo, se non quanto è necessario ad aver qualche cosa da dorare
e da infronzolare con gli orpelli e coi nastrini del nostro guardaroba linguistico. Ed ecco lo studioso
della lingua che, naturalmente, a grado a grado, diventa pedante e intollerante, come il bigotto
diventa superstizioso e misantropo; che non ha più altro nel cranio che una grammatica e nel petto
che un vocabolario, e nelle cui mani la lingua perde lume, calore e vita, per ridursi una materia
inerte e fredda, da mettere in mostra a diletto di chi ha gli occhi confitti in una fronte vuota; ecco il
linguaio degenerato, uggioso e ridicolo, che sempre e da per tutto dove imperò, isterilì la letteratura,
uccise l’arte e prostituì l’idolo che stupidamente adorava.
Ma tu non ti lascerai andare per quella china; tu terrai sempre per fermo che ogni studio diretto a
parlare e a scriver bene sarà fatica, peggio [154] che sprecata, rivolta a tuo danno, se ti distoglierà
dall’esercitar l’ingegno a un più alto fine; tu studierai la lingua per diventarne padrone, non per
fartene servo, per servirtene, non per adorarla; tu ne farai forza e bellezza, ma non la sostanza stessa
del tuo pensiero, che si dissolverebbe nel vuoto, non l’alimento unico del tuo intelletto, per cui si
muterebbe in veleno.
No, tu non seguirai la via del professor Pataracchi.
[155]
IL PROFESSOR PATARACCHI.
Fu forse l’ultimo dei veri, grandi, formidabili pedanti italiani; per i quali io non capisco come non
sentano ammirazione anche i loro avversari e le loro vittime, perchè è sempre ammirabile chi
combatte ferocemente, senza tregua, fino alla morte, per una causa ch’egli crede santa; anche se sia
una causa sballata. E per tutta la vita il professor Pataracchi, paladino di Nostra Santa Lingua
Immacolata, ritto sulla rocca sacra del Purismo, già rotta da ogni parte, eroicamente ostinato ed
intrepido, menò la spada sui barbari assalitori, e ne fece memorando sterminio.
Il suo Credo era questo. Lingua e nazione sono una cosa sola: dunque chi offende la lingua tradisce
la patria; dunque chi parla e scrive male, chi contamina l’idioma nativo di francesismi e d’idiotismi,
ha da essere odiato e vituperato come il più nefando dei malfattori. E poichè in questa fede era
sincero, la professava, con logica rigorosa e costante, anche nella pratica della vita, non curandosi
d’inimicizie di danni che glie ne potessero incogliere. E siccome il suo [156] purismo arrivava
a tal segno, da respingere ogni frase o parola che non avesse il suggello della classicità più genuina,
fino a non ammettere in alcun modo nessun vocabolo nuovo, per quanto fosse giustificato dal
bisogno o dall’uso comune, si capisce com’egli dovesse odiar mezzo mondo e si facesse prendere in
tasca da quasi tutti quelli che gli s’avvicinavano.
Dico quasi tutti, non tutti, perchè a me e a pochi altri, che sapevamo quanto un’offesa alla lingua lo
facesse veramente soffrire, egli destava, insieme con l’ammirazione del suo foco sacro, un
sentimento di schietta pietà. Perchè dirgli una parola o una frase che gli pareva illecita era come
forargli le carni con un punteruolo d’acciaio: avrebbe gridato in mezzo alla strada, se non avesse
temuto di far gente. A chi gli rivolgeva una domanda in forma scorretta, non rispondeva, o tardava
un pezzo a rispondere, per fargli capire che l’aveva offeso e per lasciargli il tempo di ritrattar
l’ingiuria. A certi cattivi scrittori e parlatori, quand’io lo conobbi, aveva levato il saluto da anni.
Domanderete perchè non lo levasse a me pure. Ma coi giovani che lo frequentavano con buona
disposizione d’alunni, e fingevano di consentir con lui e di voler battere la sua via, usava qualche
indulgenza. Non faceva però complimenti nemmen con loro quando gli toccava d’udire o di leggere
in qualche loro scritto una locuzione o un costrutto di lega impura. Diceva fuor dei denti: Queste
son bricconate, mi scusi. Questo non è uno scrivere da galantuomo. O dove ha pescato questa
porcheria? Per lui non c’era differenza fra il commettere un atto di lesa maestà del suo [157]
dizionario e rubare un orologio o fare una cambiale falsa. Avrebbe voluto che nel Codice penale ci
fosse un articolo per questo genere di reati. E non faceva grazia a nessuno. Nessuno scrittore lo
contentava perchè il buon effetto di qualunque pagina più bella e eloquente, se pur lo sentiva
ancora, gli era distrutto ipso facto da una sola parola illegittima ch’egli v’inciampasse. Anche quei
pochi puristi della sua razza, che rimanevano in Italia, e ch’erano generalmente canzonati per la loro
feroce pedanteria, anche quelli li giudicava di manica troppo larga, troppo cedevoli, vilmente
propensi a venire a patti con la barbarie invadente. Ed è a notarsi che furioso in particolar modo era
contro i suoi concittadini toscani, e contro i fiorentini più che mai, ch’egli accusava d’essere i primi
e più infesti corruttori della loro lingua. Già erano imbarbariti i suoi coetanei; ma erano assai peggio
i loro figliuoli. Diceva che “veniva su una generazione toscana senza freno legge, la quale
preparava al suo paese un triste avvenire„ perchè nel suo concetto un parlatore o scrittore “maculato
non poteva che seminar dei guai in qualunque campo o forma d’azione operasse. Ricordo
d’avergli udito dire, all’annunzio di non so che nuovo Ministero: Ministro dei lavori pubblici
quello sgrammaticante? Ne vedremo delle belle! Non avevano altra sorgente anche i suoi odi
politici, perchè di politica non si curava, e non riconosceva altra quistione nazionale o sociale che
quella della lingua. E sebbene, in fondo, fosse tutt’altro che un cattivo uomo, serbava i suoi odi
linguistici oltre il rogo. Udendo ch’era morto un tal letterato, una delle sue bestie nere: Come
uomo [158] disse, – lo compiango; come scrittore.... è una pestilenza di meno.
È giusto dire che della purità assoluta che voleva dagli altri, egli dava l’esempio, non solo in quel
pochissimo che scriveva, ma anche parlando; ciò che gli doveva costare una cura assidua e
faticosissima, perchè, in somma, non viveva mica fuori del mondo presente, e le parole nuove, i
francesismi correnti, gl’idiotismi d’uso universale e necessario dovevano penetrare e sonar di
continuo anche nel cervello suo, come nei polmoni di tutti entrano i microbi dell’aria. Ma di lingua
era dotto davvero, e non c’era caso che peccasse. Di certe cose, delle quali, senza peccare, non
avrebbe potuto discorrere, non discorreva mai. Certe novità, a cui non si poteva dar altro che un
nome nuovo e barbaro, non c’era verso di fargliele nominare. Altre le nominava con un vocabolo
antico, o di conio proprio, risolutamente, non dandosi alcun pensiero di non essere capito, o d’esser
franteso, o di far ridere gli uditori; il che seguiva sovente. Chiamava, per esempio, una
dimostrazione popolare: una raunata di popolo; guardie del fuoco, i pompieri; traino, il treno della
strada ferrata (partirò col traino diretto, diceva): un banchetto, non di trecento coperti, ma di
trecento tovaglioli; negava la medesimezza della così detta casa di Dante in Firenze. E non diceva
mai semplicemente il re, poichè era monarchico umilissimo, ma neanche Sua Maestà, che
condannava come modo improprio: diceva la maestà del re: la maestà del re arriverà domani. Ma i
due più belli esempi della sua audacia di purista, diventati famosi a Firenze, sono [159] le voci
antiche con le quali s’ostinava a designare due imposte, ch’egli chiamava gravezze: l’imposta
progressiva e quella della ricchezza mobile, già esistenti ai tempi della Repubblica: la decima
scalata e l’arbitrio. E tutte queste parole, e le altre, pronunziava con aria di sfida fra i
“neologizzanti„ quasi gettandogliele in faccia (scrivo così perchè è morto) e dicendogli con gli
occhi: – Beccatevi questo, e fatene vostro pro, pezzi d’ignoranti.
Variatissimo e comicissimo era il suo vocabolario di pedante vituperatore di barbari; nell’uso del
quale egli graduava il vituperio con rigorosa giustezza. Da modo non bello, brutta voce, vociaccia,
robaccia, veniva su su a mostriciattolo, mostruoso vocabolo, voce appestata, abbominevole voce,
parola infame. Così d’un francesismo tollerabile si contentava di dire: sente di francese, e via via:
e’ pute di francioso (il francioso aggravava) o di gallico (che era più grave di francioso);
francesismo vile, fetentissimo, sgangherata voce gallica, scempiata metafora transalpina. E in
diversi modi egualmente fieri e lepidi ammoniva i giovani a rifuggire da quei delitti: Al fuoco
questa parolaccia! Al gasse! Alla cassetta della spazzatura! Deh, non lo dire! Via
quest’orrore! La lasci agli acciabattoni! E lascio altre sue maniere usuali: Goffe eleganze
romanzieresche, sconce sgrammaticature segretariesche, stomachevoli parole muschiate, sguaiate
leziosaggini, turpi granciporri: n’aveva una collezione infinita.
Ma non era mai così bello a vedere e a sentire come quando scorreva un libro nuovo e [160] sospetto,
con quel viso sanguigno e minaccioso, con quei baffi irti, che s’appuntavano contro la pagina come
penne d’istrice, con quelle unghie adunche, piantate sui margini, come pronte a graffiare. Egli
segnalava il francesismo con una contrazione del viso come se vedesse correre fra le righe un
insetto schifoso. La manifestazione più tenue del suo sdegno era un pugno sul tavolino. Quando una
parola o una frase lo urtava più forte, prorompeva in invettive contro il fantasma dell’autore: Ah,
italiano rinnegato! – Camerlingo degli spropositi! – Sgrammaticato malfattore codardo! – E l’ultima
espressione della sua collera era un riso ironico forzato, che gli scopriva i denti canini,
accompagnato da uno scotimento di spalle, con cui fingeva un’ilarità smodata. Ma dopo questo
sforzo, sbatteva il libro nel muro e andava fuor della grazia di Dio. A questo punto siamo arrivati!
Ma è un’aberrazione, una demenza universale. L’Italia va in isfacelo. Quando non c’è più lingua
non c’è più nulla. È finita. Oh bastarda razza di traditori!
Povero professor Pataracchi! Conservarmi la sua benevolenza costò a me qualche fatica; ma deve
aver faticato più lui a non levarmela. Chi sa quante volte fu in procinto di dirmi come Virgilio
all’Argenti: – Via costà con gli altri cani! Poichè, in somma, gli dovevo parere un ipocrita, io che
per tenermi nelle sue buone grazie gli davo ragione a parole, ma seguitavo a scrivere come un
Ostrogoto, non potendomi ribellare alla terminologia dei regolamenti, poichè scrivevo di cose
militari. Ma è proprio proprio costretto – mi domandava [161] qualche volta a servirsi di codesto
orribile gergo caporalesco? Io rispondevo di sì, e mi giustificavo umilmente. Ed egli mi diceva:
La compiango! – E forse fu la compassione che mi mantenne la sua amicizia.
Il giorno prima di lasciar Firenze per sempre, m’andai ad accomiatare da lui. Fu più affettuoso che
non m’aspettassi. Forse lo impietosiva il pensiero ch’io m’andavo a stabilire a Torino, poichè a lui,
per rispetto alla lingua, Torino doveva parere un covo brigantesco, dove io non potessi far altro che
una miseranda fine. M’accompagnò per un tratto di via del Cocomero. All’angolo di via degli
Alfani, prima di lasciarmi, mi disse qualche parola benevola, raccomandandomi la lingua. Forse gli
avrei lasciato un buon ricordo di me, se non avessi più aperto bocca; ma all’ultimo momento guastai
la frittata.
Se per combinazione gli dissi venisse una volta a Torino, abbia la bontà d’avvertirmene. Mi
metterò ai suoi ordini. Sarò felice di rivederla e di servirla.
– Grazie, – rispose stringendomi la mano. – Buon viaggio, e a rivederla.
E mi lasciò.
Ma fatti pochi passi, mi richiamò con un cenno, e mi disse: Senta. Combinazione, per caso o
casualità, mi perdoni, è orribile.
E se n’andò senza dir altro. Furon quelle le ultime parole ch’io intesi dalla sua bocca purissima.
Fulminò ancora i barbari per sette anni, e poi morì sulla breccia, ravvolto negli avanzi della sua
bandiera.
[162 bianca]
[163]
PARTE SECONDA.
[164 bianca]
[165]
Nel corso degli studi che farai sulla lingua, con la penna alla mano, nei vocabolari e negli scrittori,
se vorrai impadronirti durevolmente delle cognizioni che verrai acquistando e ricavarne il maggior
vantaggio possibile nel parlare e nello scrivere, sarà bene che tu le ordini nella tua memoria,
raggruppandole intorno a certi concetti, che dovrai tener sempre presenti. A ciascuno di tali concetti,
o per dir meglio, divisioni della materia, dedicherò un breve capitolo. Sarà una serie di consigli e
d’avvertenze intorno alle relazioni della lingua coi dialetti, alla lingua che non si sa, alla lingua che
si sa, ma non s’usa, alla lingua impropria, alla lingua abbreviativa, ai sinonimi, alle definizioni, ai
modi famigliari, al linguaggio faceto, al modo di variare il proprio materiale linguistico.
Ragioneremo poi dei francesismi e delle parole nuove, degli spropositi più frequenti e dei luoghi
comuni più usuali del linguaggio corrente, e delle licenze lecite e di quelle che offendono i diritti
della Grammatica; e in fine faremo insieme una corsa a traverso la letteratura italiana per scegliere
gli scrittori che tu dovrai leggere e studiare di preferenza. Non ti spaventare della via lunga: la
percorreremo alla lesta, scherzando spesso da buoni amici, e ricreandoci ogni tanto nella compagnia
d’originali piacevoli. Adelante, Pedrito.
[166]
LE LAGNANZE D’UN DIALETTO.
DIALOGO FRA IL DIALETTO PIEMONTESE E LA LINGUA.
(Il dialetto è il piemontese; ma il dialogo può star benissimo con qualunque altro dialetto d’Italia,
sostituendovi altre voci e locuzioni a quelle che son citate ad esempio).
LA LINGUA. – Buon giorno, fratello. Tu hai la cera rannuvolata.
IL DIALETTO. Me la vedo come in uno specchio, Signora, e mi duole di presentarmi a Voi in
quest’aspetto.
L. – Perchè mi chiami Signora? Altre volte ti dissi che mi piace esser chiamata sorella. La fortuna e
la gloria non m’hanno fatto montare in superbia. Non siamo, tu ed io, rami dello stesso tronco?
figliuoli della stessa madre? legati ancora e per sempre da mille somiglianze e proprietà comuni,
dalle quali lo straniero riconosce in noi, a primo aspetto, il comun sangue latino? Che cosa
t’affanna, fratello?
D. - Ti ringrazio, sorella illustre e venerata. [167] (Scattando) Ma è proprio questo pensiero che mi fa
stizzire: d’aver che fare con una razza d’ingrati, i quali, disconoscendo i vincoli che mi legano a te,
credono di farti onore disprezzandomi, e, parlando e scrivendo italiano, rifiutano un monte di parole
e di frasi mie come se fossero barbare per il solo fatto d’esser mie, e vanno predicando ai ragazzi
che, per non offenderti, debbono rifuggir da me come dalla peste bubbonica.
L. – Lo so.
D. – E che ne dici?
L. – Confòrtati. Mi fanno sovente la stessa lagnanza i tuoi fratelli. E scrisse pure un grande maestro
che ogni italiano, per imparar la lingua, la dovrebbe studiare tenendo tanto d’occhi aperti sul proprio
dialetto; con che volle dire che v’è in ciascun dialetto una grande quantità di modi e costrutti
comuni alla lingua; conoscendo i quali, ed usandoli, riuscirebbero tutti ad esprimersi in italiano con
assai più facilità ed efficacia che ora non facciano, poichè a quelle forme che si presentano loro
spontanee, ed essi rifiutano come puramente vernacole, ne sostituiscono altre quasi sempre men
naturali, appunto perchè cercate, e meno proprie, perchè meno naturali.
D. – Ecco la gran verità, sii benedetta! Mi disprezzano per onorarti, e offendono te, disprezzandomi;
mi fuggono come un nemico, quando si potrebbero giovare di me come d’un maestro.
L. – Dici il vero. Ma non pensar che ti disprezzino. Ogni giorno sento dire da italiani di questa o di
quella provincia che il loro dialetto è più vivace, più vario, più espressivo della lingua, e che col
proprio dialetto soltanto riesce loro [168] di dire tutto quello che vogliono, d’esprimere tutte le
particolarità d’ogni loro pensiero, tutte le sfumature d’ogni sentimento. Vedi dunque! Ma è
singolare. E non sospettano che la grande difficoltà ch’essi trovano a dire in italiano tutto quello che
vogliono, deriva principalmente dal credere non italiane una buona parte di quelle forme con le
quali appunto possono dir tutto nel vernacolo.
D. Tu mi riconforti, sorella. Ma se sapessi quanti affronti mi tocca d’ingollare! Ne sento da ogni
parte e d’ogni specie. È dialetto; dunque moneta falsa: è la massima. Sento molti ridere quando uno
dice, parlando italiano: legger la vita, mangiar la foglia, bruciare il pagliaccio, trovare una bella
vigna, tirarsi da banda, battere il taccone, ridere sul mostaccio ad un tale, far filare uno, far pressa
a un altro, tramutare un tavolino, battere una culattata in terra, andar per morire, tirare avanti
la famiglia.... O dimmi tu: non sono modi italiani, di tua proprietà incontestabile, sorella mia?
L. – Li riconosco.
D. O dunque! E ne potrei citare mille e passa. Giusto, eccone un altro, che guai a chi gli scappa.
Bisogna sentire come si spassa certa gente colta alle spalle dei poveri ignoranti che s’ingegnano di
parlare italiano, per certe parole e frasi italianissime, credute piemontesismi grossolani. Ho sentito
una famiglia intera dare in una risata perchè alla domanda: che tempo fa? la serva rispose: È
nuvolo! – Diedero in un’altra risata, un’altra volta, a sentirle dire: – Com’è peso questo bimbo! – La
stessa cosa, un giorno ch’ella disse: La botte versa; [169] bisogna stopparla. Ma aspetta, che te
ne citi dell’altre più curiose, coi commenti relativi degli italianissimi. Sono uscito senza niente in
capo. Bell’italiano! Se ci sono stato? Quelle belle volte! Ah quelle belle volte, che perla!
Grazie! Ho mangiato il mio bisogno. Un signore che mangia il suo bisogno! No, l’assicella va
messa per così. Per così parli la lingua, Ostrogoto? Dove sta il tale? Deve star per qui (qui
vicino). Dio di misericordia! Svelto come sei, fai un momento a arrivare a casa. O come si fa a
fare un momento, citrullo? Dopo la Norma, andrà su l’Ernani. L’Ernani che va su! A quale
altezza? Se non c’è appunto sei miglia, siamo lì. Dove lì? Ah, povera Italia! Dimmi ancora: c’è
qualche cosa che offenda la tua purità in tutto quello che ho detto?
L. Nulla, fratello. Son tutte forme della lingua parlata, usatissime da chi più mi conosce e mi
rispetta.
D. Deo gratias. Se tu sentissi, in certe case, dove si parla l’italiano per istituto, che rabbuffi
toccano a dei poveri ragazzi quando si lasciano scappare di bocca spasseggiare, slargare,
sgraffignare, disgruppare, ciaramellare, tambussare, ciucciare, impappinarsi! Questo è italiano
di Porta Palazzo: bene spesi i denari per mandarti a scuola! – A un ragazzo che diceva piangendo: –
M’hanno dato! (delle busse, era sottinteso), udii rispondere: E te lo meriti, se parli italiano in
codesta maniera. E: berrai quando parlerai meglio a un altro, che chiedeva dell’acqua dicendo
che aveva una sete del diavolo. E non parlo delle correzioni che fanno molti insegnanti ai
componimenti scolareschi; nei quali, [170] oltre agli errori inevitabili nella prima età, bollano come
strafalcioni, per la sola ragione che sono dialettali, una quantità di modi correttissimi, che i piccoli
scolari, poveretti, non sono in grado di giustificare. Se ne vuoi sentire....
L. – Ne son curiosa.
D. E io ti contento. Ho appunto sott’occhio i componimenti d’una quarta classe elementare,
corretti da una maestrina, della quale non si può dire che non conosca la lingua, chè anzi scrive
benino. Ebbene, ci trovo segnati come piemontesismi, con la matita rossa, una decina almeno di
modi, che tu certamente non ripudii. Torino fa 350
000 abitanti. C’è un frego rosso sul fa. La
famiglia costumava festeggiare il natalizio del babbo. Condannato costumava. La mamma si
tapinava tutto il giorno. Bollato il tapinava. – Doman da sera. Tre punti d’esclamazione. – Un dopo
desinare verrò da te. Un frego rosso all’un dopo desinare e al verrò, chè s’ha da dire andrò, si
capisce. Passò da Torino, invece di per, sottolineato. Disse che non ci sarei riuscito; ma io l’ho
fatto bugiardo. Un punto interrogativo rosso accanto a questo modo. – Son nato del 1891. Riprovato
il del. Figurava di non volere; ma non aspettava altro. Sostituito fingeva. E tu non vieni? fa la
sorella. Crociato il fa. Una cosa fatta come va. Un tratto rosso anche a questo. E se ne vuoi
dell’altre, che ho pescate altrove, ce n’ho un cestone....
L. Codeste mi bastano, chè ne so molte anch’io. Quanto rosso sciupato, dio buono! E questo è
risibile, che i più di coloro che si dànno tanta cura per iscansar codesti pretesi errori [171] dialettali,
si lasciano sfuggire a ogni tratto dialettismi veri e bruttissimi, per isbadataggine, o perchè non li
conoscon per tali. Ed è naturale: non si può badare insieme a ogni cosa: mentre si guardan dagli uni,
inciampano negli altri.
D. E così dagli altri italiani mi fanno dar del barbaro coi dialettismi veri, e mi trattano di barbaro
essi medesimi dando la caccia ai dialettismi falsi. E mi son ristretto a citare vocaboli. Lascio da
parte un gran numero di forme sintattiche, di legature, di giri di frase svelti e efficaci, che sono cosa
mia e tua ad un tempo, di cui potrei cavare esempi dai tuoi più grandi e puri scrittori, e da cui si
guardano parlando e scrivendo italiano, come da azioni disoneste, per usare invece forme scontorte,
giunture che stridono, costrutti forzati e pesanti; che sono nel concetto loro i soli corretti. E
m’hanno l’aria di gente che fabbrichi dei ponti per passare un fil d’acqua...
L. Ed è vero anche questo, fratello. E hanno ragione al par di te i fratelli tuoi, che un fanno le
stesse lagnanze. Ma il tempo vi renderà giustizia, non dubitare. Via via ch’io sarò conosciuta e
parlata da un numero sempre maggiore d’italiani, scoprendo questi da quante voci e forme son
comuni a me e ai loro vernacoli, e gli scrittori mettendole in mostra e in commercio, sempre più si
farà manifesta la vanità di gran parte della fatica che ora si dura a scansare errori immaginari, e una
sempre più larga parte dell’esser tuo si confonderà col mio nelle lettere, e ti sarà reso l’onore che
meriti, e saranno lamentati gli oltraggi che ora ti si recano, e si [172] trarrà da te forza, vita, colore,
varietà, comicità, naturalezza, per parlare e per scrivere italianamente. Mi credi?
D. – M’hai racconsolato. Ti ringrazio.... e ti riverisco, Signora.
L. – Chiamami sorella.
D. Sorella ti posso chiamare nel corso dei nostri colloqui; ma non presentandomi a te,
accomiatandomi. Nell’atto di salutarti, il mio amor fraterno è sovrappreso da un senso di riverenza.
Dietro di te, vedo Dante.
[173]
LA LINGUA CHE NON SI SA.
Ne abbiamo già detto qualche cosa; ma di passata, ed è bene riparlarne.
Intendo dire principalmente di quel gran numero di nomi di cose, che noi non sappiamo e che non ci
curiamo di sapere, perchè di quelle date cose non abbiamo mai occasione o bisogno di parlare se
non nel dialetto; ma che deve imparare chi studia davvero la lingua, perchè questa non si saprà mai
che malamente se non se ne studia più di quanto occorre a parlarla alla meglio fra di noi, dove non
se ne parla che mezza. Noi la dobbiamo studiare, non in relazione coi nostri bisogni immediati e
abituali, ma come se fossimo certi di dover quando che sia andar a vivere in una regione d’Italia
dove neanche una parola del nostro dialetto sia intesa, e dove, per conseguenza, ci sia necessario
parlare sempre e d’ogni cosa in lingua italiana. Ora le cose delle quali ignoriamo il nome italiano
sono innumerevoli, e noi non c’illudiamo che sian poche se non perchè, parlando la lingua, ci siamo
assuefatti per modo a scansare di [174] nominarle, che quasi non ci accorgiamo più del nostro gioco.
E questa illusione è anche maggiore nei giovinetti che, vivendo in un giro più ristretto d’idee e di
faccende, hanno di solito meno cose da dire che gli uomini, e con minori particolari, e con minor
necessità d’essere esatti. Ma se potessero i giovanetti immaginare in quanti impicci si troverebbero
parlando la lingua, quando fossero trasportati di sbalzo in un’altra regione d’Italia, fuor del piccolo
mondo della famiglia e della scuola in cui è circoscritta la loro vita, quanta parte di lingua
s’accorgerebbero d’ignorare, assolutamente necessaria, e soprattutto quante cose si troverebbero
costretti ogni momento a descrivere, invece di nominarle, con molto stento e non senza vergogna, se
questo potessero immaginare, credo che non occorrerebbe loro altro eccitamento per indursi allo
studio.
A questo proposito ebbi da ragazzo una lezione che mi riuscì utilissima.
Da qualche tempo studiavo la lingua, e mi illudevo che fosse un gran che quel poco patrimonio di
parole e di frasi letterarie, che m’ero ammucchiato nel capo; e ne menavo gran vanto. Un giorno fui
invitato a colazione da un mio vecchio zio, che stava in una villetta, sulla riva d’un torrente, a
qualche miglio dalla piccola città piemontese, dov’era stabilita allora la mia famiglia. Era uno
spirito mordace, benchè buono d’indole, dotto di storia, e conoscitore profondo della lingua, della
quale s’occupava ancora con amore. Eravamo alle frutte, quando il discorso cadde su
quest’argomento, ed io vantai i miei studi di lingua col tono d’un filologo, che [175] potesse parlare
in cattedra della materia. Spiacque la mia sicumera al buon vecchio; il quale sorrise con aria
maliziosa, e mi disse: Vediamo dunque un poco, signor linguista, se la dottrina corrisponde al
vanto. Vuol ella scommettere che senza uscire dal giro delle cose che abbiamo sotto gli occhi, di
nove su dieci che glie ne accenno ella non sa il nome, e neppure delle operazioni usualissime che vi
si riferiscono? E cominciò la prova, che m’è rimasta bene impressa nella mente, perchè egli mi
fece notar le parole con la matita.
Eccoti il fiasco –, mi disse. Sai come si dice gettar via dal fiasco pieno un poco di vino per
purgarlo da qualche cosa di poco netto? No? Sboccare il fiasco. Sai come si chiama l’operazione di
riempire un fiasco scemo? No? Rabboccarlo. E come si dice con una sola parola vuotare un mezzo
fiasco? Neppure. Si dice ammezzarlo, un fiasco ammezzato. Hai detto che questo vino è un po’
infortito, ed è vero: comincia a prendere il fuoco; ma sai come si dice del vino infortito che pizzica
la lingua e il palato? La parola propria? No. Si dice che ha l’appinzo. Guarda questo bicchiere: vedi
questo spazietto interposto nella sostanza del vetro? Sai come si chiama? Púlica. E la parte più
sottile della lama di questo coltello, che è fermata nel manico? Códolo. E il dente della forchetta?
Rebbio. E questo? Reggifiasco. E quest’altro? Reggiposate. E ciascuna di queste ciocchette di
chicchi che formano il grappolo, sai che si chiama racìmolo? E fiócine la buccia dell’acino? E
vinacciuolo il granello sodo che v’è dentro? E il nome di questa buccia interiore della [176]
castagna? Peluria, andiamo. E questa parte della lattuga, composta delle foglie più piccole e più
tenere, che fanno cesto, come la chiami? Grùmolo. E il reticino per scoter l’insalata? Nemmen
questo. Scotitoio. O veda un po’, signor linguista!
Riprese fiato e tirò innanzi. Ora ti servo le frutte. Son certo che non sai che si dicono sfarinate le
pere come queste, che non reggono al dente, come le patate, che sfarinano; che si dicono
maculate quelle che portano segni delle mani; che si chiamano nocchi queste specie d’osserelli
dei frutti, che è lo stesso nome, nocchio, della parte del fusto dell’albero indurita e gonfiata per la
pullulazione dei rami. E guarda questo baco della pera che s’attorce: tu non sai che con parola
propria si dice che s’assérpola. Rifacciamoci un po’ indietro. Tu hai rotto la punta a un ovo a bere:
sai che si chiama scocciare l’ovo? Hai preso la parte superiore del gelato: sai che si dice scolmare il
gelato? E a proposito dei tordi che hai mangiati, sai che si dice dare un fermo ai tordi la prima
cottura che si da loro perchè non vadano a male? Ora senti: come dici del pan fresco che fa questo
rumore, quando si preme? Che scroscia, signorino. E di questa crostata sotto il dente? Che
scrógiola, da non confondersi con sgrigiolare, che è il rumore delle scarpe nuove. E dell’olio che
bolle? Che grilla o grilletta; e sfriggolare del rumore che fa il pesce o altra cosa, posta a soffriggere
nella padella. E agitar così il liquido nella bottiglia sai che si dice sciaguattare? E uscire a gorgo
l’uscir dall’acqua così, dalla bottiglia capovolta? E l’uscire in quest’altro modo: venir giù filo filo?
To’, e come si chiama questa pozza che ha fatto [177] l’acqua buttata in terra? Stroscia. E a questa
radura del tovagliolo che nome dài? Ragnatura. E questo, dove infilerai il tovagliolo? Girello,
signor linguista. E potrei seguitare, se ti garbasse.
Io m’alzai da tavola, stizzito, e per nascondere la stizza, m’andai a affacciare alla finestra. Ma il
vocabolarista implacabile mi si venne a mettere accanto, e riattaccò. Ti voglio regalare
un’appendice mi disse. Supponi di dover andare di qua, partendo dall’orto, fino a quel ceppo di
case che è di faccia. Tu parti da quell’angolo dove son piantati i baccelli, e non sai che si chiama
baccellaio, ci scommetto. Suppongo che tu inciampi nel ceppo di quel noce tagliato a fior di terra, e
non sai che si chiama ceppaia. Passi all’ombra di quel filare d’alberi, e non sapresti dire che son
potati a capitozza. E non sai neppure che si chiama cavaticcio quel mucchio di terra intorno al quale
devi girare, e palancola il tavolone su cui passerai quella gora, dove si raccolgono tutti gli scoli del
campo, e che ha pure un nome che non sai: capifosso. Non ti domando neppure se sai che si chiama
capezza quell’ultimo solco che fa vivagno al lato del campo, e callaia quell’apertura fatta nella
siepe per entrar nel campo vicino, e macereto quell’ammasso di macerie d’una vecchia casa che è in
riva al torrente, dove vedi quel ragazzo che bada alle vacche. E a proposito, qual è il nome proprio
della campanella che hanno al collo le vacche? E quello del tempo nel quale l’erba suol nascere? E
quello della rena raccolta sulle rive del torrente, dove passa ora quel contadino che v’affonda i
piedi?... Cam-pá-no, er-ba-tu-ra, re-nic-cio. E quei punti del torrente dove l’acqua è [178] profonda,
e una pietra che vi si getti fa un tonfo, si chiaman tónfani, una bella parola onomatopeica; e quello
dove il torrente fa una gran voltata si chiama girone; e dove l’acqua fa un rigiro vorticoso si dice
che fa un mulinello.... Che cosa ne dici? C’è ancora qualche lacunetta, pare, nella tua dottrina
linguistica.
Mentre egli parlava, io mi tenni sempre in un silenzio cocciuto, sorridendo un po’ ironicamente, per
fargli supporre che molte di quelle parole le sapessi, e non le volessi dire per dispetto; ma in realtà
mi riuscivan nuove quasi tutte. E seguitai a tacere mentre le notavo sur un foglio di carta, a sua
dettatura. Ma mi rodevo dal dispetto davvero, e in cuor mio lo trattavo di pedante fradicio e di
spazzaturaio di vocaboli, e dicevo che aver nel capo un magazzino di parole non era saper la lingua.
La lezione fece frutto, non di meno. Quando fui a casa, pensai che in cento altri luoghi, in mezzo a
cose affatto diverse da quelle che mio zio m’aveva indicate, io avrei dovuto rispondere altrettante
volte: non so a chi m’avesse interrogato com’egli aveva fatto, e compresi per la prima volta il
vuoto enorme che mi restava a riempire nella mente prima di potermi vantare di saper la lingua. Mi
posi allora sul serio allo studio della nomenclatura. Ma non ebbi la costanza di proseguirlo come
avrei dovuto. E dell’averlo trasandato risento e lamento il danno spessissimo, perchè son costretto a
ogni tratto, scrivendo, a posar la penna per cercare come si chiama questa o quella cosa, e non
sempre trovando subito, perdo la pazienza e il filo delle idee e il calore dell’ispirazione; e spesso
non [179] trovo, e mi tocca a interrogare amici, a voce e anche per lettera; e qualche volta son ridotto
a non scrivere una cosa che vorrei scrivere perchè mi manca la parola e il tempo di cercarla. E non
dico della vergogna di dover rispondere molte volte: non lo so a chi mi domanda il nome di
questo o di quell’oggetto, che tutti i ragazzi toscani sanno nominare; vergogna, dico, perchè nel
sorriso degl’interrogatori non sodisfatti leggo bene il pensiero che non m’esprimono: E son
cinquant’anni che studia la lingua!
[180]
LA LINGUA CHE NON SI PARLA.
Via via che procederai nello studio, sempre più sarai maravigliato del gran numero di parole e di
locuzioni vive, che, pure essendo usate da scrittori d’ogni regione d’Italia, non si sentono mai, o di
radissimo, nella conversazione della gente colta fuor della Toscana, come se non appartenessero alla
lingua parlata; e dalla considerazione di questa povertà della lingua che si parla intorno a te, sempre
più sarai eccitato a studiare.
Per dimostrarti la verità di quanto affermo, ti cito alcuni modi notati da me, fra i moltissimi ch’io
non sento mai dire da piemontesi, da lombardi, da liguri, da veneti, che anche parlino e
scrivano decorosamente la lingua. Pensa un poco tu pure se t’occorse mai d’udir le parole
malmenìo, rigirìo, rodìo, rosicchío, pigío, friggío, brusío, sbatacchío, fulminío, almanacchío, battío
(battío di mani), delle quali si comprende alla prima il significato anche da chi non le abbia mai
udite lette. Così intesi mille volte accennare, per esempio, quelle pieghe graziose che fanno per
grassezza il collo e le gambe dei bambini; ma mai, posso dir mai in vita mia, con la parola più
propria, che è riseghinetta, o riségolo. [181] Occorre spessissimo di dir le cose seguenti: la
fanghiglia, che rimane nelle strade dopo la pioggia; una quantità di roba vegetale, guasta o non
adoperabile, che fa impaccio e lordura; un laidume invecchiato sulla persona o sur un muro; una
macchia di sudiciume vistosa; un’operazione lunga e noiosa da non cavarne costrutto nessuno; una
stanzuccia misera e stretta; un segreto intrigo amoroso; un aiuto o guadagno o risorsa inaspettata;
un soffio di vento che vien da una fessura o apertura; un minuzzolo di che che sia, in senso
spregevole; l’irritamento che fanno alla gola certe vivande fritte nell’olio o nel burro non più fresco;
la bella mostra che fanno di cose o persone, o il crescere, cuocendo, di certe pietanze, che
riescono più abbondanti che non paressero; e inquietarsi, arrabbiarsi a trattar con qualcuno o a far
qualche cosa. Ebbene, io non sento mai, o quasi mai dir queste cose con le parole usatissime in
Toscana e dagli scrittori: belletta, pattume o pacciame, loia, struggibuco, sgabuzzino, ripesco,
rincalzo, spiffero, trìtolo, rancico, compariscenza, appariscenza, compàrita, assaettamento. Così
non mi ricordo d’aver mai inteso da un mio corregionale i verbi anfanare (andar qua e senza
saper dove), frucchiare (metter le mani, per smania di darsi faccenda, in più e diverse cose), frizzare
(vuol far lo spiritoso, ma non frizza), frullare (mi sentii frullare un sasso accanto all’orecchio),
rigirare (rigirarsela bene), raccenciarsi, rinquattrinarsi, spappolare (di cosa morbida che,
toccandola, si disfà fra le dita); i modi: aver entratura con uno, trovar l’inchiodatura (trovar
modo o argomento certo di far che che sia), avere il restío, [182] avere il suo ripieno (in una cosa,
vale a dire il fatto suo), averla graziata, far monte, farla bassa, baciar basso, lavorar di fine,
gettarsi in grembo a uno, levarla del pari, fare una cosa a saetta, dare un’indossata a un abito,
stare a uscio e bottega; e potrei seguitare per decine di pagine.
Non è a dire che queste e altre parole e maniere siano sconosciute: molti le sapranno o le sanno; ma
non le usano parlando perchè non le hanno alla mano, perchè esse non fanno parte del loro
vocabolario orale, di quella provvisione di lingua che si porta con sè, e che si spende giornalmente,
nella conversazione ordinaria; e però, quanto all’uso, è come se non le sapessero.
Dunque, se non ti vuoi ridurre a parlar la lingua povera che generalmente si parla, bada bene,
leggendo, a tutti quei modi che intorno a te non senti mai dire, e cerca quali sono i modi che s’usano
di solito in luogo di quelli, e raffronta gli uni con gli altri; e per stamparti nella mente quelli insoliti,
e perchè non vadano dentro gli armadi chiusi, ma restino sugli scaffali aperti della memoria, dove ti
s’offrano alla vista e alla mano a ogni occorrenza, lega ciascun d’essi a un tuo pensiero,
immaginando un fatto, un luogo, un’occasione, in cui tu lo possa usare, e anche una persona nota a
cui tu lo abbia a dire, e anche l’accento e il gesto con cui lo diresti. Se non farai questo, sfuggiranno
di mente anche a te come agli altri, e ti troverai, parlando la lingua, nella condizione di quei
moltissimi sfortunati ai quali, nelle discussioni e nell’opera, l’arguzia vittoriosa, l’argomento
convincente, lo spediente utile si presentano sempre troppo tardi, quando il momento di servirsene è
passato.
[183]
LA LINGUA APPROSSIMATIVA.
Perchè non possediamo che uno scarso materiale di lingua, noi parliamo una lingua che si potrebbe
chiamare approssimativa, con la quale non esprimiamo quasi mai esattamente, ma soltanto press’a
poco, il nostro pensiero; e perchè dell’improprietà del nostro linguaggio non abbiamo coscienza,
una gran parte dei modi, che ci sono abituali, ci paiono i più propri a dire quello che pensiamo; e
solo quando vengono a nostra cognizione quelli che sarebbero propri veramente, riconosciamo che
quegli altri non dicevano per l’appunto le cose che volevamo dire. Non soltanto; ma ricominciamo
assai spesso, imparando i nuovi modi, che non erano nella nostra mente certe gradazioni d’idee,
sfumature di sentimento e particolarità di cose, che essi esprimono; e son essi che ce ne dànno il
concetto; ciò che disse benissimo un grande scrittore, affermando che certe idee non ci vengono
neppure in mente perchè non abbiamo le parole con le quali potrebbero venire.
[184]
Ti cito una serie d’esempi che ti persuaderanno.
Confondere. Noi non usiamo questa parola nel significato che ha negli esempi seguenti: Non si
confonda con la politica. Non si confonda con quel figuro. Non si confonda a cercare codesto
foglio. Ebbene, nessuna delle espressioni che noi usiamo in quei casi in vece di confondere dice
per l’appunto la stessa cosa, perchè affannarsi, tormentarsi, montarsi il capo dicon troppo, e darsi
pensiero, perdere il tempo, occuparsi, impicciarsi non dicono abbastanza.
Infognare. Infognarsi in un affare, in una impresa. Con che altra parola potresti dire così
efficacemente che si tratta d’un affare, oltre che rischioso, disonorevole?
Ribruscolare. Sono andati a ribruscolare tutte le scapataggini della sua gioventù. Noi sogliamo
dire rintracciare, rivangare. Ma ribruscolare, che significa propriamente raccogliere i minuti
avanzi e bruscoli d’ogni cosa, come esprime meglio la minuziosità, quasi la malignità diligente e
paziente con la quale i nemici d’una persona cercano il pelo nell’ovo per iscreditarla!
Rifrustare. È un fannullone vizioso che rifrusta tutte le bettole. Rifrustare, che, traslato,
significa ricercare in ogni parte, in ogni angolo più segreto, esprime assai meglio del frequentare o
bazzicare, che noi useremmo, l’idea del vizio infistolito e insaziabile.
Riportare. Quel ragazzo mi riporta tutto suo padre nell’andare, nel gestire, nel parlare.
Riportare, in questo significato, dice più di rassomigliare e di ricordare, come noi diremmo; [185]
significa: è tal quale, e presenta molto più vivamente l’immagine.
Rimaner male, nella sua indeterminatezza, esprime meglio d’ogni altro modo generalmente usato lo
stato d’animo mal definibile di chi per un detto o un atto altrui rimane scontento, corbellato,
disingannato, fra risentito e confuso.
Star su. Credi ch’io stia sui cinquanta centesimi? Piglia una lira e vattene. Noi diremmo che io
badi o ch’io m’impunti; ma in badare non è espresso abbastanza il concetto dell’interesse;
impuntarsi è troppo forte; star su esprime un’idea di mezzo tra il semplice concetto dell’interesse e
quello dell’avarizia che lesina.
Stillare. L’ha stillata bella! Nove su dieci noi diremmo l’ha pensata o trovata. Ma stillare
significa chiaramente la ricerca sottile e l’accortezza della trovata, che pensare e trovare non
esprimono.
Stridere. Bisogna striderci, per dire che di una tal cosa non ci possiamo esimere, benchè ci
dispiaccia. Noi diremmo invece adattarsi, rassegnarsi o simili, che non dicono così bene il
rincrescimento o il dispetto con cui c’induciamo a fare o a sopportare quella data cosa.
Storcere. Non mi storcere le parole. Non c’è altro modo, di quelli che noi useremmo, che
esprima con un traslato così efficace l’interpretare malignamente le parole altrui in significato
diverso dal vero. Pigliare in cattivo senso, per esempio, non dice, come la parola storcere, il
proposito dell’interpretazione cattiva, e anche sostituendo voltare a pigliare si esprimerebbe con
minore evidenza lo sforzo e il mal animo.
Stare in tentenna. Tu diresti tentennare [186] senz’altro; ma tentennare dice una cosa che tentenni,
barcolli o stia male in piedi momentaneamente; stare in tentenna dice la permanenza della cosa in
quello stato. E così stare in tremolo.
Pigliare a frullo. Vedi se l’idea di fermare una persona dove che sia e appena càpiti, o quella di
cogliere rapidamente parole, idee, senza che altri ci pensi e per nostro giovamento, può essere
espressa in altri modi con maggior proprietà ed evidenza. Venirti a cercare a casa è tempo perso;
bisogna pigliarti a frullo. – Piglia a frullo i discorsi dei valentuomini, e poi se ne fa bello.
Prendere il vecchiuccio. – D’una persona, non è lo stesso che dire: comincia a farsi vecchio, perchè
significa pure l’idea: benchè non paia, o cerchi di nasconderlo.
Fare agli occhi. Si dice di due innamorati che fanno agli occhi. Vedi se ti riesce di trovare
qualsiasi altro modo che dica come questo il guardarsi a vicenda dì continuo e quasi conversare con
gli sguardi, non potendolo fare liberamente a parole.
Fare una smusata, una smusatura a uno. Tu intendi quello che significa, e senti che l’idea non è
significata così determinatamente dalle parole atto villano, o di dispregio o di schifo o di fastidio, o
mal garbo, nè con pari sfumatura comica da fare una brutta faccia o una smorfia.
Ti cito più alla lesta qualche altro esempio. Non senti che la parola amarume nella frase: C’è un
po’ d’amarume fra di noi, significa qualche cosa di meno di amarezza, e non potrebbe essere
sostituita per l’appunto da nessun’altra parola? E nel modo: ho tutta la giornata impicciata non è
espressa un’idea che le [187] parole occupata, impegnata non rendono esattamente, perchè voglion
dire un’occupazione continua, non una serie d’occupazioni con intervalli di tempo libero, ma troppo
brevi, da poterli impiegare a qualche cos’altro? E dicendo un affare rassegato (rassegare, d’un
liquido grasso che si rappiglia) non dài l’idea d’un affare finito, ma più recente di quello che
significherebbe finito senz’altro, o passato o da non pensarci più? E come s’esprimerebbe così
propriamente l’idea d’un tempo in cui si sia fatta una vita dura, faticosa, affannosa, come col modo:
sono stati giorni, anni sudati? E la parola strettita nel dire: aver la gola strettita dal pianto, non ti
pare che abbia forza più particolarmente espressiva che la parola stretta, che fa a tanti altri casi? E
qual altra parola dice così bene ad un tempo turbato di mente, distratto, sconcertato, svogliato,
impensierito, come stonato: oggi sono stonato, non capisco nulla? E pensa un po’ se t’occorre
spesso di sentir dire: uomo di ricapito, uomo impiccioso, un po’ zolfino, scattoso, troppo entrante,
un mettibocca, uno sputazucchero, tutti modi che s’intendono alla prima, e se le parole che s’usano
di solito in luogo di quelle hanno proprio la stessa sfumatura di significato, o non dicono invece la
cosa press’a poco, come altre innumerevoli che noi spendiamo abusivamente perchè non abbiamo
tra mano moneta migliore? Credo che bastino questi esempi a dimostrarti che noi parliamo davvero
una lingua approssimativa, e che il liberarti da questo malanno dev’essere uno dei tuoi primi intenti,
e questo intento una delle tue prime norme nello studio della tua lingua.
[188]
LA LINGUA CHE ABBREVIA.
Ti do un altro consiglio, sul quale credo di dover insistere in particolar modo: di notare e
d’imprimerti bene nella mente, leggendo gli scrittori e il dizionario, tutte le parole e le locuzioni che
esprimono un’idea più brevemente di come tu sei usato ad esprimerla o a sentirla esprimere fra noi.
Dirai: – Che importa una parola o una sillaba di più o di meno nell’espressione d’un’idea? Poco
rispondo nell’espressione di ciascuna idea presa a parte; ma siccome sono moltissime le cose che
noi sogliamo dire con maggior numero di parole del necessario, ne segue che il nostro discorso, in
generale, riuscirebbe notevolmente più breve, più sobrio e quindi più efficace, se accorciassimo
tutte le espressioni del nostro pensiero che si possono accorciare. La brevità, quando non nuoce alla
chiarezza, è bellezza e forza. Nel parlare come nello scrivere, c’è fra chi è breve e chi è lungo, per
rispetto all’uditore e al lettore, la stessa differenza che fra chi paga in oro e chi paga in rame; chè,
dandoti la stessa [189] somma, l’uno ti lascia leggiero e l’altro ti carica. E sai quello che dice il
Leopardi: che tanto è più viva l’attenzione e maggiore il piacere di chi legge o ascolta quanto è più
rapida la successione delle cose, dei pensieri, delle immagini che lo scrittore o il parlatore gli fa
passare davanti.
*
Per esempio; noi usiamo esprimere col verbo diventare o fare e con un aggettivo un gran numero
d’idee che s’esprimono benissimo con una sola parola, con un verbo intransitivo. Della maggior
parte dei verbi intransitivi, specialmente parlando, non ci serviamo quasi mai, come se fossero ferri
della lingua che non sappiamo maneggiare. Diciamo quasi sempre: diventar rozzo, secco, triste,
selvatico, vano, grullo, asino, canaglia, tozzo, furbo, zotico, bello, brutto, caparbio, grinzoso,
minchione, sospettoso, insolente, e mai, o quasi mai: arrozzire, assecchire, intristire, inselvatichire,
invanire, ingrullire o ringrullire, inasinire, incanaglire, intozzire, infurbire, inzotichire, imbellire,
imbruttire, incaparbire, raggrinzire, rimminchionire, insospettire, insolentire. Diciamo sempre: i
capelli tagliati diventano più fitti, non affittiscono o raffittiscono; si fa notte, si fa buio, non annotta,
rabbuia; questa tela comincia a farsi rada, non: comincia a diradare; questo mobile non è bene
accostato al muro, non: accosta bene al muro. E vedi se senti mai usare in forma intransitiva i verbi:
abbassare (la temperatura abbassa), raffrescare (verso sera raffresca), raddolcire (la stagione
comincia a raddolcire), rabbruscare, [190] del tempo (cominciò a rabbruscare verso notte),
riscaldare (appena riscalda, io vado in villa), rischiarare (aspetto che rischiari per uscir di casa),
scorciare (le giornate cominciano a scorciare), alzare (la casa alza dalle fondamenta quindici
metri), accordare (questa parte non accorda bene con l’altra), infortire (questo vino infortisce),
abbozzolare (questa farina abbozzola), stingere, perdere il colore (questi panni stingono)? E tu
diresti sempre che la carne diventa frolla non che infrollisce; che il burro diventa rancido, non che
rancidisce; che il sangue si rappiglia, non che rappiglia; che un tale s’impunta, s’incaglia nel
parlare, non che impunta, che incaglia; e che una passione si fa o diventa gagliarda, non che
ingagliardisce, e che Tizio per ogni piccola cosa mette il grugno, non che ingrugna; e non mai
infreddare, ma sempre: prendere un raffreddore. Non è forse vero? Differenze minime; ma son
queste e tant’altre piccole abbreviature, ciascuna per trascurabile, che tutte insieme abbreviano e
isveltiscono notevolmente il discorso.
*
Ti cito un’altra serie di verbi, usati pochissimo da noi, ciascuno dei quali ci farebbe risparmiare una
o più parole, e qualche volta una proposizione intera. – Con quella pipa egli m’appuzza tutta la casa.
