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TITOLO: Duecento sonetti in dialetto romanesco
AUTORE: Belli, Giuseppe Gioachino
TRADUTTORE:
CURATORE: Luigi Morandi
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: Duecento sonetti in dialetto romanesco
G. Barbèra Editore,
Firenze 1870
CODICE ISBN: Non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 25 settembre 2002
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Umberto Galerati, [email protected]
REVISIONE:
Umberto Galerati, [email protected]
PUBBLICATO DA:
Marco Calvo, http://www.mclink.it/personal/MC3363/
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DUECENTO SONETTI
in dialetto romanesco
di
GIUSEPPE GIOACHINO BELLI
con prefazione e note di
LUIGI MORANDI
PRIMA EDIZIONE FIORENTINA
FIRENZE
G. BARBÈRA EDITORE
1870
AI ROMANI CHE VENDICHERANNO
L’ONTE NUOVE DEL VECCHIO SERVAGGIO
QUESTE SATIRE
DEL LORO POETA
DEDICA
IL RACCOGLITORE
I.
Dalla distruzione di esseri viventi rinascono altri esseri; dalla morte, la vita: è questo il fenomeno per cui
si perpetua e quasi s’indìa la materia.
Codesto fenomeno si ripete anche nel mondo morale. «Le lettere (disse Cesare Balbo) si nutrono di fatti
gravi, importanti, da discutere, o narrare, o ritrarre in qualunque modo di prosa o poesia; ondechè, cessando
ovvero i fatti, ovvero la libertà del discuterli o narrarli o ritrarli, ovvero peggio ed insieme i fatti grandi e la
libertà, cessa il cibo, il sangue, la vita delle lettere; elle languono, si spossano, infermano talora fino a
morte.»
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A confermare queste parole del Balbo sta il fatto, oramai incontrastato, della decadenza delle
lettere latine dalla fondazione dell’Impero in poi, e delle italiane, dopo la caduta delle repubbliche
medioevali. Ma nel mentre l’eloquenza, la poesia epica, tragica o lirica, vivono, può dirsi assolutamente,
della libertà, la satira de’ costumi e quella politica nascono e prosperano quando la libertà sta perdendosi o
si è in tutto perduta; hanno vita insomma dalla morte d’ogni altro genere di letteratura.
La satira de’ costumi precede sempre quella politica: Orazio viene prima di Persio e di Giovenale; Parini
prima di Giusti.potrebbe essere altrimenti, perocchè il declinare della privata e pubblica moralità è certo
indizio di vicina tirannide. Fortuna simul cum moribus immutatur lo ha detto un giudice competente: il
vizioso Sallustio, che assisteva al suicidio di Roma. I popoli grandi, virtuosi, incorrotti, non si domano, non
si comprano. Innanzi che Roma si vendesse a Giulio Cesare, sulle porte di lei aveva letto Giugurta l’Est
locanda. Giovanni Villani, Dante, Savonarola, quando inveivano contro il lusso, l’immodestia, le libidini dei
Fiorentini, rimpiangendo i buoni tempi di quel de’ Nerli e quel del Vecchio, le cui donne stavano contente al
fuso e al pennecchio, erano altrettanti profeti che prevedevano la rovina della patria nella morte de’ modesti
costumi. Laonde, ben a ragione si disse, che il tiranno è sempre lo specchio fedele de’ milioni di sudditi che
gli stan sotto, e che son degni di lui.
La satira de’ costumi è il canto funebre, la nenia della liber morente; la satira politica ne è l’epicedio,
l’elegia vendicatrice. Talvolta, la seconda va accompagnata alla prima, come in Persio e in Giovenale; poi
che il poeta si avvede che la tirannide viene dal basso più che dall’alto, che gli uomini, se non fossero evirati
dal vizio, scuoterebbero il giogo. Allora egli flagella a sangue i viziosi colla sferza tremenda del ridicolo, e
la sua beffa morde e strazia, e dal riso è capace di farti rompere in uno scoppio di pianto rabbioso... Potenza
dell’arte, che ha virtù di rifarci bambini!
Pertanto, la satira politica, sia che coprasi del velo dell’allegoria, come ci dicono gl’indianisti, nelle
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Sommario della storia d’Italia, lib. III, 16
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favole del Pancha tantra,
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od in alcune di Esopo
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e di altri; sia che faccia capolino frammezzo alle scene; sia
che vesta panni tutti propri, è sempre figlia della tirannide; ma insieme è il serpe che questa s’alleva nel
seno; è il tarlo che rode lentamente il trono del despota; è la voce tremenda della virtù oltraggiata e
concussa, che invoca ed affretta il giorno, dell’ira!
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Veramente, se le lettere debbono pur servire a qualche cosa, io non so quale altro ramo di esse possa
reggere per l’utili e per l’importanza al confronto della satira. Le dolci inspirazioni dei nostri cento poeti
potranno allietarci e render più belli i giorni felici della libertà; ma il sarcasmo di Giusti era cote che ci
affilava l’anima nello sdegno, e ci veniva compagno e conforto nella sventura.
Alle prime aure di libertà, mentre ogn’altro genere di poesia e di prosa risorge, la satira politica va
lentamente mancando; intisichisce, come pianta posta in terreno non suo; diventa rettorica, e che Dio ce ne
liberi!
II.
Ciò posto, ognun vede quanto propizio terreno sia Roma per la satira. Laggiù, essa può ferire a doppio
taglio: sul dispotismo politico e su quello religioso. Il lusso smodato della corte, i privilegi, gli abusi,
l’ignoranza di quell’immoralissimo governo, i birri, le spie, la censura, il servidorame, l’intolleranza politica
e religiosa, il concubinato dell’alto clero, la feroce persecuzione contro ogni libera idea, l’aborrimento
d’ogni cosa nuova, tuttochè utile e ragionevole, sono altrettanti argomenti che si presentano di per al
poeta satirico. Ed infatti a Roma si nasce, per dir così, coll’epigramma sulle labbra. Il trasteverino non sa
leggere, ma sa farvi una satira. E solo chi conosce il basso popolo di Roma, può avere un giusto concetto di
quel garbo tutto romanesco, che è passato in proverbio. Forse anche gli avanzi dell’antica grandezza
contribuiscono a rendere atte le menti a scovrire il lato piccolo e risibile delle persone e delle cose, e codesta
attitudine si fa maggiore coll’esempio e coll’educazione di famiglia; forse anche il clima ci ha la sua parte;
ma insomma, ogni romano è stoffa adatta per tagliarci un poeta satirico. E non mancano esempi per
dimostrarlo.