Noi diremmo: mi riempie di puzzo. Dopo che è cavaliere non mi degna più. Non si può esprimere
altrimenti l’idea con una sola parola. Appena mi vide, si difilò verso di me. Noi diremmo: venne
difilato. – Quel ragazzo [191] dirazza dai suoi genitori. – Il terreno comincia a erbire. – Ho appratito
(ridotto a prato) tutto il mio podere. Il sole di maggio fiorisce tutta la campagna. Gli alberi
cominciano a frondeggiare. Il prato colmeggia verso il mezzo. Il terreno in quel punto
pianeggia. La strada in quel punto forcheggia. Quest’anno le biade graniscono bene.
Quell’abito le rifà la persona, quelle tende nuove rifanno il salotto. Non è vero che tutti questi
verbi non li usiamo quasi mai nella forma e nel significato che hanno negli esempi citati, e che quasi
sempre ci occorrono parecchie parole per dire quello che essi dicono? E si può dir lo stesso dei
seguenti: entrare, senz’altro, per entrare a parlare (quando qualcuno gli entrava sull’affare
dell’eredità, era un guaio) –, cabalare, per ordire inganni –, incappellare, per prender cappello –,
insignorirsi, per diventar signore –, dimoiare (il liquefarsi della neve. Faceva un umidiccio come
quando dimoia), imbaulare la roba –, discoleggiare, facicchiare (un far leggero e poco
concludente: non fa, ma facicchia) –, frivoleggiare, ghiribizzare (che vai ghiribizzando?) –,
giovaneggiare, labbreggiare (recitar sotto voce) –, legneggiare (far legna) –, lenteggiare (questa
corda lenteggia, non è abbastanza tesa) –, molleggiare (questo canape molleggia) –, sfrottolare,
sfuriare (ora che è sfuriato, possiamo uscir noi, senza farsi pigiare) –, riavere (una pioggia a tempo
rià la campagna) –, riguardarsi (usarsi dei riguardi) –, rimpollare (la roba in quella casa pare che ci
rimpolli, che cresca a misura che si consuma) –, rimanere, restare, senz’altro, per rimaner
maravigliato, stupito –, riparare [192] (il tal bottegaio non ripara, ossia: ci ha continuamente gente)
–, scampagnare (andare o stare in campagna per ricreazione o divertimento) –, schiassare (fare del
chiasso per divertirsi) –, scrupoleggiare –, sbraccettare una signora, per accompagnarla a spasso,
dandole il braccio –, scaponire un testardo, vincerlo in ostinazione –, scasare (andar via da un luogo
dove s’aveva casa), scarognare, sfaccendare, scoronciare, spaternostrare –, scrudire l’acqua
troppo fredda –, soleggiare, esporre al sole (bisogna soleggiare quest’uva) –, scuriosire, scaltrire,
sneghittire, spigrire uno –, spiovere, cessar di piovere (aspettiamo che spiova) –, spoliticare,
svecchiare: toglier via il vecchiume (svecchiare una selva, svecchiare la lingua degli arcaismi) –,
sfondar poco, non sfondare: aver poca intelligenza (s’è messo a studiar le matematiche, ma non
isfonda; in quanto a talento, non isfonda) –, tavoleggiare, trattenersi a tavola, discorrendo e
centellando –, tentennare un tavolino, per veder se sta saldo. – Vedi un po’: son certo d’aver detto la
cosa cento volte in vita mia, e d’averla sempre detta, non con quella sola parola, ma con un’altra,
meno propria, e appunto per questo, accompagnata quasi sempre da una spiegazione.
*
Poichè t’ho fatta una confessione, te ne fo dell’altre. So bene che si dice: una cosa non mi finisce
per: non mi sodisfa, o non mi contenta pienamente; e non di meno, parlando, esprimo sempre quel
pensiero nella seconda maniera, con nove sillabe invece di cinque. Dico: [193] il tal podere ha un
circuito di sette chilometri quando potrei dire con due sole sillabe: gira sette chilometri. Potrei
dire: un salone che riquadra cento metri –, e dico: ha la superfice di cento metri quadrati. Non
oso dirti quali locuzioni stentate e ridicole usai qualche volta per dire che una certa sostanza, nel
ribollire, rientra o ricresce, che un dato legno, o una stufa, rende poco o molto, che il legno non
bene stagionato rimbarca. Dissi per anni con una locuzione di tredici sillabe quello che si può dire
in cinque: alfabetare, per esempio, le note sulla lingua. Ricordo d’aver fatto un giorno un
interminabile giro di parole per dire d’aver trovato un tal pittore occupato a graticolare, o
reticolare, o retare la tela. Non espressi mai con una parola sola l’idea che esprime benissimo il
verbo avventare negli esempi: – un colore che avventa, una ragazza che avventa a primo aspetto, ma
non è bella, uno stile che avventa alla prima lettura, ma è vizioso. E così: abbambinare una cosa
che non si può portare, agghiaiare una strada, allentarsi dopo aver mangiato, arrivare una vivanda,
assodare un uovo, avviare una candela, spicciolare uno scudo, calettare o non calettar bene (d’un
uscio, per esempio, che sia bene o male aggiustato, in modo da lasciare, o no, trapelare l’aria), son
tutti modi che non mi vengono mai alla bocca, e in luogo dei quali uso sempre parecchie parole,
che, per giunta, quasi sempre dicono meno chiaramente la cosa. E per farti ancora una confessione,
aggiungo che pochi giorni fa, avendomi detto un toscano: Gli è tutto un figurarselo; quando sarai
non ti parrà niente io osservai tra [192] me che se avessi dovuto esprimere per quell’idea,
non avrei saputo dire altrimenti che: la tua immaginazione t’ingrandisce la cosa –; che non è
solamente più lungo, ma meno famigliare, e quasi comicamente solenne nel parlare fra amici.
*
V’è un gran numero d’altri modi abbreviativi, usatissimi in Toscana, che noi non usiamo, come:
anno, per l’anno passato; sabato notte, per esempio, per nella notte di sabato; a buio (stasera a buio
sarò qui); di levata (fare una cosa di levata, ossia, appena scesi da letto); fare un’usciata, una
finestrata, per isbattere l’uscio o la finestra in faccia a uno. E vedi il significato della parola aria,
che tien luogo di più parole, negli esempi: gli volevo parlare di quell’affare; ma vidi che non era
aria; oggi non è aria; lasciatemi stare –; e la brevità efficace dell’espressione: una casa a uscio
e tetto per dire una casa bassa, che ha soltanto il pian terreno; e della parola riesci è un riesci
per dire una cosa che imprendiamo a fare senza deliberato proposito e studio precedente, e che non
sappiamo se riuscirà bene o male. E nota negli esempi: mettere delle frutte sul cassettone per
bellezza –, sapere una cosa di rimbalzo –, non verrà certo, ma se per impossibile egli venisse.... – se
ti riuscirebbe d’esprimere con eguale evidenza, non usando più di due parole, l’idea che quei tre
modi esprimono. E ora una filza di vocaboli, ciascuno dei quali ne fa risparmiare parecchi.
Cimiciaio, una casa o un mobile pieno di cimici. – Birbonaio, [195] un covo di birboni. – Ladronaia.
(Quell’Amministrazione è diventata una ladronaia). Serpaio, viperaio, un luogo pieno di serpi o
di vipere. Scannatoio, una trattoria, un albergo, dove si pelano gli avventori. E ti potrei anche
citare, come vocaboli ai quali ne sostituiamo quasi sempre più d’uno: Frasconaia (per traslato,
ornamenti e addobbi eccessivi e senz’ordine: d’una sala e anche d’una donna, che si metta troppa
roba in capo). Frascume (ornamenti vani d’opere d’arte, e anche di stile). Tritume (soverchia
quantità, varietà e minuziosità di parti o membri in opera d’architettura, o anche di pittura).
Rifrittume (lavoro composto di cose dette e ridette da molti, e anche dall’autore stesso).
Grinzume, una quantità di grinze considerate insieme, o d’un viso o d’un vestito. Vietume, roba
vieta. E per finire con qualche cosa di fresco: fiorita di neve, un modo graziosissimo, col quale
possiamo far di meno di dire: uno strato leggerissimo, o anche più lungamente: tanta neve che
ricopra appena il terreno.
*
V’è poi un ordine di vocaboli (più ricco nella nostra, credo, che in ogni altra lingua) ai quali noi
sostituiamo quasi sempre una definizione, che rallenta il discorso e rende con meno immediata
evidenza l’idea. Ne feci già un cenno nella Corsa nel vocabolario. Sono vocaboli che significano
l’indole e l’aspetto d’una persona, certi difetti e vizi e abiti fisici e morali, e modi d’essere, di
moversi, di fare, di vivere. Te ne metto sotto gli occhi una serie, di cui la [196] maggior parte non
richiede spiegazione, e che son non di meno d’uso rarissimo fra noi. Sono come tanti piccoli ritratti
chiusi in una parola.
Abbacone Abbaione Almanaccone Annaspone Badalone Baione Baffone Barbuglione
Belone Biascicone Boccalone Brodolone Cabalone Ciabattone Ciaccione
Ciampicone – Ciarpone – Cincischione – Ciondolone – Combriccolone – Dimenticone – Dondolone
– Ficcone – Fiottone – Fracassone – Frittellone – Gamberone – Gingillone – Gonfione – Gracchione
Impiccione Lanternone Lasagnone Leccone Lezzone Machione Massiccione
Nappone Ninnolone Nonnone Pataccone Pecorone Pencolone Piaccione Picchione
Pigolone Praticone Perticone Raggirone – Sbracione Sbraitone Sbrendolone Scioperone
Sgomentone Soppiattone Spilungone Squarcione Tatticone Tenerone Tentennone
Appiccichino Attacchino Attizzino Cicalino Ficchino Frucchino Frustino Galoppino
Gambino Girandolino Lecchino Rabattino Pepino Stillino Tritino Ferraccio
Falcaccio – Lamaccia – Annaspo – Scricciolo – Reciticcio.
Considera quanto di frequente, parlando o scrivendo, occorre di definire o di descrivere o
d’accennare di volo qualche particolarità fisica o morale d’una persona, e comprenderai come dal
fatto di non conoscere i vocaboli citati, o di non averli alla mano, o di non volerli usare per timore
che altri non gl’intenda, si sia costretti ogni momento a dir molte parole che si [197] potrebbero
risparmiare, con l’aggiunta d’esprimere stentatamente e male la nostra idea, e quasi sempre con
minor effetto comico di quello che vorremmo ottenere.
Mi sono diffuso alquanto su quest’argomento perchè nell’arte del parlare e dello scrivere è
d’importanza primissima il precetto del poeta: Sii breve ed arguto. So che a me tu potresti dire:
– Da che pulpiti! – E avresti ragione. Ma non badare al mio; bada al pulpito del Parini.
[198]
DELL’UTILITÀ DI STUDIAR LE DEFINIZIONI.
Per imparare a esprimersi con brevità credo molto utile il fare uno studio attento, così negli scrittori
come nei dizionari, delle definizioni; nelle quali, oltre che la proprietà e la finezza dei termini, si
suol trovare la maggior parsimonia possibile di parole, che è condizione necessaria della loro
semplicità ed evidenza. Nel dizionario in special modo, consistendo le definizioni di molte cose
nell’indicazione di tutte le parti che le compongono, tu non imparerai soltanto la brevità, ma un gran
numero di vocaboli; la cui ignoranza appunto costituisce la maggior difficoltà che noi troviamo
quasi sempre a definire e a descrivere un oggetto qualsiasi.
Ecco, per esempio, alcune definizioni, ricavate da dizionari diversi.
ARPA. Strumento di molte corde di minugia, di figura triangolare, senza fondo; di cui tre sono le
parti principali: il corpo, la colonna e l’arco: nel corpo, corredato d’animella o sordina sta la
risonanza dello strumento; nell’arco i [199] pironi di ferro, e i semituoni cui sono raccomandate le
corde; la colonna è quel ritto che collega l’arco ed il corpo.
BATTARELLA. Quell’arresto, che essendo imperniato ad un’estremità, punta con l’altra contro il
dente d’una ruota che tende a girare in una direzione, mentre, lasciandone liberamente passare i
denti, le permette di girare quando si muove per il verso contrario.
INFINESTRATURA. Foglio di carta tagliato in quadro, con vano quadro in mezzo a uso d’un telaio di
finestra, dentro a cui s’appicca un foglio guasto nei margini.
GRADINA. Ferro piano a foggia di scarpello, alquanto più sottile del calcagnolo o dente di cane, e
serve per andar lavorando con gentilezza le statue, dopo aver adoperato la subbia e il calcagnuolo.
LACCIAIA. Lunga fune a cappio scorsoio che i bútteri portan seco e che a un bisogno
acciambellandola e sfilandola verso una mandria accalappiano con essa la bestia che loro piace.
RIBALTA. Piano della scrivania sul quale si scrive e che è mobile nei maschietti per poterlo alzare,
abbassare e chiudere, oppure quell’asse girevole sui pernietti che s’adatta lungo la batteria dei lumi
in un teatro.
STAME. Parte fecondante della pianta contornata dal calice o dalla corolla, o da entrambi, che è per
lo più della figura d’un filo, il quale è detto filamento, e terminato da un globo, o borsetta, che dicesi
ántera, e che contiene la farina o polvere fecondante, la quale è detta pòlline.
Bastano questi esempi, credo, a dimostrare quanto possa esser utile leggere attentamente [200] le
definizioni. E se te ne vuoi meglio persuadere, prova a mandarne a mente parecchie, e poi a definire
di tuo qualche oggetto complesso, come per far capire e vedere che cosa sia a chi non lo conosca, e
vedrai come per effetto di quel breve studio ti riuscirà più facile dare alla definizione un giro di
frase agile, collegare in un nodo stretto i particolari e ottener con l’ordine la chiarezza. Perchè vi
sono operazioni della mente, anche nell’arte della parola, alle quali ci addestriamo con facilità
mirabile, come a certi esercizi fisici, che ci riescono alla prima difficilissimi per il solo fatto che non
li abbiamo mai tentati.
[201]
IL DIZIONARIO DEI SINONIMI.
Dice Beniamino Franklin che chi insegna a un giovane a farsi la barba da gli fa un maggior
vantaggio che se gli regalasse mille lire. Ebbene, s’io riuscissi a farti studiare il Dizionario dei
sinonimi del Tommaseo, stimerei d’averti regalato un podere: nel regno della letteratura,
intendiamoci. Chi studia la lingua lo dovrebbe tener sempre sul tavolino, come un prete il Breviario,
per leggerne e rileggerne qualche pagina ogni giorno, e consultarlo a ogni tratto; perchè ad imparare
a scrivere e a parlare con proprietà e con esattezza, a dar contorno fermo e netto all’espressione del
proprio pensiero e a rendere di questo tutte le flessioni e le sfumature, non c’è lavoro più utile che
l’esercitarsi a “discernere le più piccole gradazioni di significato delle parole, a adagiare l’una voce
sull’altra, per vedere dove combacino, dove no, dove sia maggiore il rilievo, dove più delicati i
contorni, e a trovar parole così sottili e così calzanti che rendano con evidenza le differenze più
tenui, senza ingrossarle.„ Questo lavoro fece mirabilmente su [202] migliaia di vocaboli Niccolò
Tommaseo, nel suo Dizionario pieno d’ingegno e di dottrina, d’arte e di vita, altrettanto dilettevole
quanto profondo, e riboccante d’ogni maniera d’insegnamenti, non solamente filologici, ma morali,
filosofici, estetici: un libro d’oro, al quale è titolo troppo modesto quello di dizionario.
Leggilo, mio giovane amico, e rileggilo a brevi tratti, pensandovi su. Non ti sarà solo un vital
nutrimento allo spirito; ma una ginnastica intellettuale che ti farà più forti, più acute, più agili tutte
le facoltà della mente. Tu ci troverai espresse mille idee e facce d’idee, sentimenti e modificazioni
di sentimenti, e aspetti e proprietà e qualità intime di cose, che ora sono confuse nella tua mente e
nel tuo animo, e di cui cerchi invano l’espressione, come inseguendola tentoni nella nebbia. E
imparerai a scrutare il significato d’ogni parola come si scruta un’anima; a scoprire sotto ogni idea
un’altra idea, ordini interi d’idee; a chiarire, a distinguere, a separare una quantità di concetti e di
sentimenti, che sono ora nascosti nella tua mente sotto un solo vocabolo, col quale tu li mescoli e li
designi tutti insieme come un mucchio di cose uniformi. E non soltanto quella lettura “ti raddrizzerà
l’espressione di molte idee, ma le idee medesime.„ Imparerai non solo ad esprimere, ma a pensare
profondamente, sottilmente, nettamente. Quante parole t’accorgerai d’aver usate finora e udito usare
dai più in un significato che non hanno, o che del loro significato vero non è che un’ombra! Di
quant’altre parole e frasi che ora ti vengono ogni momento sulla bocca e sotto la penna, moleste
come ripetizioni obbligate, e di cui ti [203] riesce molesta la ripetizione anche nei discorsi e negli
scritti altrui, t’avvedrai che le ripeti e che tutti le ripetono, non perchè siano inevitabili, ma perchè tu
e gli altri le usate ad esprimere gradazioni diverse d’un’idea o d’un sentimento, ciascuna delle quali
dovrebb’essere espressa in un’altra forma, e la forma c’è, e nessuno l’adopera! E come di questa
benedetta lingua, che tu dici ricca, varia, delicata, potente, più per consuetudine che per coscienza, ti
apparirà moltiplicata la ricchezza, più maravigliosa la varietà, più squisita la finezza, ingigantita la
potenza!
Certo, ti sarà impossibile ritenere a mente tutte quelle innumerevoli e fini distinzioni fra i significati
dei vocaboli; benchè la maggior parte di esse siano spiegate con magistrale chiarezza e illustrate da
esempi efficacissimi. Ma il vantaggio massimo che ricaverai da questo studio, non sarà nella tua
memoria: lo riconoscerai nel sentimento della lingua raffinato, nella facoltà del discernimento
acuita, nella consuetudine che avrai acquistata di cercare e ponderare il significato d’ogni parola
prima di buttarla sulla carta, di raffrontare una locuzione con l’altra, di provarne parecchie al tuo
pensiero per vestirgli quella che più gli conviene, di diffidare cautamente delle apparenze di
sinonimia che di continuo ci si presentano, e da cui ci lasciamo ogni momento ingannare. Ti parrà
dopo un mese di non aver cavato da quella lettura che un profitto di poco conto, o anche nullo. Ma
se, dopo aver letto e pensato qualche centinaio di quelle pagine, dove lo scrittore, esercitando le
facoltà più delicate della mente, affronta e vince a ogni periodo le più terribili difficoltà del
linguaggio, [204] che son quelle dell’analisi, della distinzione, della definizione, ti proverai a
scrivere sopra un argomento comune, tu esperimenterai nel raccontare, nel descrivere, nel ragionare,
una facilità nuova, un senso di scioltezza, di sicurezza, di padronanza delle tue facoltà e delle tue
mosse, simile a quello che prova a camminare sur una via larga, piana e libera chi sia andato un
pezzo per un sentiero erto e stretto e pieno d’inciampi, con un precipizio da lato. La tua mente si
sarà addestrata a veder le varie sembianze d’ogni idea con uno sguardo rapido e avvolgente, a
penetrarvi in fondo, a passare in rassegna alla lesta i diversi modi di significarla, e a cogliere
sull’atto il migliore; e non soltanto nel maneggio della lingua risentirai il vantaggio, e nella cresciuta
attitudine ad analizzarla, e nel più forte amore che avrai per essa; ma alla scuola dell’autore che
insieme con le parole analizza passioni, azioni, usi, costumi, caratteri, ti sarai avvezzato a meditar
sopra ogni cosa, e studierai nella lingua l’anima umana, la vita, la natura, e qualche volta dirai tu
pure col maestro che ti par di sentire in questo studio il verbo di Dio.
Libro preziosissimo; leggendo il quale ti sentirai prima compreso d’ammirazione, e poi di reverenza
e di gratitudine per lo scrittore che fece della lingua della tua patria uno studio così amoroso e
profondo, e per trasmetterne ai giovani la cognizione e l’amore, un lavoro così poderoso e
variamente utile e bello; e di pagina in pagina ingrandirà davanti ai tuoi occhi e ti sarà eccitamento
via via più forte e più caro a perseverar nello studio, l’immagine del vecchio venerabile,
d’occhi cieco e divin raggio di mente.
[205]
SCRUPOLINO.
I sinonimi erano una delle molte afflizioni della sua vita.
Lo conobbi a Firenze. Era un impiegato della Prefettura, nato e cresciuto
Là dove Italia boreal diventa,
già vicino alla trentina; ma così smilzo, e sprovvisto d’ogni onor del mento, e d’indole così timida,
che pareva ancora un adolescente. Si dilettava di letteratura, leggeva molto e non mancava
d’ingegno; ma era affetto d’una malattia incurabile: il terrore della lingua italiana. Aveva della
difficoltà dell’idioma gentile un concetto così smisurato, gl’incuteva un così grande sgomento il
fantasma della Grammatica, che, parlando, impuntava a ogni tratto, e balbettava come uno
scolaretto agli esami, assalito da mille dubbi, turbato da mille scrupoli; dai quali non riusciva a
liberarsi nè sull’attopoi, e se ne disperava. Anche nel crocchio degli amici soliti, ma tanto più se
c’era qualche toscano colto, o chiunque altro, che avesse reputazione di parlar bene, e [206] non gli
fosse famigliare, gli si vedeva in viso la preparazione mentale faticosa e piena d’incertezze ch’egli
faceva d’ogni periodo o frase che volesse dire; e quando poi si risolveva a parlare, usava ogni specie
di cautele e di formole attenuanti, come: sto per dire, direi quasi, la parola non sarà di Crusca, mi
si passi l’espressione; e qualche volta arrossiva a un tratto, e restava in tronco. Con questo o con
quell’amico, poi, a quattr'occhi, sfogava il suo dispetto contro la lingua e contro stesso, e gli
confidava i dubbi e i timori che lo perseguitavano di continuo come un nuvolo di vespe. Si doveva
dire a un uomo lei è buono o lei è buona? Vacci o vavvi? Credo che tu sii o che tu sia? Lo trattò
come se fosse uno sconosciuto o come se fosse stato? Ha fatto la tal cosa di nascosto di o da o al
tale? Ho antipatia per o con o verso o contro una persona? Come Dio benedetto s’ha da dire?
E non serviva dirgli i modi che i “buoni parlanti„ usavano, e consigliargli di fissarseli una volta per
sempre nel cervello, e d’attenersi a quelli immutabilmente; senza di che non sarebbe guarito mai
della sua malattia. Se in un libro di scrittore autorevole gli accadeva di leggere un modo diverso da
quello generalmente usato (cosa troppo facile in Italia, pur troppo), il dubbio gli rampollava da
capo. Questa maledetta lingua italiana diceva è una disperazione. Preferirei di studiare il
cinese. Ogni giorno gli saltava su un dubbio nuovo, anzi un nuovo ordine di dubbi e di scrupoli:
sul fra o tra, sul lì o là, qui o qua, costì o costà; sull’uso degli ausiliari essere o avere con certi
verbi; [207] sulla collocazione dei pronomi personali che non sapeva mai dove mettere, e che spesso
gli restavano in mano. A volte fermava un amico per la strada, e gli domandava di punto in bianco:
Si dice: lo dissi loro o loro lo dissi? E quando un amico, del quale avesse stima in materia di
lingua, a uno dei suoi quesiti si mostrava perplesso: – Ah! vedi – esclamava in tono di trionfo – vedi
se non ho ragione! È una lingua terribile, terribile, terribile.
Per questo suo perpetuo “scrupoleggiare„ gli s’era affibbiato il soprannome di Scrupolino, di cui
non s’aveva per male; ma nemmeno ne rideva, perchè la parola designava un’infermità mentale,
della quale egli aveva coscienza e vergogna.
A furia di porre quesiti a stesso finiva con dubitare anche della legittimità delle parole e delle
locuzioni più usuali, e in certi momenti di sconforto esclamava: – Io non so più parlare! Io finirò col
non più parlare!
Qualche volta cercavamo di persuaderlo, sul serio. Vedi gli si diceva tu hai tanta difficoltà di
parlare perchè non parli, componi. Non devi comporre. Ti devi gettare a nuoto nel discorso,
arditamente; lasciarti andare all’ispirazione, alla dettatura dell’orecchio, non badando a regole,
dimenticando ogni studio. Volendo esaminare e scegliere le parole, come fai, così con la fretta, per
non far aspettare, e col timore di seccare chi ascolta, ti confondi, e scegli quasi sempre male, o non
trovi, e resti lì, impaniato. Prova un po’ a parlare come vien viene. – Ma egli stava un po’ pensando,
e poi rispondeva, scrollando il capo: – È inutile, non [208] posso; le parole e le regole battagliano nel
mio capo come i Deputati nel Parlamento. Ed era vero. A quando a quando si provava a parlar
libero; ma subito gli spettri dell’Improprietà, dell’Impurità, dell’Idiotismo, il fantasma formidabile
della Lingua Italiana gli si rizzavano dinanzi, ed egli era perduto.
A poco a poco il tarlo del dubbio gli era risalito, come sempre avviene, dalla lingua alla radice del
pensiero, per modo che anche lo scrivere la più semplice lettera diventava per lui un affare di Stato.
Egli mi fece la confessione d’uno di questi casi, al quale tutti gli altri rassomigliavano, e che è un
esempio dell’impotenza intellettuale a cui può condurre l’esercizio della critica sopra stessi,
quando non è tenuta nella giusta misura. Si trattava d’una breve lettera di condoglianza.
Stimatissimo signore, gradisca le mie condoglianze. No. Come si fa ad associare l’idea del
gradimento con quella d’una sventura? Le mando le mie condoglianze. Come si manda un
pacco! E poi è troppo famigliare. Le faccio.... Ma non è troppo materiale per l’espressione d’un
sentimento? E si dice faccio una condoglianza, o non confondo col modo fare un complimento, che
dei due è il solo corretto? – Riceva le mie.... – Oh bella! Se glie le mando, bisogna ben che le riceva:
è ridicolo. Abbia, dunque.... Ma quest’imperativo è sgarbato. E via così per tutto il resto. Sette
righe gli costavano i sette dolori. E finiva sempre col ritornello: È terribile! Un giorno mi venne
incontro in via Calzaioli agitando un giornale, e me lo mise sotto gli occhi, dicendo: Leggi qua.
Era [209] una Conversazione del giovedì, nella quale Giuseppe Civinini, che per lui era il principe
dei giornalisti e dei critici, diceva che la lingua italiana era una delle meno parlate e delle più
difficili lingue d’Europa. Hai inteso? quasi gridò e lo dice uno scrittore di quella forza! Non
c’è da dar l’anima al diavolo? Io vorrei esser nato in Lapponia!
Uno dei più molesti argomenti di dubbio e di confusione era per lui l’uso del lei e dell’ella, fra cui si
trovava ogni momento come tra il martello e l’incudine. Gli dicevano: Di’ come i fiorentini. Ma
questi scellerati – rispondeva – dicono un po’ l’uno e un po’ l’altro. Che regola ci si può cavare, che
Dio li confonda! E con gente ch’egli praticasse, tanto e tanto si lasciava andare al lei; ma con
persone a cui parlasse la prima volta, e che gli mettessero un po’ di suggezione, non c’era verso: il
lei gli veniva sulle labbra, ma se lo rimangiava, e metteva fuori l’ella a proprio dispetto, e lo
sosteneva nel discorso a prezzo di qualunque sforzo e sacrificio della naturalezza e dell’armonia,
anche facendo rider gli amici, pur di salvare la Grammatica sacra.
Appunto per la gran paura di non parlar bene, gli toccò un giorno a inghiottire un boccone amaro,
che gli restò sullo stomaco un pezzo. Andando insieme a Prato, ci trovammo nel vagone con un
ragazzo e un giovinetto toscani, fratelli, di viso intelligente e vivo tutt’e due; i quali scherzavano
argutamente a ogni proposito, e rammentavano spesso il babbo, che li doveva aspettare all’arrivo.
Allettato dalla loro allegrezza, l’amico Scrupolino sentì desiderio [210] d’attaccar conversazione, e a
un certo punto domandò cortesemente al maggiore: – E dove, se è lecito.... dove vanno...?
Stava per dir loro; ma m’accorsi che non osò, e ripetè: – Dove vanno.... elleno?
I due toscanelli fini si scambiarono un’occhiatina e un sorriso, e il maggiore, prendendo baldanza
dalla timidità dell’interrogante, rispose con malizia: Dove andiamo noi, ci domanda?... A
Bologna.
E il mio amico, un po’ confuso: – E.... a Bologna, mi par d’aver inteso, li aspetta il loro.... genitore?
Il giovinetto sbirciò un’altra volta il fratello, e poi rispose con un leggerissimo sorriso burlesco:
Sì, l’autore dei nostri giorni.
Scrupolino sentì la puntura, arrossì un poco, e non aggiunse altro. Quando scendemmo dal treno,
scattò: Hai sentito quell’impertinente? Avrebbe meritato una lezione. È inutile. Io non dovrei più
parlare italiano. Mi darei degli schiaffi, come è vero Dio. Ebbene (e tirò un pugno nell’aria) non
parlerò più, e ogni cosa è finita. Tu ridi!... Ma è terribile.
Ma fatti pochi passi pensandoci fermò, e mi domandò a mezza voce, timidamente: Ogni cosa.... è
neutro o femminino?
[211]
APOLOGIA DEL PEGGIORATIVO.
Eccomi qua, signorino. Sono il sor Accio, peggiorativo di professione, vecchio come il primo topo;
ma sempre sano e pien di vita come un ragazzo. Non si sgomenti della mia faccia burbera e
della mia voce grossa, chè sono un buon diavolaccio in fondo, nonostante la mia reputazione
di persona grossolana, e benchè di solito si pronunzi il mio nome sporgendo il labbro di sotto
in atto di disprezzo. Vero è che io servo quasi sempre a esprimere sentimenti di disistima e
d’avversione, a sparlare del prossimo e a definir cose brutte e sgradite; ma, insomma, sono
utile, perchè avversione e disistima sono ben sovente sentimenti onesti, e dir male di certa
gente è dovere di coscienza, e sono mai tante le cose brutte e sgradite che gli uomini sono
costretti a rammentare! E appunto perchè ho coscienza d’esser utile, mi fo lecito di offrirle i
miei servizi, e di farle, modestamente, una lezioncina di lingua.
Perchè, parlando e scrivendo, ella si serve così raramente di me? Eppure io servo a dir molte cose,
che non si possono dir bene se non per mezzo mio. Di molte idee accorcio [212] l’espressione; di
certi sentimenti significo io solo certe sfumature che altrimenti non si saprebbero rendere; a molte
parole do un particolare senso comico che per sole esse non hanno; e a chi esprime un giusto
sentimento di disprezzo o di sdegno, il mio suono stesso dà un certo qual senso di sodisfazione, che
nessun’altra parola gli darebbe, poichè è un suono largo e forte, che gli riempie la bocca e gli fa
stringere i denti, non è vero? il suono come d’una palmata vigorosa, che pianti ben salda e ribadisca
l’idea.
O perchè non si serve qualche volta di me quando vuol dire, per esempio: una trista idea, una mala
giornata, una mossa o un’entrata o un’uscita villana, una cattiva ragione, un cattivo partito, una
cattiva pratica, una brutta cera o un brutto momento? Perchè, invece di usare due parole o una
perifrasi, non dice invece:Questa è un’ideaccia Oggi è una giornataccia – Il tale m’ha fatto una
mossaccia, un’entrataccia, un’uscitaccia Codesta che tu adduci è una ragionaccia Ha trovato
marito; ma è un partitaccio Quel giovane si mette male; ha delle praticacce Il tale oggi si deve
sentir male; ha una ceraccia Se càpita ora quel poco di buono, mi piglia in un momentaccio –?
Non esprimerebbe la sua idea con maggior brevità e con po’ più forza? E se per dire che un tale
d’una cert’arte, ufficio o mestiere ha una certa pratica, ma affatto materiale, senza alcun lume di
scienza, o che un impertinente l’ha messo al punto di fare uno sproposito, o che un trivialone di sua
conoscenza ha mangiato come un bufalo, dormito come un ghiro e tenuto dei discorsi indecenti, ella
dicesse: Non [213] ha che una certa praticaccia m’ha messo a un puntaccio ha fatto una
mangiataccia, una dormitaccia, dei discorsacci, non direbbe la cosa più alla svelta e con più
vigore d’espressione?
E non son mica grossolano come posso parere a primo aspetto, chè nel graduare o colorire il
significato delle parole ho io pure le mie industrie e le mie finezze. Fare una levataccia, per
esempio, non significa soltanto: levarsi più presto del solito; ma dice anche la violenza che si fa alla
propria pigrizia, e il rincrescimento del farla. Fare una partaccia a uno non vuol dir solo fargli un
rimprovero acerbo, o, famigliarmente, una lavata di testa, ma anche usare, facendogliela, aspre
parole. Dicendo che uno ha un talentaccio, un ingegnaccio, si dice che ha molto talento, molto
ingegno, ma in qualche lato manchevole, o poco ordinato, o non usato sempre degnamente: non si
direbbe del Manzoni o del Carducci. Poveraccio! esprime una sfumatura di compassione o di pietà,
che non si può sentire od esprimere riguardo a persone che ispirano reverenza: ella può dire
poverino o poveretto, ma non poveraccio, di suo padre. Nell’espressione: un uomo fatto
all’anticaccia, v’è una leggiera intenzione di canzonatura che non è in fatto all’antica. E con
librucciaccio ella dice un libro non soltanto meschino nella forma (chè libruccio significa meschino
nella forma più che nella sostanza) e non solo di poco pregio nella sostanza, ma anche in questa
rozzo e cattivo. E s’ella dice che un tale fa il comodaccio suo, dice che fa il suo comodo con
particolare indiscrezione e noncuranza del comodo altrui e del dovere proprio. Vede quante piccole
cose, quante [214] minute diversità e graduazioni di idee io servo a dire e determinare!
E poi, ho stampato tante parole di forte rilievo e di color vivo e gaio, a cui nessun’altra equivale!
Veda un po’ queste. Di un lavoro duro e misero, che dia appena da vivere: È un panaccio.
Mangiare un panaccio arrabbiato. – Non t’immischiare con colui: è un arnesaccio, è robaccia. – S’è
preso un cosaccio d’avvocato, che gli mangerà fin l’ultimo soldo. Mi tocca a far certe facciacce
per cagion sua! S’è presentato con un pajaccio di scarpe rotte. O figliaccio e po’ d’un cane! E
veda come servo anche a dare il fatto suo a un indegno, così di sbieco, senza parere: – L’hanno fatto
cavaliere l’altro giornaccio, o uno di questi giornacci lo faranno. Non è una bellezza? E non
finirei più! Ma le dico ancor questa: che servo io solo, in Toscana, senz’essere appiccicato ad altra
parola, a definire una persona: È un ragazzo accio, ma accio bene; è un farabutto, ma di quegli
acci; – o sono adoperato tre volte per rincarare la dose: – È un malandrinaccio.... accio, accio, accio.
– E, in fine, m’accecherà l’orgoglio; ma io penso che uno scrittore che non sa giovarsi del fatto mio,
o che mi trascura o mi disprezza, non può essere che uno scrittore da un tanto il mazzo. E me ne
scappo, perchè vedo avvicinarsi un tale, un giovincello sdolcinato, con cui non me la dico, e non mi
posso trovare insieme. La lascio con lui, che cercherà di rivogarle la sua mercanzia. Ma ritornerò. A
rivederci a presto, e si guardi da un’indigestione di zuccherini.
[215]
APOLOGIA DEL DIMINUTIVO.
Giovanettino, ti saluto. Io sono il diminutivo...
Comprendo il tuo sorriso; ma non mo ne risento, perchè sono un buon figliuolo. Da qualcuno tu
avrai inteso dir corna di me, e sei mal prevenuto a mio riguardo. T’avranno detto che sono uno
sdolcinato stucchevole, che stempero le parole e snervo la lingua, empiendola di lezi femminei e di
vezzi bambineschi. Ma tu non devi dar retta a costoro: gente di grossa pasta, che non mi capisce e
non mi sente. Io son modesto di natura, e non per vanagloria, lo puoi credere, ti affermo che chi mi
maltratta o per ignoranza o per rozzezza d’animo, chi non ha famigliarità con le mie forme
innumerevoli e le tiene in conto di vane frasche, non può saper quanto è ricca, quanto è flessibile,
quant’è dolce la lingua della sua patria. Cascano nella leziosaggine e ristuccano, non c’è dubbio,
tutti coloro che abusano di me, appiccicandomi a cinque parole su dieci, che dicono a un modo
bellino e carino un fiore e un campanile, un bambino e una montagna, che non possono [216]
esprimere un’idea senza rimpicciolirla alla misura della loro animetta, un sentimento senza
indolcirlo fino alla nausea, col giulebbe che hanno nelle vene invece del sangue. Ma, usato con
discernimento da chi ha intelletto e gusto fine, io compio nella lingua un ufficio nobile e utile; io do
alla parola gentilezza e grazia e soavità di suono e sapore di scherzo garbato e cento significati
delicatissimi d’affetto, di pietà, di simpatia, d’indulgenza; io attenuo e scuso colpe ed errori di
persone care, velo infermità e deformità d’infelici, esprimo quanto vi è di più tenero nel cuore delle
madri e degli amanti, rendo tutte le più delicate gradazioni della bellezza e delle virtù gentili e dei
sensi ch’esse ispirano; e addolcisco il rimprovero, e spunto l’offesa, e accarezzo e compiango e
conforto. E non vezzeggio alla cieca ogni cosa, come afferma chi non m’intende o mi calunnia; ma
dico anche verità sgradite a chi in altra forma non le vorrebbe udire, e faccio atto di giustizia
temperando la lode eccessiva, restringendo il concetto ingiustamente ingrandito di molte cose,
mettendo un’ombra di rampogna, quando occorre, anche nell’espressione della pietà e dell’affetto.
Non vezzeggio soltanto; ma definisco, distinguo, dipingo, scolpisco ed illumino. E non è la mia
vanità, è la voce universale che mi chiama una bellezza e un privilegio della lingua italiana.
Imita dunque la gentilezza di chi, volendo designare un piccolo infelice, di cui non sa il nome, e
sentendo che nel modo il piccolo storpiato non suona la pietà, dice lo storpiatino –, come chiama
loschina una ragazza losca, e [217] dicendo d’un’altra che ha la bazza, fa intendere insieme ch’ella
ha qualche cosa di grazioso, che quasi fa piacere il difetto, chiamandola: Una bazzina. Ecco la
bazzina. È una bazzina, bionda, piena di vita. E dicendo d’una giovinetta o d’una bimba:
boriosina, invece di: un po’ boriosa, farai comprender meglio che, pure avendo quel difetto, non ha
animo cattivo. E se chiamerai un’altra: beatina, dirai, come non potresti meglio, ch’essa è devota
alle pratiche del culto, ma non pinzochera, e che il sentimento religioso in lei è gentilezza. E quando
vorrai dire che una donna ha un carattere alquanto astioso, tu potrai chiamarla astiosina,
senz’offenderla; ciò che non ti riuscirebbe premettendo un po’ all’aggettivo, con altra parola
attenuante.
Ma è l’affetto, è il sentimento della delicatezza che suggerisce a chi parla le mie forme più gentili;
esse non si cercano, vengon via spontanee, come certe inflessioni carezzevoli della voce. Senti le
mamme del popolo, in Toscana. Chiamano maggiorino il maggiore dei loro figliuoli piccoli. Dicono
vergognosina una bimba timida, e magari anche un po’ selvatica. Non chiameranno un loro bimbo:
spersonito o malsano, ma stentino, e per non dir gracile, diranno: È così minutino, ma sano, e
per non dire d’una ragazza che è di complessione delicata, diranno: gentilina; e capacino, per
modestia, d’un ragazzino intelligente o bravo in qualunque cosa. Ammodino, ragazzi! dicono
spesso, invece di: ammodo, per addolcire l’avvertimento. Tu potresti urtare il loro amor proprio
dicendo che un loro [218] figliuoletto ha già le sue malizie; non l’urteresti dicendo che ha le sue
malizine; che esprime l’idea d’un accorgimento fine meglio che quella dell’astuzia. E così, se
vorranno dirti che un loro bimbo è schifiltoso nel mangiare, te lo diranno con un’espressione
graziosissima: È tanto boccuccia, che è capace di rifiutarmi un piatto se ci trova un bruscolo. E
dicono al pigretto che chiede una cosa: – Allunga il santo manino, e pìgliatela da te. – E quante altre
espressioni graziose ti potrei citare, fatte col mio conio! Di una piccola donna o ragazza seducente:
È una cosolina simpaticissima Ha un’ideina che piace Una camera raccoltina: non è
significata nel diminutivo anche la piccolezza e quasi la giocondità della camera? E se uno ti dice:
A tastar per terra nel buio c’è il casetto di raccattare qualche cosa di spiacevole non senti in quel
casetto un sapor comico che ti fa sorridere? E se ti dice un altro che: bisognerà aspettare un
paietto d’ore –, non senti in questo diminutivo l’intenzione cortese d’abbreviare il tempo nel tuo
concetto e di esortarti ad aver pazienza? Ma chi può noverare la varietà degli effetti ch’io posso
ottenere? Anche l’attenuazione del peggiorativo! Sentirai dire nella campagna toscana, in val
d’Elsa: Animaccina! che è come dar dell’animaccia a uno e chiedergli scusa ad un tempo,
riconoscendo d’aver detto troppo. Donnaccina! Dieci vocaboli ammontati, nota un filologo illustre,
non saprebbero dire altrettanto. E di annatina che i contadini toscani dicono qualche volta per
“annataccia affamata„ dice lo stesso filologo che v’è in quel diminutivo una mirabile [219]
disposizione d’animo, la quale attenua il dolore e quasi ingentilisce il bisogno; e si sottintende: un
sentimento di rassegnazione cristiana, per cui si vuol dire la cosa senza lagnarsi, per timor di Dio,
che l’ha mandata. Che potrei fare di più, mondo birbetta?
Sarai dunque persuaso, carino mio, che non è mia colpa se molti seccano il prossimo e mi fanno
prendere in uggia con gl’ini, con gli etti, e con gli ucci; che è soltanto l’abuso e il mal uso che mi
rendono indigesto; che il vizio non è in me, ma in chi mi violenta e mi snatura. E lascia ch’io batta
ancora su questo chiodo, facendoti considerare, per esempio, che se è proprio e grazioso il dire d’un
ragazzo: ravviatino, ravversatino, ricciutino, fa venire il latte ai gomiti l’udirlo dire d’un uomo
tanto fatto; che se è gentile il dire che una bimba è tutta pensierini per la sua mamma, è sdolcinato
davvero il dir lo stesso d’un padre per la sua figliuola; e che è ridicolo il dire d’un barbuto
impiegato postale, cortese col pubblico, che ha una manierina amabilissima, e che stonerebbe un
ufficiale con la sciabola in pugno, che gridasse ai suoi soldati, chiamandoli alle file: – Fate prestino!
Giovati dunque di me, giovinetto, e dirai molte cose propriamente e con garbo e con arguzia; ma
non mi chiamare in ballo troppo spesso, e, sopra tutto, non m’usare che quando calzo appunto al
sentimento e all’idea. Perchè io sono nella lingua come il sorriso sul volto umano. Che c’è di più
gradevole d’un sorriso gentile? Ma chi sorride a tutti, ogni momento e a qualunque proposito, è uno
smanceroso che [220] viene a noia. E qui fo punto. Parto per un viaggio di propaganda nell’Italia
nordica; ma ritornerò ogni tantino nel paese tuo, dove mi pare d’esser tenuto anche in minor conto
che altrove. Ricordati di me, e fa’ spallucce ai tangheri che mi vorrebbero bandire dalla lingua:
fratelli nati di quei padroni di casa villani, che in casa loro non vogliono nè bambini nè fiori.
[221]
LA LINGUA FAMIGLIARE.
Ho ricevuto in questi giorni....
Non è vero; non ho ricevuto niente. Perchè fare una delle solite finzioni letterarie, che non
ingannano nessuno? Ho scritto io a me medesimo, in nome d’una signora immaginaria, la lettera
seguente, e confesso che l’ho scritta perchè mi faceva comodo, come riconoscerai dalla mia
risposta, per la quale ti domando, in cambio della mia sincerità, un po’ d’attenzione.
Al Signor tal dei tali,
M’hanno detto ch’Ella sta scrivendo un libro sul modo di studiar la lingua italiana. Mi permetta di
rivolgerle una preghiera. Ella ebbe un giorno la cortesia di farmi una lode, la quale, spogliata del
complimento dove era chiusa, voleva dire che delle signore di sua conoscenza non ero io quella che
parlasse peggio. Ebbene, poichè io mostro buone disposizioni, m’aiuti un poco. Veda il caso mio.
Ho un’amica toscana, che è come una mia sorella. Quando parlo italiano con l’altre mie amiche
subalpine, son [222] sodisfatta di me, dal più al meno; ma da ogni conversazione con quella esco
malcontenta del fatto mio, e anche un po’ umiliata. Mi dirà che la cosa è naturalissima. Ma badi:
non è ch’io m’accorga, parlando con quella signora, di mancar di parole e di frasi per esprimere il
mio pensiero; chè, per esempio, quando tutt’e due parliamo d’arte o di letteratura con altri, non
avverto quasi differenza fra me e lei, fuorchè nella pronunzia. La differenza grande che ferisce il
mio amor proprio è quella ch’io riconosco quando discorriamo a quattr’occhi liberamente, di cose
comuni o intime, scherzando e facendoci confidenze a vicenda. Io sento, allora, che non riesco a
dare al mio discorso il colore di famigliarità, la vivezza, e, non so come dire altrimenti, la libera
giocondità che è nel suo; e non capisco bene perchè non ci riesca. Forse me lo saprà dir lei, e se mi
facesse questo favore, gliene sarei grata, e se della risposta che darà a me facesse un capitolo per il
suo libro, credo che renderebbe un servizio anche ad altri. Mi perdoni....
È inutile far la chiusa a una lettera apocrifa, che è un semplice pretesto per far la
RISPOSTA.
Stimatissima Signora Subalpina,
Quello che segue a lei con la sua amica, segue a me coi miei amici toscani. La nostra inferiorità nel
parlar famigliare non sta che in minima parte nel giro diverso che si all’espressione del pensiero
e nella minor ricchezza di vocaboli [223] che noi possediamo; perchè in questo non può esser grande
la differenza fra un toscano e uno di noi, che abbia studiato la lingua; nella conversazione ordinaria
in ispecie, la quale s’aggira quasi sempre sugli stessi argomenti, non molti, molto vari. Consiste
principalmente la loro superiorità in un gran numero di modi, non assolutamente necessari, ma
propri più che altro del linguaggio parlato, comunissimi fra di loro, e da noi non conosciuti o non
usati; che son quelli appunto che dànno al discorso quel colore di famigliarità, quella vivezza, quella
libera giocondità, alla quale ella accenna. Le citerò una serie di questi modi, attenendomi nella
scelta alla mia esperienza, voglio dire a quelli ch’io sento spessissimo dai miei amici toscani, e che
non uso mai, o quasi mai, nè parlando con loro, nè con altri, non perchè non li sappia, ma perchè ho
più alla mano altri modi, di significato equivalente, ma meno famigliari e meno vivi, meno
genuinamente italiani.
Essi sogliono dire, per esempio, e io non dico: – Niente niente ch’io parli, mi dà subito sulla voce. –
Di nulla nulla borbotta per un’ora. Punto punto ch’egli tardasse, non arrivava a tempo. Mi
promise di non dir nulla; ma sotto sotto andò a dire.... – Alto alto mi toccò di quell’affare. – A andar
bene bene, ci guadagnerà cento lire. A andarmi male male, mi cacceranno di casa. Tanto tanto
sarà costretto a dir di sì. Tant’è fermarsi qui che in un’altra parte. Quella pietra non è molto
grande; ma per il suo tanto, è bella assai. Una rendituccia pur che sia, tanto quant’è nulla. Non
mi piace più che tanto. Sciocco quanto ce n’entra. [224] Non lo guardo quant’è lungo. Tutt’a
un tratto, per la strada, me lo trovai quanto di qui a lì.... Vedo che scrolla il capo. Capisco. Forse
ella non si ricorda d’aver mai inteso dalla sua amica nessuno di quei modi. Ma proseguiamo. Può
essere che le abbia inteso dire quest’altri, che lei io non usiamo: Scambio di far questo,
faccia quest’altro. Quest’accorciatura del vestito non basta; l’accorcerei dell’altro. Gli dissi,
perchè non mi stèsse a seccar altro.... Al vedere, non par che sia molto pentito. A come si mette
la cosa, non c’è molto da sperare. A sprofondare (questo la sua amica non lo dirà, ma i miei
toscani lo dicono), a farla grossa, a fare i conti grassi, è grassa se si guadagna le spese del viaggio.
Come si fa a vedere un pezzo di giovine a quel modo a chieder l’elemosina? Quando avete fatto
bene, egli è il miglior medico della giornata. Oh, c’è che fare! (ci vuol ancora molto tempo).
Voglio (riconosco, ammetto) che sia un lavoro difficile; ma egli va troppo per le lunghe. Fa delle
grandi promesse; ma voltati in là, non si ricorda di nulla. Gran poco giudizio che tu sei a
confonderti col tal dei tali! Quando si dice! È un gran dire ch’io non possa liberarmi da quel
seccatore. So di molto io, m’importa di molto! Non me ne importa il gran nulla, il bellissimo
nulla. All’ultimo degli ultimi, al tempo dei tempi, al peggio dei peggi, in caso dei casi. Non
sarebbe mica delle peggio andare a fare una gita a Superga. – Non è dell’erba d’oggi (d’una persona
non più giovane). Non è più d’oggi di ieri. Siamo a tocco e non tocco. Sono stato tutto il
giorno col pover’ a me.... – O cavaci un [225] numero, via! (Quando ci stizziamo di non capir di che
umore uno sia)....
Credo ch’ella cominci a trovarsi d’accordo con me. Ma andiamo innanzi. Scommetterei che la sua
amica dice qualche volta, e che lei non dice, com’io non dico mai: Un bambino che mai il più
bello. Una ragazza bella che mai. Si vogliono un bene che mai. I danari li ha bell’e bene, ma
non li vuol spendere. - Non ci si discorre (non si può parlare con quella tal persona). – Qui che cosa
ci dice? (Che cosa c’è scritto in questo punto?) Ce lo divezzerò io (lo divezzerò io dal far questo o
quell’altro). Vuol fare una bella nevata. – È capace che piova. Quando il tempo è fatto bene, ha
tempo a piovere! Levandomi da letto, la prima cosa prendo il caffè. S’è montato il capo di
diventare un gran che. Non me lo posso levare di torno. È lui, luissimo. L’hai veduto mai?