Un giorno, presso all’ora in cui stanno per esser tolte dalla cassetta postale le lettere, molta gente si
accalcava dintorno alla buca, e gli urtoni volontari e le scuse ipocrite e gli accidenti secreti si succedevano,
come suole accadere in siffatti casi. Un vecchio aveva imbucata la sua lettera, e abbassando la testa, s’era
per un tratto soffermato a guardare se ella fosse discesa, tardando un poco ad andarsene, per quella lentezza
di movimenti che è retaggio della vecchiaia. Allora, un ragazzino di dieci o dodici anni, che gli stava dietro,
avendo anche lui da impostare una lettera, impazientito del ritardo del vecchio, alzò il capo e gli disse
seriamente: «A sor boccio! aspettate finente la risposta?» Uno scoppio generale di risa fece eco a codesta
domanda, che in verità potrebbe darsi per modello di sublime ridicolo. Difficilmente un ragazzo di un’altra
città avrebbe detto altrettanto.
*
* *
Pasquino è una creazione del popolo. Su di un angolo del palazzo Braschi, presso Piazza Navona, si vede
appoggiato il torso di una statua, che il noto Bernini reputava uno de’ tipi più belli d’antiche figure. Si
credette per molto tempo che quel torso fosse avanzo d’una statua rappresentante un gladiatore, o un
guerriero di Alessandro Magno; ma più tardi, gli studiosi delle cose antiche parvero d’accordo nel giudicarlo
frammento d’un gruppo figurante Menelao che solleva da terra il cadavere di Patroclo. Il lettore può
scegliere a suo piacimento quella che più gli quadra di queste dotte opinioni; o lasciarle tutte, chè fa lo
stesso; perocchè senza di esse può star l’istoria. Nella seconda metà del secolo XV, poco lunge da codesto
avanzo di statua teneva la sua botteguccia un sartore nominato Pasquino, che era uomo molto allegro,
1 Vedi Amari, Solvvan el Mota’; Introduzione, X
2 Nunc fabularum cur sit inventum genus / Brevi docebo. Servitus obnoxia, / Quia, quæ volebat, non audebat dicere, /
Affectus proprios in fabellas transtulit, / Calumniamque fictis elusit jocis, etc.
(Fedro, lib. III, Prologo.)
3 Giulio Cesare, primo tra’ primi liberticidi, sperimentò assai per tempo il flagello della satira. Quando, dopo aver
soggiogate le Gallie, entrò trionfalmente a Roma; siccome era ne’ del trionfo concesse al popolo libertà di parola;
molti, ricordando le sue turpitudini col re Nicomede, andavano gridando:
Gallias Cæsar subegit, Nicodemes Cæsarem;
Ecce Cæsar nunc triumphat qui subegit Gallias:
Nicodemes nun triumphat, qui subegit Cæsarem!
Vedi SVETONIO, Vita di Giulio Cesare, XLIX.)
Quale effetto avranno prodotto sull’animo del dittatore trionfante quelle sanguinose parole? C’era di che morirne dalla
vergogna! Pasquino non era ancor nato, ma la satira sarebbe stata degna di lui.
d’ingegno pronto e arguto, e motteggiatore e satirico per eccellenza, noto e caro per queste sue doti a tutto il
popolo di Roma, il quale, non entrando nelle sottili disquisizioni degli archeologi, e non sapendo come
chiamar quella statua, è molto probabile che fin d’allora la chiamasse statua di Pasquino. E Lodovico di
Castelvetro, nel suo libro Ragioni di alcune cose, ci dice che «Antonio Tibaldeo da Ferrara, il quale fu uomo
di reverenda et grande autori per le sue singolari virtù et per la sua rara dottrina; a’ suoi dì, essendo già
pieno d’anni, soleva raccontare... che maestro Pasquino... et i suoi garzoni, chè molti ne avea, facendo
vestimenti a buona parte d’artegiani, parlavano liberamente et sicuramente in biasimo de’ fatti del Papa et
de’ cardinali, et degli altri prelati della Chiesa, et dei signori della corte: delle villane parole de quali,
siccome di persone basse et materiali, non era tenuto conto niuno, a loro data pena niuna, o
malavoglienza portata di ciò dalla gente. Anzi, se avveniva che alcuno, per notabilità o per dottrina o per
altro riguardevole, raccontasse cosa non ben fatta d’alcun maggiorente, per ischiffare l’odio di colui che si
potesse riputare offeso dalle parole sue et potesse nuocergli, si faceva scudo della persona di maestro
Pasquino et de’ suoi garzoni, nominandogli per autori di simile novella.»
Quando il dabben uomo fu morto, il popolo battezzò addirittura col nome di Pasquino quel torso di
statua; e quasi fingendosi che l’anima del sartore fosse passata dentro, attribuì a quello come aveva
attribuito a Pasquino vivo tutti i lazzi, le celie, i motteggiamenti e le satire che correvano per la città.
1
Di
tal guisa, quel torso informe, per effetto d’una strana metempsicosi, divenne un essere animato. Ei non si
muove, ma è vivo; non ha occhi orecchi, ma vede ed ascolta tutto; gli avanza appena un ultimo vestigio
del naso, ma per finezza di odorato non la cede a Galateri e a Nardoni. Dio vi guardi da lui! Mille faccie
rubiconde ha fatto impallidire, e mille pallide ne ha fatte diventare di fiamma. È capace di ferirvi anche in
greco e in latino, lingue ch’ei sa a meraviglia, dacchè per la sua bocca hanno parlato e il Sannazaro e il
Poliziano e l’Ariosto ed altri cosiffatti. La sua anima non è già quella del povero sartore, che pur troppo
starà ora umbra levis sotto il caduceo di Mercurio; ma è l’anima del popolo romano, del vero popolo,
s’intende, non dei sagrestani, e (con riverenza parlando) de’ bastardi de’ preti.