Maissimo. E “perdoni„ qui, e “mi scusi là„ non fa altro che far cerimonie dalla mattina alla sera.
E gonfia gonfia, non ci potei più stare. – Neanche questo non lo dirà una signora; ma lo cito come
un modo tipico d’altri molti famigliarissimi, che i toscani usano, e noi no; donde il nostro italiano
meno famigliare del loro.
Usano essi ancora nel parlar famigliare un gran numero di modi che si potrebbero chiamar duplici o
geminati; nei quali l’espressione dell’idea è ripetuta con un vocabolo sinonimo o affine o antitetico,
sia per ribadire l’idea stessa, sia per far un contrapposto che le dia maggiore evidenza, sia per
tondeggiare la locuzione, che suoni meglio all’orecchio, o, come si direbbe elegantemente, per cura
del numero. E questi modi [226] servono moltissimo a dar colore di famigliarità al discorso, quando
non si confonda il famigliare col volgare; chè parecchi di essi cadono nella volgarità, o ci dànno
accanto, e non li avrà certo uditi mai dalla sua amica. – Cito alla rinfusa: Essere d’accordo bene e
meglio. – Essere un paio e una coppia. – Essere d’un pelo e d’una buccia, d’un pelo e d’una lana. –
Fare una cosa spesso e volentieri. Non aver garbo grazia. Non aver modo maniera.
Averne da dare e da serbare. – Non far uno nè due. Non aver nè colpapeccato. – Far calze
e scarpe d’una cosa. – Esser fiori e baccelli con uno. – Non voler tenere nè scorticare. – Non dar
in tinche in ceci. Costare il cuore e gli occhi. Mandar via uno segnato e benedetto. Non
saper grado grazia. Una ne fa e una ne ficca. Di politica non ne vuol sentire cotto
bruciaticcio. Non l’ho più visto cotto crudo. È lui in petto e persona. È una lingua che
taglia e cuce, che taglia e fende, che taglia e fora. – Dàgli e picchia, dàgli e tocca, dàgli e martella.
In fine e in fatti. così cosà. Non fa ficca. Non cresce crepa. (Mi perdoni,
signora). E mi par che basti per un saggio.
Tutti questi modi, e quelli citati più sopra (di cui molti appartengono a tutti i dialetti, alcuni tali e
quali, altri in forma poco dissimile) corrispondono per l’appunto nella lingua a certi gesti,
atteggiamenti, sorrisi e inflessioni di voce, che noi usiamo soltanto con persone domestiche, nei
quali consiste particolarmente quello che si chiama modo, contegno, tratto famigliare. Certo, non sta
in questo soltanto la superiorità che [227] hanno su noi i toscani nella conversazione ordinaria: sta in
molt’altre cose che non è qui il luogo d’accennare; ma nel caso suo, signora, mi par che l’altre cose
ci abbiano che fare assai meno di quella che mi sono ingegnato di dimostrarle. Si tratta d’una parte
della lingua che noi non sappiamo, o possediamo male, non avendola imparata nelle scuole, dove si
bada più che altro alla lingua letteraria; ma che è forse più necessaria, o più utile di questa, perchè
sono le persone famigliari, gli amici intimi quelli coi quali abbiamo più occasione e bisogno, nel
corso della vita, di parlare e anche di scrivere, e di trattare di più varie cose, e più liberamente, e
penetrando più addentro alle cose stesse. E ora, signora mia....
Ma la signora ha fatto l’ufficio suo, e la possiamo accomiatare con una reverenza.
[228]
LA LINGUA FACETA.
Questa tu devi studiare in particolar modo se sei di natura tagliato al faceto, ossia inclinato a
osservare e a rappresentare ad altri il lato ridicolo delle cose, e a esprimere molti dei tuoi pensieri,
anche non lepidi in sè, in forma scherzosa; poichè per noi, che non abbiamo imparato la lingua dalla
balia, non c’è cosa più difficile che scherzare con garbo e ottener con la parola l’effetto del riso.
Perchè sia difficile lo spiega con grande evidenza il Leopardi nei Pensieri che furono pubblicati
dopo la sua morte; nei quali troverai un tesoro d’osservazioni acutissime sulla lingua italiana.
Egli dice che il ridicolo (per quanto si riferisce al linguaggio, non alla sostanza) “nasce da quella tal
composizione di voci, da quell’equivoco, da quella tale allusione, da quel giocolino di parole, da
quella tal parola appunto, di maniera che se sostituite una parola in cambio d’un’altra, il ridicolo
svanisce„.
Ora, per questa ragione appunto noi otteniamo [229] difficilmente il nostro intento nei discorsi faceti
che facciamo in italiano: perchè ci manca la maggior parte di quelle parole e locuzioni, dalle quali
nasce il ridicolo, e quasi sempre usiamo in luogo di quelle gli stessi modi che useremmo per dire sul
serio le cose che diciamo per far ridere.
*
È una verità che non occorre di dimostrare. L’avrai osservata molte volte tu stesso nei discorsi tuoi e
in quelli degli altri. Tu devi sentire alla prima qual maggior effetto comico si possa ottenere in certi
casi dicendo invece di “tremar dal freddo„: batter la diana o pigliar le pispole; invece di “dar
poco da mangiare a uno„: tenergli alta la madia; invece di “ridurgli il vitto„: alzargli la
mangiatoia; invece di “non ha la testa a segno„: gli va male l’oriolo; invece di “picchiare, dar lo
busse a uno„: pettinarlo, rosolarlo, tamburarlo, fargli una tamburata, dargli le croste o le paghe o
le briscole. E senti che più facilmente farai ridere se invece di “scappare, indebitarsi, dire
l’opposto di quello che s’è detto, far le occorrenze sue, tirar calci, andar tutto d’un pezzo e impettito
dirai: – spronar le scarpe, inchiodarsi, rivoltar la frittata, far gli offici di sotto, lavorar di pedate,
aver mangiato la minestra o lo stufato di fusi. E non c’è bisogno di farti notare che diversità
d’effetto comico corra fra le espressioni: un abito che “si comincia a scucire„ e che comincia a
fischiare; fra “abito lungo e largo o logoro o scarso o mal fatto„ e palandrana, biracchio, paraguai,
saltamindosso; [230] fra “brodo allungato„ e brodo di carrucola, fra “cattiva minestra„ e sbroscia o
basoffia, fra “miseria„ e trucia, “paura„ e battisoffia, “cattivo quadro„ e cerotto; “persona
acciaccosa e di malumore„ e deposito: – Andiamo a far visita a quel deposito del signor Gaudenzio!
Molte di queste parole e locuzioni sono ridicole per medesime, e bastano da in molti casi a
destar l’ilarità, dove non gioverebbe a destarla un particolare o un’osservazione arguta aggiunta alla
frase o alla descrizione e all’aneddoto.
*
Per dimostrarti quant’è ricca in questo campo la nostra lingua, ti cito ancora una serie di modi d’uso
comune in Toscana, che noi non usiamo se non raramente; di alcuni dei quali è evidente il
significato; e d’una parte degli altri lascerò che cerchi il significato tu stesso, perchè ti resti meglio
impresso nella memoria.
Affogare nel cappello, nelle scarpe, nel soprabitoAver roba in corpo o in manica – Aver paglia
in becco – Avere il baco (con qualcuno; avercela, senza dimostrarlo, o volerlo dimostrare) – Avere i
bachi (essere inquieto o di malumore) – Aver famiglia in capo Aver la fregola (di fare una cosa) –
Aver messo il tetto Alzare i mazzi Andare, darsi ai cani Andare in dolcitudine Attaccare il
lucignolo Bastonare la messa (dirla in furia), una cosa qualunque (abborracciarla e venderla a vil
prezzo) Batter la solfa Battere il trentunoCampare con uno stecco unto – Dar le pere – Dare
fune o spago Dare una lunga a uno [231] (intrattenerlo, senza spedirlo) Dare un’untatina Dar
nelle girelle o nelle girandole Essere al lumicino, al moccolino, al moccoletto Essere uno
spianto (una rovina: quell’affare è stato un vero spianto per il tale) – Essere in pernecche – Fare un
bollo (vuol prender moglie quello spiantato? Farebbe un bel bollo!) Far polvere (sollevare
scompigli: non faccia tanta polvere: abbia un po’ più di prudenza) Fare una buca (un cassiere
nella cassa) Fare un passio (una cosa lunga di cosa che dovrebbe esser breve) Far baciabasso
(per umiliazione, per adulazione, sottomettersi) Girare a uno la cuccuma, la còccola, il boccino –
Grattar gli orecchi – Levar le repliche – Mangiare a macca – Macinarsi il patrimonio – Mettere in
purgo (una notizia non sicura) Non mondar nespole (S’egli lavora, l’altro non monda nespole)
Pagar con le gomita Piantare un meloPiantare un porro – Prendere al bacchio (alla cieca, alla
ventura) – Prender pelo – Prendere una lùcia, una briaca, una bertuccia – Ridursi all’accattolica –
Spianare il gobbo, le costure – Scuotere la polvere – Sonarla a uno Sonare a mattana – Sbarbare
(Non riuscire in una cosa: s’è messo a tradurre Orazio; ma non ce la sbarba) Tagliare le calze
Venir le cascaggini (d’una cosa che ci annoia: mi fa venir le cascaggini). E soltanto per esprimere
facetamente l’idea del mangiare con avidità, o molto, o soverchio: diluviare, digrumare, dipanare,
scuffiare, sgranocchiare, dimenare le ganasce, ungere, sbattere, far ballare il dente, far ballare il
mento, ingubbiarsi, rimpippiarsi, rimbuzzarsi, spolverare, dar ripiego a quant’è in [232] tavola,
mangiare a scoppiacorpo, macinare a due palmenti, mangiar con l’imbuto, divorare a quattro
ganasce. E fermiamoci qui, per non fare un’indigestione.
*
Certo che le parole non hanno per tutti la stessa faccia. Molte che hanno effetto comico per alcuni,
per altri non l’hanno, e questo non è soltanto delle parole di tal genere, ma, in generale, di tutte; e
deriva dall’aver ciascuno un suo particolare sentimento della lingua, che è la ragione per cui della
lingua stessa ciascuno tende ad appropriarsi certe forme a preferenza d’altre, o ad usarle in un
significato più o men lievemente diverso da quello in che altri le usano. Ma il senso comico delle
parole, in special modo, è un senso che si affina grandemente con l’osservazione, coi raffronti, e via
via che, avanzando con gli anni, si scoprono negli uomini, e nelle cose, nuove e più intime sorgenti
di ridicolo; e quand’è affinato, nello studio della lingua mille diletti. Sono ben lontano dal
credermi in questo più fine di Caio o di Tizio; e non di meno, m’accade di ridere o sorridere di
molte parole, ogni volta che le leggo o le sento, come di certe forme e di certi atteggiamenti del viso
umano, versi buffi o mosse allegre o burattinesche. Per esempio: Briachite Briachella (uno che
piglia spesso piccole sbornie). Non è briaco: ha soltanto un po’ d’accollo (l’inclinazione del collo
come sotto un peso) Sbiobbo (d’uno rachitinoso e con gran bazza) Musceppia (bambina o
ragazzetta saputella) Patìto (l’innamorato) Pateracchio (per [233] conclusione spiccia,
specialmente di matrimonio: si videro, si piacquero e fecero subito il pateracchio) Un tient’a
mente (uno scapaccione) Stanga, stangato (per bulletta, un uomo in bulletta) Pispilloria
(discorso a carico di qualcuno, o lungo e noioso) Scarpata (pedata) Ciucata (cavalcata con gli
asini) Cacheroso (svenevole) Bacherozzolo (per bambino) Frittura (di molti bambini)
Sguerguente (uno che fa atti strani o sgarbati) Squarquoio (di vecchio cascante) Rubapianete
(ladro di chiesa) Spulcialetti Squarciavento Spiantamondi Strizzalimoni Picchiapetto
Frustamattoni – Sottaniere Religionaio – Miracolaio – Pretaio (uno che bazzica preti) – Mogliaio
(che non esce mai d’attorno a sua moglie) Fantajo (dilettante d’ancelle, direbbe la signora
Piesospinto); e di verbi non cito che pissipissare, indragonire, rinfichisecchire, insatanassare,
sfanfanare (struggersi d’amore), cicisbeare, matrimoniarsi, rivogare.... Giusto, mi vengono in
mente due versi di Neri Tanfucio:
Povera truppa, quanti serviziali
T’ho visto rivoga’ nel deretano!
*
Ho citato quasi tutti modi dell’uso vivo toscano. Ma il linguaggio del ridicolo non può essere
circoscritto dall’uso, perchè a chi scherza e vuol far ridere tutto è lecito, pur che rimanga nei confini
più vasti della lingua. Nascendo anche il ridicolo da contrasti e dissonanze tra la parola e l’idea, da
parole usate in senso insolito, inaspettate, strane o anche fuor d’ogni [234] proposito ragionevole, e
dalla stessa affettazione o pedanteria voluta del vocabolo o della frase, ne segue che qualsiasi modo
vieto o tronfio o poetico o arcaico, il quale, usato sul serio, stonerebbe intollerabilmente, e farebbe
ridere alle spese di chi lo dice, ottiene invece l’effetto che si propone chi scherza, ed è quindi
legittimo se a quest’effetto è adoperato opportunamente e con garbo. È come di certi gesti e
impostature e alterazioni del viso e dell’accento, che riescono leziosi, sconvenienti e anche odiosi
quando in una persona sono abituali e inconsapevoli o affettazioni di dignità e d’eleganza; ma che
all’opposto riescono piacevoli quando son fatti con l’intenzione di far ridere, contraffacendo
qualcuno, per esempio. Gli esempi sono così frequenti negli scrittori, che non mette conto di
citarne; e sono frequentissimi anche nelle conversazioni della gente colta. Noi tutti abbiamo
conosciuto o conosciamo certi belli umori che hanno la consuetudine di rallegrar la gente dicendo
cose comunissime o lepide con parole gravi e lambiccate e in stile magniloquente. Io ebbi un amico,
professore di lettere, il quale faceva sbellicar dalle risa gli amici raccontando aneddoti faceti, e
parlando anche delle cose più ovvie con parole e giri di frase del Decamerone, ch’egli sapeva quasi
a memoria. Seriamente diceva d’esser rimasto in una trattoria attirato dalla piacevolezza del
beveraggio; descriveva un desinare suntuoso a cui era stato invitato, con grandissimo e bello e
riposato ordine servito, dove lui, vago di vini solenni, aveva trovato il fatto suo bevendo del Caluso
e del Barolo in certi graziosi bicchieri, che d’ariento pareano; [235] e chiamava un avvocato:
armario di ragione civile, e una ragazza afflitta da pene amorose: – sventurata in amadore; e diceva
d’un farabutto: Testimonianze false con sommo diletto dice, chiesto e non richiesto , e a un
amico incontrato per la strada: Dammi un fiammifero, se tu hai in te alcuna favilluzza di
gentilezza; e: – Grazie, cuore del corpo mio! – e adoperava il con ciò sia cosa che con tanto garbo, e
qualche volta così all’impensata, e con un così forte contrasto col significato e con l’intonazione del
discorso, che strappava risate da mandarsi a male.
Non trascurare dunque, leggendo gli scrittori e i dizionari, neppure quella parte della lingua che è
fuori d’uso, perchè certe voci e locuzioni muffite, che tu quasi ributti dalla tua mente, ti possono
servire in certi casi a dare un vivo effetto comico a uno scherzo, il quale altrimenti riuscirebbe
sciapito, a far ridere con un gioco di parole semplicissimo, con una sola parola, con un nonnulla.
Nulla nella lingua è disprezzabile, tutto può giovare. La lingua giocosa è infinita come le sorgenti
del riso.
[236]
PER VARIARE IL PROPRIO VOCABOLARIO.
Più di trent’anni fa, in un tempo che sfornavo prosa a gran furia, un mio amico un fermò una
mattina per la strada, e con un viso grave, che a tutta prima mi fece temere una cattiva notizia, mi
disse: Ho letto il tuo ultimo articolo. Dimmi un po’: quando intendi di finirla col tuo in un
battibaleno? La prima volta che scriverai invece: in un momento, in un attimo, in un lampo, o anche
semplicemente in un baleno, t’inviterò a desinare.
Aveva ragione. C’era anche nel mio ultimo articolo quel maledetto battibaleno, che avevo cacciato
non so quante volte in altri miei scritti, senz’avvedermi della ripetizione, e che doveva esser venuto
a noia, oltre che al mio amico, a molt’altri.
Tutti gli scrittori hanno certi modi dei quali fanno un uso indiscreto, come gli attori drammatici di
certe intonazioni di voce. Non parlo di quelle parole (per lo più verbi e aggettivi) ch’essi usano
frequentemente per necessità, perchè sono la espressione di qualche cosa che è [237] nell’indole del
loro ingegno e del loro animo. Parlo di quei modi che non esprimono alcun sentimento o maniera
particolare di veder le cose, e che son ripetuti quasi inconsciamente, senza bisogno, per forza di
consuetudine, in luogo d’altri modi, i quali direbbero lo stesso per l’appunto. I più degli scrittori non
n’hanno soltanto uno o due, ma parecchi, e alcuni un buon numero; e non solo gli scrittori, ma quasi
tutti, parlando, n’hanno più o meno. Sono parole che s’attaccano alla lingua, come vizi di
pronunzia, e ci restano attaccati per tutta la vita. C’è, per esempio, chi dice e scrive fin che campa: –
Quindici giorni, tre anni, due ore or sono –, e mai, neanche una volta per isbaglio: – quindici giorni,
tre anni, due ore fa. C’è chi ha preso il vezzo di dire: Avere il tarlo con uno per averci odio,
ira, rancore, e questo tarlo gli vien fuori infallibilmente tutte le volte che ha da esprimere quell’idea,
foss’anche dieci volte il giorno e migliaia l’anno. Altri s’è avvezzato a dir tratto tratto, e lo dice in
ogni caso, invece di ogni tanto, ogni poco, di quando in quando, a quando a quando; e spesso
impropriamente, perchè d’uno, per esempio, che faccia una tal cosa ogni due o tre mesi, non è
proprio il dire che la fa tratto tratto, che significa intervalli di tempo più brevi. Perchè quasi sempre
accade questo: che chi sposa, come suol dirsi, una data locuzione, finisce con adoperarla ad
esprimere non solo l’idea alla quale essa è propria, ma tutte le idee affini a quella, e ch’essa non
esprime che a un incirca.
Ma non è questo il solo inconveniente del mal vezzo. La ripetizione oziosa e abituale di [238] certe
voci e locuzioni toglie loro in molti casi gran parte dell’efficacia, e tutta quanta, di solito, nei
discorsi faceti, perchè da chi legge o ascolta esse sono presentite e aspettate come ritornelli; oltrechè
riescono sgradevoli, come affettazioni, anche le più naturali e semplici, parendo che chi scrive o
parla le metta innanzi così ogni momento perchè le tenga in conto di fiori rari e di pietre preziose; e
aggiungi che, dicendo sempre certe cose con gli stessi vocaboli, è quasi impossibile evitar rime,
cacofonie, iati, asprezze, com’è impossibile a chi parla o scrive in una lingua straniera, in cui non
conosca che un modo unico di significare ciascuna idea.
Ora, via via che andrai innanzi nell’uso della lingua, a te pure s’incolleranno alle labbra certi modi
di dire, e ci resteranno, se non vincerai la pigrizia intellettuale, che è in tutti la cagione prima di
questa specie di servitù parziale del pensiero alla parola; se, voglio dire, ogni volta che avrai da
esprimere quella data idea, non farai uno sforzo per cacciar via l’espressione tirannica, e trovare
qualche altro modo egualmente proprio, o più proprio, di esprimerla. E non basterà che tu faccia
questo: tu dovrai preservarti dal vizio cercando continuamente, nello studio che fai della lingua,
d’arricchire, di variare, di rinfrescare il tuo vocabolario.
Perchè, per esempio, dovrai dire eternamente d’ora in poi, quando puoi dire di qui avanti, di qui
innanzi, d’ora in avanti, d’ora avanti, di qui in là? Perpetuamente un via vai invece di un va e
vieni, un andirivieni, un andare e venire? Sempre: non ne indovina una, invece di: non ne infila,
non ne azzecca, non ne becca, [239] non ne incarta una? E improvvisamente o all’improvviso in
luogo di: di punto in bianco, di secco in secco, di stianto, a un tratto, tutt’a un tratto? E alla bella
prima o a tutta prima invece di: di primo tratto, di primo lancio, di primo colpo, di primo acchito?
E da solo a solo in luogo di testa testa, a faccia a faccia, a quattr’occhi; e alla rinfusa invece di
alla mescolata o all’arruffata, e stare in contegno o in contegni invece di stare in aria, star sulle
sue, stare in sussiego, stare sul grave, e sulle cerimonie in cambio di: sulle convenienze e sui
convenevoli? E così quel tal signore del tarlo potrebbe in molti casi esprimere diversamente e con
maggior proprietà la sua idea, dicendo: averla amara, avere il sangue guasto, avere il baco, esser
nero con uno. E un altro, che invece del tarlo ha la mosca, e la fa volare a ogni proposito, potrebbe
dire spesso e meglio, invece di saltar la mosca al naso: montar la luna, montare in bestia, saltare
in collera, saltare il grillo, pigliare i cocci, prender cappello, andar nei nuvoli, alzare i mazzi; o
almen qualche volta, se della mosca vuol serbar qualche cosa, sostituirvi la mostarda. E un signore
di mia conoscenza, che ha sempre la ramanzina in bocca, potrebbe variar la nota con: fare o dare un
rabbuffo, una risciacquata, una lavata di testa, una ripassata, una sbarbazzata, un’intemerata, una
parrucca, un tu per tu, una polpetta, un trippone. E un mio amico intimissimo, che per molt’anni
seccò il prossimo col bighellonare, avrebbe potuto molte volte sostituire al prediletto gioiello:
girandolare, gironzolare, girondolare, girellare, girottolare, vagare, vagolare, vagabondare, [240]
vagabondeggiare, zonzare, andare a zonzo, in ronda, in volta, in giro, gironi. E il signore
medesimo, che confessa le sue male abitudini per sua mortificazione, dovrebbe lasciare un po’
riposare il suo bisticciarsi, ricordandosi che si può dir più a proposito in molti casi: pigliarsi a
picca, piccheggiarsi, gattigliarsi, pizzicarsi, stare a ribecco, stare punta a punta, stare a tu per tu,
essere agli occhi. E.... fermami, ti prego, o non la finisco.
Arricchisci dunque, ti ripeto, varia, rinfresca continuamente il tuo linguaggio. Tu avrai osservato
quanto sono attraenti nel parlare il dialetto anche persone ignoranti che, non per istudio che
n’abbian fatto, ma per privilegio di natura possedono e usano molte più parole e frasi che la maggior
parte del popolo; com’è vivo, colorito, scintillante, spesso comico il loro discorso, e con che piacere
li stanno tutti a sentire, anche gente colta. Ma per acquistar questa dote non basta acquistare e
fissarsi nella mente parole e locuzioni; bisogna esercitarsi a adoperarle, come faceva il Leopardi in
quei suoi Pensieri già citati, ch’egli metteva sulla carta giorno per giorno, senza pensare che
sarebbero stati mai pubblicati. Manca a quando a quando in quelle pagine quella sobrietà rigorosa
che si ammira in tutte le altre sue prose: egli ripete il suo pensiero in vari modi, l’uno dopo l’altro,
infilando sinonimi e frasi equivalenti, come passando in rassegna tutte le maniere possibili
d’esprimere quel pensiero; ed è evidente che scriveva quei periodi per premunirsi dal vizio della
ripetizione di certe forme nelle scritture che destinava alla stampa. Quest’esercizio paziente faceva
egli pure da giovane, ed era già un grande maestro.
[241]
IL PESCATORE DI PERLE.
Ecco un personaggio che variava davvero il suo vocabolario; ma lo variava in maniera che non si
faceva più intendere. Il che (sia detto a sua scusa) non era sempre un gran danno per chi l’ascoltava.
Questo pescatore di perle era un fabbricante di pillole, panciuto e brizzolato, d’aspetto e di modi
signorili; col quale strinsi relazione in una trattoria, ch’egli frequentava da anni, e dov’io desinavo
ogni giorno con parecchi amici, dilettanti di letteratura. Era uno di quei cultori solitari della lingua,
per i quali questo studio non è che un’occupazione piacevole dei ritagli di tempo, senz’alcun fine
letterario, e quel po’ d’ambizione che ci mettono non va oltre il cerchio degli amici, con cui fanno
sfoggio innocente della loro filologia. Ma uno studioso della lingua propriamente non era: era un
appuntatore di parole scompagnate da ogni frase o pensiero, che nel suo concetto avevano un valore
per sè, anche non servendo a nulla: raccoglieva parole come altri raccoglie insetti curiosi o
francobolli rari. [242] La sentenza del Tommaseo, che ogni modo è tanto più accetto quanto più è
comune, e che il più comune, in fatto di lingua, come in tante altre cose, è quasi sempre il più bello,
era proprio il rovescio del gusto e della norma che guidavan lui nel suo lavoro di spigolatura; ciò
che si può dire di molti, anche al d’ancoi, come dice Dante. Egli non s’innamorava che della
parola peregrina, rimota dall’uso, e quanto più dall’uso era rimota, tanto più gli pareva bella e
pregevole, e per il solo fatto che non fosse mai stata udita e che riuscisse incomprensibile, egli
pensava che dovesse dare un gran piacere a chi l’udiva e fargli ammirare chi la sapeva.
Da anni andava facendo questa raccolta di perle false; credo che le notasse in un registro; n’aveva
alla mano un gran numero, e gli pareva di possedere il tesoro di Montecristo.
Cosa singolare: il suo linguaggio era generalmente scevro d’ogni affettazione, il suo frasario
semplicissimo: solo di tanto in tanto buttava all’improvviso una di quelle parole straordinarie e
difficili, che facevano spalancare gli occhi e la bocca alla compagnia. Si sottintende che, per poter
fare questa mostra di calìe linguistiche, doveva parlar sempre italiano. E, in fatti, aveva smesso con
tutti il vernacolo, giustificandosi col dire che ogni buon cittadino avrebbe dovuto far lo stesso, per
amor di patria, perchè la lingua diventasse l’unico linguaggio degl’italiani. Ma se tutti gl’italiani
avessero parlato come lui, si sarebbe parlato nel nostro paese la più matta e burlesca lingua del
mondo.
Non le ricordo tutte, peccato! Ma le più belle [243] mi son rimaste. Per esempio, non chiamava mai
“mal di capo„ l’incomodo a cui andava soggetto; ma cefalalgia, e non “limonata purgativa
volgarmente, il rimedio col quale la curava; ma limonata catartica. Si faceva radere un giorno sì e
un giorno no, e questo chiamava sempre: farsi radere epicraticamente; ma sul serio, intendiamoci;
senza un barlume di sorriso che mostrasse la coscienza di dire una parola strana. E a proposito di
barba, si faceva fare un solo radimento, e quando il rasoio non tagliava, diceva al barbiere: – Questo
rasoio non è radevole. – E poi: non “ingarbugliare„ gli affari e i conti, ma garabullare; scarabillare
la chitarra; frucandolare, per frugacchiare; avvocatarsi, per prender la laurea d’avvocato; avvocato
parlantiere, per chiacchierone; dinanzare uno per la strada, per passargli davanti, e mal
camminabile una strada disagevole. Diceva d’aver visto un ubbriaco che squinciava per la piazza,
ossia, che andava ora per un verso ora per un altro; e ogni momento, discutendo: Ma codesta non
è una ragione, è uno ziribiglio (arzigògolo) –; e rifiutando da bere: Grazie, ho bevuto abbastanza;
non sono bibace.
Comico quanto le parole era il modo come le diceva, con certa intonazione e aria di trascuranza,
quasi di sbadataggine, che si riconoscevano finte nell’atto stesso, dallo sguardo furtivo ch’egli
girava sugli uditori, per veder l’impressione che quegli ori di lingua facevano.
E n’aveva di due qualità: le parole ultra peregrine, per lo più inintelligibili, ch’egli pescava nei libri,
non letti da lui che con questo scopo, e non pregiati se non in ragione della pesca rara [244] che ci
poteva fare; e le parole comuni, delle quali usava costantemente la variante antica. Sempre diceva
diputato per deputato, cileste per celeste, maledicenza, malevoglienza, insapiente, inreprensibile,
fabuloso. Queste piccole violazioni dell’uso comune gli parevano una cosa nobilissima. Ne ricordo
dell’altre anche più graziose, ch’egli prediligeva, come: ghiribizzamento, dimenticamento,
pretensionoso. Non fumo che dopo desinare, diceva –; mai nelle ore mattutinali: mi darebbe
degli archeggiamenti di stomaco. – E dava una sbirciata circolare all’uditorio.
Giorno per giorno andava arricchendo il suo vocabolario di qualche rarità. Noi riconoscevamo
quelle di recente acquisto dal giro forzato ch’egli dava al discorso per far venire il punto opportuno
di metterle fuori. Qualche volta inventava anche espressamente dei fatti. Nessuno gli credeva, per
esempio, quando egli raccontava che gli era cascato uno specchio dalla parete: era un’invenzione
per poter dire che, prima d’appenderlo, avrebbe dovuto dimergolare il chiodo, per assicurarsi che
fosse ben piantato. E come affaticava l’immaginazione, si vedeva, per trovare il pretesto di chiamare
gentildonnaio (corteggiatore di signore dell’aristocrazia) un avventore della sua farmacia, e per
venir a dire che aveva rincincignato e lacerato una lettera insolente, e che il portinaio di casa sua,
che s’era ubbriacato la domenica, aveva rinfonfillato la sbornia il lunedì! Questa ci confessò poi che
l’aveva intesa da un operaio senese ch’era andato da lui a comperare dell’ammoniaca; e fu un caso
notevole perchè, neanche a domandarglielo, non diceva mai dove avesse raccattato questo o quel
[245] diamante della sua favella. Come il Conte di Montecristo, delle sorgenti della sua ricchezza
egli faceva un mistero.
Perchè aveva molti più anni di noi, non osavamo dargli la baia, se non con certa discrezione. Ma
spesso mettevamo in dubbio l’italianità dei suoi vocaboli. È proprio sicuro che questa sia una
parola di buona lingua? – Non glielo domandavamo per altro che per ispassarci della gravità con cui
rispondeva: Sì, ha degli esempi autorevoli. E credo che, veramente, non ne dicesse una che non
potesse in qualche modo giustificare. Ma, come disse un linguista insigne, gli scrittori italiani che
fanno testo son tanti, tanto diversi d’età, di patria, tanto disuguali di gusto e di senno, che non c’è
stranezza in materia di lingua, la quale con la loro autorità non si possa difendere.
Un giorno provammo noi a parlare a modo suo per veder se capiva la satira. Stavamo seduti fuori
della trattoria. Il tempo si metteva a brutto.
Cominciò uno a dire: – Il cielo s’annubila.
Un altro: – Lampaneggia.
– Senti che aria umidosa! Vuol venire un’acquazione.
Già pioviniggia.
Non diede segno d’intender lo scherzo; ma se l’intese, non se n’ebbe per male. Ci parve che facesse
un atto di riflessione per imprimersi nella mente quelle parole insolite. Poi, guardando per aria: – Se
piove – disse – non può durare. Il vento è a tramontana. Rim-bel-tem-pirà.
Insomma, l’ebbe vinta lui, perchè non avevamo in pronto altri vocaboli per continuare la celia. Ma
una sera fece una brutta figura, che gli [246] avrebbe dovuto insegnare come non fosse senza pericoli
la pesca delle parole stupefacenti. S’era avvicinata al nostro crocchio la padrona della trattoria, una
signora attempatotta, sempre tutta ripicchiata, che si dava grandi arie di nobildonna, affettando una
grande castigatezza nel parlare con gli avventori; dai quali non tollerava la minima licenza di
linguaggio. Si discorreva prosaicamente di certi cibi di facile o di difficile digestione. A un certo
punto il pescatore di perle disse con molta gravità: Noi digeriamo un cibo tanto più facilmente
quanto più lo...
Un altro avrebbe detto semplicemente: quanto più lo desideriamo, o ne abbiamo voglia. Egli volle
dire una parola “rimota dall’uso„. E anche questa sarebbe passata come tante altre, se egli non
avesse intoppato in una difficoltà di pronunzia. Ma intoppò dopo le prime due sillabe, e pronunciò
le tre ultime dopo una pausa, in modo che ne formò un verbo a parte, non dicibile in presenza d’una
signora. Ci fu impossibile trattener la risata che ci venne su dai precordi, e ne seguì un piccolo
scandalo. La signora credette ch’egli avesse voluto dire uno scherzo, che sarebbe stato davvero
sconvenientissimo; lo fulmi d’un’occhiata, e se n’andò a passi tragici; e il povero “pescatore di
perle„ che era un uomo gentile, in fondo, e pieno d’amor proprio, restò annichilito.
La parola, pur troppo, era la prima persona plurale dell’indicativo presente del verbo concupiscere,
registrato dalla Crusca, con parecchi esempi di scrittori sacri.
[247]
È ERRORE? NON È ERRORE?
Queste due domande da quasi mezzo secolo mi suonano così spesso nella mente e all’orecchio che
oramai mi paiono di quelle Voci della natura o delle cose che parlano nei cori fantastici dei poemi.
E tu pure, nel corso dei tuoi studi di lingua, e per tutta la vita, rivolgerai migliaia di volte a te stesso
quelle domande, e migliaia di volte le rivolgerai ad altri, e altri le rivolgeranno a te; e nella più parte
dei casi rimarrete incerti della risposta.Ecco il gran malanno della lingua italianadicon molti. E
sarà davvero, per varie ragioni, un malanno più grave nella nostra che nelle altre lingue; ma non è
proprio esclusivamente della nostra: è un poco di tutte. Un illustre scrittore francese, per esempio,
ha detto argutamente che non c’è cosa più difficile del trovare tre francesi colti, i quali siano
d’accordo nel dire che un loro concittadino parla e scrive correttamente il francese. E pure si
considera questa come una delle lingue viventi che hanno maggior fissità e sono più uniformemente
parlate nella loro patria.
[248]
Discorriamo dunque del “gran malanno„.
Ma bisogna ch’io mi rifaccia un po’ di lontano.
Leggi, ti prego, la lettera seguente, che fu scritta da un bravo signore a un suo nipote, per indurlo a
presentarsi al direttore d’una Banca, a chiedergli riparazione d’un torto che gli avevan fatto nella sua
estimazione. Nota che lo scrittore della lettera è un uomo che fece i suoi bravi corsi classici, ed è
giustamente stimato una persona colta, a cui sta bene la penna in mano.
Mi domanderai come c’entrino gli affari della Banca nella quistione degli errori di lingua. C’entrano
bene e meglio, lo vedrai, se avrai la pazienza di leggere.
Caro nipote,
Mi stupisce quello che mi scrivi d’aver inteso dire del signor B. Fu indubbiamente qualche male intenzionato che te lo volle mettere
in trista luce, e mi domando con qual fine possa averlo fatto. Sono menzogne che rivoltano. Ignorante? Orgoglioso? Mancante di
tatto? Nulla di tutto ciò è vero. Te ne posso star garante, poichè ho l’onore di conoscerlo da tempo; a meno ch’egli sia mutato di
bianco in nero da un mese a questa parte. Non è soltanto, incontestabilmente, un uomo di merito, abilissimo nel suo ufficio,
appassionato degli studi finanziari, e che gode della massima considerazione presso tutto il personale della Banca; ma anche uomo
d’animo elevato, di cuore sensibile, e in fatto di cortesia, gentiluomo senza eccezione; tanto che è amato, più che beneviso, da quanti
l’avvicinano. Mai non conobbi personaggio alto locato più abbordabile; chiunque gli può parlare; anche gente del basso popolo è
ricevuta da lui alla prima. Che vada soggetto ad accessi di malumore, che si lasci trasportar qualche volta dalla passione, ne
convengo; ma non è detto che alla vivacità del temperamento [249] non possa andar congiunta la delicatezza; e in ogni caso, basta a
disarmarlo una buona parola. Deciditi dunque; presèntati a lui senza imbarazzo; raccontagli l’accaduto; mettilo al fatto d’ogni
circostanza, senza far nomi; osservagli che fosti tu il provocato, che ti si fece un tiro inqualificabile, tentando d’intaccare il tuo onore,
per sbalzarti da una posizione che per te è quistione di pane, e mettere al tuo posto peggio che una nullità, un birbaccione spudorato,
cointeressato coi tuoi peggiori nemici. Non ti preoccupare dell’esito: vedrai che prenderà interessamento al caso tuo e che non ti
toccherà una delusione. Io gli scrivo oggi stesso, d’altronde, per metterlo prima al corrente della cosa, o per porre i punti sugl’i, caso
che già la sapesse. Ti prevengo, peraltro, che non devi pensare di raggiungere il tuo scopo con adulazioni e maniere insinuanti, le
quali con lui non fanno effetto di sorta; chè non è di quegli uomini che per vanità transigono con la propria coscienza; e come non si
lascia toccare dalle lusinghe, non si lascia imporre dalle minacce. Ma siccome è ragionevole e onesto, nulla di più facile che
persuaderlo e cattivarselo dicendogli alla spiccia la verità e aprendogli con effusione il proprio cuore. Se credi che ti possa essere una
facilitazione, t’accludo una mia carta di visita per presentartigli. Abbi la compiacenza d’accusarmi subito ricevuta di questa lettera.
Non ho bisogno di dirti che per quest’affare o per altro, nella mia pochezza, sono sempre a tua disposizione. In attesa d’una risposta,
ti mando una stretta di mano, e tienmi per la vita il tuo affezionatissimo zio
TAL DEI TALI.
È una lettera, riconoscerai, che a novantanove su cento italiani colti parrebbe non scritta male.
Ebbene: tra francesismi, neologismi, solecismi, parole e locuzioni non puramente italiane, o per
ragioni diverse riprovate dai purissimi, contiene la bellezza di 78 dico settantotto errori grossi e
piccoli. Su parecchi di questi i [250] purissimi non cadono d’accordo: chi li bolla come errori, chi no.
Ma il professore Pataracchi starebbe fermo sul 78, o al più concederebbe che alcuni veri errori non
sono; ma mende, nèi, parole brutte, metafore strane, leziosaggini; insomma, modi da sfuggirsi.
Ed ecco presso a poco in qual forma concerebbe, alla lesta, il povero zio.
Mi stupisce. No, Stupisco„: Stupire è intransitivo. Indubbiamente, per “indubitatamente„ non
ha corso legale. – Intenzionato. Brutta voce, da non usare. – Mettere in trista luce. Una metaforaccia
da buttarsi via. Io mi domando. Falso: “domandare„ e “dire„ non s’usano a modo di riflessivi.
Menzogne che rivoltano. “Rivoltare„ riferito a cose morali, è improprio. Mancante di tatto, nulla
di tutto ciò, ho l’onore di (invece di “mi onoro„), un mazzo di francesismi. – Da tempo (senza dir da
quanto) e star garante (per star mallevadore), da bollare. – A meno che (per “eccetto che„), barbaro.
Da un mese a questa parte. Che parte? Che c’entra la parte? Un fregaccio. Uomo di merito.
Merito, usato in questa forma indeterminata, sta male. Incontestabilmente per
“incontrastabilmente„, abilissimo per “valentissimo„, massima per “grandissima„, personale per
“gl’impiegati„, da rimandarsi in Gallia. – Appassionato degli studi, improprio. – Considerazione per
“stima„, brutta metafora. Animo elevato, francese, e sensibile, nel senso che qui gli si dà,
francesissimo. Improprio in fatto di cortesia per “in materia di„ o “rispetto a„. È brutto e strano
modo senza eccezione per “assolutamente„ e lezioso beneviso per “ben veduto„ e metaforaccia
sgarbata e materiale [251] alto locato. Un brutto paio di francesismi avvicinare una persona per
“avvicinarsi a lei„ e abbordabile per “degnevole„ o “accostevole„. Chiunque per “ciascuno che
quando serve a un costrutto sospeso, riprovevole. Riprovevole basso popolo, che non s’usa che
in senso spregiativo. Francese accessi di malumore per “moti, impeti„, francese lasciarsi
trasportare da una passione per “lasciarsi sopraffare„, francese ne convengo per “lo riconosco„.
Un frego su insieme al, invece di “insieme con„ che è errore; su delicatezza per “gentilezza„, su
disarmare per “far cadere la collera„. Deciditi per “risolviti via! Senza imbarazzo? alla
spazzatura! Imbarazzo non vuol dire che “gravezza di stomaco„. L’accaduto! Ma accaduto non è
sostantivo, è participio. – Mettere al fatto, per “far sapere?„, mai al mondo. – Brutto circostanza per
“particolare„. Foggiato sul francese far nomi. Francese inqualificabile per “indegno„. Osservagli
per “fagli osservare o notare„, sproposito. Intaccar l’onore, altro sproposito. Posizione per “impiego
„, di vil conio francese, e così è quistione di pane e una nullità per “si tratta di pane„ e “uomo da
nulla„. E bollo spudorato per “impudente„„ e cointeressato, che è del gergo mercantesco, e
delusione per “disinganno„, che non è parola italiana, e interessamento, che è voce ostrogotica, e
preoccuparsi per “darsi pensiero„ che è uno svarione, e mettere al corrente, che è mal detto invece
di “in corrente„ od “a giorno„. Un altro mucchietto di scorie francesi: d’altronde, mettere i punti
sugl’i, ti prevengo per “ti avviso„, far effetto per “commovere, colpire„. Sgarbatissimo raggiungere
lo scopo [252] per “ottenerlo„: lo scopo non corre. Improprio insinuante per “lusinghevole„.
Abbominevole transigere con la coscienza per “patteggiare„. – Ignobile mozzicone di frase imporre
per “soverchiare„. E non fanno effetto di sorta! Che ci sta a fare quel sorta? E siccome per “poichè
„ qual uomo onesto lo può usare? E toccare per “commovere„ con che faccia si può scrivere? E fare
una cosa con effusione? Effusione di che? È un altro francesismo nulla di più facile, ed è
contennendo alla spiccia per “alla lesta„ e non di buona lingua facilitazione per “agevolezza„. Ti
accludo. Oibò! “Ti includo„ Carta di visita. Eh, via! “Biglietto di visita„. Abbi la compiacenza.
Che roba e? Si dice: “Cortesia, gentilezza„. Ricevuta non si dice che per danaro: “ricevimento„.
E bellino il francesismo non ho bisogno di dirti per “non occorre, non importa ch’io ti dica„! E
quest’altro: sono a tua disposizione per “ai tuoi comandi„! E pochezza per “insufficienza„ è voce
non solo brutta, ma falsa. E in attesa è un fiore del gergaccio burocratico. E non è un bel modo una
stretta di mano come si direbbe una “stretta d’occhi o di spalle„. Ed ecco il razzo finale: Tienmi per
la vita! Perchè vuol che lo tengano per la vita? Ha paura di cascare?
*
Hai visto che po’ po’ di roba. E i modi bollati nella lettera di quel disgraziato zio non sono che una
parte minuscola del numero grandissimo che il professor Pataracchi e altri come lui bollerebbero.
Sfoglia i dizionari dei francesismi, i [253] vocabolari dei modi errati, i lessici della corrotta
italianità, e altri simili: ci troverai riprovate, per ragioni diverse, un’infinità (ma no, anche infinità è
un francesismo), dirò: innumerevoli parole e locuzioni, che si senton dire continuamente da persone
colte d’ogni parte d’Italia, (non esclusa la Toscana), e che si trovano a ogni tratto anche in libri di
scrittori, i quali hanno tutt’altro che reputazione di barbari. Tu m’interrompi per dirmi: Ebbene?
Tante grazie. È una bella notizia per incoraggiarmi a studiare l’italiano. C’è da darsi al diavolo.
Posso dire come Scrupolino, che val meglio studiare il cinese. Ma no; non per iscoraggiarti dico
quello che dico; ma per preservarti da ogni scoraggiamento che ti potesse cogliere andando innanzi
nello studio. Voglio dire che se darai retta a tutto quello che dicono i vagliatori e distillatori e
lavandai della lingua, che non hanno altro da fare,
e’ ti faranno il capo, ti faranno,
grosso come un cocomero di Prato;
che se, fin da principio, ti vorrai proporre di parlare e di scrivere un italiano assolutamente
immacolato, nel modo che lo vorrebbero i Pataracchi, dovrai darti tal cura e durar tanta fatica, che a
questo solo si ridurranno i tuoi studi, che starai fermo invece di procedere, e non farai che difenderti
in luogo di conquistare. t’incoraggio a barbareggiare con questo, che Dio mi liberi; poichè
moltissimi dei modi d’uso corrente, che i puristi condannano, sono di fatto erronei o barbari o brutti,
e devi imparare a conoscerli per non usarli, e per conoscerli è bene che tu legga [254] i libri citati,
dove sono raccolti. Ma questo lavoro di ripulimento della lingua tu devi farlo a poco a poco,
tranquillamente, come un esercizio igienico; non con la furia di mondarti d’ogni impurità tutt’a un
tratto, come molti fanno, che è un mettersi a un’impresa disperata. E devi considerare che molti di
quei modi sono inevitabili, che che se ne dica, e che dalla lingua italiana non s’estirperanno più, per
quanto si faccia; e che sull’erroneità di molti altri non concordano neppure i linguisti più severi; e
che questi stessi linguisti severissimi, quando non scrivono o non parlano di lingua, si lasciano
scappare dalla bocca o dalla penna una buona parte delle parole e delle locuzioni a cui nei loro
codici dànno lo sfratto.
Va’ dunque franco. Non ti costerà gran fatica lo scansare prima di tutto i francesismi, che si
riconoscono alla brutta faccia. Tu non hai bisogno di ricorrere ai dizionari per sapere che sono
francesismi sformati circostanziare, debuttare, decampare, defezionare, dettagliare, dilazionare,
formalizzare, negligentare, rivoluzionare, terrorizzare, e altri errori simili, che suonano nella lingua
italiana come le stecche false nel canto. E non ti lascerai scappare dalla penna declinare il
proprio nome„, demolire una reputazione„, “fare delle amabilità„, “colmare di attenzioni
„; e non dirai che in una casa c’è tutto il confortabile, per dire che c’è ogni comodità e ogni agio; nè
che sei andato a Genova o a Milano in una data epoca; che un dato scrittore la importa per
bellezza di stile sopra un altro; tanti altri modi dello stesso genere, nei quali è evidente il [255]
conio straniero falsificato, e che pure si dànno giornalmente e si accettano come moneta di zecca
italiana. Bada per ora che non cadano nella tua lingua le grosse immondizie, e spazza via quelle che
ci sono. Poi, avvezzandoti a far pulizia nella casa, diventerai a poco a poco in quel lavoro sempre
più accurato e meticoloso, fino a volerla tersa e lucente come uno specchio. Ora devi provveder
soprattutto ad ammobiliarla, a mettervi tutto quello che è necessario e utile, e a darle un aspetto
generale decoroso, senza star dietro a tutte le minuzie e cercar la perfezione in ogni nonnulla.
Che cos’è questo vocìo? Viene innanzi una folla. Mi par di riconoscervi qualcuno. Senti che gridano
essi stessi chi sono, l’un dopo l’altro.
Abbonamento Abitudine Accattonaggio Aggiotaggio Affarismo Affarista Ballottaggio
Canotto Canottiere Carriera (per professione) Colpo di stato Comitato Crisi ministeriale
Decorazione (per insegna cavalieresca) Dimostrazione popolare Esplosione Esposizione
Evoluzione storica Favoritismo Giornalismo Genio (per uomo di genio) L’insieme (per “il
tutto„) Influenza (per influsso) Interpellanza Iniziativa Manovra Marcia Mozione
Panico (per timor panico) Pensione (per retta o dozzina) Personale d’un’amministrazione
Pompa (da incendi) ProclamaProiettile Progetto – Protezionismo ReazioneSolidarietà
Uomo di spirito Specialista Spionaggio Successo Insuccesso Interesse, interessante,
interessare Naturalizzare Materializzare Sorvegliare Speculare Subire Sensibile [256]
Suscettibile Indispensabile Normale Anormale Obbligatorio Refrattario Seducente I
prodotti dell’industria – Le produzioni teatrali – I torbidi di Vattelapesca – Abbasso i tiranni!...
Ci vorrebbe altro a sentirli tutti. Ma ora gridano tutti insieme. Sentiamoli.
“Noi siamo francesismi, barbarismi, sconce parole, tutto quello che volete. Ma arrestate il nostro
corso, se vi riesce, signori Pataracchi e compagnia. Abbiamo preso l’aire e non c’è più freno per
tenerci, disse un dei pochi di voi, che hanno vista lunga e senso di discrezione. Avete avuto un bel
gridare e scaraventarci addosso tòrsoli e sassi e tenderci funi a traverso la strada: noi siamo andati
oltre, e ci siamo sparsi da per tutto; cacciati dalle porte, siamo rientrati per le finestre; dalle bocche
dei mal parlanti siamo passati a quelle di chi parla meglio; abbiamo invaso i giornali, i trattati, le
leggi, le cattedre, il Parlamento, i vocabolari, le Accademie; e ci siamo e ci resteremo.
Abbasso i Pataracchi!„
[257]
LE PAROLE NUOVE.
(Pareri d’un senatore, d’un filologo, d’una signora, d’un ingegnere industriale e d’un bello spirito).
*
Per parole nuove intendo principalmente quelle che noi prendiamo a prestito da lingue straniere per
designare nuove cose (come istituzioni, invenzioni, usanze), per le quali non abbiamo nella nostra
lingua parole proprie, perchè son cose che non ebbero origine, ma furono introdotte da paesi
stranieri nel nostro. Come di altre parole e locuzioni si domanda: È errore? Non è errore? di
queste si suol domandare: – Si può o non si può dire? O che parola italiana vi si potrebbe sostituire?
A questo riguardo, invece di stenderti un lungo elenco di vocaboli, e di ripeterti (chè altro non
potrei fare) le discussioni che si fecero e si fanno sulla convenienza d’accettarne alcuni e di
rifiutarne altri, e sui vocaboli italiani che potrebbero far le veci dei rifiutati, credo più opportuno il
riferirti certi [258] pareri che mi furon dati intorno all’argomento da persone di dottrina e di buon
senso, alcuni molti anni fa, altri di recente; dai quali tu potrai dedurre una norma generale da
seguire, parlando e scrivendo.
UN SENATORE.
– Come ho da fare, signor Senatore? domandai a un dotto toscano, scrittore elegantissimo (ahimè!
son più di trent’anni, e il valentuomo è morto da un pezzo). Come si può conciliare la necessità
d’usar le parole nuove col dovere di non offendere la purità della lingua?