E Pasquino è rispettato e temuto dal Governo papale, che non rispetta e non teme questo nostro Regno
d’Italia! Pasquino sta fermo come torre inespugnabile fra dense schiere d’impotenti nemici. Che varrebbe il
dannarlo a morte? Egli risorgerebbe sotto forme mutate, ma più acre, più mordace, più terribile per la patita
violenza: perciò lo si lascia in pace. Papa Pio V fece appiccare per la gola il latinista Niccolò Franco, che in
un distico s’era beffato di lui;
1
Sisto V fece mozzare la mano destra all’autore di una pasquinata contro sua
sorella, allettato a scovrirsi colla promessa di un premio;
2
ma Pasquino non fu molestato. Soltanto nel 1592,
pontificando Clemente VIII, ei corse rischio di andare, fatto in pezzi, a prendere un bagno freddo nel Tevere,
per sentenza di molti prelati e de’ cardinali Pietro e Cinzio Aldobrandini, nipoti del papa; ma a perorar la
sua causa si levò l’uomo più illustre di quel tempo (chi ’l crederebbe?), Torquato Tasso! Egli stesso, il
grande ed infelice poeta, sconsigl il cardinal Pietro dal permettere che la condanna fosse eseguita;
«perciocchè (gli disse) dalle polveri di Pasquino nella ripa del fiume nasceranno infinite rane, che
gracchieranno la notte e ’l dì.» E avendo il Pontefice risaputo dal nipote le parole del Tasso, e mandato a
chiamarlo, perchè gliene desse ragione, «Verissimo, padre santo (rispose il poeta); ma se la vostra
Beatitudine vuol che le statue non favellino male, faccia che gli uomini ch’ella pone ne’governi operino
1 Il Castelvetro dice che, vivente Pasquino, la statua era ancora mezzo sotterrata nella via pubblica, e col dosso serviva
ai caminatori per trapasso, acciocché non si bruttassero i piedi nelle stagioni fangose. (Mi permetto di ricordare al
lettore che quella povera statua era uno de’ più belli avanzi dell’Arte greca.) Poi aggiunge che, morto il sartore, fu
dirizzata in piedi presso la sua bottega; perciocché giacendo, come faceva prima, rendeva il lastricamento et il
mattonamento meno uguale et meno bello. Il Fioravanti Martinelli (Roma ricercata) ed altri vogliono che la si
ritrovasse sul principio del secolo XVI, sotto una torre, che l’antico palazzo degli Orsini (rifatto dal Sangallo e divenuto
poi proprietà de’ Braschi) aveva dal lato che risponde in Piazza Navona. Secondo Andrea Fulvio (Antichità di Roma)
parrebbe invece che al tempo di Tibaldeo e di Pasquino fosse di già eretta sur un piedistallo, presso il palazzo degli
Orsini, e però poco lontano dalla bottega di Pasquino, che era nella via in Parione. Questa ci è sembrata l’opinione più
ragionevole: del resto, si ritenga pure che la statua venisse scoperta qualche anno dopo la morte del sartore, certo si è
che le fu imposto il nome di lui nel modo da noi narrato.
1 Il distico fu affisso sulle latrine del Vaticano e diceva così:
Papa Pius quintus, ventres miseratus onustos,
Hocce cacatoium nobile fecit opus.
(Vedi Pasquino e Marforio, Istoria satirica de’ Papi; Italia 1861, pag 152.)
2 Avendo papa Sisto nominato duchessa la propria sorella, già lavandaia, Marforio domandava a Pasquino perché
portasse la camicia tanto sudicia, e Pasquino rispondeva: «Come ho da fare? La mia lavandaia è diventata principessa!»
— Il Papa montò sulle furie per questo insulto; ma dissimulando lo sdegno, fece bandire che avrebbe data salva la vita e
un premio di diecimila scudi all’autore della satira, se si fosse spontaneamente rivelato. Il merlotto cascò nella pania; e
Sisto V tenne bensì la promessa; ma gli fece mozzare la mano destra, affinché non iscrivesse più mai parole così
scandalose. — (Vedi Frantone, Uomini illustri esteri.)
bene.» Questo fatto è narrato da Giambattista Manso, amico sincero e confidente del cantore della
Gerusalemme.
3
Così Pasquino scampò da quella burrasca, e pochi giorni dopo egli stesso potè dire a’
Romani che la Poesia aveva salvato la Satira.
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Del resto, è da notarsi che Pasquino troverebbe caldi difensori fra i personaggi più eminenti di Roma, e
perfino tra’ membri del Sacro Collegio, i quali più volte si sono giovati dell’opera sua, massime
nell’occasione del Conclave. Per dirne una, fra le innumerevoli pasquinate di cui fu soggetto Alessandro VI,
ve n’ha di quelle in cui potrebbe riconoscersi la mano o l’ispirazione di quel suo implacabile nemico, che
apertamente lo chiamava papa marrano e simoniaco e traditore, il cardinale Giuliano della Rovere, che
poi Giulio II, sovrano funesto all’Italia più assai dello stesso Borgia, e al pari di lui violatore di fede.
*
* *
Pasquino ha un compare, un complice, come il nostro san Maurizio. Questo compare è Marforio, antica
statua rappresentante l’Oceano, o come altri vogliono il fiume Nar, o il Reno, posta oggi nel cortile del
Museo Capitolino o di Augusto. Fu dissotterrata nell’antico Foro di Marte, Martis Forum, donde la
corruzione popolare di Mar-forio.
Perché Pasquino potesse rispondere argutamente aveva bisogno d’essere interrogato; e il popolo affi
quest’ufficio a Marforio. Non bastando lui, entrano in iscena i pertichini, come l’abate Luigi e madama
Lucrezia, avanzi anch’essi di statue antiche. Ma il vero demone tentatore che sa solleticare a meraviglia lo
spirito caustico di Pasquino, è Marforio. Egli interroga, Pasquino risponde.
Andrebbe tuttavia errato chi credesse che Marforio si trovi vicino al suo vecchio compare. Essi, è vero,
sono amici da quattro secoli, ma neppure si videro mai. Infatti Marforio, dopo che fu disseppellito, giacque
lungo tempo dietro il Campidoglio, sul principio della via che da lui prese nome, e ne fa testimonianza la
seguente iscrizione, che si legge sulla facciata di una casetta:
HIC ALIQUANDO INSIGNE
MARMOREUM SIMULACRUM FUIT,
QUOD VULGUS OB MARTIS FORUM
MARFORIUM
NUNCUPAVIT;
IN CAPITOLIUM UBI NUNC EST
TRANSLATUM.
La casetta, e il Museo dove Marforio fu trasportato, sono vicinissimi fra di loro; ma distano entrambi un
buon miglio dalla residenza di Pasquino. Gli è quindi fuori di dubbio che i due amici non si conoscono di
persona; epperò non si può supporre che ne’ loro dialoghi le domande venissero affisse su Marforio e le
risposte su Pasquino: sembra invece che domande e risposte si affiggessero un tempo sopra quest’ultimo;
poichè, sin da quando ci fu collocato all’angolo del palazzo Orsini (oggi Braschi), essendo il luogo centrale
e frequentato, i capi-rione vi appiccicavano su i manifesti municipali, gli avvisi sacri, le bolle, le indulgenze
e simili: e quindi è ben naturale che anche il popolo vi affiggesse le sue proteste contro il Municipio e contro
i preti. È così che il povero Pasquino, sparuto e allampanato, porta per tutto il corpo i segni onorati delle
durate battaglie; mentre Marforio si mantiene allegroccio e pastricciano, che è un piacere a vederlo.