Rivedo il buon sorriso arguto con cui mi rispose: La purità della lingua? Ma nessuna lingua è
pura, e non deve, può essere. Non potrebbe esser pura che la lingua d’un popolo, il quale non
avesse commercio di cose d’idee con alcun altro popolo, non solo, ma che, non mutando in
nulla mai le idee le cose proprie, ossia, non pensando e non progredendo, non avesse mai
bisogno di variare e d’arricchire il proprio linguaggio; che sarebbe perciò un linguaggio morto, e
morto il popolo stesso. Nessuna lingua è ricca abbastanza da poter designare in termini che già
possegga tutti gli oggetti e i concetti nuovi che porta con sè il progresso universale di ogni forma del
lavoro umano: deve quindi ogni lingua accettare e produrre continuamente nuovi termini. La
maggior parte di questi, a chi vorrebbe la lingua immobile, paiono voci impure, che la deturpino e la
snaturino. Ma le cause [259] dell’alterazione della lingua essendo inevitabili e necessarie, è così
illogico e impossibile il respingere le nuove parole per amor della purità linguistica, come sarebbe il
respingere le cose e le idee per conservare immutato il modo di vivere e di pensare della propria
nazione. Sono i barbarismi superflui e le parole nostre storpiate o usate in senso improprio e i
traslati e i costrutti ripugnanti all’indole della lingua nazionale, quelli che la offendono e la
imbastardiscono: non le parole straniere di cui non si può fare di meno. Si può dire che
macchiassero la purità della lingua i primi italiani che nominavano coi termini ora in uso tutte le
nuove armi inventate dopo la scoperta della polvere? E quelli che chiamavano coi loro nomi
d’origine tutti i concetti e le istituzioni che ci vennero dalla rivoluzione francese, e che fra noi hanno
conservato quei nomi, non più discussi ora, e quasi neppur più riconosciuti come stranieri? E quelli
che usavano per i primi le parole telegrafo, piroscafo, dagherrotipo, fotografia, e cento altre simili?
Non si dia dunque pensiero per questo riguardo, perchè non offenderà la purità della lingua usando
le parole nuove, e necessarie, più che non ne offenda l’armonia pronunziando o scrivendo i nomi di
personaggi storici o d’amici suoi francesi, inglesi o tedeschi, che le occorra di rammentare nei suoi
discorsi o nei suoi scritti.
UN FILOLOGO.
Questi esordì bruscamente: Anche lei! Ma non c’è che il nostro paese dove la letteratura abbia
tanto tempo da perdere. Che bisogno ha [260] di pareri in una quistione di semplicissimo buon
senso? Sulle parole straniere assolutamente necessarie per designar nuove cose, non c’è da
discutere: bisogna usarle; e non è nemmeno il caso di dire: bisogna: s’usano, le usan tutti, e la
quistione è risolta. Il dubbio può cadere su tutte quelle voci e locuzioni nuove che servono ad
esprimere nuovi aspetti di cose, nuove relazioni fra di esse, modificazioni nuove d’idee e di
sentimenti, nuovi ordini di idee, principalmente in politica, in arte, in filosofia; e intendo la filosofia
che è materia delle conversazioni comuni. In questo campo, come ha detto un maestro, ci sono in
ogni lingua, in qualunque momento considerata, parole e frasi straniere messe in prova, delle quali
alcune rimarranno, altre saranno sostituite da altre, che l’uso formerà e farà prevalere alle prime;
parole nazionali di cui si va mutando il significato; processi di differenziazione, per dirla coi
matematici, che si vanno compiendo, ma che non sono interamente compiuti. Ora, rispetto all’uso di
questo materiale mobile della lingua, ciascuna nazione fa come una moltitudine in cammino; nella
quale c’è chi si spinge alla testa della colonna, chi rimane alla coda e chi si tiene nel mezzo. Lei,
come scrittore, non ha da andare nè tra i primi tra gli ultimi; ma deve camminare fra gli uni e gli
altri. Il criterio della scelta lo ha da ricavare dall’uso. Delle parole nuove usi quelle che s’usano
generalmente e che generalmente sono capite. Fra due parole che s’usino, una straniera e una
italiana, con non determinata prevalenza di questa o di quella, ma tutt’e due egualmente intese dai
più, si tenga [261] all’italiana. E in tutti i casi in cui la parola italiana, che alcuni vorrebbero
sostituire all’esotica, non è capìta dai più, non c’è da tentennare: poichè si parla e si scrive per farsi
capire dai più, usi l’esotica, e non si dia altro pensiero. Fuor di questa norma, che anche un ragazzo
troverebbe da sè, non si fanno che vanissime ciance.
UNA SIGNORA.
Era una signora toscana, coltissima, che avrebbe potuto presedere un’Accademia, e non aveva
ombra di pedanteria. Io non le posso dire rispose che quello che lei certamente pensa. Si
ricorda i versi del Giusti a proposito della parola diligenza?
Il cambio delle voci
Fra gente e gente, come l’ombra al corpo,
Tien dietro al cambio delle cose umane;
Nè straniero vocabolo corrompe
L’intrinseca virtù d’una favella
Quando lo stile riman paesano.
Se lei parla e scrive in buon italiano, una lingua tutta italiana di sostanza, d’impasto e di colore,
nessuno dirà che parla o che scrive male per il fatto che a quando a quando usi una parola non
italiana per dire una cosa che nella nostra lingua non ha ancora la parola che la esprima. So bene che
ad alcune delle parole straniere già divulgate c’è chi propone di sostituire altre parole nostre, e che,
se queste calzano, e se hanno da prevalere, ciò che è desiderabile, bisogna pure che qualcuno le
cominci a usare. Ma in questo io m’attengo a una regola che mi è suggerita da un sentimento più
forte di quello [262] della lingua. Delle parole italiane che si vorrebbero sostituire alle straniere ce
n’è che si posson dire senza che ne scapiti la naturalezza del discorso, e quelle le dico. Ce n’è altre
che non si possono dire senza far maravigliare e sorridere chi ascolta e senza passar per saccenti che
si voglia in materia di lingua dettar la legge, e queste non le dico e non le scrivo, perchè preferisco
usare un barbarismo al far ridere e all’esser tacciata di saputella. Così non voglio e non posso dire
teletta invece di toeletta, posa invece di consolle, rinfresco invece di buffé, e con buona pace
del nostro buon B., dirò cupè, finchè lui od altri non abbiano trovato in luogo di quella parola
qualcosa di più spiccio di scompartimento anteriore della diligenza, che quando è detto per non dire
la parola barbara, è ridicolo. Questa è la mia regola riguardo alle parole nuove: parlare e scrivere
italiano quanto più puramente si può, senza far ridere; perchè nell’uso delle parole ciascuno ha un
suo sentimento proprio della convenienza, al quale nessun’autorità linguistica può comandare. Ma
già dev’esser pure l’opinione sua, com’è di quasi tutti, e lei non m’ha interrogata che perchè gliela
confermassi; e se le avessi espresso un’opinione contraria, non ne avrebbe tenuto nessun conto. Stia
dunque col Giusti. L’importante è che lo stile rimanga paesano.
UN INGEGNERE INDUSTRIALE.
Sono ameni i puristi sine labe che non vogliono le parole nuove. È perchè non vivono nel nuovo
mondo. Se ci vivessero, se sapessero il [263] numero enorme di nuove parole che hanno portato con
e rese necessarie i progressi delle industrie minerarie e metallurgiche, il telegrafo, il telefono,
l’elettricità, le macchine tessili, la stampa, e cento altre cose; se toccassero con mano che non passa
quasi giorno senza che si scopra o s’inventi qualche nuovo strumento, o procedimento, o particolare
di congegno o di tecnica, che non può aver altro nome fuor di quello che gli chi lo inventa, si
sdarebbero dall’impresa per disperati. Per ogni dieci o cento parole che occorrono, e che son prese
da una lingua straniera o coniate alla meglio fra noi dalla gente che n’ha bisogno, essi ne
propongono una, che dicono italiana, o meno barbara. Ma a che pro? Chi la mette in corso? E quale
scrittore ha mai fabbricato nuove parole, che sian diventate d’uso comune? D’uno dei più fecondi e
popolari scrittori francesi del settecento, si dice che n’abbia coniate di suo e mandate in giro due
sole; delle quali una è morta. E, infatti, l’azione d’uno scrittore, per quanto autorevole, non è che
pochissima cosa, per non dire nulla affatto, rispetto all’azione collettiva del popolo, che di certe
parole nuove ha bisogno subito, e le piglia dove sono e come le trova, o se le fabbrica da sè, nel
modo che gli comoda e gli garba. Conosco una sola nuova parola italiana che in quest’ultimi anni
sia stata coniata da un pubblicista, e abbia avuto una certa fortuna: ed è tramvia, che entrò nei
regolamenti e nelle leggi. Ma moltissimi che scrivono tramvia, dicono parlando tranvai, e tranvai o
tram si dice dalla grande maggioranza in Toscana e altrove; e anche di quelli che usano [264] la
parola ufficiale, chi la fa femminile e chi maschile, e chi pronunzia tramvia e chi tranvia, poichè il
suono amv non è della lingua italiana; e non è ancor certo che a tramvia debba restar la vittoria.
Dunque? Io lascerei gridare i linguisti, e farei il comodo mio, come tutti fanno, senza il loro
permesso, e come s’è sempre fatto da per tutto, da che mondo è mondo e le lingue vanno da sè,
come i fiumi.
UN BELLO SPIRITO.
Quello che mi fa dispetto, in quest’affare delle parole nuove, di cui mi son molto occupato per pura
curiosità, è l’ipocrisia dei pedanti: è che molti di loro condannano certe parole senza dire quali altre
vi si hanno da sostituire, e qualche volta riconoscendo che non ce n’è altre; o ne propongono tre o
quattro, che equivale a non proporne alcuna, perchè è un sostituire a una questione un’altra
quistione; e che, in ogni caso, combattendo una parola in uso e proponendone un’altra, sono certi
certissimi di fare un buco nell’acqua; ciò che vuol dire che seccano la gente sapendo di non ottenere
altro effetto che quello di seccare. Mi fa anche più dispetto il vedere che molte delle parole nuove
ch’essi non registrano o bollano di barbarismi nei dizionari e nelle dissertazioni o dispute
filologiche, o cancellano con tanto di frego nei componimenti dei loro discepoli, le usano poi essi
stessi a tutto pasto, parlando, perchè non possono farne di meno, perchè non si farebbero capire o si
farebbero canzonare usando quelle che ci vogliono sostituire. Per esempio, io giocherei tutti [265] e
due gli occhi che di tutti quanti i proscrittori del barbarismo consommé o consumé non ce n’è uno
che abbia mai detto, non ci sarà mai uno che dirà in nessun luogo, in nessun caso, a nessun
cameriere o cuoco o albergatore o serva d’Italia: Mi dia un consumato o un brodo ristretto. E
l’esempio val per cento. O che razza di gioco a partita doppia è codesto? Se quelle parole le dicono,
perchè non le scrivono? Se non osano di scriverle, perchè le dicono? Sono bene costretti a scriverne
e a lasciarne scrivere tante altre che ai loro padri fecero orrore. Ma la lingua s’altera! Ma sono secoli
che si va alterando; ma tutto s’altera col tempo: i costumi, le idee, la vita, il mondo: non s’ha da
alterare la lingua? Ma la vanno alterando essi medesimi, che usano molte parole non usate dalla
generazione antecedente, che ne usano da vecchi molte altre, che non usavano da giovani. Dicevano
essi da ragazzi le parole: patinaggio, scatingring, fonografo, cinematografo, sport, automobile,
motocicletta? E bisogna ben che le dicano ora per forza. Io vorrei che con la macchina maravigliosa
del romanziere Wells ci potessimo trasportare tutti quanti nel venticinquesimo secolo, per veder che
faccia farebbero a leggere il vocabolario della Crusca del 2400! E allora, a che serve questo dire e
non scrivere, prescriver con la penna e accettar con la bocca, e pensar d’arrestare una moltitudine
che corre agguantando Tizio e Caio per il colletto?
[266]
*
Ma tu mi dirai che non t’ho riferito che giudizi anonimi. Ebbene, consultiamo insieme uno scrittore
grande e purissimo. Ecco quello che ti direbbe Giacomo Leopardi, condensando in un breve
discorso quanto è scritto sparsamente nei sette volumi dei Pensieri postumi.
Conservare la purità della lingua è un sogno, un’immaginazione, un’ipotesi astratta, un’idea non
mai riducibile ad atto, se non solamente nel caso d’una nazione che, sia riguardo alla letteratura e
alla dottrina, sia riguardo alla vita, non abbia ricevuto e non riceva nulla da nessuna nazione
straniera. Le cose vivendo sempre, e modificandosi sempre continuamente e moltiplicandosi le
conosciute, e non potendo una lingua esser mai perfettamente fornita del necessario fin ch’ella non
esprime perfettamente e convenientemente tutte le cose e tutte le possibili modificazioni delle cose
di questo mondo, ne segue la necessità ch’ella s’accresca sempre di nuovi modi; i quali è ben
naturale che a noi italiani vengano in gran parte di fuori, perchè la vita ci viene in gran parte
d’altronde. Molte di queste parole e modi nuovi sono comuni a tutte le lingue colte d’Europa, e però
sono europeismi, non barbarismi, perchè non è barbaro quello che è proprio di tutto il mondo civile
e proprio per ragione appunto della civiltà, com’è l’uso di queste voci che deriva dalla stessa civiltà
e dalla stessa scienza d’Europa. E d’altra parte l’esempio dei nostri classici (quasi tutti) che hanno
arricchito la [267] nostra lingua con derivar vocaboli e modi dal latino, dal greco, dallo spagnuolo o
donde che sia, e li hanno resi italiani di fatto, ci ammonisce che la lingua italiana è capacissima
d’appropriarsi voci e maniere d’altre lingue. E non solo può, ma lo deve fare, perchè quanto più la
nostra lingua è diligente nel non voler perdere (cosa ottima), tanto più per necessaria conseguenza
dev’essere industriosa nel guadagnare, per non somigliarsi al pazzo avaro che per amor del danaro
non mette a frutto il danaro, ma si contenta di non perderlo e di guardarlo senza pericoli. Voler
respingere le parole nuove è voler mettere l’Italia fuori del mondo.
Tutte sentenze d’oro, come dice il Giusti. Ma poichè potresti esser tentato d’abusarne, seguendo
l’esempio dei molti barbari che dalle lingue straniere pigliano a prestito una parola ogni dieci, ti
presento come antidoto un mio amico di gioventù; la cui immagine mi salta sempre davanti quando
nel parlare italiano sto per dire una parola o una frase francese, non perchè manchi alla mia lingua il
modo corrispondente, ma per iscansare la fatica di cercarlo.
Ho l’onore di presentarti il visconte La Nuance.
[268]
IL VISCONTE LA NUANCE.
La famiglia dei visconti La Nuance è antica e numerosissima.
Il giovine italiano, al quale avevamo posto quel soprannome, era nobile veramente (del che non si
boriava punto); ma povero come noi, figliuolo d’un esattore, e impiegato egli stesso, non ricordo in
che amministrazione dello Stato. Essendo cresciuto in Savoia, dove suo padre era stato parecchi
anni, aveva imparato il francese prima e meglio dell’italiano, e quella era rimasta la sua lingua
preferita, e diventata il suo vanto, la sua gloria, il vero titolo di nobiltà, del quale egli andava
superbo; affermando, naturalmente, ch’era la più bella d’ogni lingua antica e moderna, superiore
senza confronto e per ogni rispetto alla nostra. Quindi le continue discussioni e battaglie che
seguivano fra lui e gli amici, e le infinite canzonature che gli piovevano addosso; delle quali non si
risentiva mai, poichè a un’ostinazione invincibile in quella sua idea, in quella soltanto, egli
accoppiava una bonarietà inalterabile, che gli faceva tollerare anche gli scherzi più mordenti.
[269]
Ci stizziva in particolar modo il suo continuo interpolare nel discorso italiano vocaboli e frasi
francesi, come se la nostra fosse una mezza lingua, che non bastasse ad esprimere perfettamente
nessun pensiero; e non men di questo la ostentazione ch’egli faceva di quell’italiano infranciosato,
quasi compiacendosi di non avere della lingua propria che un’infarinatura, quanto gli occorreva
appunto per i suoi ristretti bisogni di impiegato. E usava nella più parte dei casi il modo francese
anche sapendo il modo italiano, poichè in ogni parola o frase di quella lingua egli sentiva o diceva
di sentire una sfumatura di significato (una nuance, diceva sempre) che nella nostra lingua non si
poteva rendere. Era quasi sempre un’immaginazione sua; ma non c’era verso di sconficcargliela dal
capo. Citava un modo francese, e diceva in aria di sfida: – Sentiamo, come direste in italiano?Noi
gli citavamo un modo nostro che, per consenso di tutti, significava per l’appunto lo stesso. Ed egli
no, s’incapava a negare. Ci s’avvicina rispondeva –; ma è un’altra nuance; no, ce n’est pas ça
tout à fait. No, far riscontro non voleva dire precisamente faire pendant, averne un ramo non
significava tal quale être toqué, dire di uno roba da chiodi o ira di Dio non era propriamente lo
stesso che pis que pendre. Un’altra nuance, un’altra nuance, qualche cosa di sopraffino, l’idea
d’un’idea, un nonnulla, ch’egli non sapeva dire, ma che sentiva. E quando poi si faceva la prova
inversa, aveva la faccia fresca di tradurre disinvolto in dégagé, traccheggiarsi in se dandiner e
vattelapesca in que sais-je! Noi gli coprivamo la voce con una [270] urlata, ed egli rispondeva
urlando: Traducete in italiano il Marivaux, se vi riesce! Traducete il Labiche! E tu traduci il
Berni, traduci il Giusti, traduci il Parini! – Fiato sprecato.
Aveva anche il coraggio di sostenere che il francese è più musicale dell’italiano. Troppe vocali,
troppe vocali diceva. Si parla sempre con la bocca spalancata. Per esempio, il famoso verso di
Dante, nel racconto di Francesca.... e squarciando le a con una bocca da entrarci una rapa,
declamava: – Aaamor che aaa nullo aaamato aaamar perdonaaa! Ma c’è da slogarsi le mascelle!
E noi gli citavamo bellissimi versi francesi che avevano non meno a che il verso dantesco; ma non
serviva, perchè l’a francese, per lui, era un’altra a, di suono più discreto dell’italiana. Nei versi
francesi sentiva armonie misteriose che al nostro grosso orecchio sfuggivano. Per esempio, quel
celebre verso del La Fontaine, che Victor Hugo giudicò ammirabile:
Six forts chevaux tiraient un coche;
che maravigliosa, inimitabile armonia imitativa! Di versi italiani, maravigliosi per armonia
imitativa, gliene citavamo a decine. Ma non così fini ribatteva non così fini! Andava fino a
dire che era ben più dolce l’au revoir che l’a rivederci, benchè nel saluto francese ci siano come nel
nostro due erre; le quali, per giunta, egli arrotava in tal modo, che, a sentirlo, pareva d’esser salutati
da una sega arrugginita. Au rrrevoirrr! Ma non sentite che dolcezza? E allora gli davamo del
barbaro, dell’italiano rinnegato, del traditore della [271] patria; al che egli rispondeva
invariabilmente: Des bêtises! des bêtises! guardandoci con un sorriso compassionevole, come
gente di una razza primitiva, parlanti ancora una lingua rudimentale.
Di scrittori italiani parlava il meno possibile, e ci aveva le sue buone ragioni.
Quando gli chiedevamo un giudizio sopra un nostro grande scrittore antico o moderno, egli
riconosceva con parole vaghe i meriti che noi ammiravamo in lui; ma soggiungeva sempre che gli
pareva lourd, sans souplesse, sans finesse. La finezza era nel suo concetto la grande superiorità
della lingua francese sulla nostra, e affermava che soltanto in francese si poteva parlare con una
signora con delicatezza aristocratica, senza mai stonare, senza urtar mai le convenienze e il buon
gusto. Gli domandavamo se credeva davvero che il marchese Gino Capponi e il barone Ricasoli,
allora viventi, non sapessero sostenere una conversazione con una patrizia fiorentina senz’urtare il
buon gusto e le convenienze. Egli aveva l’audacia di risponderci che non li aveva mai sentiti. Lo
investivamo qualche volta fieramente. Come puoi giudicare della finezza della lingua italiana tu,
ostrogoto lacerator d’orecchi, che dici tutto il lungo del cammino, una ragazza non si può più
gentile, e giuocare un ruolo, e venir di desinare? Perchè erano di questo conio i francesismi che
egli schiantava. E allora ribatteva trionfalmente; Ah! Ah! Voi v’importate! È segno che non avete
delle buone ragioni, che vi sentite battuti, battuti a piatta cucitura, ridotti a.... Come direste in
italiano aux abois? O vile Gallo, agli estremi! [272] rispondevamo noi. E lui, col suo solito
sorriso di commiserazione: È un’altra nuance; non c’è il senso comico; è un’altra nuance
tutt’affatto.
Non disperavamo di persuaderlo, non di meno. Alle volte lo pigliavamo con le buone, ragionando;
gli parlavamo della grande ricchezza della lingua italiana, di cui una gran parte non è nei dizionari;
della sua mirabile facoltà di adattarsi a tutti i toni, agli stili più diversi, e alla traduzione d’ogni
lingua, serbando il colore dell’originale, senza snaturare l’indole propria; della grande quantità e
varietà di “tipi e di conii ch’ella possiede per poter formare voci e modi d’uno stesso genere di
significazione„, delle innumerevoli desinenze frequentative, diminutive e disprezzative dei suoi
verbi, e dell’elasticità e capacità e mutabilità stupenda del suo periodo; e cercavamo di dimostrargli
che, nel più dei casi, quando una parola francese non si può tradurre in una italiana dello stesso
valore, questo deriva dal fatto che la francese è usata in vari significati, per ciascuno dei quali noi
abbiamo una parola propria; e via discorrendo. Ma era come dire al muro. Egli rispondeva che noi
facevamo della letteratura, ch’egli intendeva parlare della lingua di conversazione, e ribatteva il suo
chiodo, che soltanto in francese si poteva conversare con grazia e con spirito, e che al confronto del
francese l’italiano era lourd, poco pieghevole, privo di nuances, una lingua d’accademici e di
professori. E noi in coro, come sempre: Bugiardo rinnegato! Gallaccio odioso! Va’ fuori
d’Italia! Che il diavolo t’importi! Smettila, o t’assommiamo [273] a calotte! E lui, col suo
eterno sorriso: – È inutile. Non mi farete demordere dalla mia opinione.
Ma quello che agli amici non era mai riuscito d’ottenere parve che l’ottenesse il Governo,
trasferendolo improvvisamente da Torino, con suo grande rammarico, in non so quale città del
Veneto; poichè, forse per lasciarci una buona memoria di sè, per tutto il tempo che rimase ancora fra
noi, non solo non mise più sul tappeto e non accettò più nessuna discussione sulle due lingue, ma
anche parlò meno francescamente del solito, smettendo, se non altro, d’ostentare certi francesismi
per provocazione. Credemmo d’aver operato noi il miracolo, e ce ne rallegrammo. Il giorno della
partenza lo accompagnammo tutti alla stazione. Era malinconico. Quando ci abbracciò, prima di
salire nel vagone, si commosse. Ricordatevi di me ci disse –, scrivetemi. E dimenticate i nostri
battibecchi per la lingua. Ci strinse ancora la mano dallo sportello, dicendoci con le lacrime agli
occhi: Addio! Addio! A rivederci! E quel suo salutarci, contro il suo solito, in italiano, ci parve
il segno più certo del ravvedimento, e noi pure salutammo con affetto l’amico, ridiventato italiano.
Oppresso dalla commozione, si ritirò in fondo al vagone prima del fischio della partenza.
Ma appena il treno si mosse, si rilanciò al finestrino, e con voce più commossa di prima, agitando il
fazzoletto, gridò con diciotto erre: – Au revoir! Au revoir! Au revoir!
Era la frecciata del Parto.
Trrraître! – gli rispose uno degli amici.
Ma forse egli non ci aveva tradito di proposito: [274] soltanto, nell’impeto della commozione, gli
era uscito irresistibilmente dal cuore il saluto che all’orecchio suo sonava più dolce.
E così, nonostante l’ultimo ravvedimento, egli rimase per sempre nella nostra memoria il visconte
La Nuance, tipo perfetto e amenissimo dell’italiano con la cresta e coi bargigli.
[275]
PER LA DIFESA DELLA LINGUA.
Fin qui, giovinetto mio, mi sono ingegnato di darti consigli e suggerimenti utili ad acquistare il
possesso della lingua. Ma, in materia di lingua, non basta acquistare, bisogna difendersi. Tu dovrai
badare di continuo a preservarti dal contagio della lingua corrotta che si parla, si scrive e si stampa,
non soltanto nella tua, ma in ogni regione del paese; a respingere da te le infinite voci e locuzioni
barbare, errate, strampalate, torte ad altro significato dal vero, che pullulano nel comune linguaggio
parlato e scritto, e che appunto per la frequenza con cui sono generalmente ripetute, s’attaccano per
modo alla lingua e alla penna di tutti, da riuscir quasi impossibile, anche a chi ci metta una cura
attentissima, il preservarsene affatto. Di questi modi da fuggire non ti faccio un elenco, perchè,
anche a non citar che mezzi di quelli che conosco, ne dovrei empire decine di pagine, e ti
seccheresti a leggerli; ma troverai i più comuni nel dialogo seguente; il quale seguì davvero tempo
fa, con poche differenze nell’ordine e nella materia, fra quattro amici; e che, più o meno variato, si
ripete certamente spesso, in ogni parte d’Italia, fra persone colte, che hanno a cuore la purità e il
decoro della lingua nazionale.
[276]
A CHI LE DICE PEGGIO.
dialogo
fra uno scrittore, un avvocato, un professore di chimica, fisica e matematica, e un cronista di
giornale, che stanno desinando in una stanzetta di trattoria.
LO SCRITTORE (al Professore). – Dov’eravamo rimasti?
IL PROFESSORE. – Aspetta: lascia che m’orienti un poco.
SCRITT. – Orièntati. E una.
PROF. Ne sentirai dell’altre. Caro mio, noi non ci abbiamo nessuna colpa nel fatto che la lingua
diventi sempre più scientifica, o per dir meglio, scienziata. Non siamo noi che divulghiamo,
portandolo in tutti i campi del pensiero, il nostro linguaggio tecnico, del quale non possiamo far di
meno. È il gran pubblico, sono i giornali e la cattiva letteratura che ce lo pigliano....
SCRITT. – Già: è effetto del polarizzarsi di tutte le idee verso la scienza.
[277]
PROF. Hai detto bene. Ma è un fatto, te lo confesso, di cui il nostro amor proprio si compiace. Al
vedere che ogni interruzione o lacuna di qualunque cosa diventa una soluzione di continuità, ogni
scopo un obbiettivo, ogni caso un fenomeno....
SCRITT. – E ogni mescolanza un’amalgama.
PROF. A sentir parlare di forza centripeta e centrifuga dell’istinto, del dinamismo dei partiti
politici, di movimenti rivoluzionari sincroni e sinfoni, e di coefficienti della vittoria e d’esponenti
della debolezza del Ministero, e di Parlamenti saturi d’elettricità....
AVVOCATO. – E di atmosfera d’odio....
CRONISTA. – E di fenomeni di capillarità psicologici.... Questa l’ho letta io.
PROF. Forse in una tua cronaca. Ma io n’ho letta una assai meglio. Di queste consuetudini e
sentimenti si forma nella gioventù un precipitato di scetticismo. Sei battuto. Lasciami finire. A
sentire quante quistioni particolari sono una faccia del prisma d’una quistione generale; quanti
ordini d’idee sono stratificazioni o substrati d’altri ordini d’idee, e quanti uomini e cose, quantità
negative; ma più che altro al vedere quanti concetti non si sanno più esprimere senza ricorrere agli
strumenti e agli apparecchi dei nostri Gabinetti, come sarebbe il barometro del malcontento
popolare....
SCRITT. – Il termometro dell’opinione pubblica.
CRON. – Il diapason della moralità nazionale.
AVV. – E il propulsore degli entusiasmi cittadini?
PROF. Benissimo; e la valvola di sicurezza [278] delle passioni.... Al sentir tutto questo, dico, io
gonfio di giubilo e d’alterezza....
SCRITT. – Fino all’ennesima potenza.
PROF. – Lo volevo dire; perchè penso che, andando innanzi per questa strada, verrà tempo che quanti
vorranno imparar l’italiano dovranno venire a scuola da noi, a studiar fisica, chimica, matematica,
mineralogia, geologia....; i Vocabolari dell’uso saranno i nostri trattati.
SCRITT. E allora tutto si dovrà studiare, fuorchè la letteratura. E non solo le scienze esatte, ma
anche le scienze giuridiche. Per esempio: la circostanza attenuante, la cerziorazione, la
requisitoria, il verdetto, usciti dalle aule dei tribunali, sono oramai entrati da per tutto. E quante
cose si comminano, oltre le pene stabilite dalla legge! E si testimonia affetto, rispetto e riverenza. E
non sono più i soliti testimoni che depongono; sono anche i fatti. Una data circostanza depone in
favore d’una tal persona.... Io mi figuro la Circostanza che giura sul Vangelo di dir tutta la
verità....
AVV. – E una Ragione che cammina a suon di tamburo, col facile sulla spalla, te la figuri? È la solita
Ragione che milita in favore di qualcuno o di qualcosa. E poi che siamo nel campo militare, a me
piace infinitamente la base d’operazione. Un innamorato, per esempio, che va a stare in una villa
vicina a quella della sua amata, e ne fa la sua base d’operazione! L’ho letta in un romanzo. Mi
piace anche mossa strategica riferito a un atto qualunque di piccola furberia. E una parola che ha
una data portata, come un pezzo d’artiglieria....
SCRITT. Io preferisco il linguaggio [279] finanziario, che va prendendo sempre più voga. Ha certe
espressioni così nobili! Fare il bilancio, per esempio, delle buone qualità e dei difetti di un amico;
dire d’un uomo politico, venuto in auge, o scapitato d’autorità, che le sue azioni si sono alzate o
ribassate, o, accennando ai suoi meriti e ai suoi demeriti verso il paese, che ha al suo attivo certe
cose e al suo passivo certe altre.... Mi par di vederlo diviso in due colonne, come il registro d’un
negoziante.
AVV. – E dove lasciate i verbi, che sono i più bei fiori? Suicidarsi, terrorizzare, ostacolare,
impossibilitare, prevenzionare, massacrare, acutizzare.... Si va acutizzando il dissidio in seno alla
Commissione del Bilancio, signori!
SCRITT. – O signori, e suggestionare?
AVV. Bravo, hai detto il gran verbo, il verbo factotum, che si presta a tutti i servizi. Ora si è
suggestionati da una donna, dalla fame, da un libro, da un luogo, dalle circostanze, da tutto. Ho letto
in un giornale che un certo fanale di luce elettrica, davanti a un teatro, faceva una réclame
suggestionante.
PROF. Suggestionante, impressionante, emozionante, raccapricciante, son tutta roba del vostro
magazzino, signori giornalisti.
CRON. – Non mia.
SCRITT. Tu ce n’hai dell’altra. Chi scrisse l’altro giorno nel tuo giornale: L’uomo di Stato che è
stato intervistato –? Sei stato tu, sei stato? Io son restato.
AVV. Non facciamo quistioni personali. Per me, del resto, nel linguaggio delle cronache trovo
bellezze ammirabili. Per esempio: il borsaiolo o l’accoltellatore che, dopo fatto il colpo, [280]
s’ecclissa, come un astro, mi pare un traslato dantesco.
PROF. È uno dei tanti verbi a cui si fa fare un ufficio indegno della nobiltà della nascita, come
rivelare, trasfigurare....
SCRITT.Già: si dice che un certo puzzo rivela che il pesce è guasto, che una faccia tinta di carbone
è trasfigurata. E sono anche dei credenti nella Rivelazione e nella Trasfigurazione che lo dicono!
Questo non è un errore di lingua, è un sacrilegio. E così tutti creano, tutto si crea....
PROF. – Un altro verbo che fa cento mestieri, come organizzare, funzionare, sistemare. Si organizza
uno Stato, un ballo, una dimostrazione, una colazione alla romana. E tutto funziona o non funziona:
un arcivescovo, una serratura, un’amministrazione, una vite, una legge, un cavatappi, un governo, la
molla d’un gibus. E c’è chi parla di sistemarsi in un nuovo quartiere....
AVV. E perchè no? (accennando con un’occhiata il Cronista). S’è inteso dire poco fa: Io ho il
sistema di prendere il tè col latte la mattina, come se una colazione fosse una dottrina filosofica....
CRON. – Sta’ zitto, tu, che dicesti un giorno in tribunale che il tuo avversario deragliava.
AVV. – Deragliai. Ma deragli tu pure dalla buona lingua quando scrivi che s’è verificato un
incendio. Che bisogno c’è di verificare che una casa è in fiamme? E quando dici o dite che il
Ministero ha conglobato in uno due progetti di legge! Oh giusto! Scrive oggi il tuo direttore che “la
conversione del Ministero a sinistra saccentua„. Doveva anche dirci su quale [281] atto o
dichiarazione del Governo cade l’accento, e se è acuto o grave. Ma già ora s’accentua anche una
tempesta in mare e la peste nelle Indie.
SCRITT. – Ma questa diventa una discussione a base di personalità. Vi richiamo all’ordine.
PROF. – Anche l’a base è diventato moneta corrente. Un discorso a base d’insinuazioni, una
letteratura a base di pornografia. Ho letto in un giornale: una rissa fra due erbivendole a base di
zoccolate.
SCRITT. È un modo di moda fra gli eleganti, come darsi il lusso di fare una cosa, posare a liberale
o ad altro, aver esito negativo, fare una cosa su vasta scala, essere all’ordine del giorno. Gabriele
d’Annunzio, per esempio, è all’ordine del giorno...
CRON. – Come un progetto di legge....
SCRITT. – Associarsi al dolore....
CRON. – Come a un giornale....
SCRITT. – L’opinione pubblica che si commove, si sdegna, inorridisce.
AVV. – Come un’attrice.
SCRITT. – Un ministro, uno scienziato che è un valore.
PROF. – Come una cedola del debito pubblico.
SCRITT. – Il morale che s’abbatte e si rialza.
AVV. e CRON. (a una voce). – Come un misirizzi.
SCRITT. L’avete detto contemporaneamente. Notate anche quest’avverbio, che abbraccia la durata
della vita d’un uomo, e s’usa per dire che due persone si voltano indietro nello stesso punto. Ma
dimenticavo le due più ammirabili. S’annunzia che s’è fatta non so dove una strage [282] di poveri
israeliti: la notizia merita conferma. Assassini! E una regione che è teatro d’un’inondazione! Bella
rappresentazione!
CRON. – Qualche volta la notizia è meno esatta.
PROF. – Già: un bel modo delicato di dire che è una pastocchia. Così, per consolare i poveri
disperati, si chiamano cortesemente i meno abbienti.
AVV. Ma queste son miserie! Volete ch’io vi dica la più preziosa di tutte? La lessi l’altro giorno.
Si riferisce a un fatto doloroso. Ma si riesce a far ridere di tutto. Un suicidio al sublimato corrosivo.
PROF. – Impossibile. È di tuo conio.
AVV. – Ti porterò il giornale.
PROF. – Nati di cani! Come si dice il risotto al pomodoro!
SCRITT. E se passassimo ai sostantivi? Riguardo a questi, quello che c’è di più curioso per me è
l’uso che prevale di adoperarli a sproposito, e che deriva da una tendenza generale, morbosa, a
esagerare ogni cosa. Nove volte su dieci, anche in discorsi e in proclami ufficiali, si dice orgoglio,
che è un vizio, per dire alterezza, che è un sentimento nobile, e orgoglioso invece d’altero. Le
parole alterezza e altero pare che vadano cadendo in disuso. Così non più dignità, ma fierezza. E si
dice l’incarico di scopare come l’incarico di rispondere al discorso della Corona; aver la missione
di far l’operazione del catasto in una provincia, come la missione di convertire un popolo al
Cristianesimo; l’apostolato della cultura delle barbabietole; il còmpito, che era un lavoro d’ago o
di maglia, o un lavoro assegnato agli scolaretti....
[283]
AVV. – Il còmpito d’unificare la Germania.... fu il lavoro di scuola del Bismark.
SCRITT. – Far l’apoteosi del formaggio di Gorgonzola....
PROF. È il parossismo dell’iperbole. Dove lasci gl’ismi? Fra cinquant’anni ci saranno nella lingua
tanti ismi che si farà rima ogni dieci parole. Andiamo, io lancio il primo: il nervosismo delle nuove
generazioni.....
AVV. – Il rigorismo del Fisco...
CRON. – Il confusionismo dei partiti....
SCRITT. Il parallelismo delle situazioni. Ma parossismo è l’ismo prediletto. Si serve in tutte le
salse. C’è persino chi ama i maccheroni fino al parossismo. E anche coi sostantivi in à non si
scherza. Se ne fa un tale scialacquo, che a sentir certi discorsi, par che l’oratore picchi delle
martellate in un muro....
AVV. – Garibaldi è una grande individualità.
SCRITT. – Il Tolstoi una celebrità, una sommità....
CRON. – Il dottor Carle una specialità.
PROF. – E ha molte notabilità l’Università della nostra città.
AVV. – Che è posta in una bella località.
PROF. In una delle principali arterie di Torino, poichè ora si chiamano arterie le strade grandi, e
non so perchè non si chiamino vene le strade minori....
SCRITT. Oh bravo! Poichè hai portato la nota anatomica, ricordiamo il linguaggio medico. Ce n’è
una che vale per cento: l’idiosincrasia. Le declamazioni d’una liberale e civile idiosincrasia. C’è
chi ne va matto. Ma anche il portar la nota è una perla. Ora si porta la nota amena in un [284]
banchetto, la nota patriottica in un’assemblea, la nota trista in una conversazione. Di uno che
ammazzò il rivale in un ballo disse ieri l’altro un giornale: che vi portò la nota tragica. La grazia di
quella nota! E a proposito: tragedia, un’altra parola che ha fortuna. Non ci son più delitti volgari:
son tutte tragedie e drammi. (Al Cronista): Ma questa è una vostra industria letteraria per far
comprare il giornale.
CRON. – Manco a dirlo.
SCRITT. L’hai detta finalmente! Mi maravigliavo che non ti fosse ancora scappata. O dove l’avete
scovato codesto manco a dirlo odiosissimo che inciampiamo a ogni passo?
CRON. O come vuoi ch’io lo sappia? Chi è imbevuto di letteratura classica, non può dire da che
classico abbia preso questo o quel modo. Da Dante, forse.
SCRITT. – Avete preso da Dante anche la piattaforma elettorale?
PROF. In questo hai torto. Piattaforma è una parola che mi piace: larga, solida, maestosa. Come
superfetazione, che mi piace anche di più, per la sua gentilezza. Quando sento dire che un tal
progetto di legge non è che una superfetazione d’un altro, presentato da un altro Ministero, vado in
solluchero. Mi par così poetica l’immagine di quei due feti!
SCRITT. Ciascuno ha i suoi gusti. Io ho il gusto degli aggettivi nuovi, semplici e partecipati, dei
quali faccio uno studio particolare. Ce n’è di deliziosi, come ora si dice. Per esempio: sensazionale;
schiacciante, riferito a un argomento; toccante: un oratore toccante: mi par di vederlo suonar la
chitarra. E scollacciato, d’un romanzo! [285] L’immagine di quel sostantivo mascolino col seno
troppo scoperto, m’affascina. E così macabro è uno dei miei amori. Si scopre il cadavere d’una
povera bimba strozzata: scoperta macabra. Com’è a proposito l’immagine d’una danza, che
desta quell’aggettivo! E calza bene anche l’aggettivo drammatico che accoppia all’idea d’un
assassinio quella d’un’opera d’immaginazione dilettevole! E imponente detto ad un modo d’una
signora d’alta statura e d’un grande incendio! E l’innocenza completa, come un tranvai! E la
commedia movimentata! E il partito politico compatto, come il legno del sorbo! Elettori, andate alle
urne compatti!
AVV. – Camminerebbero un po’ impacciati.
SCRITT. Dovresti dire marcerebbero. Marciano anche gli avvenimenti. Più curiosa è la voga che
hanno preso cert’altri aggettivi in un nuovo significato, come grandioso, che è dei più abusati. In
questi giorni, per esempio, in un manifesto d’un’associazione è chiamato grandioso l’avvenimento
dell’andata del re d’Italia a Parigi, e hanno creduto di dire, non qualche cosa di meno, ma di più che
grande; perchè grande, oramai, è un aggettivo scaduto. Ora non basta più dire che un attore è
grande in una data parte: si dice che è immenso. Anche famoso si dice a tutto pasto. Una buona
salsa? Famosa. Un potente schiaffo? Famoso. Una sbornia maiuscola? Famosa. Questo vino, per
esempio, è bonino; ma non così famoso come a voi pare.
PROF. – E superbo? E magnifico? E splendido?
AVV. – Un magnifico paio di scarpe....
CRON. – Che calzano magnificamente.
SCRITT. Anzi, divinamente! Ma splendido è [286] l’aggettivo re del tempo che corre. Splendido un
par di calzoni, un viale, un artista, un programma politico, un risotto. È diventato un aggettivo
irresistibile. Sapete che il Guerrini, per combatterne l’abuso, tenne una volta una conferenza satirica
a un uditorio d’amici? Tutti ne furono persuasi; ma quando egli ebbe finito, e domandò un giudizio
sul suo discorso, risposero tutti a una voce: Splendido! Non c’è forza che valga più a sradicarlo.
Come fanatico. Che c’entra la superstizione religiosa? Ora si è fanatici di tutto quello che piace:
d’una grande idea umanitaria come d’un bel servizio da tavola, della Divina Commedia come delle
triglie alla livornese.
AVV. – Ben detto, ben definito, come dice Azzeccagarbugli.
PROF. – Stupendamente bene!
CRON. – Hai il nostro plauso.
SCRITT. Non mi basta. Voglio un’ovazione. Oggi si fa a tutti e per ogni cosa. Ma non ho finito. Il
discorso che ho fatto sugli aggettivi non è esauriente. Quello che è più strano nell’uso invadente, a
mio parere, è l’accompagnamento degli aggettivi coi sostantivi, nel quale non si riconosce più
alcuna legge di convenienza di logica, mettendo fra gli uni e gli altri dei legami forzati,
repugnanti al buon gusto e al buon senso. Basterà che vi citi un esempio per suggerirvene altri
cento. Possiamo fare una gara.
CRON. – Si dice record.
SCRITT. Fu un lapsus, perdonami. Un pregiudizio riguardo a una quistione d’ordinamento delle
strade ferrate si chiama pregiudizio ferroviario. Non lo vedete correre sulle rotaie?
AVV. Lo vedo. Animo. La gara è aperta. I [287] disinganni dei proprietari nel raccolto dell’uva:
delusioni vinicole.
PROF. – Ansietà agrarie.
CRON. – Ravvedimenti costituzionali.
AVV. Un monumento operaio! Quello eretto dagli operai cattolici a Leone XIII. Questa è delle
meglio, mi pare.
SCRITT. Fermi là! Vinco la gara io. Vi porterò il documento in prova. Il titolo d’un articolo sui
miliardai americani che vanno in automobile. Indovinate! Cedo il premio a chi indovina.
CRON. – Tempo perso. Favella.
SCRITT. – Motorismo miliardario!
AVV. – Splendido.
PROF. – Grandioso.
CRON. – Famoso. L’ho scritto io!
SCRITT. – Allora il premio è tuo. Tu sei immenso. La gara è chiusa.
AVV. – Se ne può aprire un’altra.
SCRITT. Immediatamente. Quella delle locuzioni frequentissime, delle quali dovrebbe bastar la
ragione, il semplice buon senso a far avvertire l’erroneità e il ridicolo, perchè contengono una
contraddizione di termini manifesta, o di idee, che non possono stare insieme. Il tipo di queste
locuzioni è la famosa sentenza del Prudhomme: Il carro dello Stato naviga sopra un vulcano.
Come si fa a dire che una data Amministrazione o un Istituto è una baracca che cammina male?
Che il tal ministro ha esorbitato dalla linea retta? Un’orbita rettilinea! E suscitare un’impressione,
che è come dire: sollevare una cosa in giù? Ed è scoppiato un attrito? Avanti, signori!
AVV. – Vediamo. Abbracciare una carriera.
[288]
SCRITT. – È un bell’amplesso!
PROF. – Farsi una posizione.
AVV. È un bel fare. Ve ne dico una della nostra fabbrica. Gli elementi che vanno in esilio. “Da
questo scritto, considerato a mente serena, esulano gli elementi della minaccia e dell’ingiuria.„
SCRITT. Buona; ma non di prim’ordine. È meglio, e si sente ogni momento: M’è accaduto un
aneddoto.
PROF. Come chi dicesse: m’è accaduto un racconto. Ma val di più questa: Una voce amica che
addita la via del dovere. – Una voce con le dita. Trovami l’uguale.
AVV. – Non è possibile che si possa trovare, lo riconosco.
SCRITT. Bella anche questa, e comunissima; ma non è premiabile. Ci avrei un esempio del verbo
trattare, in vece del semplice essere, arcifrequente. L’ho letto in una cronaca di giornale (al
cronista) non tua. A un tale par di vedere un uomo travolto dalle acque d’un fiume; si butta giù per
salvarlo; ma riconoscendo che si trattava d’un cane....
CRON. – Ti darei quasi la palma.
PROF. La palma è mia. Ve ne do una freschissima. Con quest’atto il Governo ha ribadito la
corrente della sfiducia pubblica....
AVV. e SCRITT. – La gara è chiusa!
SCRITT. – Sì! Ribadire una corrente è senza dubbio la più maravigliosa di tutte.
CRON. Un momento. Ammettetene ancor una al concorso. Son sicuro di vincere. Attenti bene. Il
teatro era completamente vuoto!
GLI ALTRI TRE INSIEME, con una risata: – Tombola!
[289]
SCRITT. – Facciamo un brindisi al vincitore!
CRON. Voi mi emozionate. Fate troppo onore a una quantità trascurabile come son io. (Allo
scrittore): Ma, barbaro, non si dice: facciamo un brindisi; si dice brindiamo. E poi...
GLI ALTRI TRE. – E poi?
CRON.Perchè bere alla mia salute? È superfluo. Io sto magnificamente. Beviamo invece alla salute
della lingua italiana, che, poveretta, per colpa un po’ di tutti, sta male assai.
GLI ALTRI TRE. – Evviva!
CRON. – Non si grida più evviva. Si grida: – Hoch! – È più di moda, e poi.... non è italiano.
TUTTI INSIEME, alzando i bicchieri: – Hoch! Hoch! Hoch!
UN CAMERIERE (tra sè, passando nel corridoio:) – Che siano artisti del Circo equestre?
[290]
CONTRO I LUOGHI COMUNI
(APPENDICE AL DIALOGO).
Caro amico,
Ieri sera, dopo il nostro desinare cruscaio, mi parlasti d’un libro che stai ponzando intorno allo
studio della lingua. Non ne ricordo gran che, perdonami, perchè avevo un po’ di Chianti nel capo;
ma ti suggerisco una buona idea, che mi venne in mente dopo averti dato la buona notte: a me le
idee migliori vengono quasi sempre in ritardo di qualche minuto; ciò che è una gran disgrazia per un
avvocato.
Dovresti scrivere un capitolo feroce, come direbbe l’Alfieri, contro i luoghi comuni. Che vuoi? In
materia di lingua io sono un mezzo barbaro: parlo male, non scrivo meglio di come parlo, e quanto
a materiale linguistico appartengo alla classe dei meno abbienti, come si diceva ieri sera. Ma odio i
luoghi comuni. Di questo stupirai. Ma non dovresti stupire. C’è dei poveri diavoli che hanno per
istinto gusti e tendenze di [291] gran signori. Tu hai capito ch’io intendo parlare di quel gran
numero di vocaboli e traslati triti e di frasi fatte, che ricorrono continuamente nei giornali, nelle
conversazioni, nei discorsi parlamentari, necrologici, inaugurali e convivali, e anche nelle lettere
private dei nostri concittadini. Ebbene, queste parole e frasi mi son venute in ira a tal punto che ogni
volta che me ne cade una sotto gli occhi o m’arriva all’orecchio, mi dà il senso come d’una botta nel
gomito o d’un urtone nel petto. È irragionevole; ma preferisco a un luogo comune uno sproposito, e
quasi quasi un’impertinenza. Dipende dai nervi, mio caro.
Sì, tutte queste maniere viete che tutti usano, anche nel linguaggio famigliare (per iscansare altre
maniere più semplici, le quali paion volgari perchè son semplici), come tributare elogi, rendere
omaggio, prodigar carezze, largire favori, esser largo di cure, dar lustro al paese e a stesso,
dare ospitalità a un articolo, render sentite azioni di grazie (questa mi fa fremere), poggiare a
un’altezza (ci s’aggiunge spesso, per vezzo, non comune); e tutte quell’altre perifrasi muffite, come
l’elemento divoratore, per il fuoco, e la malattia che non perdona, per la tisi, e il lenocinio della
forma, e le veneri dello stile, e l’aureola della pubblica stima, e la carità del loco natìo, e le nubi
che offuscano ogni specie d’orizzonti metaforici, e i guiderdoni e gli usberghi e i Palladii e i fior
fiore della cittadinanza, son diventati l’afflizione della mia vita. Ma come mai chi le rimastica non
ci sente il rancidume che ammorba la bocca e vince lo stomaco? È una smania universale di fuggir
la parola ovvia come un malanno. Vedi se c’è uno [292] su cento dei necrologisti quotidiani che si
contenti di dire che un galantuomo è morto! Ha esalato l’ultimo respiro, ha reso l’anima, è uscito
di vita, è mancato ai vivi, ha cessato di vivere, ha chiuso gli occhi, si è estinto, si è spento; ma non è
morto. La stessa parola morte, così solenne, e che al nostro cuore par che suoni sempre per la prima
volta, è giudicata ignobile: si dice dipartita, decesso, la fine. Confessato e comunicato è troppo
comune: si dice munito dei conforti religiosi. Bella quella munizione di conforti! E quando si
metterà a riposo quella decrepita Parca col suo putrefatto inesorabile? E quando si finirà di
profondere la larga eredità d’affetti? Ah, chi l’ha detta per il primo si può ben vantare di non aver
seminato nella sabbia! E quell’insopportabile intelletto d’amore, di cui si fa toppe da scarpe, tanto
da scrivere che è fatto con intelletto d’amore anche un quadro statistico dell’esportazione dei
formaggi? E quella inevitabile traccia onorata di sè, che si lascia dietro ogni scalzacane? E quella
misteriosa eloquenza di cui Tizio soltanto possiede il segreto, come d’uno specifico farmaceutico?