Coll’andar del tempo, quando l’esser colto nell’atto di affiggere una pasquinata, poteva costare una
mano, si cominciò a tenere un modo più comodo e meno pericoloso. L’autore della satira esce di buon
mattino, e fingendo di averla trovata affissa qua o colà, la dice al primo sfaccendato che incontra per via: di
tal modo, in capo a ventiquattr’ore, la satira è volata di bocca in bocca per tutta Roma.
Ecco alcuni saggi delle conversazioni de’ due vecchi compari.
*
* *
Ne’ primordi dell’invasione de’ Francesi rivoluzionari capitanati dal Berthier; quando il vincitore
d’Arcole e di Rivoli bruttava la bella fama di guerriero, facendo spogliare questa Italia sua patria de’ codici
più preziosi e de’ capilavori dell’arte, unica gloria, unico bene che omai le fosse rimasto in tante fortunose
vicende; quando insomma il giovane Bonaparte provava coi fatti che la parola repubblica nel vocabolario
francese è sinonimo di ladronaia, e che la libertà di tanto è pregevole a casa propria, in quanto può servire a
portar la schiavitù e la desolazione a casa altrui; il compare Marforio domandava sonnecchiando a Pasquino:
«Pasquino! che tempo fa?» E quello rispondeva: «Uh! fa un tempo da ladri!» E pochi giorni dopo,
domandava ancora: «Pasquino! è vero che i Francesi so’ tutti ladri?» — «Tutti, no; ma bona-parte
3 Vita di Torquato Tasso; cap. VI, Cento pensieri, motti e sentenze di Torquato in varie occasioni espressi.
4 Pasquino e Marforio, lib. cit., pag. 156.
*
* *
Quando papa Clemente XI spediva ad Urbino sua patria delle grosse somme di danaro, Marforio
domandava:
«Che fai, Pasquino?»
«Eh! guardo Roma, chè non vada a Urbino.»
*
* *
Circa il 1656, papa Alessandro VII doveva consacrare la nuova chiesa della Pace, e dinanzi alla porta gli
fu eretto un arco trionfale, su cui leggevasi la seguente iscrizione:
ORIETUR IN DIEBUS NOSTRIS JUSTITIA ET ABUNDANTIA PACIS.
Nella notte precedente il giorno della consacrazione, Pasquino aggiunse un M in capo a quelle parole.
Nessuno si avvide dello scherzo, e al mattino venne il papa, e lesse con poca sua compiacenza:
MORIETUR IN DIEBUS NOSTRIS JUSTITIA ET ABUNDANTIA PACIS.
*
* *
Quando questo papa Alessandro passò a migliore o peggior vita, Marforio domandò a Pasquino: «Che ha
detto er papa prima de morì?»
E Pasquino quella volta rispose latinamente, che il papa aveva detto:
MAXIMA DE SE IPSO;
PLURIMA DE PARENTIBUS;
PRAVA DE PRINCIPIBUS;
TURPIA DE CARDINALIBUS;
PAUCA DE ECCLESIA;
DE DEO NIHIL.
Nel 1862, il giorno di san Pietro, corse voce che alcune pareti della Basilica vaticana, per difetto di
arazzi, fossero state coperte alla meglio con carta colorata. In quell’anno s’era parlato molto della
probabile partenza del papa da Roma, se questa città si fosse rivendicata all’Italia. Marforio ingenuamente
domandava a Pasquino: «È vero ch’er papa fa fagotto?» «E certo (rispondeva Pasquino), nun vedi che
ha incartato San Pietro?»
*
* *
Qualche volta Marforio fa lo spiritoso anche lui; e non è meraviglia che da tanti anni, bazzicando con
Pasquino, gli si sia appiccato un po’ del suo spirito satirico. Un bel giorno domanda al compare:
«Amico! indóve vai così de fuga?»
«Lasceme annà, che ho da fa’ un viaggio lungo, gnente de meno che ho d’arrivà a Babilonia
«E allora férmete, chè se’ arrivato!»
Si vede che Marforio non riesce ad essere originale. Egli aveva letto e fatto suo quel verso di Petrarca:
«Già Roma, or Babilonia falsa e ria,» e l’altro: «L’avara Babilonia ha colmo il sacco,» ecc. Versi che
dovrebbero ammonire i nostri neoguelfi, perocchè se a’ tempi del canonico don Francesco Petrarca, vale a
dire cinque secoli addietro, il Papato era una Babilonia avara, falsa e ria, e tale si mantiene anche oggi, è
vano omai lo sperare che la gran bestia muti pelo.
*
* *
Durante l’assedio di Roma del 1849, era Marforio che voleva andarsene a fare un viaggio; ma Pasquino
lo sconsigliava: «Fijjo bello, e indóve passi? Pe’ terra ce so’ li Francesi; pe mare ce so’ li Tedeschi; per
aria ce so’ li preti!»
*
* *
Abbiamo anche parecchi evangelii secundum Pasquillum, colla loro vulgata, fatta da nuovi san
Girolami; non approvata, è vero, dal Concilio di Trento, ma approvata dal comune consentimento del
popolo. Eccone uno:
EVANGELIUM
SECUNDUM PASQUILLUM.
LIBER GENERATIONIS ANTI-CHRISTI FILII DIABOLI.
(Evangelio secondo Fasquino.
La genealogia dell’Anticristo figlio del diavolo.)
»Il diavolo concepì il papa, il papa la bolla, la bolla la cera, la cera il piombo, il piombo l’indulgenza.
»L’indulgenza concepì la carena,
1
questa la quadragena,
2
che fu madre della simonia ed avola della
superstizione:
»La simonia partorì il cardinale e fratelli, durante e dopo la prigionia di Babilonia.
»Il cardinale ingenerò il cortigiano, il cortigiano il vescovo papista, il vescovo papista il suffragrante ed
il prebendario, che ebbero la pensione per figlia.
»Questa diede luce alla decima, che parto l’oppressione del villano.
»L’oppressione del villano ingenerò l’ira, e l’ira l’insurrezione, nella quale si rivelò il figlio
dell’iniquità, che si chiama l’Anticristo.
3
»
*
* *
Spesso Pasquino e Marforio sono lasciati da banda, e la satira vien fuori in forma libera, senza dialogo.