E quella maledetta ostinazione a non voler mai dire che una riunione fu allegra, cordiale, triste, per
mettere invece lo scettro in mano all’allegria, alla cordialità, alla tristezza, e farla regnare? E
quell’eterna banda musicale che rallegra tutti i banchetti coi lieti concenti? E quel sempiterno
brillare per la loro assenza delle Autorità e degl’invitati che mancano? Il contagio di queste
affettazioni obbligatorie, e dei vezzi latini in ispecie, è penetrato fin dove la luce del gas non è
giunta ancora. Vedi nelle corrispondenze [293] mandate ai giornali fin dai più piccoli villaggi. I
matrimoni, i funerali, le rappresentazioni teatrali, le deliberazioni del municipio (espressioni troppo
comuni) sono annunziate come nuptialia, funeralia, theatralia, municipalia: che spocchia! Dire: nel
consiglio comunale? Miserie! In seno al consiglio. Il più vecchio dei Consiglieri, o di qualunque
adunanza, è sempre il Nestore: il paese è pieno di Nestori. E quando si seppellisce un cristiano, gli
si augura leggiera la terra: una leggerezza diventata più pesante del monolito di Pianezza. E a
proposito di villaggi, non immagini la stizza che mi fa quel popolo Ebreo esulante dall’Egitto, tirato
sempre in ballo nell’autunno per dire che i villeggianti se ne vanno: l’esodo dei villeggianti! Non
c’è che un’altra eleganza che mi dia ai nervi a egual punto, ed è il senza por tempo in mezzo o in
men che non si dica, o con la rapidità del fulmine, che intoppo a ogni passo. Ma che Dio vi
benedica con una pertica, se volete dire che un tale ha fatto una cosa in un lampo, imitatelo, ditela
alla più lesta possibile, per rendere la rapidità dell'azione, con una sola parola, e non con una
filastrocca. Ma no, c’è un altro luogo comune che detesto più di quanti n’ho citati, ed è la moglie di
Cesare che non dev’essere sospettata. Chi ci libererà una volta da questa signora, Dei superiori! E
siamo anche a questa, in fine: che non si possa più dire nei giornali, in Parlamento, dove
diamine tu voglia, che c’è del marcio in una banca, in un ministero, in una classe sociale, o anche in
una cesta di cavoli, senza tirarvi per i capelli Amleto e la Danimarca? Io c’inverdisco, parola
d’onore.
[294]
Flagella dunque gagliardamente i luoghi comuni. Per me sono uno dei primi segni che servono a
distinguere gli scrittori veri dagli scrittori di dozzina. Io che, non per finezza d’educazione letteraria,
ma per istinto, ne sento il puzzo un miglio lontano, non ne trovai uno solo nel Manzoni, nel
Leopardi, nel Carducci, in nessuno dei grandi maestri. Mostrali ai ragazzi studiosi per quello che
sono: germi d’infezione; perchè, non badandovi, essi s’avvezzano a usarli, e se ne fanno una
provvista, e questa, ingrossando a poco a poco, finisce con soffocare in loro il sentimento della
semplicità, e anche, se l’hanno, la dote rara dell’originalità della forma. Flagella senza misericordia.
Ti parrò troppo inviperito. Ma è perchè, pure abbominando il luogo comune, di tanto in tanto, alla
sbarra, me ne lascio scappare qualcuno; non serve ch’io stia in guardia; è come un influsso dell’aria,
al quale è forza ch’io soggiaccia. Ah, vedi che ci son cascato! È forza ch’io soggiaccia! Disgraziato!
Me ne vergogno, mi schiaffeggio, e ti saluto.
IL TUO AVVOCATO.
[295]
“GLI ARDIRI„.
Confessioni d’uno scrittore pusillanime a uno senza paura.
Il dialogo segue in casa del primo, di nome Leone, che sta seduto allo scrittoio, coperto di fogli.
L’altro, Rompicollo di pseudonimo, gli siede di faccia. E dei due personaggi: vicini al pendìo
dove l’età precipita.
LEONE (che ha finito di leggere un manoscritto). – Che te ne pare? Sii sincero.
ROMPICOLLO. Sincerissimo. La narrazione è ordinata, lucida, scritta bene come tutto quello che tu
scrivi. Ma c’è il difetto che è in tutti i tuoi scritti. Ci manca una bella qualità, una sola.
L. – Tira il colpo.
R. Mettiti in guardia. Si può riferire a te il giudizio che diede un editore illustre sul modo di
scrivere d’un romanziere che tu conosci: Scrive da maestro; ma.... non c’è caso di vedergli una
volta la cravatta per traverso.
L. – Spiègati meglio.
R. – Per spiegarmi meglio, bisogna che te la faccia un po’ lunga.
[296]
L. – Purchè tu la faccia di corsa.
R. Mi rifaccio a ottant’anni addietro, quando già un grande maestro osservava che negli scrittori
del suo tempo la lingua italiana s’andava geometrizzando, riducendo al linguaggio magro e asciutto
della ragione e delle scienze che si chiamano esatte, con grave pericolo di cadere nella timidità,
povertà, impotenza, regolarità eccessiva, ch’egli rimproverava alla lingua francese dell’età sua. Egli
voleva dire che s’andava perdendo l’uso di quella libertà, di quei tanti idiotismi e irregolarità
felicissime, di quelle tante licenze, o ardiri, per servirmi d’una sua parola, nei quali consistevano
principalmente “la facilità, la varietà, la volubilità, la pieghevolezza, la forza insomma e la bellezza,
il genio e il gusto della lingua italiana.„ Gli ardiri, capisci! Li definisce bene anche il Padre Cesari
dove dice che i nostri antichi scrittori non procedevano sempre a passi di stretto costrutto
grammaticale, che alcune cose, scrivendo, lasciavano da mettercele i leggitori, che prendevano
spesso un giro o legamento che usciva dal comune, che s’allargavano fuori della via trita, tenendo
l’occhio più alla sentenza che alla costruzione delle parole. C’erano insomma nella loro lingua
(tanto lontana per questo dal cader nell’arido e nel matematico) scorci, ellissi, annodature e
snodature, travolgimenti di costrutto, ogni specie d’idiotismi efficaci e di belle licenze, che le
davano una naturalezza e un vigore ammirabile; c’era una franchezza, un far da padroni, un
coraggio....
L. – Che io non ho.
R. – Hai voluto la sincerità. La maggior parte di quelle licenze o ardiri, consacrati dall’uso dei [297]
classici, d’errori che erano a rigor di grammatica, son diventati bellezze. Vezzi e grazie, dice il
Cesari. Ma sono anche concisione e forza. Ebbene, tu non te ne servi mai. Ma non tu solo:
pochissimi se ne servono, e con parsimonia paurosa, anche fra gli scrittori toscani. Scriviamo tutti
col compasso e con le seste. E scrivendo così, disconosciamo, offendiamo la natura della nostra
lingua. Tu m’intendi. Le lingue, ha detto un grande scrittore francese, sono somiglianti ad antiche
foreste, dove le parole e le frasi vennero su come vollero o come poterono. Ce n’è di bizzarre e
anche di mostruose; ma formano tutt’insieme, riunite nel discorso, armonie bellissime; ed è da
barbari e da insensati il potarle come i tigli dei passeggi pubblici. La lingua, aggiunge lo stesso
scrittore, esce da un fondo popolare: è piena d’ignoranze, d’errori, di capricci, e le sue più grandi
bellezze sono ingenue.... Perchè mi fai quel risolino ironico?
L. (buttando il manoscritto con dispetto). Perchè t’affanni a sfondare una porta aperta, figliuol
mio. (Balzando in piedi). Ah, tu non sai che tasto ingrato mi tocchi! Ma io sono più persuaso di te
della verità di quanto mi dici. Ma io sento e riconosco meglio di te quello che mi manca, e questo
appunto è il tormento della mia vita. Ma delle belle licenze, dei solecismi efficaci, degli ardimenti
felici, che tu mi decanti, io ho fatto nei nostri scrittori uno studio amoroso e paziente come nessuno
l’ha fatto mai, e te lo posso far toccare con mano...
R. – E allora... perchè non ti si vede mai la cravatta per traverso?
L. (lasciandosi ricader sulla seggiola e con [298] accento sconsolato). – Perchè sono un vigliacco.
R. (ridendo). – Eh via, amico; non ti calunniare.
L. (con un movimento impetuoso apre un cassetto, e ne tira fuori e sbatte sul tavolino un grosso
scartafaccio). Vedi se ti dico la verità. Qui ci sono esempi cavati da scrittori di tutti i secoli, dai
trecentisti ai contemporanei, dal Villani al Machiavelli, dal Machiavelli al Bartoli, dal Bartoli a
Gino Capponi... Guarda, sfoglia; questa è la prova della mia vigliaccheria.
R. Ma è una raccolta preziosa. Io non ho mai pensato a farla. Te l’invidio. Tu me la devi far
leggere.
L. E vedi se l’ho fatta con amore. Ho diviso e ordinato gli esempi: esempi dell’uso di certe
preposizioni, di certi pronomi, di certi avverbi, di certi costrutti. Ah, tu credevi ch’io fossi
compassato e geometrico per non sapere come si violano bellamente le buone regole! Ma io sento la
bellezza delle licenze classiche quant’altri mai al mondo, e n’ho a mia disposizione un magazzino.
Solo ch’esse ci stanno come le monete d’oro nella cassa forte d’un avaro fradicio. Io non le spendo
per vigliaccheria. Vedi qui, soltanto intorno all’uso del che, quante n’ho ammucchiate...
R. – Leggi, te ne prego. Sono curiosissimo.
L. Quel che, che è la mia tortura e la mia vergogna! Ti voglio svelare tutta la mia dappocaggine.
Vedi qui il Villani: Una cosa ebbero i rettori di quello (del popolo di Firenze), CHE furono molto
leali e diritti a comune. Vuoi credere ch’io non sarei da tanto d’usare il che in quella maniera, che
mi parrebbe temerario? [299] Che ne dici? E quest’altro esempio del Sacchetti:E pone questa sua
pultiglia a mensa, CHE non è porco in terra di Roma che n’avesse mangiato.E neanche quest’altro
che io m’arrischierei ad usare. Udite le mie parole, e non le abbiate a schifo per la nostra etade,
CHE siamo giovani. E anche questo che, che sta a maraviglia, mo lo rimangerei. E uscì di
Parigi, e cavalcò tante giornate ch’egli giunse a Narbona, CHE sono cento venti leghe. – E io, cane,
scriverei: – che è distante da Parigi cento venti leghe. E campò da quel morbo, CHE non ne campò
uno sul centinaio. E vorrei che fosse qualche uccello nuovo, CHE non se ne trovano molti per
l’altre genti, come sono fanelli e calderelle. Come scriverei io, per non usar quei due che, non ho
la faccia di dirtelo. Questo del Machiavelli: Perchè dai Tarquini ai Gracchi, CHE furono più di
trecent’anni. Io avrei scritto un orrore: fra i quali e i primi corsero più di trecent’anni –, o forse
peggio. – Mi pasco di quel cibo che solum è mio, e CHE io nacqui per lui. Un anacoluto bellissimo,
non è vero? E io non lo scriverei neppure sotto il bastone. E vado innanzi, senza citar gli autori:
Diedegli un colpo in su l’elmo, CHE tutto il grifone d’ariento andò per terra. Io ci avrei premesso
un tale o un così forte, per salvar l’onore. – Un teatro CHE non ci toccava d’entrarvi che cinque o sei
volte in tutto il carnevale... Cosa CHE me ne dispiace anche adesso. Per bisogno di danari
arrandellò quella villa, CHE avrebbe potuto pigliarci il doppio. Epopea e storia sono due termini
CHE l’uno ammazza l’altro. Il magnanimo fa le grandi cose con l’agevolezza CHE il comune degli
uomini fa le cose [300] comuni... Io, vile, avrei usato in quest’ultimo caso un vile con la quale, e
commesso altre piccole viltà compagne nei casi precedenti...
R. – O perchè mai, se di quei modi senti l’efficacia, e sai che sono legittimati dagli scrittori?
L. – Te lo dirò poi. Senti sull’uso dell’avverbio dove, che è un’altra mia afflizione, perchè lo saprei
usar bene, e vi sostituisco ogni specie di locuzioni odiose. Con questi m’ingaglioffo... Hai già
ricosciuto messer Niccolò, non è vero? Con questi m’ingaglioffo per tutto il dì, giuocando a
cricca, a trictrac, DOVE nascono mille contese. In questo caso è DOVE si riconosce la virtù
dell’edificatore. In queste cose bisogna esser cauto, ma DOVE ne va ’l capo, cautissimo. Vollero
farli malgrado loro santi, DOVE non era poco che fossero cristiani. Accanto a DOVE ora è San
Francesco di Paola. Si fecero molte ricerche a Meda, DI DOV’era la conversa. Io sarei capace di
scrivere: – che era il paese nativo della conversa. Non uno dei dove citati avrei l’animo d’usare in
quella maniera. Che te ne pare? Andiamo innanzi. Ti secco?
R. – Ma no; sèguita, che mi ci godo.
L. – Sull’uso della preposizione da. Vedrai se io so a quante belle locuzioni abbreviative e svelte si
può far servire. Fin DA abatonzolo (da quando era abatonzolo) il fatto suo era uno spasso.
Quello non è luogo DA andarvi di notte. La passione il fe’ dare in falli DA non inciamparvi altro
che un cieco. Gli dia un tema tale che i due vocaboli cadano DA dover adoperare. Le son cose
queste DA farle e DA lodarle le donne della santa nazione; ma noi... Il [301] penultimo esempio è
del Tommaseo, l’ultimo del Carducci. Io farei il viso rosso, vedi, se dovessi dirti il giro ignobile di
parole che avrei fatto per esprimere l’uno e l’altro pensiero!
R. – Ma perche, in nome di Dio?
L. E riguardo all’uso del se, senti che ellissi efficaci, che scorci d’espressione io rifiuto per
codardìa. Brancolando con le mani, SE a cosa nessuna si potesse appigliare. Il desiderio che
questi signori Medici mi cominciassero adoperare, SE (quand’anche) dovessero cominciare a farmi
voltolare un sasso. Erano saliti sui tetti, SE di potessero veder la cassa, il corteggio, qualche
cosa. – Sei persuaso che non mi mancherebbe l’arte, se non mi mancasse il fegato?
R. – Ma dunque!
L. Ma aspetta. Io ti voglio ben persuadere che so, e che soltanto per poltroneria, non per
ignoranza, scrivo come un tanghero. Mi voglio schiaffeggiar con le mie mani quanto merito. Passo
all’uso dell’infinito. Ecco del Sacchetti: – Il lupo entrava domesticamente nelle case, senza far male
a persona, e senza ESSERNE fatto a lui. O nobile duca, dov’è la tua saviezza A SEDERE dove tu non
dèi per dignità di re? Tu devi essere un ladroncello A ENTRARE per le case altrui. E se alcuno
dicesse Niccolò da capo) –: i modi erano straordinari, e quasi efferati: VEDERE il popolo insieme
gridare contro il Senato, il Senato contro il popolo, CORRERE tumultuosamente per le strade, PARTIRSI
tutta la plebe da Roma ecc., dico come ogni città... Com’è detto bene! E io non direi così per un
biglietto da mille. Venendo alla seconda inginocchiazione, la fatica della prima aggiungendosi
alla seconda, [302] e VOLERE far presto e non POTERE, (bellissimo!) lo costrinse a far sì, che la parte
di sotto si fe’ sentire. Ed ecco il saluto che meriterebbero da chi legge gli scrittori poltroni del mio
stampo.
R. – Ma le ragioni della poltroneria!
L. – E quelle proposizioni incidenti, interpolate fra gli elementi d’un’altra, quasi indipendenti, e per
così dir sospese nel periodo, che imitano così bene il linguaggio parlato, e dànno al discorso un
andamento così disinvolto e spigliato, un così bel colore di naturalezza....
R. Giusto; qui t’aspettavo: sono la mia predilezione. Vediamo se n’hai qualcuna della mia
raccolta.
L. – Ce n’ho un cassone. Per mia fè, che CHI MI DONASSE LORO DEL MONDO, non t’offenderei. – Come
pienamente si legge per Lucano poeta, CHI LE STORIE VORRÀ CERCARE. Il Chiodo è un chirurgo che,
CHI LO PAGA BENE, tien segreti gli ammalati. E se tira vento, t’acceca, poichè non può stare se non
intinge ogni momento le cinque dita in una gran tabacchiera, E SU SU, E QUEL CHE NON CENTRA SEMINA,
movendo i polpastrelli aggruppati.
R. È detto con un garbo ammirabile. E tu non useresti nemmeno codeste forme di sintassi, che
tutti usano?
L. No, ch’io sia dannato! Nemmen queste. E tutti quegli altri modi semplici e ingenui, tolti dal
linguaggio famigliare, di legare un pensiero ad un altro, e d’accozzar l’uno all’altro senza legame,
che sono una bellezza! Per esempio: Il quale manifesta agli uomini certe cose che non sanno, ED
EGLI LE SA. Questi piani, che sono in mezzo di queste montagne, sono spazzati e [303] puliti come
la palma della mano, E TUTTO QUESTO FA IL VENTO. Venendo San Francesco a Santa Maria degli
Angeli con frate Leone a tempo di verno, E IL FREDDO GRANDISSIMO FORTEMENTE IL CRUCCIAVA.... E il
grande verso di Dante:
Vedi che non rincresce a me, E ARDO.
Sostituiamo all’e un che, come avrei fatto io, vigliacco, e facciamo un verso mediocre e floscio d’un
verso che fa fremere: non è vero? Ah, tu credevi ch’io scrivessi come scrivo per ignoranza! Per
esempio, ci ho un tesoro di modi ellittici preziosi, che tengo a muffire. – Ora perchè si sappia come
morì, UDII DIRE a mio padre che gli venne voglia d’andare alla stufa.... Com’è garbata l’omissione
del dirò che, ch’io mi sarei ben guardato dall’omettere! – E avendo dato a questo suo figliuolo certe
carte, E CHE ANDASSE INNANZI CON ESSE, e aspettasselo da lato della badìa di Firenze.... Disse: i
nemici esser oltre numero molti: quaranta che essi erano, non far corpo da sostener contro a tanti,
E I PAESANI DA NON FIDARSENE IN TALE ESTREMO. Per dir questo io avrei fabbricato un periodaccio
doppio. Confortate la donna E ELLA VOI. Io c’avrei rificcato un conforti. Io rispetto bassamente
tutte le concordanze, io bacio la terra purchè sia sempre in perfetta corrispondenza il soggetto col
verbo, e rovini il mondo! Vedi, per me è una bellezza la frase: In questo, I SIGNORI CHI ANDAVA IN
QUA E IN , E CHI NSÙ E CHI NGIÙ, e il restante, chi si nascose in un luogo, chi in un altro; e
quest’altra: dubbiosi, mutoli, attratti, ciechi ed OGNI ALTRA INFERMITÀ VENNERO dal re –; ma
(scrollando il [304] capo, con un sorriso ironico) mi farei levar la pelle prima di metter sulla carta
quelle bellezze. So bene che “una parte della Grammatica è costituita dalla somma degl’idiotismi
d’una lingua, diventati un fatto„, so che “la scienza della lingua consiste nel sapere e l’arte dello
scrivere nell’adoperare quelle variazioni idiomatiche„ che sono innumerevoli, e tutte
opportunamente usabili, anche quelle di cui non c’è esempio negli scrittori; so tutto questo.... e
scrivo come scrivo!
R: – Ma me lo dici una volta di che, di chi, per che ragione hai paura!
L. (scoppiando). Ho paura dell’ignoranza del maggior numero, ho paura della pedanteria degli
asini, ho paura di Giuseppe Prudhomme! Ecco di che ho paura.
R. – Di Giuseppe Prudhomme? Ah, capisco finalmente!
L. Sì. Tu conosci il Prudhomme, quel personaggio maraviglioso in cui Enrico Monnier ha
rappresentato la scioccheria, l’ignoranza saccente, la meschinità e la pecoraggine intellettuale,
inconsapevole e presuntuosa di una grande famiglia d’esseri, non soltanto della sua Francia, ma
d’ogni paese del mondo. Ebbene, io, nello scrivere, ho paura del Prudhomme italiano, e della
signora Prudhomme, e dei suoi figliuoli e delle sue figliuole, e di tutti i suoi congiunti ed amici, e di
tutti coloro che poco o molto rassomigliano a lui. Quando sto per mettere sul foglio uno di quei tanti
modi che abbiamo visti, e degli altri moltissimi, che ho notati, mi si leva davanti tutta quella gente,
li vedo col mio libro o col mio articolo fra le mani, e li sento esclamare: Oh che ciuco! Ma che
italiano è [305] questo? Ma costui non sa la grammatica! perchè tutte quelle licenze e arditezze
che per te e per me sono bellezza e forza della lingua, per il Prudhomme e per i suoi simili sono
offese alla grammatica, alla logica, al senso comune; poichè Prudhomme, liberale in politica, è in
letteratura un tiranno superbo e stupido, che sputa sull’idiotismo, e calpesta ogni libertà di parola. È
il suo fantasma che mi fa geometrizzare la lingua: io faccio l’asino per paura degli asini. Sono di
coloro, di cui dice il Carducci che, per scrivere, si mettono i guanti, per parer gentiluomini ai
borghesucci. Se non che egli parla di chi ha le mani grosse e nocchiute, piene di porri, di verruche e
di schianze, che i guanti non bastano a mascherare. Ed io no: io avrei una mano ben fatta, leggera,
una mano da signore; e sono i guanti che me la sformano: i grossi guanti grammaticali, tutti sgonfi e
grinze e frinzelli. E dire che m’inguanto per il Prudhomme! Che abbominio!
R. – Eh via, tu esageri. Il Prudhomme è una testa piccola; ma non un cretino addirittura. Mi pare che
tu lo calunni per iscusarti.
L. – E tu lo difendi per farmi coraggio, capisco. Ma fors’anche non lo conosci quanto me. Io non lo
conosco soltanto per i giudizi suoi che mondo ripete; ma anche per esperimento diretto che feci di
lui in varie occasioni. Ecco qua un foglio col quale lo misi alla prova. Son tutti periodi, frasi di
scrittori magistrali, che sottoposi al suo giudizio, dandoglieli per roba di sconosciuti; di quei
costrutti, frequentissimi negli scrittori classici, dei quali noi ammiriamo la naturalezza e l’efficacia.
E tutte quelle cose delle quali non è ragione naturale perchè così debba [306] essere o
intervenire, non si debbono osservare credere. Ma che pasticcio è questo? domandò il
Prudhomrne. Costui non deve aver fatto le elementari! Questo Castruccio, guerreggiando, e
dando assai che fare ai Francesi, fra le altre nobili cose che fece fu questa. – Oh che bella sintassi!
esclamò il Prudhomme.– Rilegga un po’, tanto per ridere. Perchè il Prudhomme, lo devi sapere,
va in estasi davanti alle inversioni latine più forzate e contorte, che gli paiono eleganze
aristocratiche; ma a quelle naturali e necessarie alla lingua viva, che sono, come dice un filologo,
una parte di stile diventato lingua, arriccia il naso come a volgarità di scrittori incolti. E senti
quest’altre, che sono anche più amene. – Io so che la cagione che tanta moltitudine è qui, è solo per
udire quello che più volte v’ho detto. A questa il Prudhomme fece una risata. Non c’è materia
da farne proverbio, i quali generalmente si fondano sulla ragione e sull’esperienza. Proverbio, i
quali disse –; e chi è questo pazzo? Era scritto che egli portato su dai tumulti di Livorno, un
tumulto di Livornesi dovesse farlo precipitare. Commento: Che egli.... lo dovesse.... Una
grammatica da serve. – I dodici capitani del Cairo è come se tu dicessi i dodici capitani di guerra.
I dodici capitani è.... E chi è quest’asino? – È Daniello Bartoli, – risposi.
R. – Codesta è incredibile.
L. Ma vera. Te ne cito ancor una, che sarà l’ultima. Lessi a un Prudhomme questa frase del
Carducci: Leggendo fatte cose, chi conosce discretamente la letteratura nazionale, la prima
cosa che pensi è.... Ma questa mi disse [307] è una costruzione da scolaretto di terza
elementare. – Capisci: secondo lui, il periodo doveva esser rovesciato!
R. (ridendo). Andiamo, te lo confesso ora: avevi ragione: non ho difeso il Prudhomme che per
farti coraggio.
L. A un vigliaccone par mio? Ma è fatica sprecata, caro amico. E lascia ch’io finisca la mia
confessione perchè voglio che tu mi disprezzi nella misura che mi spetta. Tu non puoi immaginare
fino a che segno io arrivi. Nel racconto che t’ho letto, nel primo dialogo, avevo scritto: Ma bada,
me, tu m’hai a risparmiare. Vedi qua: ho cancellato il me. Avevo scritto: Era un luogo
destinato ad ammazzarvisi le bestie. Ho sostituito: Dov’era destinato che s’ammazzassero le
bestie. Un orrore. Qui, dov’era scritto: Quel ragazzaccio non gli si può dir nulla che si rivolta
come un aspide , ho corretto: A quel ragazzaccio non si può dir nulla.... Sì, ridi pure. Dove
avevo detto: – Mi diede che m’accompagnasse per la città il suo segretario – ... come abbia corretto
non oso dirtelo. E nota che per ciascuno di quei modi ho i miei bravi esempi classici. Ah, faccio
stomaco a me stesso! A questa miseria son ridotto!
R. Amico, sei gravemente malato, lo riconosco. Ma i malati della tua malattia, consòlati, sono
molti più che non credi fra gli scrittori. La conclusione è questa: che hai bisogno d’una cura
rigorosa.
L. – Eh, tu puoi celiare, tu che sei intrepido. Leggendo le cose tue, non sai come t’invidio!
R. E dunque segui la mia via, che è assai [308] più comodo che continuar per la tua. Io ero come
te, un tempo. E guarii senza cura. Fu una parola di Gino Capponi il mio toccasana. Ci sono certi
motti di scrittori che operano di questi miracoli. Egli dice in una lettera: Io, quando piglio la
penna in mano, ho sempre la voglia di farmi bastonare. Fu un lampo per me. Dopo d’allora, ogni
volta che pigliai la penna, saltò addosso a me pure quella voglia, ma doppia: di buscarne e di darne
ad un tempo. L’immagine del Prudhomme italiano, critico di lingua, che a te fa tanto spavento, a me
mette il diavolo in corpo. Io ci ho un gusto matto a provocarlo con la penna, a irritarlo, a farlo
strillare, e mentre me lo immagino fuor della grazia di Dio, rido di lui, e batto più forte. Dar delle
urtonate al buon gusto del Prudhomme, schiaffeggiare la sua pedanteria, sfondare a pugni e a calci
la sua grammatica tarlata, è per me una sodisfazione indicibile. Pròvatici, e vedrai che piacere ci
troverai tu pure. Eccoti la cura della tua malattia: la lotta. Rimbòccati le maniche, e picchia.
L. (guardandolo). Ti ammiro. Io, invece, rassomiglio a quel pittore che passava delle giornate
davanti al suo quadro, esclamando: Ah, se osassi! Se osassi! Ma a che serve? Come dice don
Abbondio, il coraggio uno non se lo può dare. E che per darmelo ho tentato ogni mezzo;
perfino.... (dopo un momento d’esitazione) quello di bere del cognac prima di mettermi a scrivere.
R. – E allora osavi?
L. – Sì, ma (vergognandosi) la mattina dopo.... cancellavo.
[309]
R. Ma oggi tu devi farla finita. Tu devi giurar qui, in mia presenza, stendendo la mano sul tuo
scartafaccio, guerra implacabile al Prudhomme!
L. (scrollando il capo). Sarebbe un giuramento di marinaro. (A un tratto, tendendo il pugno). Ah,
come l’odio!
R. – Chi odia teme. Fin che lo temerai, non lo affronterai. Fa’ il giuramento.
L. – Ebbene, andiamo: giuro.
R. – Guerra a morte?
L. (con viso truce, ma con accento fiacco). – A morte.
R. (tra sè, guardandolo di sott’occhio). – Non si batterà. Non c’è altro. Requiescat in pace.
[310]
L’ALTO LÀ DELLA GRAMMATICA.
Alto là, signorino.
Le ho da parlare.
Non mi guardi bieco. Non le ho gridato che per celia l’alto soldatesco. Non sono più la dura
tiranna che molti credono; non considero più come offese mortali ogni rifiuto di cieco ossequio,
ogni minima licenza o confidenza che si prenda la gente con me. Essendomi persuasa che, come
tutte le cose di questo mondo, son destinata anch’io a mutare col tempo, mi vengo piegando man
mano a transigere coi diritti dell’uso, con la ragione dell’armonia, con molte piccole convenienze
dell’arte che una volta disconoscevo. Ma non vorrei che per queste ragioni ella si credesse lecito di
buttarmi tra i ferravecchi, che sarebbe anche un gran male per lei, com’è per tutti quelli che gliene
dànno l’esempio; e però voglio che c’intendiamo bene, che ella sappia da me quanto posso
concedere, e quanto credo d’avere ancora il diritto di vietare. Dirà lei che questo è il linguaggio
d’una tiranna?
E veda, a provarle quanto sono arrendevole dovrebbe bastare quel lei; col quale entro in [311]
materia. Io volevo una volta che nel caso retto s’usasse sempre egli, e ora lascio dire lui e lei in tutti
i casi in cui il significato della frase s’appoggia sul pronome, che deve perciò far rilievo. Quindi:
È lui che l’ha detto. Lo saprà lui, io non lo so. S’impanca a filosofo, lui! sta bene. Ma che
bisogno c’è di dire: Me lo dice lui stesso? Andai senza che lui lo sapesse? Mi valsi delle
ragioni che lui addusse? Questo non è più uso giustificato; ma profusione dell’idiotismo, inutile e
ristucchevole. E così eglino ed elleno son pronomi diventati arcaici, ridicoli nel parlar famigliare e
un po’ pedanteschi anche nella prosa letteraria; ma non vi si può sostituire essi ed esse, che sono pur
sempre dell’uso comune, invece di quello sfacciato loro, che molti vogliono in ogni caso, forse non
per altro che per vilipendermi? E perchè bandire questi, quegli e altri al nominativo singolare, per
sostituirvi questo, quello e un altro, sempre, anche quando non sono richiesti dal carattere
famigliare del discorso? E perchè usare a tutto pasto lei invece di ella, quando ella è ancora vivo e
comunissimo nell’uso dei Toscani, i quali dicono l’uno o l’altro secondo che vuole l’orecchio o il
diverso grado di famigliarità che hanno con la persona a cui si rivolgono? E consento che si dica e
scriva gli in luogo di loro e a loro, quando il loro impaccio, come nell’esempio: Vuoi dare del
vino ai ragazzi? Non voglio dargliene –, perchè: non voglio darne loro o loro darne sarebbe
troppo duro all’orecchio; ma non che si dia lo sfratto a loro come a una parola intollerabile per sè, e
che si scriva, ad esempio: Fermò i suoi compagni [312] e gli disse –, dove il gli è una
sgrammaticatura gratuita, più sgradevole a due doppi del loro. E non mi si dica che,
ragionevolmente, dovrei essere inflessibile, e aver per massima: O sempre o mai –, perchè,
ammettendo questo, io mi dovrei disfare e rifare per metà: non dovrei permettere di dir come me e
come te; glielo dissi riferito a femmina; consentire che s’usi il verbo nel plurale con un nome
collettivo singolare, come nell’esempio: La gente vanno –; nè tollerare che si riferisca un verbo in
singolare ad un soggetto plurale, preceduto o no da un di partitivo, come nelle frasi: Non c’è
cristi. C’è dei birboni. Malati non ce n’era. Può nascer di gran cose –; licenze che io
consento, come altre moltissime, perchè per una parte io sono costituita da leggi generali della
ragione immutabili, e per un’altra parte non sono che il codice degl’idiotismi della lingua; onde ne
vengo accettando sempre di nuovi, benchè adagio adagio. Per continuare: chiudo gli occhi sul lo
proaggettivo (per esempio: “non fosti generoso, ma lo saresti stato„) quando sonerebbe troppo
ingrato il tale, che i miei devotissimi usano, o sarebbe uggiosa la ripetizione dell’aggettivo, o il non
dir quello ripeter questo lascerebbe nella frase un vuoto anche più sgradevole. Lascio passare,
quando cadono opportuni, tutti quei costrutti viziosi, come: A me non me ne vien nulla; a chi sa
mostrare i denti gli si porta rispetto, ecc., che sono frequentissimi, e per ragion di suono quasi
inevitabili nel linguaggio parlato. Permetto il volgare cosa per che cosa, e il costrutto toscano noi si
fa, noi si dice, e il gli e il la soggetti pleonastici ogni [313] volta che servano a riprodurre
fedelmente un discorso famigliare o di gente del popolo. Gabello, infine, tutti gli anacoluti più arditi
in tutti i casi in cui per mezzo loro si scansa di dar alla frase una rigida forma grammaticale che
nuocerebbe alla chiarezza, alla naturalezza, all’efficacia, e quando, come disse un maestro, s’usa
l’anacoluto per non mettere altrimenti in contraddizione un pensiero ingenuo, immediato o
semiserio con una maniera d’esprimerlo riflessa, compassata o seria. Ma (e qui siamo al nodo) se do
il dito, non voglio che mi si pigli la mano, e poi il braccio, e poi tutta la persona. Voglio che non
s’usino se non gl’idiotismi necessari o utili; che tra due locuzioni di eguale naturalezza ed evidenza,
una sgrammaticata e una corretta, si scelga sempre quella corretta; che non si consideri, come molti
fanno, ogni idiotismo come una gemma per la sola ragione che è un idiotismo; che non si creda ogni
licenza ugualmente lecita così nella riproduzione d’un dialogo famigliare come in un discorso
letterario, così nel far parlare un uomo del contado come quando parla lo scrittore in persona
propria; che all’antica tirannia della Grammatica, non si sostituisca il dispotismo della
Sgrammaticatura, e all’ostentazione dell’eleganza la sfacciataggine della volgarità; che non si
calpesti ogni legge del galateo linguistico, cascando nel linguaggio mercatino per non cascare nel
linguaggio accademico; che, infine, perchè s’è buttata via la parrucca e la cipria, non si creda un
dovere il mettersi anche in maniche di camicia e l’andare attorno con la faccia sporca.
Ho detto, signorino.
[314]
QUELLO CHE SI PUÒ IMPARARE DAI TOSCANI.
Se t’accadrà, fin che sei giovane, di fare, un soggiorno breve o lungo in Toscana, sarà per te una
buona fortuna, perchè, volendo, imparerai in un mese dalla voce della gente più che in un anno
altrove dallo studio dei libri. Se questa fortuna non avrai, t’occorrerà senza dubbio, nella tua o in
altre città d’Italia, di conoscere e di frequentare toscani. Ebbene, ti raccomando fin d’ora d’ascoltarli
sempre con gli orecchi bene aperti, e di studiare attentamente il loro linguaggio, in special modo se
saranno fiorentini. Non soltanto molto materiale di lingua potrai imparare da loro, essendo gran
parte dell’uso fiorentino presente, come tutti sanno, l’uso fiorentino antico, che diventò lingua
letteraria comune a tutta Italia; ma, quello che più importa, la proprietà, la spontaneità, la prontezza
dell’espressione, che son quello che manca a noi principalmente. Perchè corre fra noi e loro questa
gran differenza, come osservò giustamente un linguista illustre: che a noi, parlando, per dire una
data cosa, vengono quasi [315] sempre sulla bocca due modi: il dialettale e uno o più modi italiani,
fra i quali dobbiamo scegliere; e a loro viene un modo solo, quello che dice per l’appunto quella
data cosa, quello che è il più proprio, e che tutti i loro concittadini usano in quello stesso caso;
donde la facilità, la sicurezza, la precisione del loro parlare, dove il nostro è quasi sempre opera di
stento e d’artifizio. Possono qualche volta anche i toscani stentare e riuscire artifiziosi, quando
hanno da esprimere un pensiero nuovo o insolito o complesso, perchè in tal caso cercano essi pure,
se non la parola, la frase, e il modo di collegare le frasi; ma nel dire le infinite cose comuni, che
sono argomento quotidiano di discorso, tutti sono sempre pronti, spontanei e semplici; non
tentennano perchè non hanno dubbî; non sbagliano perchè non possono sbagliare. Fa’ bene
attenzione. Vedrai quanti modi piani e agili hanno d’esprimere pensieri che noi esprimiamo di solito
in forma ricercata e pesante; in quanti casi fanno un salto con la frase dove noi facciamo più passi;
in quant’altri scansano con una mossa snella e garbata l’intoppo che noi urtiamo, o arrivano con la
parola un tratto di dal punto dove noi crediamo che la sua potenza si arresti. E anche nel parlare
di quelli che non hanno cultura nessuna, osserverai certi modi di legar le proposizioni, certe forme
armoniche di sintassi, certe abbreviature di frase efficacissime, che negli scrittori ti parrebbero
effetti di arte meditati, e sono pregi naturali del loro linguaggio. E sentirai da loro a ogni tratto una
parola inaspettata, che è come un tocco di pennello dato all’idea, che tu non sapresti dare con [316]
altra parola; espressioni ingegnose, graziose e comiche, eleganze e arguzie felici, che non sono
proprie di chi parla, ma di tutta la sua gente, e tanto più efficaci per questo, che gli vengon via come
da sè, e l’una incalza l’altra, e nessuna ti fa pensare che sarebbe più calzante un’altra al pensiero. E
bada bene a loro anche quando parli tu, ed essi t’ascoltano: uno schiarimento che ti chiederanno,
un’ombra leggiera di stupore o di dubbio, che passerà sul loro viso, o un sorriso leggerissimo, o una
ripetizione emendata, che faranno quasi senza volerlo, dell’espressione d’un tuo pensiero,
t’avvertiranno che t’è sfuggita una parola impropria, e perciò non chiara, invece della propria,
un’espressione letteraria in luogo della famigliare, una frase affettata in cambio di quella semplice,
ch’essi avrebbero usata in quel caso. Che sono mai i pochi idiotismi che ai toscani si rinfacciano per
rincalzar la stramba affermazione che essi parlino un dialetto come gli altri, di fronte alla ricchezza,
alla finezza, alla grazia, alla mirabile armonia pittrice del loro linguaggio? E che stupido orgoglio è
quello che non vuol riconoscere in loro una superiorità, della quale ci avvantaggiamo tutti, poichè
tutti attingiamo alla loro lingua quando non ci basta la fonte degli scrittori e dei dizionari, e che
cocciutaggine il non voler riconoscere che si parli meglio l’italiano in quella regione, che fu la culla
della lingua, ed è la sola in cui la lingua si parli da tutti? Ma tu non sarai di questi, certamente. Se
andrai in Toscana, tu t’immergerai, nuoterai con piacere infinito in quell’onda di lingua viva e pura,
alla cui armonia ti parrà che consuoni [317] quella che spira nelle linee dei monumenti di arte
maravigliosi, che ti sorgeranno d’intorno; e ti parranno dolci anche quegl’idiotismi di pronunzia,
che prima deridevi, quando penserai che sonarono pure sulle labbra degli scrittori e degli artisti
immortali che il mondo venera; e con l’amore della lingua e con l’ammirazione dell’arte nascerà nel
tuo cuore un sentimento di gratitudine affettuosa e profonda per quel popolo, primo custode del
tesoro della nostra parola, dotato d’ogni facoltà più gentile e del più squisito senso della bellezza; di
quel popolo al quale dobbiamo tanta parte della nostra gloria, che, a immaginarlo assente dalla
storia italiana, non ci appare più la immagine della patria che con la corona smezzata sulla fronte.
[318]
IL DOTTOR RAGANELLA.
Era stato un pezzo in Toscana il dottor Raganella; ma dai toscani non aveva imparato nulla, perchè
non li aveva mai lasciati parlare.
La parola, soleva egli dire, è il più bel dono di Dio. Noi dicevamo che il dono a lui era toccato un
po’ troppo abbondante. Ma per fortuna non era che dottore in legge, non esercitava l’avvocatura,
non rintronava la testa che agli amici.
Si vantava d’avere una grande facilità di parola. Ed era vero: aveva una facilità spaventevole. E
sarebbe riuscito eloquente se fosse stato persuaso della verità detta dal Bonghi: che gli uomini dotati
di parola facile si debbono assoggettare più degli altri a una disciplina rigorosa per non cadere nella
prolissità, con la quale non c’è eloquenza nè stile.
Non erano discorsi i suoi: erano cascate, frane, diluvi di parole. Non intaccava, non si posava mai, e
parlava sempre più in fretta via via che il suo discorso s’allungava. Disse un poeta francese ad un
giovane: Se tu riuscirai a parlare dieci ore di seguito senza sputare, sarai [319] padrone della Francia
–: egli avrebbe dovuto esser padrone dell’Italia. Dopo averlo inteso discorrere per un quarto d’ora,
restava a tutti una romba nell’orecchio come quando ci passa accanto a grande velocità un treno di
strada ferrata. Egli aveva l’illusione, comune a tutti i parlatori troppo facili, che la rapidità
vertiginosa del discorso impedisca la noia in chi ascolta; quando segue invece l’opposto, perchè in
quella furia essi non hanno tempo modo di dar rilievo e colore a nessun concetto o parte di
concetto, e riescono però necessariamente uniformi. E accadeva pure a lui, come a tutti gli altri suoi
simili, che avendo coscienza di quella mancanza di rilievo e di colore, cercava di supplirvi ripetendo
più volte l’espressione d’ogni pensiero, a modo di quel giornalista verboso d’uno scherzo comico
del Ferrari, che incomincia un discorso col verso
So, conosco, m’è noto e non ignoro,
e va innanzi così fino alla fine. E pure la soverchia facilità di parola lo portava a non far grazia,
raccontando un fatto qualsiasi, di nessuno anche minimo e più futile particolare, di modo che se
aveva da dire, per esempio, ch’era stato a visitare un amico, diceva per quali strade era passato e che
cosa gli era frullato pel capo camminando, e poi: “Salgo le scale, suono il campanello, m’aprono,
domando: – È in casa? – È in casa, – vado avanti, entro nel salotto....„ e via su quest’andare. E come
di ragione, non lasciandogli tempo di riflettere la troppa foga, parlava scorretto, come tutte le
raganelle umane. Il suo eloquio era un torrente impetuoso che [320] travolgeva improprietà,
sgrammaticature, riempitivi, cacofonie, contraddizioni e vesciche. Non di meno, la prima volta che
l’udivano, alcuni l’ammiravano. Che ammirabile facondia! dicevano. Ma facondia non era la
parola che facesse al caso. Si poteva dire di lui quello che uno scrittore disse d’un suo critico, il
quale scriveva come il dottor Raganella parlava: La buona educazione mi vieta di definire con la
parola propria le fughe del suo stile.
Ciò non ostante egli ci divertiva, qualche volta; in special modo quando faceva uno sfogo di collera
contro qualche suo nemico, quando si metteva a gridare, per esempio: Gridi pure, strepiti, strilli,
minacci, tempesti; non mi lascerò smovere: sono deciso, risoluto questa volta, irremovibile,
inflessibile nel proposito di far quel passo, e vi accerto, v’affermo, vi giuro sul mio onore....
Fèrmati! – gli dicevamo –, e bevi un sorso.... – o gli cantavamo l’aria del Matrimonio Segreto:
Prenda fiato, prenda fiato,
Seguitare poi potrà.
E come parlava nel calore della passione, così nello scherzo. Gli venivano spesso dei motti arguti;
ma ne sciupava sempre l’effetto ripetendoli, parafrasandoli, commentandoli, fin che ce li faceva
tornare a gola, come bocconi indigesti. E quale nel parlare era nello scrivere. Tirava via con la
rapidità che usano gli attori quando fingono di scrivere sulla scena: letteroni d’otto pagine, in cui le
proposizioni si succedevano senza legame grammaticale, e le ripetizioni cadevano l’una sull’altra
come le fette di salame [321] accanto al coltello, e ad ogni pagina la lettera ricominciava.
Ma del più bel dono di Dio non abusava soltanto per esprimere il pensiero proprio; anche per
parlare per conto nostro, come fanno tutti i parlatori irrefrenabili, che non vogliono star a sentire i
discorsi degli altri. Egli rompeva in bocca all’amico il ragionamento o il racconto, e lo finiva per
lui: Ho capito: tu gli hai risposto così e così, lui ha replicato in codesto modo, tu hai perso la
pazienza, e l’hai piantato, non è vero? E hai fatto bene, e io feci lo stesso in un caso simile che
m’occorse appunto.... E non serviva dirgli: Fa’ il comodo tuo; quando avrai finito tu,
ricomincerò io –; sorrideva e tirava innanzi, e non ci lasciava ricominciare.
Quando andava al teatro o faceva una gita fuor di città, o quando sapevamo che gli era seguìta
qualche avventura, lo aspettavamo con vero sgomento nella saletta appartata del caffè dove ci
veniva a trovare ogni sera; perchè non c’era cristi, egli ci voleva riferire le sue impressioni, e filava
dei discorsi di mezz’ora così rapidi e fitti, che a noi non riusciva neppure di farci entrare di straforo
un’osservazione. E s’aveva un bel tentare di scoraggiarlo non badandogli: egli pensava che la nostra
disattenzione fosse simulata per un tantino d’invidia che ci pungesse del dono di Dio, e questo
pensiero lo stimolava anche più. Oppure, vedendoci disattenti noi, rivolgeva il discorso agli altri
pochi avventori che venivano nella stessa sala, anche se sconosciuti, e s’infervorava a cicalare anche
più del solito, scambiando con ammirazione lo [322] stupore che quelli mostravano in viso, un poco
somigliante all’intontimento che dà il rumore monotono d’una ruota di mulino.
Una sera, fra l’altre, prese di mira un grosso medico barbuto che stava sorbendo il caffè dalla parte
opposta della saletta, e di discorso in discorso gli venne a parlare d’un suo incomodo, del quale gli
raccontò la storia minuta con una fiumana di parole; e finì con domandargli: Che rimedio mi
consiglia lei?
Quegli lo guardò fisso, e poi, fra il silenzio di tutti, con un viso grave e un vocione di basso, gli
rispose spiccicando le sillabe: – Lei ha bisogno d’un astringente.
Tutti risero in coro, e fu quella la prima volta che il dottor Raganella mostrò un’ombra di vergogna
d’aver troppo parlato.
Il matrimonio ci liberò dalla tirannia della sua loquela. Ma ci separammo da buoni amici, quando
partì per il viaggio di nozze. Nel fargli i nostri augùri, peraltro, compiangemmo tutti in cuor nostro
la sua povera moglie: come avrebbe potuto resistere per tutta la vita al flagello di quella facondia?
Pochi giorni dopo, uno di noi ricevette dalla Svizzera una sua lunga lettera, nella quale egli diceva,
fra l’altro, che la sua sposa era stata così commossa dallo spettacolo della cascata del Reno a
Sciaffusa, che l’aveva fatto rimaner un’ora con lei ad ammirarlo. Lo stesso pensiero balenò a
tutti: l’aveva fatto rimaner là perchè il fragore della cascata copriva la sua voce, e in quel tempo essa
s’era un po’ riposata.... Lo stesso amico ricevette poi un’altra lettera, con la quale egli annunziava il
suo ritorno, e che la sera dopo sarebbe venuto a trovarci al caffè. [323] Tremammo all’idea della
descrizione del viaggio ch’egli ci avrebbe inflitta: chi ci poteva reggere? Sarebbe stata una
grandinata di parole dalle otto a mezzanotte. La sera fatale, un amico, che l’aveva visto avvicinarsi
per la strada, ce lo preannunziò, affacciandosi all’uscio: Si salvi chi può! Tutti se la diedero a
gambe. Trovando la saletta vuota, egli sospettò la fuga, se n’ebbe per male, e non ritornò più. Ne
fummo dolenti; ma non c’era rimedio. Pochi mesi dopo, per ragione d’interessi domestici, andò a
stare a Bologna, e per anni non se n’ebbe più notizia. Poi si seppe che sua moglie gli aveva fatto
causa per separazione legale. Il vero perchè non ci fu detto. Ma per noi non ci fu dubbio. Egli
doveva aver reso alla povera donna la vita intollerabile. La causa della separazione era
certissimamente il più bel dono di Dio.
[324]
A TRAVERSO I SECOLI.
I Trecentisti.
A questo punto bisogna che ci fermiamo un poco a discorrere dei principali scrittori che s’hanno da
leggere per imparare la lingua.
Prima di tutti....
Qui vedo sorridere i miei lettori, che in questo momento suppongo siano tre, un giovinetto, una
signorina e un cittadino originale, a cui è saltato il ticchio, fra i trenta e i quarant’anni, di mettersi a
studiare la lingua del suo paese: li vedo sorridere con certa malizia, e mi par di sentirli dire tutti e tre
insieme: Già, ci aspettavamo il consiglio prammatico –, e poi in cadenza di canto: i Tre-cen-ti-
sti!
Eh, Dio buono, non è una novità, lo so bene. E so anche, giovinetto mio, quello che tu e gli altri due
lettori mi vorreste rispondere: che a leggere quei nostri antichi scrittori vi provaste, ma che vi
riuscirono ostici, non tanto per la materia quanto per la forma; voglio dir per la lingua e per lo stile
troppo diversi da quelli delle scritture moderne; per cagion di che vi [325] sentiste, leggendoli,
come spaesati, sconcertati nelle consuetudini del vostro pensiero e del vostro gusto, e quasi in
compagnia di gente con cui non fosse possibile, per la differenza dell’indole, pigliar famigliarità; e
fra la quale e voi s’interponesse un velo di nebbia, che v’impedisse di vederli bene in viso, e quindi
di mettervi in comunicazione immediata con l’animo loro.
Ma io vorrei principalmente persuader te, giovinetto, che, vincendo quel primo senso ostico, e
persistendo nella lettura di quegli scrittori, finiresti col prendervi amore, con tuo vantaggio
grandissimo, per quelle medesime ragioni per le quali ti pare ora che quella lettura non t’abbia mai
ad attirare. Pròvatici un’altra volta, te ne prego, e persisti, tenendo sempre presente che quelle parole
e frasi, nelle quali consiste la maggior differenza fra quegli scrittori e i moderni, erano allora in
Toscana, e in specie a Firenze, d’uso comune, e quindi naturalissime a coloro che scrivevano; i
quali, eccetto pochissimi, non facevano distinzione fra lingua parlata e lingua scritta; di che deriva
appunto la ricchezza, la schiettezza, l’efficacia delle loro scritture. Dopo che avrai preso con essi
qualche famigliarità, non sentirai più la novità di quei modi, che ora ti paiono affettazioni e
stranezze; parranno anche a te naturali come parevano agli scrittori a cui venivano spontanei; e
allora, non più arrestato da quegl’intoppi, ti lascerai andare all’onda di quella prosa viva, fresca,
giovanile, sentirai, come dice il nostro primo poeta vivente, quello che c’è di più vivido e più
frizzante, più zampillante e più mosso nell’elocuzione di quei prosatori che in quella dei moderni
che tu [326] preferisci; nei quali l’arte è più raffinata, ma tanto meno ricca e meno schietta la vena.