Sopra il predetto Alessandro VII, cardinal Ghigi da Siena, fu scritto il seguente epitaffio:
Quel che sen giace in questa tomba oscura,
Già nacque in Siena povero compagno;
Gli diè nome di Fabio il sacro bagno,
E d’empio e scellerato la natura.
Entrò con pochi soldi in prelatura,
E vita fe’ da monsignor sparagno;
Fu fatto papa, e d’Alessandro magno
Si pose il nome, sì, non la bravura.
Che non fe’, che non disse, al trono alzato?...
Parlò sempre da santo, oprò da tristo;
Entrò da Pietro, ed uscì da Pilato.
Fe’ di tant’alme al negro regno acquisto,
Che saper non si può s’egli sia stato
Del diavolo Vicario, oppur di Cristo.
4
*
* *
Quando non so qual papa mise o aggravò l’imposta sul tabacco, un bel mattino fu trovato scritto sul
muro del palazzo pontificio il versetto 25 del cap. XIII del libro di Giobbe: «Contra folium, quod vento
rapitur, obstendis potentiam tuam, et stipulam siccam persequeris?» Il papa, informato della satira,
ordinò che non si cancellassero quelle parole, e disse che sarebbe stato lietissimo di conoscerne l’autore,
che certo doveva esser uomo di buon ingegno. Codesto desiderio del papa fu soddisfatto, perché, poco
dopo, si trovò che il versetto era stato firmato dal vero autore: Job.Allora il papa fece spargere voce che
avrebbe concesso un grosso premio al satirico, se si fosse rivelato; ma quello, ricordandosi forse del brutto
giuoco fatto all’autore della pasquinata contro la sorella di Sisto V, andò di notte, e accanto alla firma di
Job, scrisse: gratis. E così il buon papa dovette crepare colla voglia in corpo.
*
* *
La Censura romana, come tutti sanno, ha fatto sempre uno strazio, tanto crudele quanto ridicolo, delle
1 Remissione pe’ Vescovi del digiuno di quaranta giorni.
2 Quaranta giorni d’indulgenza.
3 Pasquino e Marforio, lib. cit., pag 129.
4 Pasquino e Marforio, lib. cit., pag 173.
opere destinate alla scena. Il conte Giovanni Giraud, poeta satirico e commediografo di non poco valore,
vedendo i suoi drammi fatti segno costantemente agli scrupoli ipocriti di un abate revisore pedante e
cocciuto, si vendicò indirizzandogli il seguente sonetto, che divenne molto popolare:
ALL’ABATE PIETRO SOMAI
REVISORE TEATRALE.
[1825?]
Del sommo Pietro, Adamo del Papato,
Puoi dirti, Abate mio, fratel cugino
Abbietto nacque Pietro, e tal sei nato;
Pietro pescò nell’acqua, e tu nel vino.
Peccò colla fantesca di Pilato
E ne pianse col gallo mattutino;
Tu, colla serva tua quand’hai peccato,
N’hai pianto col cerusico vicino.
Pietro irato fe’strazio agli aggressori
D’un solo orecchio; ma tu sempre, il credi,
Ambo gli orecchi strazi agli uditori.
Giunto alfin Pietro ove tu presto arrivi,
Pose nel luogo della testa i piedi:
E com’egli mori, così tu vivi.
Allorquando morì Pio VIII, che aveva pontificato soli venti mesi, una satira lo proponeva a modello al
nuovo papa, e finiva così:
Se imitar nol saprete in tutto il resto,
Imitatelo almeno in morir presto!
*
* *
Un anno, per la festa di sant’Ignazio di Lojola, i padri gesuiti eressero nella loro chiesa un altare
veramente splendido. Sopra la statua d’argento rappresentante il Santo, si vedeva il solito Padreterno di
stucco. Un pasticcetto co’ li guanti, uscendo di chiesa, disse ad una signora: «Vada, vada al Gesù: c’è la
statua di sant’Ignazio d’argento e un altare tanto bello, che lo stesso Padreterno n’è rimasto di stucco.»
*
* *
Un tal padre Lorini, in una sua predica aveva spiegato agli uditori come il fuoco del Purgatorio non sia
vero, ma simbolico. Pare che questo modo di pascere le pecorelle non andasse a genio a’ guardiani
superiori del gregge, e che perciò toccasse al frate una bella lavata di capo. Fatto sta, che sulla porta della
chiesa dove predicava il Lorini, venne affisso un sonetto, che noi raccogliemmo mutilato com’è dalla bocca
di un sartore. A’ versi che mancano supplisca la immaginazione de’ lettori: ex ungue, leonem!
Senza neppur di fuoco una scintilla
Ci pingesti, o Lorini, il Purgatorio
Dicesti, quasi in cella o romitorio
Starsi colà ogn’anima tranquilla.
Perdio! se fai cosi, come si strilla!
Addio messe, addio esequie, addio mortorio!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E non sai tu che il fuoco de’ purganti,
Sorgente di dovizie al sacerdozio,
Fa bollir la marmitta a tutti quanti?
Deh, per pietà! dismetti un tal negozio,
E lascia come pria che gl’ignoranti
Ci mantengano i vizi in grembo all’ozio.
*
* *
Sotto il pontificato di Gregorio XVI, mentre era tesoriere il Tosti, e si facevano i prestiti con Rotschild al
65 per cento,
1
il Governo sciupò una grossa somma di danaro per costruire una enorme fabbrica presso il
porto di Ripetta, sulla sinistra del Tevere. Non piacque il disegno, e le male lingue dissero che l’architetto
Camporesi ci aveva messo da parte un buon gruzzolo di pecunia. Checchè ne sia di questo, comparve una
incisione rappresentante il Tevere che portava su le spalle il nuovo edifizio, e sotto v’erano scritte le parole
del Salmo 128: «Supra dorsum meum fabricaverunt peccatores;» e poic al primitivo disegno della
fabbrica fu aggiunto un altro braccio, rieccoti il padre Tebro a proseguire collo stesso versetto: «et
prolongaverunt iniquitatem suam.»
*
* *
Talvolta la satira si fa lecito di penetrare nel santuario delle pareti domestiche. Ciò non è bene; ma
tuttavia non possiamo astenerci dal recarne un curioso esempio.
Un buon diavolo di avvocato condusse in moglie una giovane un po’ cervellina. Per un capriccio del
caso, egli si chiamava Cesare, ed ella Roma. Il giorno delle nozze, l’avvocato trovò sulla porta di casa
questo avvertimento:
CAVE, SAR, NE ROMA TUA RESPUBLICA FIAT.
Ei non era uomo da perdersi per così poco: staccò il cartellino, e ce ne mise un altro con questa risposta:
STULTE! SAR IMPERAT.
Il satirico, che in furberia poteva dar dei punti al diavolo, vedendo quella risposta, vi scrisse sotto:
IMPERAT?... ERGO CORONATUS EST!
L’avvocato non fiatò più.
*
* *
Allorchè, nel 1853, il celebre areonauta bolognese Piana morì per aria assiderato, il luttuoso caso fornì
argomento a una satira, della quale non ricordo che pochi versi. Il Piana era andato personalmente dal
Santo Padre a chiedergli il permesso di volar nel pallone, e Pio IX, concedendoglielo, aveva voluto per
soprammercato impartirgli la benedizione apostolica. È noto che Pio IX ha fama di jettatore per eccellenza:
ebbene, la satira diceva così:
Morì per l’aere l’infelice Piana,
Lottando con libeccio e tramontana.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
1 Vedi la nota 5 al sonetto Er zervitore de Monziggnor tesoriere.
Ma già si prevedea un destin fatale.
Per l’alzata di Pio, che ha sempre male!
Il Papa fu dolente della morte del Piana, e certo dovette risaper della satira; perocchè pochi anni dopo,
una signora chiese il permesso di fare un’ascensione, e le fu ricisamente niegato. Allora essa domandò che
almeno le si desse facoltà di metter nel pallone una bestia qualunque ben inteso che non portasse
chierica; e questo le fu concesso. La scelta cadde sopra una povera pecora, che fece la sua ascensione
tra gli schiamazzi di una pazza moltitudine. Il pallone ricadde presso gli orti farnesiani, e il giorno
vegnente, sui muri di quella contrada si trovò scritto a lettere cubitali:
Quest’anno è volata la pecora; st’altr’anno volerà il pastore.
Predizione che non si è, pur troppo, avverata!
*
* *
Quando nel 1857 Pio IX andò a fare il famoso viaggio per gli Stati felicissimi, all’atto della partenza,
mentre saliva in carrozza, il grande elemosiniere di Corte — vecchio monsignore, secentista per la pelle
gli diresse queste parole: «Beatissimo padre! Voi partite bello e splendido come il sole che risplende in
questa bella giornata, ed io vi auguro che torniate vegeto e grasso come la luna.» — «Che aritorna a quarti
a quarti!» soggiunse nell’orecchio a’ compagni un trasteverino che per curiosità si trovava lì presso.
Arrivato a Sinigaglia o a Bologna, il Papa ricevette colla posta di Roma una lettera, nella quale era
scritto: «Santo Padre!» e poi seguiva, senz’altro, il numero 610, che letto cifra per cifra, significa: «Sei uno
zero Dicono che Pio IX; solito a ridere delle pasquinate, indovinando quel complimento, facesse un po’ la
brutta cera.
*
* *
Nella Piazza di sant’Eustacchio, sopra un casotto dove la sera dell’Epifania si vendevano pupazzi pei
bimbi, si videro scritte queste parole: «La ville de Paris.»
*
* *
Anche l’anagramma vanta a Roma i suoi cultori. La parola cardinali, per esempio, fu da tempo
immemorabile voltata a significare ladri cani.
*
* *
Le iniziali R. C. A., poste sulla insegna di una prenditoria del lotto, e che significano Reverenda
Camera Apostolica, vennero interpretate: Rubate, canaglia, allegramente.
*
* *
Durante la effimera Repubblica del ’49, nella farmacia di un tal Peretti stava un bel pappagallo,
ammaestrato a dir villanie ai preti, quando li vedeva passare. Dopo la restaurazione del Governo pontificio,
il povero animale fu catturato, e non se ne seppe più nuova. È probabile che finisse anche lui vittima delle
feroci repressioni del Triumvirato rosso.
1
Circolò allora una satira intitolata: Il Pappagallo di Peretti
mandato in esilio dalla Commissione governativa; satira che fu letta avidamente, e che, non ostante la
soverchia prolissità e la trascuratezza della forma, è bella per molti passi in cui è toccata la vera corda del
ridicolo, e per un affetto vivo e direi quasi disperato sulle sventure d’Italia. Leggendola, ti accorgi subito
che non fu scritta da un poeta laureato; e perciò la riferisco quasi per intero, a comprovare sempre più quel
che ho detto in principio, che cioè a Roma si nasce coll’epigramma sulle labbra.
La satira comincia così:
1 Così chiamarono i romani la Commisione governativa, incaricata di mettere la testa a partito ai liberali del 48 e 49, e
composta de’ cardinali Altieri, Della Genga e Vannicelli.
O dei volatili
Pinto drappello,
Odi la storia
D’un tuo fratello.
Nella romulea
Città beata,
Dal suo Pontefice
Infranciosata,
Era bellissimo
Un pappagallo,
Bianco, porpureo
E verde e giallo.
Presso d’un chimico
Laboratorio,
Cantava i scandali
Del fu Gregorio.
Era satirico
Motteggiatore,
E de’ retrogradi
Persecutore.
Vedea canonici,
Frati e piovani?…
Gridava subito
«Razza di cani
Un dì battendosi
Vita per vita,
Beccò la chierica
D’un gesuita.
Siccome indigeno
Americano,
Era fierissimo
Repubblicano;
Quindi in sua stridula
Lingua nativa,
Alla Repubblica
Cantava evviva.
Ma ecco, un bacchettone va e riferisce al Triumvirato rosso che il pappagallo ha dato dell’apostata a
papa Mastai. Le eminenze, sorprese del novissimo caso e dell’audacia della bestia,
Cospetto! (esclamano)
Anche gli augelli
In questo secolo
Sono rubelli?
È un sacrilegio
Con malefizio:
Bisogna chiuderlo
Al sant’Uffizio.
è bestia eretica,
Indemoniata,
In cœna Domini,
Scomunicata.
Ma cessato questo primo bollore di collera, le eminenze si accorgono d’aver detto spropositi:
Ah! no, alle bestie
Non istà bene
Dar la scomunica
In bulla cœna. —
Ebben (ripiglia
Il Della Genga),
Ad un rimedio
Dunque si venga:
Vada in esilio
Fuor degli stati,
A far combriccole
Cogli emigrati —
— In Christo Domino
Cari fratelli,
(Rispose il bambolo
Di Vannicelli),
Io per l’ergastolo
Ho più passione;
Questo volatile
È un demagogo;
Senza giudizio,
Si danni al rogo. —
— Non è più l’epoca
D’esser severi
(Disse il patrizio
Mistico Altieri
Questa è politica
Punizione!