Ti parrà di sentirli parlare di viva voce in quei loro periodi, simili appunto al linguaggio parlato,
d’una orditura così semplice e debole, con poca o nessuna legatura rettorica di pensieri, e affollati di
determinazioni accessorie; i quali alle volte piglian la fuga, alle volte s’arrestano a un tratto, e fanno
mille brusche svoltate, come seguendo tutti i balzi del pensiero nascente e riproducendo il disordine
del discorso vivo; ammirerai, come dice il Capponi, quella naturalezza delle armonie, in cui non
sono mai cercate combinazioni di suoni, e “hanno più rilievo quelle parole che avevano avuto prima
nella voce più vivo l’accento„; ti delizierai in quella loro proprietà di vocaboli, non studiata, perchè
essi eran propri per necessità, in quelle loro locuzioni “della nitidezza che si vede nelle monete
novellamente coniate„, in quella fresca verginità d’una lingua, che cominciava appena a diventar
letteraria, e in cui si sente come la fragranza della sbocciatura. E sempre più, continuando a leggere,
t’innamorerai di quello che così giustamente si chiama candore di tali scrittori, di quell’aria amabile
d’ingenuità che dà alla loro prosa la frequenza della congiunzione semplice, come l’usano i bambini
e la gente del popolo, e la profusione dei superlativi, in cui si manifesta la fanciullesca vivacità
dell’ammirazione, e quel martellamento, che fanno così spesso, sopra un’idea semplicissima, come
per farla entrare in capo a un lettore ignorante; ciò che pure è proprio della gente ingenua. Vedrai
che singolari effetti d’arte escono dalla schietta ispirazione [327] non corretta dall’arte, dal calore
del sentimento libero, dalle negligenze, dalle rozzezze medesime, dagli stessi difetti non mascherati
d’alcun artifizio, ma lasciati scoperti come nudità innocenti. Come si respira in quelle pagine! Ecco
gente che parla davvero alla buona e alla libera, che ci dice quello che ha da dire senza l’interprete
letterario! Ci par quasi un miracolo. E quanta naturalezza nel modo di raccontare, quanta vivezza in
quei dialoghi a botte e risposte, e quanta evidenza in quello stesso disordine affannoso con cui ci
rappresentano le scene animate, e che graziosa semplicità negli esordi e nelle considerazioni sugli
uomini e sugli avvenimenti! Ti diletterai pure a osservare quante cose si potevano dir bene allora
senza una quantità di parole e di frasi che a noi, per dir quelle cose stesse, paiono ora di necessità
assoluta; ti maraviglierai di trovare interi periodi che si potrebbero riscrivere al presente, dopo sei
secoli, senza mutarvi un vocabolo; ti divertirai a notare qua e i francesismi curiosissimi, le parole
che mutarono significato, e quelle cadute in disuso, che ora farebbero sorridere, le diversità
singolarissime, fra quel tempo e il nostro, del senso e del linguaggio comico, del frasario
cerimonioso, delle forme del ragionamento, dell’espressione della gioia e dell’amore. E arrivato a
un certo punto, vivrai con l’immaginazione in quel tempo, ti parrà d’aggirarti fra quella gente e di
respirare l’aria che essi respiravano. Avendo cominciato a leggere per imparar la lingua, sarai preso
a poco a poco dalla sostanza, attratto dalla curiosità di quel modo di sentire e di pensare, dalla
descrizione delle costumanze, degli usi [328] pubblici, della vita domestica, dell’arte della guerra e
dei viaggi, da tutte le manifestazioni dello spirito di quel popolo “giovane, forte, adoprante, pieno
d’immaginazione, più inventore che ora non sia„, e compreso d’una fede religiosa semplice e
ardente. E ammirerai di più quegli scrittori se proverai qualche volta a staccarti all’improvviso da
loro per leggere uno qualsiasi dei prosatori del tuo tempo. Come ti parranno compassati, troppo ligi
alla fredda ragione, pieni d’artifici e di civetterie e ricercati nell’orditura e nell’armonia dello stile
anche quelli che per questi rispetti peccano meno! E più avvertirai il vantaggio di quelle letture
quando, avendone ancor piena la mente, ti metterai a scrivere, chè ti sentirai tanto più sciolto, più
libero, meglio inclinato a esprimere i tuoi pensieri semplicemente, fresco e leggiero dello spirito
come si sente del corpo chi esce dall’acque d’un fiume. E ti do un consiglio: di leggere prima i più
semplici, dai quali quando passerai a Dante, rimarrai maravigliato, come d’un prodigio, del passo
gigantesco che fa con lui la prosa italiana, senza perdere la sua freschezza giovanile, pure prendendo
a norma la sintassi latina; maravigliato profondamente della elaborazione sapiente che egli vi porta
insieme coi “soavi numeri„ e i “sottili legamenti„ della poesia, dell’arte magistrale con cui egli
disegna l’idea, plasma l’immagine, illumina tutti i particolari dei fatti in quell’architettura
mirabilmente varia dei periodi, in quella prosa “ora solenne ora gentile, profonda e limpida„ che è il
primo vero e grande esempio di prosa artistica nella nostra letteratura. E studia con amore anche
l’altro grande [329] maestro. Vinci la noia che ti daranno da prima i lunghi periodi, nei quali, per
accarezzare l’orecchio, sovrabbonda di parole, e per raggruppare intorno a un concetto principale
troppi concetti accessori, addossa incisi ad incisi, e per imitare la prosa latina intreccia e traspone
forzatamente frasi e vocaboli. Vinci quella prima noia, e dello sforzo sarai compensato ad usura.
Dov’egli esprime un sentimento vivo o tratta un argomento che s’accorda con le sue facoltà naturali,
i suoi difetti spariscono o s’attenuano; dove ai suoi personaggi fa parlare il linguaggio della
passione, ha tratti d’eloquenza calda, logica e impetuosa che t’avvolge e ti trascina; nella pittura
della realtà comica, nella descrizione delle scene e dei personaggi lepidi, nel dialogo, nella satira,
egli si serve con ardimento e con arte impareggiabile di tutti i più efficaci costrutti del parlar
fiorentino, dell’idiotismo, del proverbio, di tutto quanto v’è di più vivo nella lingua viva, come se in
lui fossero raccolti e saltassero fuori l’un dopo l’altro dieci scrittori. Ti parrà uniforme da principio:
poi vi troverai mille forme, mille armonie, mille colori. E non possiamo imitarlo, non forzare il
nostro pensiero moderno alle sue forme, a cui non si piegherebbe che snaturandosi, dipingere e
scolpire con l’arte sua, ripeter la sua musica; ma egli resta pur sempre un architetto sovrano, un
pittore insigne, uno scultore stupendo, un artefice di suoni maraviglioso, uno scrittore unico, che
fece nella prosa italiana il lavoro d’una generazione, che ogni volta che ci riprende, ci domina, e al
quale è bene ritornare ogni tanto, perchè se n’esce sempre con un raggio nella mente e dell’oro nelle
mani.
[330]
Dal Boccaccio a Leonardo.
Vuoi ora qualche consiglio, non da maestro, ma da vecchio amico, per proseguire dopo il Trecento?
Fatto che avrai il gusto al Boccaccio, non ti svoglierà dalla lettura l’imitazione che troverai di lui in
una serie di scrittori del secolo seguente; i quali, sotto l’influsso del culto risorgente dell’antichità,
seguirono l’esempio del grande novelliere, dislogando le ossa, come dice il Leopardi, e le giunture
della nostra lingua, per imporle violentemente le forme latine. Leggerai Leon Battista Alberti che
della gravezza della sintassi boccaccesca ti compenserà con molte pagine di stile elegante e agile,
sparse di parole vive e frasi schiette del suo volgare nativo. Leggerai con piacere la lettera di
Lorenzo il Magnifico a Federico d’Aragona, che si può dire la prima esposizione critica della nostra
più antica letteratura poetica, oltre che un esempio di bella prosa, foggiata alla latina, d’una
eloquenza nobile e calda. Per formarti un concetto della prosa classicheggiante di quel secolo, qual è
nel più alto grado del suo svolgimento, leggerai, con un po’ di pazienza, l’Arcadia del Sannazzaro.
Altri scrittori leggerai, che con più o meno garbo innestarono la latinità nel volgare, temperando la
gravità dello stile forzato con quella parte della lingua viva, che irresistibilmente veniva loro dalla
bocca alla penna. E farai una cosa: alternerai con la lettura di questi, che prolungata ti stancherebbe,
quella degli scrittori semplici e spontanei, che anche nel Quattrocento fiorirono. Leggi le lettere di
Alessandra Macinghi, [331] dove, col candore dei Trecentisti, troverai la ricchezza e la vivacità del
parlar fiorentino del tempo suo, e come in uno specchio limpidissimo riflessa la vita d’una famiglia
di quel secolo, e in questa un’anima schietta, buona, amorosa, di cui ti resterà l’immagine impressa
nel cuore. Leggi le prediche di Fra Bernardino da Siena, tutte fiorite di bei modi dell’antico parlar
senese, tutte apologhi, novellette, arguzie, quadretti pieni di freschezza e di vita. Leggi, come
esempio di spontaneità e di forza, belle nonostante le ruvidezze dello stile, efficacissime nelle forme
piane e spezzate del parlare popolaresco, le prediche del Savonarola, piene di lampi e di tuoni,
qualche volta grandi e terribili. Leggi sopra tutto il Trattato della Pittura di Leonardo da Vinci, per
vedere a che grado d’efficacia possa pervenire nello scrivere un homo senza lettere quando tratta
una materia in cui è maestro, a qual segno di gagliardia, di densità, di concisione, di limpidezza
possa arrivar nella prosa, pur senza lettere, chi ha osservazioni profonde e grandi pensieri da
esprimere, che quadri stupendi di colorito e d’evidenza riesca a dipinger con la penna chi ha delle
cose la visione fisica netta, luminosa, immensa ch’egli aveva.
Da Leonardo al Machiavelli.
La stessa norma, d’alternar le letture di scrittori d’indole opposta o diversa, ti consiglio di seguire
per gli scrittori del secolo decimosesto, il più ricco di grandi maestri, il più vario nelle opere, il più
ammirabile per ricchezza di lingua e perfezione di forma, di tutta la letteratura [332] italiana. Nel
Bembo, primo legislatore della lingua volgare, che giovò più di tutti in Italia alla formazione d’un
idioma letterario comune, e in molti dei suoi imitatori, che tutta l’arte dello scrivere ridussero nella
scelta e nella collocazione delle parole, ti spiaceranno la mancanza di spontaneità, l’asservimento
del pensiero alla frase, l’imitazione pedissequa del Boccaccio, e più che altro quel pavoneggiarsi
perpetuo, come se a ogni periodo dicessero ai lettori: Vedete come scrivo bene! Ma leggili con
attenzione, non fosse che per la lingua purissima, chè ne ricaverai un grande vantaggio. Quanti felici
costrutti e garbati giri di sintassi vi troverai, che fine arte nel concatenare i periodi e nel rendere ogni
sfumatura del pensiero, che ricchezza di modi e che belle e flessuose forme di eleganza e di cortesia
signorile! E non soltanto lo stile dignitoso e semplice ti attirerà nel Cortegiano del Castiglione; ma
la rara potenza dell’osservar dal vero e sul vivo, e la forte pittura di caratteri storici, e la
rappresentazione evidente della vita delle Corti italiane del Cinquecento, e la magistrale arte
dialogica. E nel Galateo del Della Casa, oltre la grazia, la fiorentinità schietta, il sapore
trecentistico, la ricchezza delle espressioni proprie e calzanti, ammirerai le osservazioni argute e
finissime sull’animo umano, sui costumi e sulla vita; e nel Gelli la forma semplice, tersa, spontanea,
ricca del più bel volgare fiorentino e in molti tratti quasi moderna, con la quale egli rende
intelligibile e gradevole a ogni lettore anche la materia ardua della filosofia; e nel Firenzuola
l’amenità, la leggiadria, la lingua candidissima, snella, vivace, tutta grazie e [333] bei modi del
parlar famigliare. Che salti maravigliosi farai da un prosatore all’altro! E come sentirai meglio
l’originalità e i pregi di ciascuno raffrontandolo col precedente! Dopo la prosa rapida, nervosa,
scolpita del traduttore stringatissimo del più stringato degli storici, dal quale imparerai a serrare nel
più breve cerchio possibile di parole l’espressione del tuo pensiero, ti parrà più mirabilmente fluida
e musicale l’eloquenza dei dialoghi e delle lettere del Tasso. Dopo esserti dilettato nell’arte squisita
delle Lettere del Caro, di stile disinvolto e brillante, ma correttissimo, e piene di gaio lepore,
leggerai con doppio piacere il più eloquente e più incantevole sgrammaticatore di tutte letterature,
quel libro unico, riboccante di vita, di forza, di baldanza, d’ingegno, viva immagine d’un uomo e
d’un secolo straordinario, quella specie d’Orlando Furioso in prosa, quell’indiavolato e sfolgorante
capolavoro, che è la Vita di Benvenuto Cellini. Quando t’avranno un po’ stancato le descrizioni e le
orazioni sfoggiate della storia del Giambullari “artista finissimo della parola e della sintassi„ ma
impettito e freddo nella sua “dignità impeccabile„, leggerai e rileggerai con sempre più calda
ammirazione l’Apologia di Lorenzino dei Medici, una folata d’eloquenza italianissima, lucidissima,
ardente di passione, bella e spaventevole come un torrente in piena, che travolge ogni cosa. E senti:
studia il Guicciardini. Non ti sgomentare di quello stile involuto e austero, talvolta un po’ rude,
sovente oscuro, che sulle prime al lettore un senso d’oppressione, e gli confonde la mente.
Continua a leggere. Tu riconoscerai a poco a poco che quel [334] modo di scrivere non è tanto
sforzo e artifizio quanto effetto naturale della maniera di sentire e di pensare propria dell’autore, del
procedimento con cui si svolgono e s’intrecciano le idee nel suo intelletto profondo e complesso,
“uno dei più chiaroveggenti che siano stati al mondo.„ E dai periodi lunghi e farragginosi, di cui si
stenta a cogliere il senso, distinguerai quelli lunghi del pari, ma architettati con maestria mirabile,
periodi da gran signore della lingua e dello stile, in cui dagli accessori emerge l’idea principale,
dominante, come una torre sopra un villaggio. E da questi imparerai a legare con ordine e con
armonia in un periodo solo, intorno a un solo concetto, una famiglia di concetti minori; e dai
magistrali ritratti dei personaggi e dalle considerazioni acute e profonde sugli avvenimenti, a
studiare l’animo umano e i casi della vita; e di quella lettura ti rimarrà nella mente un suono grave e
solenne, che risentirai come un’eco ispiratrice ogni volta che, scrivendo, cercherai una forma degna
a un ordine di alti pensieri.
Ma sopra tutti ammirerai e studierai il Machiavelli, che “segna il punto d’arrivo della sincera prosa
antica e il punto di partenza della moderna„, prosatore che dal latinismo e dall’uso volgare trae
insieme una forza che nessun altro raggiunse, il più schietto, il più sicuro, il più sintetico, il più
logico scrittore del tempo suo, il più sdegnoso disprezzatore della rettorica, il più strettamente
legato alla realtà delle cose, il più potentemente drammatico, il più superbamente eloquente; grande
nell’arte che va innanzi al suo secolo, grande [335] nell’ardimento e nella carità di patria che gli
fiammeggia nell’anima, grande nel pensiero folgorante, che illumina il presente e legge
nell’avvenire.
Da Galileo all’Alfieri.
Un altro grande maestro. Di dove arriva il Machiavelli, il più moderno dei prosatori antichi, muove
Galileo, che infondendo nella prosa il soffio di quella nuova filosofia, la quale “fa più ricche, più
chiare e più dritte le teste„, le dà sulla via della libertà e della verità l’impulso poderoso, per cui ella
procede fino al tempo nostro. La sodezza e la concisione che viene dalla densità del pensiero e dalla
profondità della dottrina, la lucidità pura che deriva dalla chiarezza perfetta e dallo stretto e sottile
concatenamento delle idee, l’eleganza, la dignità, la sprezzatura signorile che è effetto del pieno
possesso e del sentimento profondo della lingua letteraria e della famigliare, tutto questo è in quella
nobile prosa che scorre come un largo fiume pacato e limpido, e in cui si sente la forza d’un
intelletto sovrano e d’un’anima grande. Rimani un pezzo alla scuola di Galileo, e ritornavi ogni
tanto per imparare, non soltanto a scrivere, ma a meditare e a ragionare; senza di che si mena la
penna, ma non si scrive. Poi leggerai i suoi discepoli e continuatori, e ti piacerà nel Redi la grazia
prettamente paesana, nel Magalotti la scioltezza tutta moderna, nel Boccalini la vivacità e la
gagliardìa. In altra forma ti persuaderà eloquentemente dell’obbligo di ben parlare la propria
lingua il Dati, nella cui prosa ritroverai il miglior Cinquecento; e nel Sarpi ammirerai la [336]
sobrietà vigorosa e lucida, retta da una coscienza fortissima e da un alto intento civile. Ti parrà di
ritornare indietro col Bartoli, adoratore della forma, studioso di vezzi e di grazie, servitore, non
dominatore della lingua; ma di lingua vi troverai una miniera enorme, e v’imparerai l’arte difficile
di “condurre come in ordinanza stretta i pensieri e trarre dalla destrissima collocazione delle parole
chiarezza lucidissima e nobile e grato temperamento di suoni„. E artificio rettorico troverai pure
nelle prediche del Segneri, concitate talvolta per proposito più che per passione; ma anche
spontaneità nell’esuberanza, e puro eloquio e varietà d’armonie nella stretta argomentazione e
negl’impeti non rari d’eloquenza vera; e calda, viva, irruente eloquenza nelle Filippiche del Tassoni,
frementi d’ira contro la dominazione straniera e tutte palpitanti di generose speranze italiane. C’è
bisogno di raccomandarti Gaspare Gozzi, maestro di eleganza e di grazia, pieno di buon gusto e di
buon senso, e osservatore arguto e finissimo, che in pieno Settecento oppone all’invadente gusto
straniero la sua bella prosa castigata, ancora atteggiata della dignità antica? Occorre accennarti la
prosa agile, spigliata, scintillante, con la quale Giuseppe Baretti allarga i confini della critica e tratta
a ferro e a fuoco le frivolezze e le pastorellerie dell’Arcadia? Ma a lui non t’arresterai per studiare
gli effetti prodotti nella prosa italiana dal nuovo mescolarsi della cultura nazionale con la cultura
europea contemporanea. Leggerai del Cesarotti, benchè francesizzante, le pagine dove si prefigge di
liberar la lingua dal dispotismo dell’autorità e dai capricci della moda [337] e dell’uso per
sommetterla al governo legittimo della ragione e del gusto; e non trascurerai il Bettinelli, se vorrai
un esempio singolare di prosa battagliera, ribelle alle tradizioni pedantesche, inforestierata, ma viva;
l’Algarotti, che nello stile foggiato alla francese ha l’arte di render piane con facilità e vivezza
quasi di conversazione le verità più difficili della scienza; Alessandro Verri, non puro di lingua
di stile, ma uno dei primi nostri scrittori riusciti efficacissimi nella mozione degli affetti. E
arriverai così a Vittorio Alfieri, che con la sua Vita eresse il primo monumento di prosa veramente
moderna: e s’intende di quella prosa personale, non calcata su alcun esemplare da tutti imitabile, la
quale prende forma e colore dall’indole dell’autore, ed è opera d’arte, ma d’un’arte sua propria,
uscita dall’intimo dell’animo suo, e che non si può confondere con quella di nessun altro, come
l’espressione del viso e il suono della voce.
Dal Foscolo al Carducci.
E ora una schiera di maestri, mirabilmente vari, nei quali, come nell’Alfieri, parla il nuovo spirito
destato dalla rivoluzione e la coscienza nazionale risuscitata dalla dominazione francese; e primo fra
questi Ugo Foscolo con quell’Epistolario impareggiabile, in cui egli trasfuse e svelò tutta l’anima
sua con un calore, con una sincerità, con una franchezza e vigoria di stile che ti soggiogheranno. Ma
non trascurerai però la prosa fluida, chiarissima, sonoramente faconda del suo rivale poetico,
Vincenzo Monti, battagliante col diavolo in corpo contro la Crusca [338] e i propri critici. ti
spiacerà il ritorno all’imitazione dell’antico in quegli scrittori che tentarono per tal via di salvare le
nostre lettere dalla corruzione straniera; chè anzi essi ti gioveranno per questo. Declamazione,
ridondanza d’ornamenti, affettazione anticheggiante; ma anche vigor maschio di stile, pagine
scultorie e magniloquenti troverai nel Botta. Ammirerai il gusto squisito e “la strettissima fabbrica
dei periodi„ nel Giordani, benchè per il soverchio studio appunto di legare strettamente le idee e di
serbar la lingua purissima, egli abbia qualche cosa di rattenuto, come dice il Capponi, e “non scorra
nella sua prosa libera e franca l’onda della parola„. E benchè la parola idoleggi, e sia schiavo del
suo principio di restringere la lingua al Trecento, ti gioverà il Padre Cesari, prosator gioielliere, tutto
eleganze classiche, che fu al tempo suo contro il forestierume linguistico un “antidoto potente„ non
inutile affatto ai giorni nostri. E lascerai dire chi vuole: leggerai il Colletta, non impeccabile nella
lingua e non sempre chiarissimo, ma fiero e gagliardo in quella sua prosa da uomo di guerra, che
porta lo stampo profondo dell’animo suo. E non leggerai soltanto, studierai con amore i due
prosatori ammirabili che sono nel Leopardi: quello libero, vivo, tutto moderno dei Pensieri inediti,
dove s’abbandona all’ispirazione subitanea, quasi parlando più che scrivendo, e quello meno agile,
meno colorito, ma di disegno più puro e più fermo, delle Operette morali: prosa originalissima,
mista di modernità e di classicismo, magistralmente ordita, d’una “serenità marmorea„,
d’un’armonia sommessa e delicatissima, e d’una [339] chiarezza “a traverso la quale si vedono i
pensieri come per un’acqua limpida le rene e i sassolini del fondo„. Quello che il Leopardi non fece,
di rinfrescare la lingua alla sorgente dell’uso vivo, troverai nel Tommaseo, che alla propria prosa
“diede moto e vita e copia ritraendo giudiziosamente dall’uso fiorentino„, poeta e scienziato della
parola, qualche volta troppo forzatamente conciso, ma ricco, robusto, proprio, e pittore e scultore e
cesellatore, che dice mirabilmente e in modo tutto suo ogni cosa più difficile a dire. C’è bisogno di
rammentarti Giuseppe Giusti? Non è a imitarsi la soverchia ripetizione dei modi prediletti,
l’abuso delle forme vernacole, l’affettazione della sprezzatura, in cui cade troppo spesso
nell’Epistolario; ma quanta ricchezza di modi famigliari e popolari, che pieghevolezza, che amabile
baldanza, che briosa disinvoltura di stile! Non t’avrei neppure da rammentare il Guerrazzi, non
scevro di vecchia rettorica, d’enfasi romantica, e spesso forzato nello stile; ma ricchissimo di
lingua pura, di frasi scultorie e d’immagini ardite, potente nell’espressione dell’ira e del sarcasmo e
negl’impeti d’eloquenza patriottica, scrittore originale e grande nelle sue pagine migliori, venate
d’oro e scintillanti di gemme, irte di rilievi di bronzo e di punte d’acciaio. Leggi dopo questa, per
amor del contrasto, la prosa nobilmente famigliare di Gino Capponi, bella d’una proporzione, d’una
discrezione, d’una compostezza patrizia, nella quale, come dice il Carducci, l’anima del lettore si
riposa e si contenta come l’occhio dello spettatore nelle linee degli edifizi fiorentini. E non soltanto
per dovere di cittadino, ma per interesse di studioso, [340] leggerai la prosa del Mazzini,
“lievemente colorita di classicismo„, misurata, ma viva, armoniosa, ma senza ridondanza, ora
profeticamente solenne, ora squillante come una musica guerriera, e sempre chiara come cristallo. E
per prender coraggio da un esempio insigne del come anche un italiano nato ai piedi delle Alpi
possa con lo studio riuscire uno scrittore facondo, nobile e ricco, leggi Vincenzo Gioberti: un
maestro, benchè vesta troppo ampiamente il pensiero e “faccia sciupìo di metafore e di splendori„.
Col quale terminerei, non essendo necessario l’accennare i viventi, se d’uno di questi non si potesse
in nessun modo tacere, perchè è incominciato per lui il giudizio della posterità. Voglio dire Giosue
Carducci, prosatore potentissimo, che dice tutto quello che vuole e come vuole, solennemente e
famigliarmente, con un’arte che sgomenta chi studia l’arte; nel quale la conoscenza profonda della
lingua letteraria e il possesso perfetto dell’uso vivo, non abusati mai ad alcun proposito, si fondono
e si contemperano in un linguaggio di forza straordinaria e d’armonia svariatissima, egualmente
bello e potente nella descrizione e nella polemica, nel discorso dottrinale e nel volo lirico,
nell’orazione politica e nella fantasia scherzosa, sempre segnato d’un’impronta in cui lo riconosci e
lo ammiri.
– Ma, e Alessandro Manzoni? – domanderai a questo punto.
L’ho lasciato ultimo per finire con lui, e volevo finir con lui perchè è lo scrittore che devo
raccomandarti con maggior insistenza di studiare, parendomi la prosa dei Promessi Sposi la più
vicina a quello che è per tutti oramai [341] il tipo ideale della prosa moderna: moderna e
perfettamente italiana. È semplice, in fatti, conforme al linguaggio parlato, e pare spontanea; ma
non cade mai nella volgarità, e neppure nell’affettazione della naturalezza. È chiara, limpida come
l’aria, ma non per effetto d’una semplicità elementare: ha la chiarezza che deriva dalla precisione e
dall’ordine dei pensieri, e dall’arte finissima di ridurre ogni idea, per quanto profonda e complessa,
a un’espressione semplice, che la fa parere un portato del senso comune. È sempre stretta al
pensiero, ma senza impacciarlo mai; logica, ma senza mostrar lo sforzo delle connessioni e dei
legamenti; omogenea, ma pieghevole a tutti gli atteggiamenti del pensiero e alla natura propria
d’ogni oggetto o argomento; originale, ma non ribelle alla tradizione, e scevra a un tempo d’ogni
imitazione o reminiscenza di stili altrui. È ricca di lingua, e dove il soggetto lo vuole, elegante, ma
senza che la forma si faccia mai sentire per stessa, senza che alcuna parola o frase distolga mai
l’attenzione dal pensiero; ed è variamente colorita, ma senza vistosità, e con una fusione perfetta di
tinte; ed è mirabilmente armoniosa, ma senza ricerca evidente del numero, d’un’armonia riposta e
delicatissima, che par non venga dalle parole, ma dal pensiero, e nasce infatti dall’equilibrio perfetto
delle idee, e suona nella mente quasi senza che l’orecchio la senta. Leggila e studiala con attenzione
e con amore. Studiala confrontando le due Edizioni del Romanzo, quella del primo testo, del 1825,
e quella corretta, del 1840, e ne intenderai meglio la ragione, l’arte e la bellezza al vedere come del
primo testo l’autore [342] ha appianato le scabrosità, addolcito le durezze, sostituito al latinismo o
al modo vernacolo la locuzione italiana, all’arcaismo la parola viva, alla pedanteria grammaticale
l’anacoluto efficace; per che via, con che norma lucida e costante egli ha rifatto in parte e avvicinato
l’opera sua alla forma ideale che gli splendeva nella mente. Studiala, e t’affinerai il criterio e il
gusto, e prenderai in avversione per sempre il manierato e il falso, il troppo e il vano, la trivialità e
la stranezza, l’orpello e la ciancia. Studiala, e imparerai a fare e a correggere, a condensare e a
semplificare, a esser chiaro e sincero, dignitoso e discreto, logico e giusto. Studia il Manzoni e
amalo per tutta la vita.
Ma non lo adorare; ti sia maestro, non idolo.
Conclusione.
Voglio dire: non te lo prefiggere modello unico di prosatore, per avere il pretesto, comodo alla
pigrizia, di non leggerne altri, come molti fanno; ai quali il maestro unico raffina il gusto, ma lo
circoscrive; poichè il Manzoni mostrò c che può la lingua nostra, ma non in tutti i campi, in
ogni forma della letteratura, non avendo trattato ogni argomento, tutto detto in tutti i modi
possibili neppure nel campo suo. E non lo imitare, per la ragione principalissima, ch’egli non ha
imitato nessuno. Ma la semplicità domanderai la naturalezza, tutte le qualità mirabili che
riconosciamo nella sua prosa, perchè non s’hanno da imitare? E io ti rispondo che quelle qualità
non te le darà l’imitazione, con la quale troppo facilmente la semplicità degenera [343] in sciatteria,
la grazia in sguaiataggine e in superficialità la chiarezza. Quelle qualità devono essere in te, come
furono nel Manzoni, il frutto maturo d’infiniti studi e letture, e disse stupendamente il più sensato
dei manzoniani: che è illusione il credere di potergliele rubare, leggendo lui soltanto, senza rifare
in qualche modo il cammino ch’egli fece. Leggi dunque, e studia tutti gli scrittori. Leggi e confronta
fra di loro quelli che si rassomigliano e quelli che più si dissomigliano, arrestandoti in special modo
a considerare gli effetti simili ottenuti con mezzi diversi. In ciascuno troverai certi ordini di pensieri
e di sentimenti ch’essi esprimono con maggior efficacia d’ogni altro; troverai nei più artificiosi
espressioni e forme semplici; nei meno eleganti forme elegantissime; nei meno ricchi di lingua
locuzioni e costrutti preziosi, da altri non usati, frasi e parole, dalle quali essi soli traggono certi
effetti vivi, per il punto e il modo con cui le adoperano, come se quelle forme acquistassero dalla
loro penna, incastonate nei loro periodi, un valore particolare. Cerca in tutti, quando sei arrestato da
una frase o da una parola che suona falso, o da un’oscurità, o da una slegatura che ti dà il senso d’un
vuoto, o da un giro di parole che ti un principio di noia, cerca in qual maniera si potrebbe
correggere l’errore, chiarire l’oscurità, annodare i pensieri sconnessi, recidere la frase oziosa.
Arrèstati in special modo ogni volta che trovi espressi con facilità e proprietà certi sentimenti e
pensieri, dei quali a te suol riuscire difficile l’espressione, o perchè corrispondono a lati deboli delle
tue facoltà, o perchè sono remoti dalla tua indole, o perchè si [344] riferiscono a cose sulle quali
non hai mai fermato a lungo l’attenzione. E ritorna sulle pagine belle: non ti contentare di quella
prima commozione viva e piacevole ch’esse ti destano, nella quale, come dice il Leopardi, la mente
tumultua e si confonde; ma esamina, com’egli faceva, e rivolgi in mente quelle bellezze fin che esse
vi piglino un posto, dove rimangano. Locuzioni, armonie, inflessioni di stile, particolarità sintattiche
degli scrittori più diversi si mescoleranno nella tua memoria, si combineranno coi tuoi pensieri, e ti
verranno fuori in certi momenti, senza che tu ne riconosca l’origine, come dall’intimo del tuo
spirito, come nate nel tuo capo, e tutte tue; chè saranno tue veramente. Ti verranno, nello scrivere,
reminiscenze inconsapevoli di tutte le scuole, di tutti i generi e di tutti i secoli della letteratura,
soccorsi inaspettati, echi lontani e vicini e soffi animatori e baleni; scriverai con la cooperazione
misteriosa di tutti i grandi scrittori; e ti parrà nondimeno di non ricever nulla da nessuno, perchè
quello che n’avrai tolto sarà diventato tua eredità legittima, ti sarà penetrato “nei più profondi strati
del pensabile„, sarà diventato sostanza del tuo cervello e del tuo sangue, il tuo ingegno, la tua
italianità, la parola spontanea e necessaria del tuo sentimento e del tuo pensiero.
[345]
UN PARLATORE IDEALE.
È uno dei più cari ricordi della mia gioventù questo toscano illustre, al quale, per riuscire un grande
scrittore, non mancò l’ingegno, nè la dottrina, il sentimento, l’arte; ma solamente la voglia
di scrivere. Già dissi di lui in altri libri; ma l’impressione ch’egli mi lasciò di nell’animo e nella
mente è così profonda, e ancor così viva, che, riparlandone, non ho coscienza di ripetere cose già
dette; e se ripeto le cose, mi vien sempre fatto di dirle in modo diverso, poichè mi pare di non averle
mai dette prima con bastante efficacia.
È il più ammirabile maestro di lingua parlata ch’io abbia inteso mai, quello che mi mostrò meglio
d’ogni altro più eletto parlatore ciò che può la lingua italiana nel campo della conversazione agile e
varia, irto di tante difficoltà per la maggior parte degl’italiani anche colti.
Si sentiva ch’era toscano; ma non negl’idiotismi di pronunzia che ai toscani si rimproverano, chè
non n’aveva nessuno, non aspirando neppur leggermente la c: si sentiva nella pronunzia [346]
perfetta che, fuor di Toscana, nessun italiano o pochissimi possedono, anche di coloro che hanno
reputazione meritata di parlar perfettamente. Ma la pronunzia era il pregio minore del suo parlare. Il
pregio massimo era d’esprimere ogni pensiero, anche più difficile, intorno a qualunque argomento,
o più ovvio o più astruso, con una facilità e con un garbo impareggiabile, senza uscir mai dal tono
della conversazione famigliare; di dire ogni cosa con proprietà, con finezza e con eleganza, senza
che apparisse mai nel suo discorso neppure un’ombra di ricercatezza e d’ostentazione letteraria.
Parlava con facilità, ma non in furia, e se qualche volta s’arrestava un momento a cercare una parola
o una frase, nessuno dei suoi ascoltatori s’impazientiva; non solo, ma l’aspettazione era piacevole,
perchè sapevan tutti che l’espressione aspettata veniva poi quasi sempre più felice, più calzante al
pensiero di quella che alla mente loro s’affacciava. E v’erano nel suo linguaggio gradazioni
finissime secondo ch’egli parlava con persone con le quali non avesse dimestichezza, o con amici
stretti, o in un crocchio dove non fossero signore, o con signore. Non c’era caso che con queste gli
sfuggisse mai uno di quei tanti modi volgari, comunemente usati, dello stampo di tirar su le calze o
romper le tasche o mandare a far friggere, che molti credono leciti in ogni compagnia perchè li
hanno letti nei libri: egli non aveva neppur da fare un atto di riflessione per iscansarli: il suo senso
squisito della dignità e della grazia li escludeva. E così, quando gli occorreva di spiegare ad uno
qualche cosa che questi non comprendesse alla prima, o quando faceva una [347] citazione, o
ribatteva un’opinione altrui, erano ammirabili le sfumature, le industrie gentili della frase e
dell’accento, ch’egli usava, non lasciandole quasi avvertire, perchè non ci fosse nel suo linguaggio
nessun’apparenza d’insegnamento, colore di saccenteria, asprezza di contraddizione. Ne
seguiva mai ch’egli mostrasse, come fanno molti bei parlatori, di star a sentire stesso, o di cercar
negli occhi degli uditori l’ammirazione della propria eloquenza: non si vedeva mai sul suo viso, non
si sentiva mai nel suo accento altra espressione da quella del pensiero o del sentimento ch’egli
esponeva. Alla semplicità signorile e amabile del linguaggio corrispondeva perfettamente il suo
modo di gestire: vivo, ma sobrio, e sempre spontaneo, e pieno d’efficacia, sia che facesse l’atto di
disegnar nell’aria un’immagine, o d’incidere col cesello una frase, o di modellare una forma nella
creta, o di scacciare con la mano un velo di nebbia che ondeggiasse fra il suo pensiero e la sua
parola. Maravigliosa era poi la varietà del suo vocabolario, ricchissimo, secondo gli argomenti della
conversazione, di locuzioni letterarie e di modi popolari, senza che nessun modo insolito usato da
lui paresse mai strano o nuovo affatto a chi l’udiva per la prima volta, tanto egli l’usava a proposito,
e in maniera che da tutto il discorso n’era chiarito il senso e l’opportunità dimostrata. Persino quei
vocaboli stranieri, che s’usano di necessità per designar nuove cose, ma che suonano
sgradevolmente all’orecchio non ancora assuefatto a sentirli, riuscivano meno esotici, pigliavan
quasi suono e apparenza italiani in quel suo linguaggio di sostanza e di forma tutta [348] italiana,
come se questo comunicasse loro un poco del suo colorito e della sua armonia. Con che agilità di
parola raccontava, con che evidenza di disegno e securità di tocco descriveva, con che vivezza
faceva scattare e scintillare l’arguzia, e con che stretta concatenazione d’argomenti e lucida
semplicità di dizione ragionava, smorzando il tono, allentando la stretta della dialettica, raffinando
la cortesia dell’espressione man mano che sentiva vacillare l’avversario, non più ostinato a resistere
che per salvare l’orgoglio! Si diceva ogni momento, ascoltandolo: Senti, come si può dire
semplicemente la tal cosa che io dico sempre con una frase solenne! Oppure: Guarda, e io
sostenni sempre che la tal frase francese non si poteva tradurre in buon italiano! A sentirlo,
desideravo sempre che fosse qualche dotto straniero, di quelli che intendono l’italiano e lo
gustano, perchè ammirasse in quel parlare un saggio della ricchezza e della potenza della nostra
lingua, e mi rallegravo in fondo all’anima, e sentivo alterezza d’esser nato nel paese dove una tal
lingua si parla. E osservavo che quasi tutti, discorrendo con lui, parlavano meglio del solito, e non
per uno sforzo che facessero, per emulazione; ma naturalmente, come per un’eco armoniosa ch’egli
destasse in loro; ciò che pure osservai nelle famiglie, dove parlan tutti più o men bene, se c’è uno
che parla benissimo. La sua conversazione era un diletto, un pascolo intellettuale, una scuola di
lingua e di gentilezza. E per effetto dei vari pregi ch’egli riuniva, dell’espressione propria e colorita,
della pronunzia bella, dell’accento e del gesto [349] efficacissimo, tanta parte dei suoi discorsi m’è
rimasta impressa nella memoria, che ad ogni tratto, parlando e scrivendo, nell’atto stesso che certe
espressioni m’escono dalla bocca o dalla penna, mi ricordo d’averle imparate da lui; e molte volte,
dopo che ho scritto una frase o una parola che mi pare affettata, o volgare, o disadatta, domando a
me stesso s’egli l’avrebbe usata, e se, immaginando d’udirla dire da lui, mi par che stoni col suo
discorso, la cancello; e quasi sempre, nel rileggere con intento critico qualche cosa mia che non mi
contenti, per forzarmi ad esser severo con me medesimo in ciò che riguarda il buon gusto, mi figuro
che ci sia lui, ad ascoltare. E così nei buoni effetti del suo insegnamento mi risorge dinanzi
sovente l’immagine del maestro insigne e caro, che da venticinque anni non vedo più, e a cui m’è
dolce esprimere ancora una volta la reverenza antica e la gratitudine fatta più viva dal tempo.
[350 bianca]
[351]
PARTE TERZA.
[352 bianca]
[353]
SE CI POSSIAMO FARE UNO STILE.
Un onesto negoziante, un po’ burbero in famiglia, ma buon diavolaccio, il quale credeva che per
legge di natura un padre fosse in grado d’insegnare alla sua prole ogni cosa, un giorno, in mia
presenza, disse severamente al suo figliuoletto, rendendogli la pagina del componimento italiano:
Ma quando ti farai uno stile? Poi, rivolgendosi a me: Lo persuada lei, che è tempo che si faccia
uno stile.
Gli promisi di contentarlo in un momento più opportuno; ma la prima volta che mi trovai a
quattr’occhi col ragazzo, lo confesso senza rimorso, tradii il genitore con un discorsetto ribelle alla
sua volontà; il quale diceva presso a poco quello che ora ripeto a te, mio giovine lettore ideale.
Farsi uno stile! Mi par come dire: farsi un temperamento, farsi una fisonomia, farsi una voce. Lo
stile non ce lo facciamo: ci vien fatto; o come disse un grande scrittore, si trova senza cercarlo: chi
lo cerca, non può che trovare uno stile artefatto; chi se lo vuol fare non riuscirà [354] che a farsi una
maniera, non uno stile. Qualunque scrittore, che abbia uno stile veramente proprio e sano, che non
sia imitazione o artifizio (sinonimi, letterariamente, di malsania), se gli domandi in che modo se lo
sia fatto, ti dirà che non lo sa, o che non lo sa dire; che in fondo è la stessa cosa. Non ti dar dunque
questa briga, non soltanto inutile, ma perniciosa. Se si tien per giusta la definizione: lo stile è
l’uomo, tu devi prima diventare un uomo. Se s’accetta l’altra definizione: lo stile è quella vita che
il tuo concetto prende in te, e che tu comunichi, nell’esprimerlo, agli altri –, o più breve: è la vita
nella parola –, come si può cercare la vita?
Sei persuaso?
T’addurrò un’altra ragione. È un fatto universalmente riconosciuto che ogni individuo, in un certo
senso, parla un linguaggio diverso da quello d’ogni altro uomo, cioè, che non solo usa sempre o
quasi quelle tali parole per esprimere quelle tali cose, e ha certi modi e frasi famigliari, consuete a
lui più che agli altri; ma che certe parole e frasi suole usare in un significato leggermente diverso da
quello che dànno loro la maggior parte. E non soltanto ciascun uomo ha un linguaggio individuale
per quello che riguarda i semplici vocaboli e le semplici frasi; ma ha pure un suo modo particolare
d’ordinare le idee, il quale deriva dal maggiore o minor grado d’importanza che a ciascuna idea egli
attribuisce rispetto all’altre, e un modo suo proprio di legarle fra loro, il quale dipende dalle
relazioni particolari che fra loro egli vede, e anche un andamento del discorso, per così dir musicale,
suo proprio, il quale è effetto del suo [355] modo individuale di sentire il suono del linguaggio
ch’egli parla. Ora in questo vocabolario individuale, e nel modo d’ordinare e di collegare l’idee, e
nel ritmo del discorso che ciascuno ha di suo, consiste appunto lo stile; e tu comprendi che tutte
queste cose non si cercano, ma vengono da sè, col tempo, che ne porta molt’altre. Vedi dunque che
non ti devi affannare a farti uno stile.
Ognun sa sè, dice il proverbio, e il Giusti, riferendolo allo scrivere, l’ha ben commentato così:
ognuno ha mezzi tutti suoi, tutti voluti dal suo modo di essere, e dei quali il più delle volte non
saprebbe dar conto neppure a medesimo. Ma questi mezzi non si svolgono, e non vien fatto
d’usarli che con gli anni, quando è formata l’organatura della mente e formato l’animo. In c che
nel linguaggio di ciascuno c’è di differente da quello degli altri “entra tutta l’individualità del
carattere, del sapere, dell’educazione„. Lo stile ti verrà dai recessi più profondi dell’animo, da
quello che faranno di te le passioni, i casi della vita, le cose che amerai e ammirerai, la tua
professione, i tuoi studi prediletti; ti verrà dal predominio che avrà in te o il sentimento o la ragione,
o dall’equilibrio stabile dell’uno con l’altra; dai contrasti che troverai, dalle lotte che dovrai
combattere, dai favori e dalle percosse che avrai dalla fortuna nell’aprirti una strada nel mondo,
dall’aspetto in cui ti si presenterà la natura, dal modo come giudicherai gli uomini, dalla fede che
avrai in qualche cosa di bello e di grande, o dai sentimenti che non ti lasceranno sorgere o ti
spegneranno nel cuore quella fede. Come la luce [356] del sole il colore alle cose, sarà il lume
dell’anima tua che darà il colore al tuo stile, sarà il palpito del tuo cuore che gli darà il movimento, e
gli darà il calore l’onda del tuo sangue, e l’eco che avrà nel tuo spirito l’armonia del giorno sarà la
sua armonia.
Cerca dunque per ora, nello scrivere, la naturalezza, la chiarezza, l’ordine, la proprietà; ma quel che
indefinibile che è l’individualità dello stile, che è lo stile senz’altro, aspetta che ti venga. Se te lo
volessi fare, cadresti sicuramente nell’imitazione e nella stranezza. Non cercare lo stile: pensa,
studia, opera, ama, vivi, e l’avrai.
[357]
LO STILETTATORE.
Vien qui a proposito un nuovo personaggio piacevole.
Non bazzicò che breve tempo il nostro piccolo cenacolo letterario di capi armonici, quando Firenze
era capitale; ma vi lasciò di sè una memoria vivissima,
che, come vedi, ancor non m’abbandona;
(o dolce Francesca, perdonami!) In che modo si fosse imbrancato con noi non ricordo bene: mi pare
al caffè, dove attaccò conversazione di punto in bianco, da un tavolino all’altro, una sera che
discutevamo di letteratura, vociando tutti a un tempo, com’era nostro costume. Era Emiliano, agente
di varie Case di commercio, benchè ancora molto giovane, e dilettante di lettere a ore avanzate.
Aveva scelto per passatempo la letteratura, non so perchè, invece del biliardo o del tiro al piccione:
forse perchè meno costosa; ma a poco a poco ci aveva preso passione; e l’idea madre della sua
passione era, com’egli diceva corrugando la fronte, di farsi uno stile. Questa [358] frase, nella quale
si riduceva, credo, quanto egli conservava degli studi ginnasiali non finiti, gli s’era ficcata nel capo
come una vite; farsi uno stile era diventato per lui il pensiero precipuo della vita, dopo quello di
guadagnarsi il pane. Ma qualunque altra cosa avesse disegnato di farsi, anche un palazzo di marmo
di Carrara, credo che gli sarebbe riuscita più facilmente di quella, da tanto ch’era falso e strambo il
modo ch’egli teneva per conseguirla.
Al pari di molt’altri, egli considerava lo scrivere come un’industria a parte, che non avesse che fare
col pensiero, o quasi; come un’arte meccanica in cui si riuscisse maestri con l’esercizio,
indipendentemente dal fatto di avere o no qualche cosa da dire; e credeva quindi che uno si potesse
fare uno stile, come un sarto fa un abito, per esporlo nella vetrina della sua bottega. E neanche
studiava a modo suo (chè sarebbe stato inutile) di farsi uno stile suo proprio. Egli andava cercando
nella gran sartoria della letteratura italiana un abito bell’e fatto; pigliava ora questo ora quello, se lo
insaccava, e veniva a farcelo vedere, pavoneggiandosi. Un certo talentaccio d’imitazione l’aveva.
Letto per una settimana un autore, ne cavava un certo numero di frasi e di costrutti, gl’imbastiva
insieme alla diavola sopra un argomento qualsiasi, e correva al caffè a leggerci la paginetta come un
saggio dello stile che s’era fatto. Gli saltavamo agli occhi, dandogli del contraffattore, del falso
pavone, dell’arlecchino finto Principe. E allora egli ricorreva a un altro autore, e tornava dopo un
po’ con un’altra paginetta, tessuta con la filaccia spicciata dai panni di quello. Una volta rifaceva
[359] il Giusti, un’altra il Boccaccio, una settimana guerrazzeggiava, la settimana appresso
impiccava i fantocci del suo pensiero al laccio del Davanzati. E non si scoraggiava mai per le nostre
canzonature. – Eppure –, esclamava, picchiando il pugno sul tavolino – io mi farò uno stile!
Parve una volta persuaso, finalmente, della falsità della via che batteva: che uno stile non si sarebbe
fatto mai scimiottando ora l’uno ora l’altro scrittore. Avete ragione ci disse non bisogna imitare
pecorescamente nessuno. – E ci manifestò la sua nuova idea, un’idea luminosa, una trovata da uomo
di genio, espressa con una formula farmaceutica: Bisogna mescolare e agitare. E mescolò e
agitò davvero. La sera che ci portò il suo nuovo saggio, si fece un baccano di casa del diavolo. Era
la brutta copia d’un lungo articolo di giornale, in cui aveva fatto il più bizzarro intruglio di stili che
si possa immaginare; dove quasi ad ogni periodo saltava dall’imitazione d’uno scrittore a quella
d’un altro, facendo anche salti di secoli, con una temerità di matto furioso; un cibreo stilistico, nel
quale si sentivano i più disparati sapori della cucina letteraria nazionale, dalle semplici minestre
patriarcali dei trecentisti ai lambiccati manicaretti dolciastri dei cianciatorelli fiorentineggianti e
francesizzanti della scuola manzoniana degenerata. Il chiasso che facemmo lo sconcertò al primo
momento; riconobbe sbagliata la ricetta; ma si rifece animo ben presto, e ripetè fieramente che in
ogni modo, o per una via o per un’altra, a furia di cercare e d’ostinarsi, si sarebbe fatto uno stile. E
[360] appunto per questo suo continuo farci balenare agli occhi, quasi in atto di minaccia, il suo stile
futuro, gli mettemmo il soprannome di stilettatore.
Il ridere che si fece alle sue spalle, povero stilettatore! Quando l'incontravamo per la strada, dopo
qualche giorno che non s’era visto, gli domandavamo lì su due piedi: – Te lo sei fatto?
– Non ancora proprio –, rispondeva; – ma sono sulla buona strada.
– Ma è tempo che tu ti spicci!
Si fa presto a dire –, ribatteva sul serio. Ma non ci si fa mica uno stile in ventiquattr’ore!
lasciando capire con quelle parole, che forse in fin di settimana avrebbe avuto il fatto suo.
Non gli davamo requie. Aveva ragione di dirci che gli stilettatori eravamo noi. Quando al caffè si
chinava a cercare un soldo che gli era cascato, gli domandavamo: Che cosa cerchi? Uno stile?
Quando mescolava nel bicchiere vari liquori per farsi una certa bibita di sua invenzione, dicevamo:
– Ecco Pippo (era il suo nome di battesimo) che si fa uno stile! – E gli davamo ogni specie di ricette
scritte per farselo. Recipe: tanti grammi di questo, tanti di quest’altro: pestare, sbattere, far
cuocere a bagnomaria –, e la parte del corpo dove aveva da applicare l’impiastro. Ma egli non
badava alle nostre burle, e seguitava a braccar lo stile. Uno stile ci disse gravemente una sera (e
doveva essere una frase imparata di fresco) che sia nello stesso tempo moderno e ritragga dai
grandi esemplari.