E qui la trïade
Dissenziente
Ai voti appellasi
Inimantinente.
Fu per l’esilio
La maggioranza,
D’appello o grazia
Senza speranza.
E a questo punto il poeta compiange la sorte del povero pappagallo, il quale non troverà un lembo di terra
che lo accolga nella sventura. «Se tu vai in Austria, gli dice, ti rinchiudono nello Spielbergo. In Inghilterra,
son tutti mercanti e ti venderebbero per pochi soldi. In Ispagna, c’è donna Isabella, che ama gli uccelli, è
vero, ma senza favella. Se torni in America, i tuoi compagni ti fischiano. Dunque, dove si va? Ah! ecco, è
trovata! In Francia. Ma che! tu ridi? Orsù, ascoltami:
Di’: per qual crimine
Ti dan lo sfratto?
Per le tue chiacchiere,
Per nessun fatto.
Ebben, tal genere
Di crimenlese
É proprio il genio
Di quel paese.
Colà, di chiacchiere
E cicalate
Si fa commercio,
E son pagate.
Thiers, il celebre,
Con che s’aiuta?
Colla linguaccia
Che s’è venduta!
. . . . . . . . . . . . . .
E i capocomici
Dell’Assemblea
Non fanno vendita
Di panacèa?
Là v’è commedia
Ogni momento,
Sotto il bel titolo
Di parlamento.
Chi più sofistica
Ha più ragione,
E chi più strepita
È un Cicerone.
Là le bestie fanno fortuna, e ve n’ha di tutte le razze:
Bestie che rodono
Tozzo plebeo;
Bestie che vestono
Da generali;
Bestie che gracchiano
Da curiali;
Bestie che nacquero
Presso del soglio;
Bestie che rubano
Il portafoglio.
. . . . . . . . . . . . .
E non è l’ultimo
In tal corteggio
L’eminentissimo
Duca di Reggio.
Di Roma il lauro
Porta sul fronte,
Generalissimo
Rinoceronte.
E de’ suoi militi
Alla presenza
Legge il chirografo
Dell’indulgenza
Che il gran Pontefice
Scrisse a que’ bravi
Che combatterono
Per le sue chiavi.
Bestie che ingrassano
Nell’Eliseo;
Oh! dolce premio
Di sacre mani,
Per un esercito
Di sagrestani!
Ma la grossissima
Bestia potente,
Della Repubblica
È il Presidente.
Bestia cattolica,
Belligerante,
Nella politica
È un elefante.
Ei scrive lettere,
Détta messaggi;
Ma ci si nettano
Ministri e paggi.
Vorrebbe l’aquila
Di quel divino...
Ma un teschio d’asino
Gli sta vicino.
Cerca la celebre
Spada fatale,
Ma stringe il manico
Dell’orinale!
Va dunque, mio pappagallo; chè là, fra tante bestie, farai fortuna tu pure:
Vanne, e salutami
La grande armata,
Che già s’esercita
Alla parata.
Saluta i poveri
Nostri emigrati
E i democratici
Perseguitati.
E, se d’Italia
Parlar ti lice,
Narra lo strazio
Dell’infelice!
Di’... ma deh! lascia,
Per carità!
Neppur un’anima
T’ascolterà.
Narra l’infamia
Di Rostolano,
1
Che a feccia d’uomini
Diede la mano:
E de’ suoi militi
Narra lo scempio,
Ridotti ad essere
Sgherri del tempio.
Di’ ch’essi baciano
I delatori,
E il pan dividono
Coi monsignori;
Là v’è politica
Senza ragione,
E babilonica Confusione.
2
. . . . . . . . . . . . .
*
* *
Nel luglio 1860, fece chiasso una satira contro il generale Lamoricière buon’anima. Tutti ne sapevano a
memoria qualche brano, e l’andavano ripetendo nei luoghi degli amichevoli convegni. Oggi parrà una
freddura a chi non si riporti coll’animo a que’ giorni d’ira, di speranza e di trepidazione.
Eccola:
A LAMORICIÈRE.
Secura all’egida Nè basta; a crescere
Del grande intrigo, D’un buon boccone
Pescato al Mincio, La mensa olimpica
Fritto a Zurigo, Del re ghiottone,
L’Italia in fieri, Empî! Allungarono
Dall’Arno al Po, Le mani ladre
Mandava a rotoli Sul patrimonio
Lo statu quo. Del Santo Padre.
Tolti al benefico E per difendere
Protettorato L’atto nefando,
Dell’illustrissimo
Con san Crisostomo
1
Signor Croato, Vanno esclamando
I nuovi popoli, «Che col dominio
Ormai padroni Spirituale
Di dire al pubblico Non dee confondersi
Le lor ragioni; Il temporale.»
Stracciando il codice Forse il Crisostomo
Del gius divino Avrà ragione:
Ad un sacrilego Ma nel pericolo
Re giacobino D’una quistione,
S’immaginarono Potean, servendosi
D’offrire in dono D’un mezzo accorto,
Di tre legittimi Salvare i cavoli
Sovrani il trono. A un tempo e l’orto.
Se incompatibili Scomunicati
Fra lor pur sono, Mangiano e bevono
Come pretendesi, Come prelati;
1 Rostolan, generale succeduto all’Oudinot nel comando dell’esercito francese in Roma.
2 Molte belle varianti di questa satira, le devo alla cortesia dell’egregio professore Francesco Mancini di Terni.
1 Homel.:85, C.v. Matt. §54.
L’altare e il trono; Pensò che il provvido
Nel bivio orribile Metodo antico;
Dovean, mi pare, A’ dì che corrono,
Anzi che il soglio Non vale un fico;
Minar l’altare; E che a decidere
E il buon Pontefice, L’ardua quistione,
Serbando illesa Meglio che il canone,
La parte solida Giova il cannone.
Della sua Chiesa, Ed ecco un sùbito
Non sconcertavasi Grido di guerra
L’umor sereno Dall’ime viscere
Per un eretico Scuote la terra:
Di più o di meno Monsignor d’Òrleans
Ma perchè l’avido Sulla gran-cassa,
Re subalpino, Sbuffando, predica
In barba a’ lasciti La leva in massa.
Di san Pipino, All’apostolico
S’è messo in animo, Suon de’ baiocchi,
Povero allocco, I sacri militi
Di far l’Italia Scendono a fiocchi
Tutta d’un tocco; In lor le belliche
Il Re-Pontefice, Fiamme ravviva
A fin che il santo D’altre Perugie
Dogma del quindici La prospettiva.