Curiosa, fra l’altro, era l’impressione che gli [361] facevano tutte le locuzioni e le definizioni
insolite ch’egli leggesse, concernenti la tecnica (era una sua parola prediletta) dello stile. Non le
capiva bene, e non poteva; ma le raccoglieva con cura amorosa, e le veniva ripetendo con cert’aria
di solennità e di mistero, come formule d’arte magica. L’elaborazione formale del periodo, il tipo
periodico, il nodo sintattico, i legami gerundivi e ipotetici, gli spunti melodici dello stile lo facevano
pensare, non so ben che cosa, nulla forse, ma profondamente. Ricordo che gli fece un gran senso
una frase bella davvero che aveva letta in un libro, dove era detto di certe curve del periodo
prosastico di Dante, non mai girate per intero, rompentisi come a formare un sesto acuto. Ah! s’egli
avesse potuto fare dei periodi col sesto acuto! Anche uno solo! Credo che avrebbe dato per questo
tutti i suoi guadagni commerciali d’un mese.
Ma per tutto il tempo che rimase a Firenze, lo stile non lo trovò.
Per i suoi affari di commercio dovè andare a stabilirsi a Milano. Ma per lungo tempo noi
continuammo a parlare spesso di lui. Non occorreva di nominarlo. Quando, in un ristagno della
conversazione, saltava su uno a dire: – Se lo sarà già fatto?tutti capivano ch’egli domandava se lo
stilettatore si fosse fatto finalmente uno stile.
Lo incontrai molti anni dopo a Milano, mentre attraversava la Galleria con aria affaccendata.
Mi salutò con viva cordialità: aveva dimenticato o perdonato le canzonature fiorentine. Dopo lo
scambio solito di rallegramenti e di notizie, pensando che la fisima dello stile gli fosse uscita [362]
di capo da un pezzo, gli domandai, per celia, se se l’era fatto.
Ma da questo genere di monomanìe letterarie non si guarisce. Mi rispose seriamente: Eh, no, non
ancora. Che cosa vuoi? Ho avuto tanto da lavorare in tutti questi anni! Ma ci penso sempre. Ho un
tipo stilistico nella mente. Oh, ci riuscirò, ci dovessi impiegare tutta la vita. Ora son persuaso che a
trovar lo stile ideale basta appena la vita d’un uomo.
Ma che ne farai del tuo stile ideale nei tuoi ultimi anni? gli domandai; poichè può ben darsi
che tu non lo trovi che agli ultimi, e anche proprio all’estremo passo. A che serve lo stile in punto di
morte?
Mi diede una risposta sublime: Io ho un ideale puro, senz’ambizioni. Sarei contento anche di
portar la mia trovata con me al camposanto. Ma lascerò qualche pagina, vedrai. Basterà una pagina!
E queste furono le ultime parole che intesi dalla sua bocca, e che spesso mi risuonano in mente. Ma
di lui non rido più. Ogni volta che ci penso, ora, mi prende un sentimento d’ammirazione, misto di
tenerezza pietosa, raffigurandomi quel povero sognatore che ancora abbracciato alla sua illusione
letteraria, sul letto di morte, dice con un ultimo sorriso alla sua famiglia sconsolata: Fatevi
coraggio! Io muoio contento. Ho uno stile.
[363]
A CHE SERVONO I PRECETTI.
Dunque, regole, precetti, niente? Adagio Biagio. Ma questo non dovrebb’essere affar mio, che
essendo tuo consigliere soltanto, non maestro, non sono in debito di dirti ogni cosa. E poi i precetti
tu li hai nei tuoi libri di scuola. Questi ti dicono quanto t’occorre: che, nello scrivere con vien
badare che tra i pensieri ci sia unità e continuità; che bisogna collocare vicine le frasi che hanno fra
di loro relazione più stretta, e di cui l’una chiama l’altra quasi naturalmente; che le proposizioni
secondarie (precedenti, conseguenti o concomitanti che siano) debbono essere misurate e collocate
in modo da non nuocere mai all’evidenza della proposizione principale, che regge tutto il periodo, o
che è principale, se non altro, per il suo valor logico. Ti dicono pure che non si ha da abusare di
nessuno dei vari modi di legare fra di loro i concetti, per coordinazione, per subordinazione, per
conclusione, ma usarli alternatamente, quanto è possibile senza forzar la sintassi; che certi concetti
o certe parti del concetto, perchè [364] richiamino sopra di l’attenzione, debbono essere staccati,
invece che fusi con gli altri, e fatti risaltare, come gli aggetti in architettura; che in certi casi bisogna
affollare nel periodo le proposizioni, in altri diradarle, per la stessa ragione che si fa del tempo nella
musica; e in alcuni punti fare una breve pausa, per lasciar liberi un momento al lettore la mente e il
respiro, e in altri una pausa più lunga, perchè il lettore riposi, come si fa danzando e camminando; e
che è necessario variare il tipo del periodo, come il tono nella parlata, per iscansare la monotonia
nella quale i pensieri si confondono e si velano come dentro una nebbia.
Tutti questi precetti tu conosci, e Dio mi guardi dal dirti che sono inutili. Ti dico, anzi, che ne devi
tenere grandissimo conto, perchè alcuni di essi, che sono leggi fondamentali del pensiero, se li avrai
sempre vivi nella mente, saranno come voci che, a quando a quando, mentre scrivi, ti faranno star
attento a non uscir della retta via, o t’avvertiranno che ne sei uscito e t’indurranno a rientrarvi,
cancellando le orme dei passi fuorviati. E aggiungo che il conoscere bene i termini e le definizioni
della precettistica ti sarà utilissimo a formare nettamente nel tuo pensiero le osservazioni che farai
sugli scrittori, a determinare con esattezza a te medesimo i difetti e gli errori che troverai in loro,
altrettanto utili a studiare quanto i pregi e le bellezze, a fare, insomma, delle opere letterarie quella
lettura analitica e critica, che è la sola veramente proficua.
E non di meno ti dico che da tutta la precettistica del mondo non imparerai a scriver bene; [365] te
lo dico perchè tu non ti sgomenti, come avviene a molti giovani, della difficoltà, della quasi
impossibilità d’aver tutti presenti, scrivendo, e d’osservare tanti precetti rigidi e astratti, che pare
debbano essere un inciampo più che un aiuto, e come una rete tesa intorno al pensiero, che gli tolga
ogni libertà di movimento. No, non ti sgomentare dei precetti. Quando ti metterai a scrivere con un
concetto chiaro nel capo, e mosso da un sentimento vivo, quando ti troverai, procedendo nel lavoro,
in quello stato di mente e d’animo, nel quale chi scrive “è compreso, agitato, spronato da dieci
operazioni della mente distinte e conflate ad un tempo, che vanno come in figura di cono a metter
capo a un prodotto comune„, l’osservanza della più parte di quei precetti ti riuscirà spontanea per
modo, che quasi non avrai coscienza d’osservarli. Sarà la tua ispirazione che, dando l’impulso alle
parole e alle frasi, le manderà ad occupare il posto che loro convien meglio nel periodo; sarà la
mobilità del tuo pensiero che scanserà naturalmente la monotonia, facendoti rompere le
uguaglianze, variar le misure dei periodi, mandare innanzi il discorso a onde ora lunghe e placide,
ora rotte e precipitose; sarà la stessa respirazione mutevole del tuo pensiero che ti farà trovare le
giuste pause, e rallentare il passo dopo le corse, per riprender lena, e riprender la corsa più rapida
dopo esser andato un tratto a rilento; sarà il tuo sentimento eccitato il maestro muto, pronto e sicuro
che ti farà dar risalto a certi concetti, sollevandoli come sur un piedestallo, e collocarne alcuni
disparte, come in uno spazio vuoto, ed esporre altri quasi a una svoltata [366] brusca del periodo,
dove facciano un’apparizione inaspettata. Tu metterai in atto molte arti sottili che non saprai di
possedere, obbedirai a molti precetti ai quali non avrai mai pensato, sarai nello scrivere, come dice
il Tommaseo che ogni uomo è nel parlare, guidato da certe norme sapientissime di natura che sono
l’umana ragione medesima.
Prevedo ora una tua domanda. Riguardo ai due stili, non è vero? C’è in ogni letteratura due forme di
stile, che, come dice benissimo un grande scrittore, scaturiscono tutt’e due dall’intima natura del
cervello umano. C’è quello più spontaneo, che del pensiero rende tutte le flessioni, segue tutti i
serpeggiamenti, accompagna in tutti i minimi moti il processo, non lasciando nulla sottintendere a
chi legge; al quale mette innanzi come un quadro, dove il pensiero stesso è rappresentato in tutti i
suoi particolari, e questi nell’ordine e nel disordine con cui si sono affacciati alla mente. E c’è lo
stile che, con un lavoro sintetico, segna del pensiero soltanto i rialti e le cime, in modo che la mente
di chi legge faccia un salto dall’uno all’altro pensiero importante, sorvolando e sottintendendo tutti i
pensieri secondari che fanno catena fra quelli, ossia compiendo da sè il quadro di cui lo scrittore non
ha dato che i tratti principali.
Ebbene, tu domandi a quale dei due stili ti debba attenere.
E chi te lo può dire, amico mio? Noi andiamo perpetuamente dall’uno all’altro. L’uno e l’altro si
trovano a vicenda, se non in ciascuna opera, nell’opera complessiva di quasi tutti gli [367] scrittori,
non tanto perchè essi passino da questo a quello deliberatamente, sentendo che ciascuno di essi, alla
lunga, affatica, quanto perchè al primo o al secondo sono naturalmente condotti dalla varia natura
degli argomenti, dal diverso modo di concepire che induce in loro il diverso genere degli studi, e
dalle condizioni dello spirito mutate dall’età e dai casi della vita. È più naturale nell’età giovanile la
prima forma, cioè, il lasciar andar la parola, la frase, la sintassi libere e agili come è il pensiero della
gioventù, viva e impaziente; s’inclina più all’altra nell’età matura, quando, pensando più denso e
più cauto, si è di conseguenza più sobri nel parlare e nello scrivere, e come in tutte l’altre cose anche
nell’espressione del proprio pensiero si cura soltanto quello che più importa e si va dritti allo scopo
per la via più breve. Tu, se diventerai uno scrittore, prenderai più spesso l’uno che l’altro stile
secondo che vorrà la tua indole; o fors’anche tutt’e due cozzeranno sempre in te senza che l’uno o
l’altro prevalga: chi lo sa? Questi son misteri, come dice Giambattista Giorgini, che l’anima celebra
con sè stessa.
Non te ne dar pensiero per ora. Quello che più preme, per riuscire nell’uno o nell’altro modo a
scriver bene, è che tu possegga da padrone la lingua; senza di che nessuna forma di stile prenderai,
perchè chi è povero di lingua, ed è quindi costretto a far servire a tutti gli usi quel poco che n’ha,
non va dove la natura e l’ispirazione lo spingono, ma dove le scarse parole e frasi del suo dizionario
lo tirano; le quali, invece di obbedirgli, gli comandano, come fa in generale chi serve, quando gli
s’addossano [369] anche dei servizi che non deve fare, ed egli sa che non abbiamo nessuno da
sostituirgli.
E ora tiriamo innanzi..... Ma no; aspetta un momento. Mi devo prima difendere da un tale, eccolo
qua, che mi corre addosso come uno spiritato...
[369]
COME S’HA DA INTENDERE LA MASSIMA CHE SI DEVE SCRIVERE COME SI PARLA.
L’anonimo, ansando: Sono arrivato in tempo, grazie al cielo! Lei stava per consigliare a questo
povero ragazzo di scrivere come si parla!
– Ha indovinato.
– O come si fa ad avere i capelli bianchi e così poco giudizio?
– Glielo dirò poi, quando lei avrà sfogato la sua generosa indignazione. Faccia liberamente.
Faccio sicuro. Voglio salvare un’anima. Lei, dunque, consiglia a chi scrive di proporsi come
ideale un linguaggio imperfetto. No? Ma è necessariamente imperfetto il linguaggio parlato, poichè
chi parla, chiunque sia, non ha tempo di vagliare i vocaboli, di sceglier le frasi, d’ordinare le
idee, d’architettare con garbo i periodi; perchè i migliori parlatori non esprimono i più dei loro
pensieri che a mezzo, o ne dànno l’espressione compiuta a furia di ritocchi e d’aggiunte, e allungano
e ripetono, e parlano a sbalzi e a strappi, e suppliscono alle deficienze dell’espressione parlata con
l’accento, col gesto e con lo sguardo. Che cosa mi può rispondere?
[370]
Le rispondo prima di tutto che lei ha sciorinato un periodo che è un argomento in mio favore,
perchè è un periodo parlato che sta benissimo; invece del quale ne farebbe probabilmente un altro
men naturale e meno efficace se scrivesse quello che m’ha detto seguendo la sua teoria: che non
bisogna scrivere come si parla. In secondo luogo, le rispondo che lei sfonda una porta spalancata.
– Come sarebbe a dire?
Sarebbe a dir questo. Che per iscrivere come si parla io intendo: scrivere come uno che parlasse
perfettamente.
Oh bella! Lei si la zappa sui piedi, dunque, e riconosce la mia ragione, perchè chi parlasse
perfettamente parlerebbe come si scrive... da chi sa scrivere com’io m’intendo.
No, ed ecco il punto: non parlerebbe perfettamente, perchè riuscirebbe, e parrebbe anche a lei
strano e affettato, chi, parlando, adoperasse tutti i vocaboli, le frasi e i costrutti che per solito
s’adoperano scrivendo; la maggior parte dei quali non sono adoperati parlando neppure da coloro
che ne abusano nelle scritture, e ciò perchè sentono anch’essi che quei modi parrebbero nella
conversazione ricercati e pedanteschi. Ora io dico che quei modi, per la stessa ragione che non
s’usano parlando, si deve scansar d’usarli scrivendo, perchè essi non mutano natura suono nel
passar dalla bocca alla penna; e se ai più fanno un altro senso sulla carta da quello che fanno nella
conversazione, questo non deriva che da una consuetudine viziosa della mente, la quale non vede
più nella scrittura la rappresentazione della parola viva, com’è in realtà, ma [371] qualche cosa di
convenzionale, quasi d’impersonale, e quindi indipendente dalle leggi del linguaggio comune. E
questo è tanto vero, che a quelli stessi che sono del parer suo, cioè che parlano in un modo e
scrivono in un altro, par più naturale, più viva, più efficace, benchè sempre non lo dicano, la prosa
conforme al linguaggio parlato che quella non conforme; e non può essere altrimenti. Credo giusta
perciò questa regola: quando s’è scritto un periodo, domandare a noi stessi se, dovendo dire quella
stessa cosa che abbiamo scritta, la diremmo nello stesso modo, con la certezza di non parer leziosi,
o pedanti, o forzati; e se ci pare di no, levar via dal periodo i vocaboli e le frasi che non diremmo, e
sostituirvi quelli che diremmo. Sono assolutamente certo che in tutti i casi, così facendo, il periodo
riuscirebbe più semplice, più chiaro e più bello.
– Ha finito?
– Per ora.
Dei del cielo, perdonategli! O non riconosce lei che c’è una quantità di modi e di forme, che non
s’usano parlando perchè non son naturali, ma che si possono e debbono usare scrivendo perchè
abbreviano l’espressione del pensiero, legano i pensieri fra loro meglio delle forme usuali della
conversazione, e tengon su la sintassi, e dànno forza al discorso; e che è irragionevole, nell’interesse
medesimo dell’efficacia dello stile, il sacrificare tutti quei vantaggi alla naturalezza?
Lo riconosco, e per questo a questa povera anima che lei vuol salvare, avrei detto, se me n’avesse
lasciato il tempo, che quelle forme e quei modi, a cui lei accenna, bisogna evitarli [372] quanto è
possibile, non in modo assoluto. Gli avrei detto prima che per scrivere come si parla non si ha da
intendere che si debba scrivere con lo stessissimo linguaggio una pagina di romanzo e una
commemorazione dantesca, una lettera a un amico e un capitolo di storia. Ma questa distinzione non
contraddice punto al mio principio, poichè lo stesso linguaggio parlato non ha sempre lo stesso
carattere e le stesse forme, con chiunque, dovunque e in qualsiasi occasione e di qual si voglia cosa
si parli. Intesi un giorno un amico improvvisare un discorso sopra un feretro, al camposanto, in
presenza d’un migliaio di persone: egli usò frasi e parole che non avrebbe usate dicendo quelle
stesse cose a me solo: eppure non stonavano perchè erano esse pure del linguaggio parlato; ma del
linguaggio che si parla quando s’ha l’animo commosso, in un momento solenne, davanti a un
grande uditorio. E le vorrei mostrare le migliori pagine degli scrittori italiani di tutti i tempi, dal
Machiavelli al Carducci, e farle toccar con mano che le più eloquenti e più belle tra le migliori,
anche sopra argomenti altissimi, quelle che ci vanno più dritte al cuore e alla mente, e che ci
rimangono più scolpite nella memoria, e che rileggiamo sempre con maggior piacere, sono per
l’appunto le pagine, nelle quali abbiamo più viva l’illusione di sentir parlare l’autore come
immaginiamo che parli o che parlasse con tutti, nelle quali troviamo meno parole, frasi e costrutti
lontani dall’uso del linguaggio parlato.
– Ah, no! Ah, no! Ah, no! E se anche potessi riconoscere vero codesto per quanto riguarda le parole
e le frasi, non lo potrei mai ammettere [373] rispetto alla struttura del periodo; il quale, nel
linguaggio parlato, non è mai e non può essere, come spesso nella prosa scritta dev’essere,
largamente svolto, sapientemente costrutto, nobilmente architettato.
Nego, nego, nego. Lei può aver ragione in riguardo al periodo della conversazione ordinaria, su
argomenti comuni, famigliare e tranquilla; ma ha torto, se riferisce quello che dice anche al
linguaggio della passione. La passione, parlando, ha due maniere di periodo. Parla a brevi incisi,
senz’ordine e senza legature, negl’impeti violenti e passeggeri, che offuscano la mente e fanno
balbettare il pensiero come la lingua. Ma quando l’uomo infiammato dalla passione, e tanto più se è
un uomo colto, le fa un racconto o una descrizione o un ragionamento, nel quale, per produrle
un’impressione immediata e viva, ha bisogno di presentarle tutt’insieme, o nel minor tempo
possibile una quantità d’idee, d’argomenti, di fatti, d’immagini, che nella sua mente s’affollano e
s’incalzano, osservi come svolge anch’egli largamente il periodo, che periodi lunghi le tesse, pieni
d’incisi e pur rapidi, complessi e chiari ad un tempo, e ben lumeggiati in ogni loro parte, e ampi e
armonici e leggeri; che paiono stati preparati e imparati a mente, e sono non di meno pieni di
spontaneità e di naturalezza, e non hanno nè parole, nè frasi, nè costrutti che non siano comunissimi
nel linguaggio parlato! Per questo io dico che anche dove occorre di svolgere ampiamente il
periodo, scrivendo, si può serbare la naturalezza del linguaggio di chi parla, e che non soltanto nei
termini e nelle frasi, ma anche nella sintassi e nell’andamento della [374] prosa scritta, pur mirando
sempre a una perfezione che nel parlare non si può raggiungere, ci dobbiamo scostare il meno
possibile dal linguaggio che usiamo nella conversazione. Così io intendo lo “scrivere come si parla
„.
Non creda d’avermi persuaso. In ogni modo, nel dar quella norma ai giovani c’è un pericolo: di
farli cadere nella trascuratezza e nella volgarità.
– Ma c’è un pericolo anche nel combatterla, ed è di farli cadere nell’affettazione e nella pedanteria.
– Lasciamola lì.
– Badi che è lei che la lascia.
– Allora la ripiglio.
– Ripigliamola.
(Continua).
[375]
PENSARCI PRIMA.
Ecco il più utile dei precetti: – Pensare prima di mettersi a scrivere. – Un grande scrittore ha detto: –
Meditare vivamente e tranquillamente sull’argomento.
Alla tua età, quando s’ha da scrivere, si suol commettere l’errore d’incominciar subito e in
qualunque modo, con la risoluzione di chi spicca la corsa incontro a un pericolo per non lasciar
tempo alla paura di saltargli addosso; s’entra d’un salto nell’argomento anche senza un’idea
preconcetta, pensando che l’ispirazione ci raggiungerà per la via, che le idee sorgeranno sul nostro
cammino, l’una dall’altra, come le bolle in un’acqua agitata.
È un calcolo sbagliato della pigrizia, che rifugge dal lavoro preparatorio della composizione. Quanto
meno avrai pensato prima, tanto più faticherai dopo, e con minor frutto. Quanto più ti sarai voltato e
rivoltato per la mente il soggetto avanti di scrivere, con tanto maggior rapidità scriverai; e questa
rapidità non sarà precipitazione, ma impeto spontaneo, che andrà tutto [375] a vantaggio della
vivacità dell’espressione e della fluidità dello stile.
Noi pensiamo a frammenti e a ritocchi. Poche idee ci nascono nella mente chiare e vestite di
un’espressione che possa esser messa tal quale sulla carta. Al primo sorgere, l’idea ci si presenta
quasi sempre come “un’ombra, presso che informe; poi si disegna, ma a linee ancora mal
determinate, e qua e là spezzate e manchevoli; poi piglia una forma compiuta e netta. Tu getti per lo
più l’idea sulla carta quando è ancora nella prima o nella seconda fase. Aspetta la terza. Ci sono idee
che si svolgono con un lungo giro misterioso nei labirinti del cervello: tu devi lasciar che compiano
il giro: se le prendi a mezzo cammino non prendi che un embrione d’idea. E non pensare che certe
espressioni felici, che tu trovi negli scrittori, siano sempre, come ti paiono, effetto d’un’ispirazione
subitanea: tali possono esser parse allo scrittore medesimo nell’atto che le scriveva; ma sono in
realtà quasi sempre “l’ultimo effetto istantaneo d’un lavoro precedente del suo pensiero„. Nota
ancora che ciò che osservano tutti gl’insegnanti in certi giovani, che non riescono mai ad
appropriarsi certi costrutti sintattici, non deriva se non dal fatto che essi formano sempre
stortamente nel loro capo certi gruppi di concetti, ai quali quei costrutti corrispondono; e li formano
sempre stortamente perchè non fanno mai quel lavoro a mente tranquilla, prima di scrivere, e nella
furia dello scrivere accettano sempre per la forma solita in cui quei dati concetti si presentano
alla loro mente. E devi pensar prima anche per questo: che, in quel pensare avanti di [377] scrivere,
l’attenzione è più facilmente raccolta, essendo la stessa operazione meccanica della scrittura una
distrazione; e il lavoro del pensiero è più libero e più vivo, e meno proclive a oltrepassare i confini
d’una brevità sobria ed efficace che quando va di conserva con la penna; poichè la penna è
chiacchierona, tende ad allungare, a infronzolare, a ripetere; ed anche in quel lavoro mentale
preparatorio libero e agile abbracciando e misurando più facilmente tutte le parti del tuo pensiero,
previeni il pericolo di lasciarti poi tirare, scrivendo, più del giusto e del conveniente da ciascuna
parte del pensiero medesimo. E principalmente per bene ordinar le tue idee devi pensar prima,
perchè, se aspetti a ordinarle mentre scrivi, questo lavoro ti distrarrà da quello di cercar
l’espressione; e se per cercar l’espressione trascurerai l’ordine delle idee, non ti verrà più fatto di
legarle naturalmente e logicamente; ma le legherai con nodi grammaticali artificiosi e forzati, che
faranno peggior effetto delle sconnessioni. Oltrechè nel troppo frequente sostare con la penna per
riparare all’insufficiente preparazione, perderai anche l’originalità del pensiero e della forma, perchè
darai tempo alle reminiscenze letterarie di sopraggiungere, ossia, ai pensieri e alle frasi d’altri di
mescolarsi coi tuoi, e ti si raffredderà l’ispirazione, senza la quale non c’è spontaneità, e accetterai
molte volte, per impazienza dell’indugio e per abbreviare lo stento, senza critica, violentando la tua
coscienza, la prima idea che ti s’affaccia alla mente.
C’è ancora un’altra ragione, e questa te la dico con le parole d’un autore drammatico [378]
valentissimo, che certo t’ha più volte rallegrato e commosso. Dopo avermi spiegato com’egli abbia
per uso di non mettersi mai a scrivere prima d’avere in mente il lavoro quasi compiuto, disse:
Resisto quanto più posso alla tentazione di prender la penna, perchè qualunque cosa io metta sulla
carta, prima d’aver pensato tutto il mio dramma, mi diventa un impaccio. Quando quella tal cosa è
scritta, non mi so più risolvere a mutarla a cancellarla, o non lo faccio che con grande sforzo, per
un senso di pigrizia e quasi d’avarizia intellettuale, perchè mi rincresce di buttar via quella fatica già
fatta, anche non essendone contento. Una pagina, invece, o una frase, la quale non sia scritta ancora
che nel mio pensiero, la correggo o la cancello senza esitazione e senza rammarico. M’è sempre
riuscito meglio tutto quello che ho più tardato a far passare dalla mente nella scrittura. –
Avvèzzati dunque a ordinare e ad esprimer le tue idee, a prendere appunti, a cancellare, a
correggere, a rifare le cose tue mentalmente. Tu rimarrai maravigliato nel riconoscere quanto si
fortifichi, anche con un breve esercizio, la facoltà, che da principio è debolissima in tutti, di fare
“minute mentali„. Da una volta all’altra che ti proverai, ti riuscirà di farle, con minor fatica, sempre
più lunghe, più particolareggiate, più chiare, più vicine alla forma definitiva. Quando avrai in mente
ben chiaro e ordinato quello che vuoi scrivere, il tuo pensiero franco e sicuro di farà correre la
penna diritta e svelta senza lasciarle tempo modo di fuorviare, di serpeggiare, di perdersi in
minuzie e in fregi inutili e falsi. Credi che nessuno scrittore scrisse [379] mai una pagina veramente
bella, rigorosamente logica, in ogni parte perfetta, la quale non fosse già composta per intero nel suo
capo prima ch’egli intingesse la penna nel calamaio. E tieni a mente sopra tutto che l’ordine delle
idee è, dopo il valore delle idee stesse, il primo pregio d’ogni scrittura, perchè è insieme chiarezza,
brevità, armonia, bellezza, forza, e che all’ordine prima che ad ogni altra cosa deve intendere il
lavoro di preparazione, perchè dall’ordine principalmente deriva la facilità dell’espressione e la
spontaneità dello stile, perchè fra lo scrivere con le idee già ordinate nella mente e l’ordinarle
scrivendo corre la stessa differenza che tra il camminare per una strada fatta e il farsi la strada a
passo a passo sur un terreno ingombro di pietroni e di sterpi.
Questo è il lavorìo preparatorio che devi fare ogni volta che hai da scrivere. Ma, quando non ti
manchi il tempo, è bene che tu ne faccia anche un altro, che sarebbe come la preparazione generale
di quella preparazione particolare. E questo consiglio te lo do in nome d’un sommo scrittore. Il
quale dice che quando s’ha da comporre giova moltissimo il leggere abitualmente in quel tempo
autori di materia analoga a quella che dobbiamo trattare; non già per proporceli come modelli di ciò
che dobbiamo fare, non per imitarli; ma per l’assuefazione materiale che, leggendoli, la mente
acquista a quel dato lavoro e stile, per l’esercizio ch’essa fa di questi in quelle letture. Osservazione
giustissima, poichè tutti esperimentiamo, e avverrà a te pure, che dopo aver letto, per esempio, un
ragionatore, si prova una singolare tendenza e facilità a ragionare, e così dopo [380] aver letto
racconti, a raccontare, e descrizioni, a descrivere; si fa la mano a quel dato genere, per dirla con un
traslato che può parere ignobile, ma che non è, perchè ci sono molte più rassomiglianze che il nostro
orgoglio non voglia riconoscere, fra il lavoro intellettuale e il lavoro meccanico.
E ora che abbiamo visto come ci dobbiamo preparare a scrivere, vediamo un poco lo scrittore alla
prova; in che intoppi s’imbatta, da che cattive tentazioni sia assalito, quali pericoli corra, che
battaglia debba combattere con sè stesso, e con quali forze e con quali arti possa vincere. Può essere
che la rappresentazione ti giovi e ti diverta ad un tempo.
[381]
CON LA PENNA IN MANO
SCENA IDEALE.
Personaggi: Un giovinetto che scrive. – Il genio amico. – Il Buon gusto. – Il Buon senso. – Idee, frasi, parole. – Un’idea velata. –
L’Ambizione.
UNA FRASE. – Eccomi.
LO SCRITTORE (guardandola). – Le rassomigli; ma non sei per l’appunto quella che cerco.
LA FRASE. – Ma son bella.
LO SCRITTORE. – Lo vedo, e mi tenti. Ma non puoi vestir la mia idea, le faresti addosso delle pieghe, e
parresti un abito preso a nolo.
LA FRASE. Ma poichè non n’hai altre alla mano! Chi sa quanto avresti a cercare, e forse senza
trovare! Pigliami. I lettori, colpiti dal mio color vivo, non baderanno alle pieghe.
IL BUON GUSTO. Non le dar retta: le vedrebbero, come si vedono le rughe anche in un bel viso.
Rifiutala.
LA FRASE. – Farai vedere se non altro che mi possiedi, sarò un segno di più della tua ricchezza.
[382]
IL BUON GUSTO. – E del tuo cattivo gusto e della tua improprietà e della vanità per giunta. Mandala via
e cerca ancora.
LO SCRITTOREdopo aver un po’ pensato, fa un atto d’impazienza e si rimette a pensare.
IL GENIO AMICO. – Non la trovi?
LO SCRITTOREnon risponde.
IL GENIO AMICO. Se non la trovi, non insistere. Forse è già nella tua mente, ma nascosta, e uscirà di
sorpresa. Forse è già passata, e non l’hai colta a volo, ma ritornerà. Prosegui.
LO SCRITTORE (rimettendosi a scrivere). – “Le contrarietà e le lotte, le fatiche e gli stenti, le amarezze
e le angosce, i disinganni....„
IL GENIO. – La durerai un pezzo?
IL BUON GUSTO. – Codesto si chiama sfilar la corona del rosario.
IL BUON SENSO. – Tu dài il tuo pensiero a sgoccioli....
IL BUON GUSTO. – Sei pagato a un tanto la parola?
IL GENIO AMICO. – Dacci un bel frego, figliuolo.
LO SCRITTOREcancella, arrossendo e sorridendo leggermente, e continua a scrivere.
IL GENIO (leggendo di sopra alle spalle dello scrittore). Codesto è buono. (Un minuto dopo). E ora
perchè t’impunti?
LO SCRITTORE. È arrivato a un punto dove il pensiero gli manca; egli vede un vuoto davanti a sè,
come un fosso profondo, di là dal quale gli appare nettamente il sentiero per cui potrà continuare il
cammino. Ma come riempire quel vuoto per passare di là?
UNA FOLLA DI PAROLE CHE ACCORRONO DA TUTTE LE PARTI. – Siamo qui noi, al tuo servizio. Comanda.
[383]
LO SCRITTORE. – Ma voi non dite nulla.
LE PAROLE. – Ma possiamo colmare il fosso.
LO SCRITTOREle guarda, titubando.
IL GENIO (alle parole). Sgombrate, fannullone impostore! (Allo scrittore). Non ti servire di questa
mala genìa. Lascia il vuoto piuttosto, e fàtti coraggio a spiccare il salto. Al lettore riuscirà meno
ingrato lo scomodarsi a saltare con te che il passare sopra il mucchio di ciarpame, col quale lo
vorresti ingannare, facendoglielo parer terra salda.
LO SCRITTOREspicca il salto e si rimette in cammino.
UNA IDEA ravvolta in un velo, gli si presenta in atto grazioso. Egli le sorride e le fa cenno di
venire innanzi.
IL BUON SENSO. Bada. Non ti lasciar ingannare. Non la riconosci? (Strappa il velo all’Idea). La
riconosci ora? È la seconda volta che ti si presenta. Le hai già fatto troppo onore la prima. Mettila
alla porta. (L’Idea svanisce). Guàrdati da queste seccatrici vanitose e sfacciate che ritornano anche
dieci volte in abiti diversi per farsi ritrarre in tutti gli atteggiamenti e con tutti i giochi di luce. Sono
la perdizione degli scrittori che cascano nelle loro reti. Scrutale bene in viso prima di riceverle.
LO SCRITTORE dopo aver scritto un altro poco, un’esclamazione di contentezza, che significa
chiaramente: – Ecco un pensiero! – e fa correre più lesta la penna.
IL GENIO (si china a leggere, sorride, e dopo un breve silenzio). È un pensiero originale, ed
espresso bene; ma.... non è tuo!
LO SCRITTORE si riscote, rimane pensieroso [384] qualche momento, come cercando, poi fa un atto
di rammarico e abbassa il capo.
IL GENIO. Oh! l’hai ritrovato il proprietario legittimo. È vero? Sono illusioni frequenti. L’ha detto
un valentuomo, che pensava sempre col suo capo: un pensiero ci par nostro e nuovo, alle volte, nel
punto in cui è ancora confuso nella nostra mente, perchè, così essendo, non rassomiglia a nulla; ma
quando si determina nell’espressione e assume la sua vera faccia, riconosciamo che è d’un altro.
Codesto tu l’avresti forse riconosciuto da te, rileggendo. Non rubare: è il settimo comandamento.
Un freguccio. Bravo. È da giovine onesto.
LO SCRITTORE (si rimette a scrivere. Dopo un poco, lascia cader la penna). – È inutile! È un pensiero
che non mi riesce d’esprimere. Ci rinunzio.
IL BUON SENSO. Eh, via! Io ne intuisco la ragione, poichè ti leggo in mente il pensiero. Tu hai in
capo una bella frase preconcetta, nella quale vuoi far entrare quel pensiero, e non ti riesce, perchè
non son fatti l’uno per l’altro, e t’ostini, perchè vuoi mettere in mostra la frase. Rinunzia alla forma
elegante e impropria che ti sta a cuore, supponi di aver da dire quello che pensi a un amico, in una
conversazione famigliarissima, senz’altra cura che di farti capire; e vedrai che ti riuscirà di dirlo.
Espresso che ti sarai in quel modo, se l’espressione non ti finirà, ti sarà facile ridurla, con qualche
mutamento, a maggior perfezione. Fanne la prova, e ne sarai persuaso.
LO SCRITTORE dopo avere un po’ pensato, rimane immobile, con gli occhi fissi sul foglio, in [385]
atto di fare uno sforzo intenso; ma gli occhi sono senza vita.
IL GENIO. Ecco il momento in cui l’occhio della mente si vela. Smetti, amico. Non faresti più uno
sforzo utile. Alzati e muovi.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
LO SCRITTOREsi rimette al lavoro e scrive di lena, senza interrompersi, per un buon tratto. Poi alza
il viso, come cercando qualcosa con gli occhi, impaziente.
IL GENIO. Che cosa cerchi? Un legame fra l’idea che hai espressa nel periodo finito e quella che
vuoi esprimere nel periodo che segue? Ma se un legame naturale non c’è, perchè ce lo vuoi mettere?
IL BUON GUSTO. – Per eleganza? Ma come potrà essere elegante un legame non naturale?
IL BUON SENSO. – Non è meglio uno stacco inelegante che una bella attaccatura forzata?
IL BUON GUSTO. – Che sarebbe un anello di latta dorata?
IL BUON SENSO. – E che in ogni modo congiungerebbe le parole, ma non le idee?
IL GENIO (dopo un poco). – Ah, ti ci colgo ora! Ti colgo in flagranti a raccattare un pensiero superfluo
per metterci addosso una bella frase!
IL BUON SENSO (dopo un altro poco). E a cercar dei cavilli per giustificare a te stesso codesta
espressione che la coscienza ti rimprovera!
IL BUON GUSTO (due minuti dopo). E a metter la barba finta a un pensiero già espresso, per farlo
parere un personaggio nuovo!
LO SCRITT. (lavora altri dieci minuti; poi guarda alla finestra, sospirando). Oh che bel sole di
[386] primavera e che bell’aria limpida! Come cantano allegramente gli uccelli! Che fragranza
deliziosa mandano le acacie fiorite dei viali! Come sarebbe piacevole a quest’ora correre fra il verde
e l’azzurro, col pensiero libero, bevendo a grandi sorsi la vita! E che dura cosa è questa fatica,
quest’affanno della mente prigioniera, segregata dal mondo vivente, questo torturarsi il capo con la
penna come con la punta d’uno stile!
L’AMBIZIONE (sbucando d’un salto di dietro a una libreria). Ah! è una dura cosa, è un affanno, è
una prigionia, è una tortura! Ah, credeva il signorino che fosse una cosa facile l’arte, l’arte a cui
diceva di voler consacrare la vita! Ma non ci si riesce senza incredibili fatiche, dice il poeta della
Ginestra. Ma bisogna sudare e gelare, dice Orazio. Ma convien farsi per molt’anni macro, dice
Dante. Ma tutti gli scrittori che tu ammiri sudarono, vegliarono, si torturarono, ci rimisero la salute
e ci si logorarono l’anima. E il signorino ambizioso, che vuol arrivare alla gloria, crede che sia come
prendere la via dell’orto!
LO SCRITT. china la fronte e si rimette all’opera.
IL GENIO (passata un’ora, dopo aver letto l’ultima pagina). Sta bene. Eccoti col vento in poppa.
Non dare all’immaginazione il tempo di raffreddare. Non cercar la frase, chè non ti sfugga il
pensiero. Segna di volo le idee che ti incalzano. Non ti soffermare a scegliere fra le varie parole che
ti s’offrono: notale in margine, come faceva il Leopardi: sceglierai più tardi la più calzante. Non
insistere su nessun concetto secondario. Non lasciar deviare in rigagnoli, [387] tieni raccolta la
corrente del tuo pensiero; scaccia le idee intruse che romperebbero l’onda; e va’ spedito, ma non ti
lasciar travolgere. Fa’ un ultimo sforzo, e pianterai la bandiera sulla riva.
LO SCRITT. – tira un grande respiro, e posa la penna, col viso rasserenato e sorridente.
IL GENIO (dopo aver letto). Tutto codesto è ben pensato e ben detto. Hai vinto le cattive tentazioni.
Non hai tradito il tuo pensiero. La tua coscienza dev’esser contenta. Che sentimento di serenità e di
leggerezza, non è vero? E come ti è dolce ora la libertà dello spirito! E come benedici la tua fatica!
[388]
LA SFILATA DEI BRUTTI PERIODI.
Vien’ora, che assisteremo insieme a uno spettacolo singolare, il quale ti potrà dar argomento a
osservazioni utili.
Come le madri spartane facevano vedere ai figliuoli gl’Iloti ubbriachi perchè prendessero in
aborrimento il vizio dell’ubbriachezza, io ti farò sfilare dinanzi i periodi deformi e viziosi, affinchè
lo spettacolo ripugnante e compassionevole ti fortifichi nel proposito di non mostrar mai nulla di
simile nella prosa che uscirà dalla tua penna.
La moltitudine miserevole sfilerà in tre processioni successive, che rappresenteranno ciascuna una
deformità o infermità particolare, comunissima nel mondo letterario, dalla quale tu dovrai fare ogni
sforzo per preservarti, in special modo nel primo periodo dei tuoi studi.
Ecco la prima colonna che viene avanti, come può.
È lo sciame dei periodi nani, appartenenti tutti alla gran famiglia dello Stile singhiozzato, che è
numerosissima, e sparsa in tutti i campi [389] della letteratura. Sono molto in voga a cagione del
gran comodo che fanno a chi vuol scrivere facilmente, senza darsi la noia d’affrontar le difficoltà
della sintassi, di collegare, cioè, e d’intrecciare le idee, di concatenare e di saldare l’una all’altra le
frasi, che è un perditempo di pedanti e una fatica di certosini. Vedi che son quasi tutti periodi d’una
sola, o di due proposizioni al più, semplici come la miseria. Grazie a loro il discorso va avanti a
piccoli salti, come gli uccelli, o a brevissimi passi misurati come le galline a cui si mettono i laccetti
alle gambe, perchè non scappino. Chi li usa, dice che servono a imitare il linguaggio parlato; ma
quella non è imitazione, è caricatura, perchè anche nel parlare è rarissimo che s’esprima il pensiero
così a pezzi e bocconi, che si proceda in quel modo a scatti e a sussulti, come se la mente battesse la
terzana. Vedi se non è buffo che un uomo scimiotti l’andatura d’un bambino. Prova a seguitar per
un po’ codesti periodi, e ti sentirai le gambe rotte. Non son periodi, ma rottami, briciole di periodi;
pensieri in pillole e in polvere; trucioli e segatura di prosa. E ne passa, e ne passa, di tutti i gradi di
statura al disotto della media, di tutte le gradazioni di magrezza fra il corpo spolpato e lo scheletro
nudo, e usciti d’ogni dove: da romanzi d’appendice, da discorsi politici solenni, da
commemorazioni mortuarie lacrimose, da parlate asmatiche di drammi, da lettere d’amore deliranti
a freddo e simulatamente disperate. Dicono: È brevità efficace. Ma non è vero; si provino d’un
lungo periodo perfetto d’uno scrittore conciso a far tre periodi, e vedranno se non [390] l’allungano,
dovendo ripigliare il cammino due volte, e ripetere verbi e soggetti. È stile scolpito! Ma non
sono scultura i denti d’una ruota di legno, come non è musica il rumore che n’esce. È vivacità di
stile! Ma chi è più vivace dell’epilettico? È un risparmio di noia al lettore! Ma che c’è di più
uggioso del tic tac d’un orologio? Oh, di che riso amaro e sprezzante riderebbe il Machiavelli al
veder la prosa italiana ridotta a questo balbettìo di scamiciati aggranchiti dal freddo! Ma non
occorre ch’io ti dica altro. Tu non ti mescolerai con questa ragazzaglia di periodi; tu preferisci fin
d’ora la compagnia degli adulti; chi ha buona gamba non fa tre passi sur un mattone. Lasciali andare
all’Asilo.
Guarda ora quest’altri che s’avvicinano. Non ti par di veder venire innanzi lentamente, l’un dietro
l’altro, di quei piccoli treni di strada ferrata, che si dànno per balocco ai ragazzi? Sono i periodi
degli scrittori geometrici. È un altro modo di scansar la fatica e le difficoltà delle orditure sintattiche
sapienti e belle, pur avendo l’aria di far dei periodi di grande disegno. Sono periodi fatti d’una lunga
serie di membri, d’un’egual misura a un di presso, e legati fra loro quasi tutti con lo stesso legame
di coordinazione, per modo che alla fin di ciascuno il lettore può riposarsi, quasi come a un punto
fermo; ciò che allo scrittore il pretesto di stendere dei periodi sterminati, e di poter dire che non
leva al lettore il respiro. Vero è che lo ammazza in un altro modo, e non più piacevole. Questi
periodi non c’è ragione mai che finiscano, se non quando lo scrittore non ha più [391] nulla da dire:
li finisce quando vuole, per bontà sua; e potrebbe, con quell’andare, fare anche un libro d’un
periodo solo. Sono pensieri cristallizzati, come disse a maraviglia un critico, in espressioni
geometricamente uguali. Non sono propriamente periodi, ossia, non tessuti di proposizioni, ma
filze; non costruzioni, ma pietre e mattoni ammontati a filo di piombo, senza cemento incastro;
non c’è in questo periodare rilievi, intrecci, scorci, inversioni efficaci, varietà di
suoni e di modulazioni; non v’è che una sfilata monotona di pensieri, tutti vestiti a un modo, che
vanno avanti con lo stesso passo, mettendo l’uno il piede sull’orma dell’altro, come una processione
di frati. Vedi che soltanto a parlarne, si prende il contagio: di questi periodi n’ho scritto uno. Alla
fin di ciascuno tu ti senti cascare il capo e le palpebre e ti devi dare un pizzicotto per incominciare il
secondo. Dev’esser qualche cosa di simile il viaggiare sul dorso d’un ippopotamo. In tutto il tempo
che ho impiegato a discorrere n’è passato uno solo. E se n’avvicina un altro della stessa mole.
Schiaccia un sonnellino, che ti sveglierò al terzo. Buon riposo.
Ecco la terza sfilata. Questa è la più sbalorditoia, quella che comprende tutte le deformità, malattie e
vizi più miserevoli e strani: i periodi zoppi, i gobbi, gl’idropici, gli accidentati, i periodi tutti testa o
tutti pancia, quelli senz’occhi che vanno a tentoni, quelli senza gambe che si trascinano per terra, e
quelli che dalle reni hanno tornato il volto, come gl’indovini dell’inferno dantesco, e i malati
d’atassìa che non hanno coordinazione fra i movimenti delle membra, e [392] gli ubbriachi che
camminano a zig zag, barcollando, e a ogni tratto soffermandosi o inciampando, e finiscono a
cadere sulle ginocchia o sulle mele. Sono tutte le mostruosità sintattiche che possono uscir dalle
menti che non conoscono seste, compasso, e in cui “la ragion naturale e reciproca della parte
d’un concetto è continuamente turbata dalle varie associazioni della fantasia che s’intromette nel
processo del loro pensiero„; dalle menti di tutti coloro che, come diceva il Montaigne, data la mossa
coi remi alla barca del periodo, costeggiando, si soffermano qua e e imbarcano alla cieca tutte le
idee che loro fanno cenno di voler salire, per modo che la barca sopraccarica va innanzi a
sbilancioni e bevendo acqua, fin che si capovolge o s’affonda, e tutti annegano. Alcuni, come vedi,
non hanno forma nessuna: non son periodi, ma una certa quantità di parole chiuse fra due punti
fermi. Altri rassomigliano alle Sirene, che hanno un bel viso e finiscono in coda di pesce. Qualcuno
è vestito bene; ma le ossa sformate e i bubboni gli fanno dei gonfi sotto i panni, o i panni gli
s’aggrinzano dove mancano le carni o le costole, o il pelame intonso e arruffato, somigliante a una
vegetazione selvatica, nasconde la fisonomia. Ce n’è parecchi che non sono che aggrovigliamenti di
congiuntivi, figliati l’uno dall’altro, o sequele di parentesi, che si fanno buio a vicenda, e mettono il
pensiero principale all’oscuro; e molt’altri che mostrano d’essere stati fatti con gran cura, ma con la
cura e con l’arti d’un chirurgo, che per tenerli su li ha ricerchiati come botti d’apparecchi ortopedici
visibilissimi, e mezzi coperti di bende, d’imbottiture e di [393] cerotti. Se questi periodi tu
esaminassi a uno a uno, riconosceresti che la più parte dei loro vizi e difetti non richiedono ad
essere scansati ingegno singolare arte sopraffina o esperienza consumata di scrittore; ma che
sono quasi tutti errori di logica elementare, dai quali basta il buon senso e un po’ di riflessione a
preservarci. Guardali bene, e vedi quanta bruttezza e quanta miseria! E pensa quant’è grande il
numero di questi mostricini messi al mondo di continuo da innumerevoli persone anche non incolte,
o per sbadataggine o per furia o per trascuranza d’ogni decoro letterario, e immagina gl’infiniti
piccoli danni che ne derivano nel commercio universale del pensiero: quante oscurità, quante
confusioni, quanti malintesi, e quindi intoppi e lentezze e sciupìo di lavoro e di tempo! Senza parlar
del ridicolo, altra fonte infinita di piccoli guai.
Dunque, hai veduto gl’Iloti. Guàrdati. Non periodi singhiozzati, non periodi mastodontici, non
periodi sciancati, nè gibbosi, nè malati, nè selvaggi, nè matti.
Volta il foglio, e troverai il periodo perfetto. Ma no: bisogna che tu conosca prima Carlo Imbroglia.
[394]
CARLO IMBROGLIA.
Imbrogliava il discorso, intendiamoci subito: non il prossimo; chè anzi nel commercio che
esercitava, e anche fuor del commercio, era uno specchio di galantuomo; e se non ci fossero al
mondo che imbroglioni del suo genere, sarebbe un tutt’altro viverci. Non mancava, per
commerciante, di cultura letteraria, ed era pieno di buon senso; ma aveva il difetto accennato da
Dante dove dice che l’uomo, nel quale rampolla pensiero sopra pensiero, arriva tardi al segno, a cui
intende; e il perchè si capisce: perchè il pensiero di lui s’intralcia a ogni passo in medesimo. Ha
definito mirabilmente questo vizio mentale comunissimo un critico moderno, dicendo che in non so
quale scrittore la nozione si corrompeva e si disgregava prima d’esser vissuta, presentando quel
fenomeno che, secondo certi fisiologi, segue in ogni organismo che si discioglie: il quale di sede
ch’egli era d’un solo principio vivente, diventa il semenzaio di parecchi, che con nuovi moti e
combinazioni si riorganizzano nella sua materia imputridita.
[395]
Che diavolo d’arruffio si facesse nella mente del nostro buon amico quando filava un ragionamento
o raccontava un fatto anche semplicissimo, non saprei ben dire. Incominciava con un’idea, e subito
quest’idea si fendeva in due; poi ciascuna idea si biforcava alla sua volta, o si triforcava e si
sfaccettava; e volendo seguire tutte le deviazioni e accennare tutte le trasformazioni e le
sfaccettature del proprio pensiero, egli diceva e ridiceva, correggeva e aggiungeva, e accumulava
incisi e incastrava parentesi, fin che si smarriva nei raggiri delle sue frasi, come in un labirinto, e
doveva rifarsi da capo.
Il difetto grammaticale più frequente in cui si manifestava questo suo modo farragginoso di pensare
era l’abuso del congiuntivo. Egli parlava come un certo personaggio d’una commedia francese che
un amico suo definisce: un subjonctif à jet continu. Mi ricordo parola per parola un periodo ch’egli
disse a proposito di certe pratiche fatte da noi per riconciliarlo con un amico: “Nel caso ch’egli
volesse ch’io andassi prima da lui, affinchè non si credesse da chi non conoscesse i fatti ch’egli si
fosse umiliato...„ – Il famoso verso di Dante
Io credo ch’ei credesse ch’io credessi
poteva essere la divisa del suo stile. Alle persone di servizio, perchè facessero a puntino questa o
quella cosa, non volendo omettere nessun particolare e dir tutto ben chiaramente, dava gli ordini con
certi periodi così complessi e aggrovigliati, che finivano col non capirci una maledetta. Tale e quale
era nello scrivere. Ai suoi corrispondenti commerciali scriveva delle lettere sulle [396] quali
dovevano meditare un pezzo, col capo fra le mani, come sopra dei palinsesti, per tirarne fuori l’idea
principale. Nella conversazione con gli amici, poi, era una vera calamità. Povero Carlo Imbroglia!
Quando principiava un racconto, o diceva: Ecco il ragionamento ch’io farei –, oppure: Mi
spiegherò meglio tutti allibbivano. Era uno spasso nella trattoria sentirgli dire al cameriere, per
esempio: Io vorrei che tu dicessi al cuoco che mi cocesse la bistecca in modo (ma già credo
ch’egli lo sappia, ma è bene che tu glielo ricordi, caso che l’avesse dimenticato, il che non è
improbabile) in modo che facesse meno sangue che fosse possibile; ma che un poco ne faccia,
intendiamoci bene, e non mancar di dirglielo, che non gli accadesse di mandarmela secca, che mi
restasse nel gozzo, come qualcuno vuole ch’egli la faccia, ch’io non so che gusto ci trovino. E
quasi tutti i suoi periodi erano di quest’architettura.
Ma questi erano i suoi periodi chiari. Alle volte, quando lo vedevamo impigliato in una rete da cui
non gli riusciva di strigarsi, cercavamo d’aiutarlo: chi gli suggeriva l’espressione d’un pensiero
incidentale, chi gli porgeva una parentesi bell’e fatta, chi gli apriva con un’abbreviatura una via
d’uscita. Ma egli respingeva tutti i soccorsi e s’ostinava a finir da il suo periodo, volendo a ogni
costo dir la cosa a modo suo. Qualche volta era costretto a fermarsi, per ravviare le fila arruffate del
discorso, e stava alcuni momenti in silenzio, accennandoci con la mano di pazientare un poco, e
socchiudendo i piccoli occhi cerpellini, spesso malati; i quali lacrimavano, dicevamo noi, per effetto
dello sforzo [397] ch’egli faceva nella troppo minuta e intricata orditura della sua sintassi. Un
giorno si scherzava nel crocchio sopra un argomento poco faceto: sul genere di morte che ciascuno
di noi avrebbe preferito. Quando fu la sua volta, uno lo prevenne, dicendogli: Quanto a lei, mi
perdoni, la sua fine è scritta: lei resterà soffocato fra le spire d’uno dei suoi periodi. Rise con gli
altri egli pure, dicendo che era consapevole del proprio difetto; ma soggiunse che aveva ferma
certezza di riuscire a forza di volontà ad emendarsene, a parlare finalmente come voleva e come,
secondo lui, si doveva parlare. E infatti incominciava sempre a parlare col fermo proponimento di
resistere alla forza dell’abito vizioso, d’andar diritto con la parola allo scopo, rigettando tutte le
tentazioni del pensiero serpeggiante; ma era invano: ci ricascava sempre. Un momento dopo d’aver
fermato per la millesima volta quel proponimento, era capace di scrivere, a proposito d’un amico,
del quale s’era discusso se si dovesse o no invitarlo a un banchetto, una maraviglia di letterina
come questa: “Penso che converrebbe che gli mandassimo l’invito (poichè avete stabilito che gli
si mandi, benchè io fossi d’opinione che sarebbe stato meglio che non si facesse) prima ch’egli
avesse notizia del pranzo da altri (il che non credo che sia impossibile, chè anzi è assai probabile
che l’abbia), affinchè non potesse sospettare che noi avessimo deciso d’invitarlo all’ultimo
momento con la speranza ch’egli non facesse in tempo a venire; cosa di cui, se la credesse, credo
che anche voi, che sapete quanto egli sia permaloso, ammettiate che sarebbe [398] naturale ch’egli
si risentisse; ciò che dispiacerebbe a tutti, benchè avessimo coscienza che fosse infondato il
sospetto.„ Che sudata, povero Imbroglia! Eppure, come si capisce, anche da quel viluppo di
parole, ch’egli non avrebbe scritto malaccio se fosse riuscito a levar le gambe dal congiuntivo e a
camminar con la penna per la via più corta!
Ogni volta che penso a lui, mi rigodo una scenetta comica, che è il più piacevole dei ricordi ch’egli
m’abbia lasciati. S’era convenuto fra una mezza dozzina d’amici di desinare con lui alla trattoria.
Eravamo già tutti intorno alla tavola, era passata l’ora da un pezzo, ed egli non compariva.
Comparve finalmente in vece sua, con un biglietto in mano, una sua vecchia serva, buona donna
semplice, che stava con lui da molt’anni, e gli era affezionata come una parente. Uno di noi lesse a
voce alta: “Cari amici! È impossibile che immaginiate quanto io sia dolente che un malore, che
m’affligge da due giorni, m’impedisca d’intervenire a codesto desinare amichevole, al quale è
superfluo che io vi dica quanto sarei stato felice....„ –, e terminava dicendo che era malato di
congiuntivite.
Che volete? S’ha un bel dire che è inumano il ridere del male altrui. Ma chi si sarebbe frenato?
Malato di congiuntivite! Era un caso comico di forza maggiore.
Ma il meglio venne dopo, quando la buona donna ci domandò se non avevamo nulla da mandar a
dire al suo padrone.
Sì, rispose uno, ditegli che abbiamo detto che ce ne rincresce assai, ma che della malattia che
lo tormenta non crediamo possibile [399] ch’egli guarisca. Riferitegli queste precise parole. Ci
capirà.
La donna ci guardò stupefatta; poi disse: Eh no, signori. Non credano. Non è grave. È un
incomodo a cui va soggetto.
E allora si scoppiò addirittura.
[400]
IL PERIODO PERFETTO.
Il modo di periodare d’uno scrittore maestro nell’arte è paragonabile per certi rispetti al modo
d’andare d’un uomo ben formato, sano, svelto e elegante; il quale cammina per la strada a passi
lunghi corti, ritto, ma non impettito, sciolto, ma dignitoso, e guarda e saluta di qua e di senza
soffermarsi e senza scomporsi, supera gl’impedimenti con agilità, scansa le persone con garbo,
svolta alle cantonate con un giro cauto, sale senz’affannarsi, discende senza lasciarsi andare, e
s’arresta a un tratto, quando arriva alla meta, con un ultimo passo risoluto, rimanendo ritto ed
immobile.
Hai mai analizzato il diletto vivo che ti dà, oltre all’utile dell’idea che v’è espressa, uno di quei
periodi magistrali, d’ampia stesura e di proporzioni giuste, nei quali v’è una corrispondenza perfetta
fra il pensiero e la forma, e i concetti sono collegati e contrapposti in maniera da illuminarsi a
vicenda, e tutte le locuzioni son proprie, e tutte le giunture facili, e nessuna parola superflua, per
modo che non ti riesce [401] d’immaginare come quella data idea avrebbe potuto essere svolta
altrimenti, neppure nei particolari secondari e minimi della sua espressione? Il periodo è lungo e ti
par rapido, perchè non c’è nessuna oscurità che ti desti un dubbio, nessuna ridondanza che ti
distragga, nessun intoppo vuoto che t’arresti. I concetti e i membri vi son distribuiti così bene,
senz’affollamento, quantunque siano molto fitti, che ti par che l’aria vi si mova e v’entri dentro la
luce da ogni parte. Il periodo è così ben modulato che vi senti una correlazione armonica fra la
prima e l’ultima frase, e fra queste e le intermedie, e nelle intermedie fra di loro; ma è un’armonia
non studiata e discreta, e come naturalmente prodotta dall’accordo dei pensieri. Tutti i concetti
accessori che vi son contenuti ti si stampano nella memoria nello stesso ordine in cui lo scrittore li
ha posti, come se quello fosse il loro ordine necessario e immutabile. Sono poche righe, e quando
sei arrivato in fondo ti par d’aver fatto un lungo cammino, perchè hai veduto molte cose in un
piccolo spazio, e non sei soltanto sodisfatto della lettura, ma anche di te medesimo, perchè dietro
alle idee espresse n’hai vedute di sfuggita, grazie all’arte dell’autore, molt’altre, e scambi quell’arte
con acume d’intuizione tuo proprio. E dopo la prima lettura ti senti forzato a rileggere,
compiacendoti di cercare le cause di quell’effetto piacevole e utile, d’esaminare in ogni sua parte il
congegno, e quasi di disfarlo e rifarlo, per conoscere l’operazione mentale complessa e sottile, con
la quale fu fabbricato. Ti sembra un’opera d’arte che stia da sè, ed è in fatti una serie di parole che
formano per sole un tutto, che contengono un principio [402] e un fine; è un piccolo capolavoro
d’ordine e di numero, in cui sono congiunte la semplicità e l’eleganza, l’ampiezza e la brevità, la
delicatezza e la forza; dove lo scrittore ha esercitato tutte le sue facoltà e messo tutte le sue doti
migliori: il buon senso, il buon gusto, la ragione, l’immaginazione, la profondità e l’agilità del
pensiero, l’acutezza e la vastità della vista mentale, alla quale non sfugge minuzia alcuna, e che
abbraccia ad un tempo cento cose vicine e remote. Poi, rivolgendo quel piccolo capolavoro nel
pensiero, godi un piacere simile a quello con cui si guarda e si rivolta per le mani un corpo rotondo,
solido, liscio e lucente, e fai dei paragoni, per i quali t’appare anche più ammirabile la sua
perfezione. Ripensi altri periodi d’altri scrittori, che ammirasti, ampi anche quelli, e bene
architettati, e musicali; ma che differenza! C’è in quelli più suono che pensiero, e in qualche punto
il suono è strepito; ci sono proposizioni che fanno eco l’una all’altra, frasi che si voltano indietro a
guardare lo strascico della propria veste, concetti secondari che portano in capo un pennacchio
troppo alto per la loro statura; e a certi svolti tu ci perdi d’occhio l’idea principale, e non sempre la
ritrovi, o la ritrovi per riperderla ancora quando sei arrivato alla fine. Ma questo è per ogni verso
perfetto. Non è nulla o è poca cosa rispetto al libro che lo contiene; si potrebbe anche togliere, e
rimarrebbe all’opera tutto il suo valore; eppure non c’è da secoli fra le migliaia di lettori uno solo
che non si sia arrestato a quel breve giro di parole, che non l’abbia ammirato, riletto dieci volte,
citato in cento occasioni, ricordato per molti anni o per tutta la [403] vita; e in questa gemma si
fisserà lo sguardo di generazioni e generazioni di lettori, fin che non sarà morta e sepolta la
letteratura dov’essa risplende.
Ora senti: non è soltanto un consiglio, è una calda raccomandazione questa ch’io ti faccio, con la
ferma certezza che, se la seguirai, n’avrai un vantaggio grande. Quando, leggendo uno scrittore,
t’imbatti in uno di quei periodi, trascrivilo. E non temere d’aver da fare una tal fatica troppo
sovente, perchè son periodi rari anche negli scrittori grandi. L’avere alla mano una corona di queste
piccole maraviglie, e lo sfilarla ogni tanto, ti gioverà di più, per imparare a periodar bravamente, che
leggere decine di volumi. Potrei presentartene io parecchi, che ho raccolti da scrittori di vari secoli;
ma è meglio che li cerchi e che faccia la scelta tu stesso. Quando li avrai trascritti, e li rileggerai, e ci
penserai su, ci scoprirai molte più bellezze di quelle che t’avranno fermata l’attenzione alla prima, e
ne ricaverai tanti ammaestramenti da formartene in capo un piccolo trattato dell’arte del periodo,
che sarà tutto tuo. Ci troverai fra i vari concetti connessioni intime, non significate con parole, come
legami di fila finissime, non visibili che allo sguardo fisso e prolungato della mente; “volute di
sintassi accennate appena che faranno fare come un mezzo giro al tuo pensiero verso un oggetto
nuovo, per rimetterlo quasi subito al punto da cui l’avranno ritolto„; brevi spiragli, per cui
t’appariranno di fuga tratti d’orizzonti lontani; e salite e discese e scorciatoie e profondità e curve ed
angoli della locuzione, che ti desteranno nella mente altrettanti [404] moti diversi, leggerissimi, con
ciascuno dei quali ti parrà di fare, e farai in effetto un passo avanti nell’arte difficile dello scrivere.
E vedrai come ogni volta che ti metterai a scrivere dopo aver ristudiato quei modelli, troverai
maggior facilità a far capire nel circuito d’un periodo solo molti concetti, a inanellarli senza sforzo,
ad accennarne alcuni senza esprimerli, a involgerne altri dentro un altro, e a trascorrere da questo a
quello con un colpo d’ala, e a districare gli stami di molti pensieri confusi per distenderli e
incrociarli in un disegno netto e leggero.
Dammi retta: fàtti da te questa piccola raccolta di periodi perfetti, e imparala a mente, se puoi. E, chi
sa! Se proseguirai in questi studi nell’età virile, forse ti verrà in mente di ampliare la raccolta fatta
nella giovinezza, e di dare ai giovani italiani un’Antologia singolare e utilissima; della quale, ch’io
sappia, non c’è ancora esempio.
[405]
IL SOGNO D’UNO SCRITTORE FALSO.
Scena: una camera buia. Lo scrittore dorme e sogna, agitato. Al principiare del sogno egli vede accanto al letto, dalla parte del
capezzale, un cassone enorme, pieno di cose preziose, che gli son care quanto la vita; e udendo un rumoretto all’uscio, e parendogli
che un ladro tenti di forzar la serratura per venirgli a rubare quel tesoro, stende e preme la mano tremante sul coperchio del cassone,
respirando con affanno.
Una figura di donna, bianca e leggera
come vapore in nuvoletta accolto
sotto forme fugaci all’orizzonte,
appare nel mezzo della camera, e gli rivolge la parola con voce limpida e pacata.
LA SEMPLICITÀ. Vengo non desiderata, lo so. Ma fino a quando rifuggirai da me come da una
nemica mortale? Fino a quando persisterai a metter sul viso dei tuoi periodi cipria e belletto e ad
appiccicarvi nèi e finti riccioli e orecchini di perle false? Fino a quando, per ottenere codesta
bellezza artificiosa e stucchevole, farai gli sforzi che dovresti fare invece per nasconder l’arte, per
conseguire “quell’apparenza di [406] trascuratezza, di sprezzatura, quell’abbandono, quella quasi
noncuranza„ che, come dice un grande maestro, è una delle mie specie più amabili, e in cui si
manifesta veramente l’ingegno; dovecchè il raccattare e l’accozzare lustre e chincaglie è cosa da
tutti? Disse un critico ardito che per secoli, fatte poche eccezioni, fu una fitta di damerini dello stile
e della lingua tutta la letteratura italiana. Fino a quando farai il damerino tu pure, vecchio vanerello
smanceroso?
Il sognatore dà uno scossone.
UN ESPLORATORE AFRICANO. – O senta, signore! Ritornato appena dall’Africa, ho letto per caso un libro
suo. Vidi laggiù certi piccoli re selvaggi che sul loro semplice abito primitivo di stoffa bianca
mettevano quanto potevan raccogliere di vistoso e di luccicante, come fanno le gazze, dagli europei
di passaggio; e quando mi venivan dinanzi così addobbati, con aria maestosa e contenta, mi dovevo
morder la lingua per non scoppiare dal ridere. E vidi anche dei selvaggi che avevano incise sulla
pelle figure di fiori, d’alberi, d’armi e d’animali, e credevano d’esser belli, conciati a quel modo; e a
me parevano orribili e buffi. La sua prosa, mi perdoni, mi ricorda l’abito di quei re, e il suo stile mi
par tatuato, signore.
Il sognatore geme.
UN GENTILUOMO. Io, signore, conobbi un tale, un bottegaio arricchito, che quando gli capitava in
casa qualcuno, lo faceva girar per tutte le stanze, dove aveva messo in mostra un poco prima tutta
l’argenteria da tavola, i gioielli di sua moglie e ogni oggetto di valore comprato o ricevuto in dono
da lui nel corso di trent’anni; [407] e credeva con quello sfoggio di farsi veder gran signore; e tutti
lo giudicavano invece uno spocchione senza gentilezza e senza gusto.
Il sognatore si volta di scatto sur un fianco, cercando una posizione più comoda.
UN CRITICO (con un sorriso acre e una voce di sega). – Signore! È tempo oramai ch’io le spiattelli la
verità nuda e cruda. O chi crede d’ingannare con codesto abbarbaglio di frasi, con codesta
ostentazione di gale e di lustrini? Crede che non si capisca ch’Ella ricorre a codesti mezzi perchè
non ha un possesso sicuro della lingua, per nascondere l’indeterminatezza che da quel possesso
malsicuro deriva all’espressione del suo pensiero? Che non si capisca ch’Ella tira a scriver bello e
avventato perchè non le riesce di scriver proprio ed esatto? E s’illude che con quelle cianfrusaglie
brillanti si possa mascherar mai il pensiero nullo o mediocre? Eh, via! Anche il lettore meno colto
ha una percezione finissima per iscoprire un concetto trito o volgare sotto il cencio di porpora
dozzinale, come scopre la menzogna nel falso sorriso. Smetta codesta roba, che sciupa anche i
pensieri migliori, perchè svia la mente dalla diritta e rapida intuizione del buono e del vero. O che è
l’immagine, quando non serve a dar risalto all’idea, altro che polvere negli occhi? O quando capirà
che la bellezza non è che nella parola o nella frase necessaria, e che questa non può essere che la più
propria, e che la più propria è sempre la più semplice e la più comune? Oh, rinunzi una volta per
sempre a tutta codesta rigatteria letteraria, che si compra e si vende a peso a tutte le cantonate.
[408]
Lo scrittore respira sempre più affannoso, contraendo il viso e le mani.
LA PASSIONE. Il tuo linguaggio non è il mio. Tu non parli mai con la mia voce e con le mie parole.
Tu mi tradisci sempre. Io non pèttino, non arricciolo, non infioro le frasi e i periodi: io sono
semplice e franca. Tu non commovi nessuno perchè sei l’opposto di quello ch’io sono. Chi ti può
credere sincero? Crederesti tu alla sincerità d’un uomo che mentre ti confida, per impietosirti, un
grande dolore, facesse il bocchin di miele e gli occhi languidi come una donnina leziosa, e atti
vezzosi del capo come una tortora in amore?
LA RAGIONE. – E piglieresti sul serio un altro che mentre s’affanna a persuaderti d’una grande verità o
a indurti a un’azione generosa, scoprisse ogni tanto i polsini per mostrarti i bottoni d’oro o lanciasse
un’occhiata allo specchio per veder l’effetto del suo gesto?
UN VECCHIO. Senti. Io ho molto vissuto e conosco il mondo. Se tu lo conoscessi quant’io lo
conosco, se tu sapessi a quanta gente ha recato e reca danno di continuo codesto mal vezzo, in cui tu
t’ostini, d’inorpellare l’espressione d’ogni sentimento e d’ogni pensiero, tu faresti ogni maggiore
sforzo per liberartene, come d’una malattia pericolosa di morte. Quanti uomini retti e modesti son
giudicati irreparabilmente non sinceri, vanitosi, presuntuosi, e si vedon rifiutati favori e vantaggi ed
aiuti non per altro che perchè li chiedono con codeste forme affettate e leziose a persone che
aborriscono l’affettazione e la leziosaggine quanto la malvagità e l’impostura! Quante lettere e
scritture d’ogni forma, che [409] chiedono cose giuste e dovute, sono lacerate e buttate fra le
cartacce non per altro che perchè sono scritte nel modo che tu scrivi! Quanti scrittori di alto ingegno
e di animo buono sono diventati universalmente uggiosi e odiosi, e stati in ogni modo avversati e
defraudati dell’onore che per altri rispetti meritavano, per non essere riusciti mai a spogliarsi di
codest’abito sciagurato d’infronzolare, d’ingioiellare, di fiorettare il proprio linguaggio! Che
aberrazione! O com’è ancora possibile?
UNO SCRITTORE. Ho piedi te, confratello, e non te n’offendere, chè è pietà fraterna, poichè l’ebbi
un tempo di me pure; e fu quando tutte le gale e le lustre della parola, di cui avevo fatto abuso cieco
per vent’anni, m’apparvero nel loro vero aspetto, e mi fecero il senso che risentirebbe un uomo, il
quale, addormentatosi nell’orgia d’un martedì grasso, si risvegliasse il mercoledì delle ceneri, in
mezzo alla sua famiglia, sbriacato, ma ancor mascherato da re delle marionette. Quando riconobbi
quanti bei pensieri avevo sciupati, quanti sentimenti gentili traditi, per quanto tempo avevo offeso la
dignità dell’ufficio di scrittore scrivendo prosa di chincagliere e gettando negli occhi al pubblico
crusca dorata, sentii tale vergogna e nausea di me stesso, da esser tentato di dar della fronte nel
muro. T’auguro di guarire; ma la convalescenza ti sarà triste, povero amico.
UN AMICO DINFANZIA (col viso afflitto, e un accento di rimprovero triste). – Ah, no, in quel modo non
m’avresti dovuto scrivere in quella occasione dolorosa. Sapevi che avevo l’anima straziata da una
grande sventura: mi dovevi [410] scrivere come ti dettava il cuore. Tu non puoi immaginare che
pena fu per me il trovare nella tua lettera certe espressioni, quei tuoi soliti ornamenti e vezzi di
lingua e di stile, che mi fecero dubitare della sincerità del tuo dolore, che mi parvero anzi segni
manifesti d’indifferenza e di durezza d’animo. No; se tu avessi avuto pietà del tuo vecchio amico, se
tu avessi pianto davvero sulla sventura terribile che lo colpiva, tu non avresti usato quelle parole per
dirglielo, non avresti lisciato lo stile a quel modo, perdonami, per consolare il suo cuore. Mi facesti
una gran pena, amico, una gran pena!
Il sognatore, che s’era andato agitando sempre più durante le varie apparizioni, vinto all’ultima da
un impeto di vergogna, di dolore e di sdegno, si precipita dal letto (in sogno) e si mette a tirar pedate
furiose contro il cassone; il quale si rovescia e si scoperchia, spandendo sul pavimento una strana
variopinta luccicante mescolanza di vasetti, di piume, di ritagli di talco e di trina, di bubboli, di
nastrini, di stelline, di prismetti di vetro, di scampoli di panno rosso e di frange argentate e dorate,
ravvolto il tutto in un nuvolo di polvere d’oro e di riso. Furiosamente, a scarpate, egli caccia a
mucchio ogni cosa verso la finestra e abbranca a piene mani e butta tutto fuori del davanzale, e poi
scaraventa fuori anche il cassone. Il tonfo che fa questo battendo sul selciato della strada, lo
risveglia. Si mette a sedere sul letto, si frega gli occhi e guarda intorno.
Non è ancora bene sveglio: gli cadono dagli occhi due lacrime.
Ahimè! Sono lacrime di rimpianto per il cassone!
[411]
UNA PAGINA DI MUSICA.
È tendenza naturale in noi il dare un ritmo al linguaggio scritto, come lo diamo al linguaggio
parlato, perchè il nostro orecchio cerca naturalmente l’armonia, e anche delle parole scritte sentiamo
il suono nella mente. Gl’imitatori dànno alla prosa l’onda armonica, che hanno nella memoria, dello
stile del loro scrittore prediletto; quelli che non imitano, le dànno un ritmo loro proprio, che è come
la musica intima del loro pensiero; e anche gli scrittori che paiono più noncuranti dell’armonia, si
sente qua e che non resistono alla tentazione di dare al periodo un suono largo e gradevole, o, se
non altro, di terminarlo con una clausola sonora. La nostra lingua così ricca e varia di suoni, nella
quale facciamo anche in prosa, senz’avvedercene, una quantità di versi d’ogni metro, ci tenta
continuamente a cantare. E qui sta il pericolo: di far cantare la prosa per forza, aggiungendo parole
superflue al periodo per dargli quella data sonorità, sforzando il pensiero stesso per ridurlo a quella
data forma che all’orecchio piace, [412] facendo servire l’idea al numero, in somma, invece di far
obbedire il numero all’idea. E quando s’è su questa china, facilmente si precipita al peggio: si va
dalle armonie delicate e sommesse a una musica sempre più risonante, fino ad accompagnare la
sfilata delle frasi a colpi di piatti turchi, e a chiudere con colpi di gran cassa e squilli di tromba.
Come si può sfuggire a questo pericolo?
Il mio umile parere (come si suol dire quando si crede il parere proprio migliore degli altri) è
questo: che ci dovremmo proporre non di cercare l’armonia, ma soltanto d’evitar le asprezze e le
stonature. E paiono le due cose una sola; ma sono negli effetti assai diverse, perchè, cercando
l’armonia, si finisce col cercare una data armonia, la quale non si può ottener sempre senza artifici;
ciò che non accade a chi si studia solamente di non ferir l’orecchio. Per questo non c’è bisogno di
forzare il pensiero, d’aggiungere, di riempire, d’arrotondare, perchè ciò che fa suonare
sgradevolmente il periodo non sono quasi mai altro che uno o pochi vocaboli messi fuor di posto, e
qualche volta uno o due o pochi monosillabi; e basta per ripararvi il collocare gli uni e gli altri in
quelli che il Leopardi, facendo esercizio di lingua, chiamò “cantucci, spigoli, spazietti, passaggetti,
rivolte, giratine, tortuosità, angustie, stretture del discorso e del periodo„ nelle quali quei vocaboli e
monosillabi possono entrare senza violenza e stare senza stridere. Non è certo questa l’unica norma
che dobbiamo seguire perchè la prosa non riesca disarmonica; ma è la principale, e a te può bastare
per ora. Un ritmo, un andamento musicale tuo proprio [413] ti verrà con lo stile, del quale sarà un
elemento inseparabile; e quanto più il tuo stile sarà spontaneo, logico, fedelmente consentaneo al
movimento del tuo pensiero, tanto meno t’accorgerai d’avere quel ritmo; per modo che, rileggendo
dopo qualche tempo le cose tue, ti parrà di sentirvi una musica sconosciuta, o di cui tu abbia appena
una vaga reminiscenza. Bada ora sopra tutto a non mandar avanti la tua prosa a suon di tamburi e di
pifferi, a non far del periodo una cabaletta, sempre chiusa con quelle certe battute, che il lettore
presènte e solfeggia prima che tu vi giunga; perchè è questa una consuetudine che inceppa la
ragione e l’ispirazione, circoscrive la libertà del pensiero, vizia l’espressione, gonfia lo stile, e
avvilisce la dignità dello scrittore riducendolo un sonatore d’organetto.
UNA VOCE NELLARIA: – Benissimo!
O che c’è un grammofono qui? Chi è che parla?
La stessa voce, in tono leggermente ironico: “Ma devi anche dire all’alunno che ci sono i sonatori
del periodo, i tenori dello stile dissimulati, certi astuti che abbassano la voce, invece d’alzarla, che
non vanno mai negli acuti, che modulano il discorso come per cantare senza farsi scorgere; ma che
in realtà cantano anch’essi. Il canto non si sente periodo per periodo; ma quando voi avete letto
dieci loro pagine senz’aver mai colto proprio sull’atto il cantante, sentite non di meno che non
hanno parlato col tono di chi parla naturalmente, non cercando ritmo risonanza. È una specie
di musica morbida e liscia, dov’essi fondono i propri pensieri e smorzano le tinte dello stile; ma
che, appunto per questo, finisce col ristuccare essa [414] pure, come il mormorìo d’un rigagnolo,
facendoci desiderare qualche asprezza, qualche schianto qua e , in cui salti su il pensiero o
l’immagine, e magari anche qualche stonatura selvaggia, che ne rompa la dolce monotonia, dalla
quale ci sentiamo conciliare il sonno come dal rullìo d’una barchetta o dal cullamento d’una sedia a
dondolo. E per ottener questo bell’effetto forzano spesso anche costoro il proprio pensiero,
appiccicando delle brave code ai periodi, dicendo cose che non dovrebbero o come non vorrebbero,
esercitando come gli altri la non nobile industria dei pleonasmi, delle zeppe, delle imbottiture e
delle vescichette, con certa discrezione, quasi di sotterfugio, e con aria innocente; ma che non
inganna chi ha fine l’occhio e l’orecchio. Questo essi non imitano certamente dal loro maestro
Alessandro Manzoni, che non n’ha ombra. E anche dall’esempio di questi signori convien mettere
in guardia gli alunni. Rifuggano dagli uni e dagli altri: dai suonatori di gran cassa e da quelli che
fanno il verso degli uccelli.„
Pare che abbia finito.
Mi domandi se ha detto giusto?
Eh sì, non c’è a ridire, pur troppo.
Mi domandi ancora s’io so a chi abbia fatto allusione?
Lo so, sicuro; ma a dirtelo.... mi vergognerei un poco.
[415]
CORREGGI E LÀSCIATI CORREGGERE.
Abbiamo veduto da principio quello che s’ha da fare prima di scrivere; dobbiamo vedere ora quello
che è da farsi dopo aver scritto.
Tu hai già capito: rivedere, correggere.
Lascia passare un po’ di tempo, chè si quieti l’eccitamento intellettuale, e tu possa giudicare a mente
serena e ad animo riposato l’opera tua, e questa apparisca come a una certa distanza all’occhio
indagatore della tua mente. Poi rileggi, mettendoti con l’immaginazione, per quanto t’è possibile,
nell’animo d’un lettore non solo non indulgente, ma malevolo, il quale cerchi nel tuo lavoro i difetti
col desiderio di trovarne, o svogliato o male attento, che non regga ad alcuna ripetizione e
lungaggine, e smetta di leggere al primo senso di noia che lo prenda.
Leggi, e apri nella mente dieci occhi per veder dieci cose ad un punto: le improprietà, le superfluità,
le lacune, le disarmonie, i luoghi oscuri, i costrutti contorti, i legami forzati, le slegature, gli errori
d’ordine e le offese al buon gusto. Vedi se in qualche luogo non hai espresso con due [416] o tre
periodi brevi un pensiero o una serie di pensieri che si potevano raccogliere in uno, non però così
lungo da non potersi abbracciare, come dice un maestro, con un’occhiata; se, alleggerendo tutti e
due o tutti e tre quei periodi, non li puoi fondere insieme, affinchè il lettore legga d’un fiato solo
quello che dovrebbe leggere con tre riprese di respiro. Vedi se dove hai creduto di esprimere una
gradazione di pensiero non hai fatto altro invece che una gradazione di frase; se non hai ripetuto
nessun pensiero sotto altra forma, o presentato l’una dopo l’altra delle immagini che dovevi
presentare tutte a un tratto di fronte, o interposto una distanza fra due concetti che dovevano stare
vicini o connessi. Dove puoi mandare innanzi d’un salto il pensiero, che ha fatto un passo a destra e
uno a sinistra, correggi; dove la svoltata del pensiero è troppo larga, ristringila; dove puoi accorciare
una frase, serrare più forte un nodo sintattico, sostituire una parola breve a una parola lunga,
accorcia, serra, sostituisci. Cerca bene se hai avuto qualche momento di distrazione o di stanchezza,
dove hai commesso un peccato di vanità letteraria, dove hai lasciato sul tuo pensiero un velo di
nebbia.
Se farai questo lavoro con attenzione viva, ne ricaverai altrettanto diletto quanto dal lavoro facile e
caldo dell’ispirazione. Proverai che piacere squisito è lo sfrondare il superfluo quando se ne vede
balzar fuori più chiara e lucida l’idea; che maraviglia gradevole è il veder tutto un periodo mutar
aspetto e suono per la trasposizione d’una frase o d’una parola ch’era fuor di posto. In questo lavoro
comprenderai tutta [417] la delicatezza dell’arte dello scrivere, vedendo come un ritocco
leggerissimo metta alle volte la forza dov’era la fiacchezza, come la cancellatura o l’aggiunta d’un
solo vocabolo assodi un pensiero che era campato in aria, o ne saldi due l’uno all’altro, che non
parevano collegabili; come un nuovo aggettivo, non prima trovato, getti quasi un raggio di sole
sopra un’idea che stava nell’ombra. Sentirai come questo lavoro del correggere, quando è fatto
bene, non sia lavoro di pedante, quale molti lo dicono; ma di critico e d’artista ad un tempo; lavoro
fine e profondo, che eccita anch’esso la mente e l’animo come una seconda creazione, e che si può
far con amore, e che quando è fatto in tal modo, lascia nella coscienza una sodisfazione e una
quiete, che sono il più dolce premio della fatica.
Ma correggere non è sempre migliorare, bada bene. Bisogna, correggendo, tener sempre presente
che nello scrivere di primo getto la mente eccitata e come dilatata e sveltita dall’eccitazione faceva
rapidamente il giro d’un largo spazio, vedeva in una volta molte cose e molte relazioni fra le cose, e
abbracciava con occhio pronto e mobilissimo ragioni, proporzioni e convenienze. Correggendo a
mente fredda, noi tendiamo a esaminare invece idea per idea, frase per frase, parola per parola; e
quindi facilmente prendiamo abbaglio sul valore di ciascuna idea, frase o parola, che non vediamo
più in relazione con l’altre; e facilmente per questo correggiamo male; e spesso togliamo forza a un
concetto del quale non abbiamo più vivo il sentimento, credendo [418] di perfezionarne
l’espressione, e ci lasciamo andare ad arrotondar dei periodi perchè non ci suonano più nella mente
insieme con l’armonia generale dello scritto, per dar loro una sonorità più piena, con danno di
quell’armonia generale. Convien dunque guardarsi, correggendo, dal corregger troppo, e per
guardarsene bisogna rimettersi a quando a quando, con uno sforzo dell’immaginazione, nello stato
di mente e d’animo in cui ci trovavamo nel far la prima stesura del lavoro, e riscontrare così la
nostra correzione col criterio che in quei momenti ci guidava: criterio meno guardingo e men
minuzioso, ma più largo, più agile, più istintivamente sicuro di quello della critica lenta e tranquilla.
Ma quello che sopra tutto occorre nella correzione è la sincerità.
– La sincerità con sè stessi? – domanderai. O come si può non esser sinceri?
Si può in questo modo. Quando nel nostro scritto troviamo un errore o un difetto, a cui sia difficile
riparare, diamo ascolto alla voce della pigrizia che ci dice: Lascia com’è; forse t’inganni; quello
che pare a te un errore di proprietà o di gusto, o altro che sia, non parrà forse tale a chi legge, o
questi vi passerà su senz’avvertirlo. Persiste la nostra coscienza ad avvertirci che quello è un
errore o un difetto; ma, illudendo noi stessi di proposito, noi diamo retta alla pigrizia, e tralasciamo
di correggere. Ed è una illusione insensata, perchè il lettore, anche incolto, non avvertirà certe
bellezze che noi crediamo ch’egli noti, ma vede per contro molti difetti leggerissimi, che a noi pare
gli [419] debbano sfuggire. E infatti, chi si provi a leggere scritti propri a persone senza cultura, ma
sincere, riman meravigliato spesso dell’acutezza delle osservazioni critiche che quegli uditori gli
fanno; e la ragione del fatto è che la gente incolta, non avendo il criterio viziato o velato da concetti
letterari convenzionali o dall’assuefazione della mente a certi artifizi e vizi comuni dello scrivere,
riceve dagli scritti un’impressione immediata e schietta, e non badando, o non dando pregio a certe
forme della lingua e dello stile, raccoglie meglio l’attenzione su cert’altre, e le vede con occhio più
chiaro. Sarà una leggiera oscurità, sarà una parola fuor di luogo, sarà una frase dubbia, che può esser
presa in doppio senso; ma qualche menda noterà, qualche osservazione utile farà sempre anche
l’uomo ignorante, se dice schiettamente quello che pensa d’uno scritto che gli si legga.
Per questo ti consiglio di sottoporre qualche volta quello che scrivi anche alla critica delle persone,
delle quali è generalmente disprezzato il giudizio in materia letteraria. Le loro osservazioni, lo so,
feriscono più di quelle d’ogni altro l’amor proprio, o per dir meglio, l’orgoglio dello scrittore. Ma in
ogni campo intellettuale una delle condizioni essenzialissime per imparare è quella di vincere
l’orgoglio. Non s’impara veramente se non si ha la ferma persuasione, in qualunque età, e a
qualsiasi altezza si sia pervenuti nell’arte o nella scienza, d’avere ancora e sempre da imparare
moltissimo. E a che serve tener alto l’orgoglio di fronte agli altri, se siamo di continuo costretti a
mortificarlo dentro noi [420] stessi? Procedendo negli studi e nell’arte dello scrivere, tu dovrai ogni
giorno, ogni momento, fare atto d’umiltà davanti all’immensità del campo che ti s’allargherà man
mano dintorno, alle sempre nuove difficoltà che ti sorgeranno dinanzi dopo che n’avrai superate
altre molte che ti saranno parse le ultime; atti infiniti di rassegnazione dovrai fare, dolorosamente,
disperando di poter raggiungere l’ideale della tua mente. L’arte è grande e divina per questo. S’ama
per tutta la vita perchè non appaga mai pienamente, e sono quasi sovrumane le gioie ch’ella
perchè sono frutto e ci compensano d’infiniti sforzi e amarezze. E tu, se sei chiamato all’arte, va’
incontro alla lotta nobilissima con l’anima serena e piena di fede. Ti sorrida o no la vittoria, sarai
contento d’aver combattuto. Se non salirà in alto il tuo nome, salirà il tuo spirito, e per questo solo
benefizio che dall’arte avrai ricevuto, anche nella tristezza d’una nobile ambizione delusa, tu
l’amerai ancora come un’amica dolcissima, la benedirai sempre come una consolatrice celeste.
[421]
AL MIO LETTORE IDEALE.
E ora addio, giovinetto, mio lettore ideale, ch’io mi vidi sempre dinanzi durante il mio lavoro,
nell’aspetto d’un figliuolo più che d’un alunno. T’avesse dato il mio libro anche solo una minima
parte del piacere con cui lo scrissi! E non fu un piacere che nascesse dall’illusione di mettere in atto
degnamente un concetto che mi pareva buono, chè non fui contento un giorno di quanto facevo:
nasceva dai mille ricordi che mi si ravvivavano, dalle mille immaginazioni che mi si destavano
lungo il cammino; perchè non c’è studio che risvegli e rimescoli la memoria, quando si fa con
amore, che affolli tanto la mente d’immagini quanto lo studio della lingua; e tu ne farai esperienza,
spero. Fu come un viaggio di vari anni per il mio paese e a traverso la sua letteratura, dove quasi ad
ogni parola mi s’alzava davanti la reminiscenza d’una lettura, la visione d’un fatto, il fantasma
d’uno scrittore.
Pensa un po’: dai primi monaci del Duecento, divulgatori di leggende miracolose, fino agli [422]
scrittori ancor viventi, quante diverse apparizioni, che sfilata maravigliosa di notari, di mercanti, di
cardinali, di principi, d’ambasciatori, d’artefici, di capitani vestiti di ferro e di professori con la toga
accademica o col cappello a cilindro! E tutti quanti si disegnavano sul mare ondeggiante delle trenta
generazioni che fucinarono la lingua per tutti. In mezzo a quei personaggi saltavano su bambini di
Firenze, dai quali avevo inteso la prima volta certe parole, assistendo ai loro giochi sul Viale dei
Colli, e contadini con cui m’ero accompagnato per lunghi tratti nei miei viaggi a piedi per la
campagna toscana; e fra i loro discorsi mi ritornavano in mente correzioni fatte ai miei lavori di
scuola da antichi maestri, discussioni linguistiche avute con amici di trent’anni addietro, e casi e
scene della vita, il cui ricordo m’era rimasto legato in capo con quel tal vocabolo o quella tal frase,
senza una ragione ch’io percepissi. La lingua mi faceva rivivere il passato, come fa la musica, che
riporta tutta l’anima nostra a grandi distanze di tempo e di spazio. E mi sentivo ringiovanire nel
rimetter le mani, dopo molti anni, nei miei vecchi scartafacci d’appunti, ingialliti e polverosi, scritti
in caratteri che non mi parevan più miei, e nel ricorrere certi vecchi libri sottolineati e annotati nei
margini, che mi ricordavano letture notturne e care speranze della bella età ch’è ora la tua.
Ringiovanendo nel pensiero, mi sentivo più vicino a te, e mi pareva che lavorassimo insieme.
Non tutti i miei pensieri erano lieti, peraltro. Riscontrando il significato proprio di certi modi, [423]
m’accadeva qualche volta di riconoscere che li avevo usati sempre a sproposito; d’altri mi
vergognavo di non averli imparati che poco prima di citarli a te con l’aria di saperli da un pezzo; e
così di certi precetti e consigli ch’io ti davo, mentre la coscienza mi rinfacciava d’averli quasi
sempre trasgrediti. Spesso anche mi sorgeva dinanzi il professor Pataracchi, gridando: Ah,
barbaro! E hai la faccia d’impancarti a far la lezione? Concerò io la tua carta stampata per il delle
feste! Oppure pensavo a questo o a quello scrittore morto o vivente, e dicevo: Chi sa come
avrebbe fatto o farebbe meglio di me questo libro! –, e mi tormentava la coscienza di mancare della
facoltà e della dottrina che in quelli riconoscevo. E a volte mi prendeva un senso di sgomento, ed
ero tentato di buttar la penna.
Ma in questi casi eri sempre tu, mio lettore ideale, indulgente come s’è all’età tua, che mi facevi
animo a proseguire; era la tua immagine che mi veniva a dir la mattina: Al lavoro! Qualche cosa
n’uscirà, e anche quel poco mi potrà giovare.
E poi mi dava cuore un sentimento sempre più forte, ravvivato a quando a quando da un ricordo
lontano, come una fiamma da un soffio di vento. Mi ricordavo d’un povero ragazzo italiano, che un
giorno udii cantare una canzone malinconica in una strada d’una città d’oltralpe, e certi stranieri
villani, da un terrazzino, lo beffeggiavano, ripetendo sformate le sue dolci parole, e rifacendogli il
verso sguaiatamente. E a quel ricordo risentivo per la mia lingua, [424] scrivendo, quello che avevo
sentito quel giorno all’udirla vilipendere con versacci di scherno: un amore ardente e altero, pieno di
venerazione e di tenerezza, che mi faceva formar più saldo il proposito di servirla e d’onorarla nel
miglior modo ch’io potessi, con tutta l’anima e per tutta la vita. E dicevo in cuor mio: – Se riuscissi
a trasfondere questo sentimento nel mio lettore ideale! E questa speranza mi dava un fremito di
gioia e un nuovo impulso al lavoro.
E ora ti dirò ancora una bella cosa, come dice un trecentista. Credo che nella mente d’ogni
scrittore, quando scrive un libro, si formi a poco a poco e finisca con l’essergli quasi sempre
presente un’immagine, la quale gli rappresenta in forma simbolica il suo pensiero assiduo. Ed ecco
quale fu per me quest’immagine, confusa da principio, poi da un giorno all’altro più netta. Io
vedevo un palazzo smisurato, che sorgeva fra rovine colossali di monumenti romani, e nascondeva
la sommità fra le nuvole. Presentava sovrapposte di piano in piano le architetture di vari secoli:
dove semplici e severe, tutte grandi bozze di granito greggio, o marmi nudi nitidissimi; dove
sopraccariche di sculture, coperte d’affreschi, messe a oro e a musaici di gemme, risplendenti come
un seminìo di stelle. A tutte le altezze, sopra le cornici e nei fregi ricorrevano in lunghe file le
effigie di mille scrittori coronati, che balenavano dagli occhi, come volti viventi; a somiglianza dei
quali anche i fiori delle pitture, i fogliami dei capitelli, le figure delle colonne storiate, le cariatidi
simboleggianti ogni forma della letteratura, tutto si moveva e viveva. E [425] dalle logge aeree,
dagli ampi intercolonnii, da tutte le aperture dell’edifizio enorme e gentile, maestoso come una
montagna e leggero come una cosa di sogno, uscivano canti di poeti, grida d’oratori, armonie gravi
e soavissime di voci innumerevoli, che parevano venire da una lontananza sterminata. Ma non era la
bellezza multiforme e magnifica la maggior maraviglia: era che tutte le linee e gli aspetti diversi
dell’edifizio offrivano insieme, non l’effigie propria, ma l’espressione vaga e prodigiosa d’un volto,
sul quale era diffusa la luce d’un sorriso ineffabile, misto d’alterezza regale e di dolcezza materna, e
che a quando a quando le voci infinite si confondevano in una, immensa come la voce d’un mare
che parlasse, ripetendo quanto di più grande e di più dolce ha detto al mondo l’Italia nello spazio di
settecent’anni....
Era l’edifizio della lingua italiana. E man mano che andavo innanzi, ingrandiva nella mente eccitata
dal lavoro, e mi pareva sempre più bello e splendido, e che spandesse armonie più soavi e più
solenni, e mi penetrava più profondamente nell’animo quel sorriso misterioso, come d’un volto
sovrumano, che brillava nella maestà del suo aspetto.
Ma sempre, quando mi trattenevo ad ammirarlo, pensavo che a visitarne i tesori nascosti e le
bellezze intime più maravigliose non t’avrei potuto guidare io stesso; e questo pensiero era un
rammarico.
Ma che importa? Tu le visiterai con la scorta d’altri, o anche solo, più tardi. Ebbene, se il mio
povero libro non t’ha annoiato, e se t’ha giovato [426] un poco, io ti chiedo questa ricompensa alla
mia fatica: che quando t’aggirerai fra le meraviglie del palazzo incantato, ti ricordi qualche volta di
me, che ti lascio sulla soglia, con tristezza, benedicendo i buoni propositi che porti nel cuore e le
belle speranze che ti splendono in fronte.
FINE.
[427]
Per esser breve il più possibile ho fatto parecchie citazioni senza accennare i nomi e le opere degli scrittori, restringendomi a
chiudere le frasi fra due virgole doppie; il che può bastare per gli scrittori morti, essendo quasi tutti notissimi i giudizi loro che ho
citati; ma non basta per gli scrittori viventi. Accenno dunque, per debito di gratitudine e per utilità dei giovani lettori:La lingua dei
Promessi Sposi, di Francesco d’Ovidio, che tutti gli studiosi della lingua dovrebbero leggere. L’arte del periodo nelle opere
volgari di Dante Alighieri e del secolo XIII, ottimo studio critico di Giuseppe Lisio. Storia della letteratura italiana, di Vittorio
Rossi. La formazione della prosa moderna, prolusione di Dino Mantovani. La filosofia delle parole, di Federico Garlanda.
Abruzzesismi, Calabresismi, Sardismi, di Fedele Romani. Grammatica italiana dell’uso moderno, di Raffaello Fornaciari.
L’Italia dialettale, di G. I. Ascoli. Manuale della Letteratura italiana, di Alessandro d’Ancona e Orazio Bacci. Quelli ch’io posso
aver dimenticati, mi perdonino. E mi perdonino anche i miei carissimi amici Guido Mazzoni e Cesario Testa l’indiscrezione che
commetto esprimendo loro pubblicamente la mia gratitudine per l’aiuto validissimo che mi diedero nella revisione del libro.
[428 bianca]
[429]
INDICE.
PARTE PRIMA.
La lingua della patria (A un giovinetto) Pag. 3
A quelli che non vorrebbero leggere 10
A chi dice che la lingua si sa ivi
A chi dice: – Che cosa importa? 11
A un uomo d’affari 13
A chi non ci ha attitudine 14
A chi non ci ha tempo 15
A chi dice che ci avrà tempo 17
A un giovane d’ingegno 18
A chi studia le lingue straniere 19
A chi dice che basta leggere 21
A chi dice che s’impara la lingua dall’uso 22
A una signorina 23
La lingua e l’amor proprio 25
DEL PARLARE 28
Le miserie della loquela ivi
IL SIGNOR Coso 32
Tra lo scrivere e il parlare c’è di mezzo il mare 37
Per imparare a parlar bene 40
La lingua italiana in famiglia 44
A ciascuno il suo (A una schiera di ragazzi di diverse regioni d’Italia) 49
Il malanno dell’affettazione 56
Fra un parlatore ricercato e uno che parla alla buona 59
LA SIGNORA PIESOSPINTO 64
[430]
Vergogna fuor di luogo Pag. 70
Bella musica sonata male 75
Stretta finale 84
L’AMÌO ENRÌO 86
Per imparare i vocaboli 91
Diversi modi di studiar la lingua 96
L’aristocratico ivi
Il classificatore 99
Lo mnemonico 104
Il miscellaneo 108
Il vocabolarista 112
Il modo migliore 118
IL FALSO MONETARIO 122
Una corsa nel vocabolario 127
Una sosta 132
Rimettiamoci in cammino 133
In confessionale 135
Da “Pencolone„ a “Piaccicone„ 137
Lanterna magica 139
Cento pagine di corsa 140
Amenità del vocabolario 142
Ultima verba 144
Per finire 147
La memoria latente 149
Il pericolo 152
IL PROFESSOR PATARACCHI 155
PARTE SECONDA.
Le lagnanze d’un dialetto (Dialogo fra il dialetto piemontese e la lingua) 166
La lingua che non si sa 173
La lingua che non si parla 180
La lingua approssimativa 183
La lingua che abbrevia 188
Dell’utilità di studiar le definizioni 198
Il dizionario dei sinonimi 201
[431]
SCRUPOLINO Pag. 205
Apologia del peggiorativo 211
Apologia del diminutivo 215
La lingua famigliare 221
La lingua faceta 228
Per variare il proprio vocabolario 236
LL PESCATORE DI PERLE 241
È errore? Non è errore? (78 errori in 47 righe. – Come s’ha da fare. – Un coro di francesismi) 247
Le parole nuove (Pareri d’un senatore, d’un filologo, d’una signora, d’un ingegnere industriale e d’un bello spirito) 257
IL VISCONTE LA NUANCE 268
Per la difesa della lingua 275
A chi le dice peggio (Dialogo fra uno scrittore, un avvocato, un professore di chimica, fisica e matematica, e un cronista di
giornale) 276
Contro i luoghi comuni (Tirata d’un avvocato) 290
“Gli ardiri„ (Confessioni d’uno scrittore pusillanime a uno senza paura) 295
L’alto là della grammatica 310
Quello che si può imparare dai Toscani 314
IL DOTTOR RAGANELLA 318
A traverso i secoli 324
I trecentisti ivi
Dal Boccaccio a Leonardo 330
Da Leonardo al Machiavelli 331
Da Galileo all’Alfieri 335
Dal Foscolo al Carducci 337
Conclusione 342
UN PARLATORE IDEALE 345
PARTE TERZA.
Se ci possiamo fare uno stile 353
LO STILETTATORE 357
A che servono i precetti 363
[132]
Come s’ha da intendere la massima che si deve scrivere come si parla Pag. 369
Pensarci prima 375
Con la penna in mano (Scena ideale) 381
La sfilata dei brutti periodi 388
CARLO IMBROGLIA 394
Il periodo perfetto 400
Il sogno d’uno scrittore falso 405
Una pagina di musica 411
Correggi e làsciati correggere 415
AL MIO LETTORE IDEALE 421
Errata corrige
p. 47 inseguire = inseguire (in corsivo)
p. 87 oustriaco = austriaco
p. 307 un’aspide = un aspide
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