Non vada infranto, Potea benissimo
Nella sua collera Di Dio il Vicario
Diede di mano Sparmiar nel critico
All’armi emerite Caso l’erario,
Del Vaticano. Chiamando d’Angeli
Fu tutta polvere Una legione,
Bruciata al vento! Col solo incomodo
Il sacro fulmine, D’un’orazione;
Scoppiato a stento, Ma fatto il calcolo
Fe’ come un razzo Così all’ingrosso,
Artificiale: Che, grazie al fervido
Molto fracasso Slancio ortodosso,
E verun male. Le pie limosine
Visto che l’empia Saldan l’ingaggio,
Sïon non crolla E il Lloyd austriaco
Sotto le scariche Provvede al viaggio;
Della sua Bolla; Trovò più comodo,
Visto che i reprobi Per ora almeno,
Farsi un esercito Ne’ dì che furono,
Tutto terreno, Tinto il cervello
E l’economica Di certe massime
Del ciel caterva Di Jon Russello,
Serbòlla in pectore Colpì d’anatema
Come riserva. La grand’impresa
Tedeschi, Svizzeri Ch’a’ vecchi cardini
Belgi e Spagnuoli
Tornò la Chiesa.
2
S’urtan, s’affollano Ma dopo il celebre
Ne’sacri ruoli; Colpo di Stato,
Commosso a’ gemiti Di Dio la grazia
Del Papa-re, Gli scese allato;
Tira la sciabola E visto in pratica
Perfin Noè.
3
Qual magro pane
2 Il 16 aprile 1849 il generale Lamoricière alla Tribuna dell’Assemblea nazionale deplorava di non poter salvare la
Repubblica di Mazzini, e non accettava la spedizione di Roma, che allo scopo di salvare almeno la libertà di quel paese.
3 Il visconte di Noé, pensionato tenente colonnello di cavalleria francese, nel mese d’aprile pigliò servizio nell’esercito
Ma in mezzo al balsamo Fruttin le fisime
Che versa Iddio Repubblicane,
Sul beatissimo Curvò lo spirito
Cuore di Pio, Alla morale
Un pensier torbido Del santo foglio
Ahi! lo molesta Pagatoriale;
A tante braccia E, l’onta a tergere
Manca la testa. Dell’ex-peccato,
Via, non affliggerti, Sublime apostata,
O santo Padre, Si fe’ crociato.
S’ancora acefale Viva lo scettico
Son le tue squadre: Scudo romano,
Fede e coraggio, Che metamorfosa
Coraggio e fede, Bruto in Sejano,
Dio le tue angustie E il bonnet frigio
Vede e provvede. Del quarantotto,
De’ campi d’Affrica Nella calottola
Noto campione, Di don Margotto.
Disceso al règime Il nuovo esercito
Della pensione, Ha omai la testa:
Sotto le tegole Campane ed organi,
D’un quinto piano Suonate a festa;
Marciva un pseudo- Ballate, o vescovi.
Repubblicano. Là sulla Senna;
O fondi pubblici, Bastò a Sansone,
Crescete a Vienna. Che non può vincere
Rotta dal turbine, L’eroe d’Algeri
Ritorna in squero Con un esercito
La venerabile D’asini interi?
Barca di Piero; Che se l’elettrico
Più non pericola Del patrio amore
Il roman soglio A’ tuoi satelliti
L’oca già vigila Non scalda il core,
In Campidoglio. Su! galvanizzali,
Vieni, spes unica Poveri grami,
Del Padre santo: Colle cantaridi
Calma il suo spirito, De’ tuoi proclami.
Tergi il suo pianto; «La democratica
Vieni, coordina,
Idra infernale
1
Addestra all’armi Tira a sconvolgere
L’orda babelica L’ordin sociale
De’ suoi gendarmi. Fuoco alla miccia,
Un dì per opera Avanti... Urrah!
Dell’uom divino, Papa è sinonimo
L’acqua, oh miracolo!, Di civiltà.
Cangiòssi in vino Sol perchè in tenebre
Ma tu, corbezzoli!, L’orbe non cada,
Quanto più bravo, Snudo la ruggine
Muti un austriaco Della mia spada,
In un zuavo. E un’altra medito
Va, dunque, visita Nuova Farsalia
Pesaro e Ancona Per questi barbari
Col fiero vescovo Turchi d’Italia.
Di Carcassona;
2
Putti, coraggio!...
3
papale.
1 «La rivoluzione, come altra volta l’Islamismo, minaccia oggi l’Europa. La causa del Papato è quella dell’incivilimento
e della libertà del mondo.» — (Proclama dell’8 aprile 1860.)
2 Monsignor Bonillerie, che accompagnava sempre il Lamoricière.
3 Nel linguaggio birresco, la parola putti corrisponde al soldatesco mes enfants.
Fa campi, edifica Dal Vaticano
Ridotti e forti, L’almo Pontefice
E alfin sguinzaglia Su voi la mano
Le tue coorti. Stende, e vi smoccola
Se l’empia a sperdere Giù dal balcone
Oste d’Ammone La sua apostolica
Un pezzo d’asino Benedizione...
» Su dunque, impavidi! Scomunicate,
Dai chiusi valli E i nostri martiri,
Si scaraventino D’un tiro solo,
Fanti e cavalli, Lassù fra gli angeli
E il sacro intuonino Spiccare il volo.
Inno guerriero: Putti, coraggio!
Morte all’Italia, Datevi drento
Viva san Piero. Sangue d’eretici,
Viva il collegio Sangue d’armento;
Cardinalizio, Su! Massacrateli
Viva la fiaccola Senza pietà:
Del Sant’Uffizio; Papa è sinonimo
Viva la chierica, Di civiltà
Viva la tiara, Così, dal sudicio
Viva il battesimo Limo deterso
Dato a Mortara! Questo bell’angolo
Che val se irrompono Dell’universo,
Da tutt’i lati Strappato all’unghie
Quanti ha l’Italia Della rivolta,
Armi ed armati? Ritorni in floribus
Fuoco alla miccia Un’altra volta.
Avanti... Urrah! Tornino i Principi
Les Italiens Diseredati
Ne se battent pas. Alla legittima
Il suon terribile De’ loro stati;
Di questi accenti Tornino i popoli
Scuote gli esotici Al solvo al quiesco,
Tuoi reggimenti, Sotto la ferula
Che in coro mugghiano Del buon Tedesco.
Avanti... Avanti, E a te benefico
In tutt’i diapason Genio immortale,
Del Mezzofanti.
1
Che nuovo Cerbero
Già mugge il turbine Del Quirinale,
Della battaglia, Ringhiando vigili
Già i bronzi eruttano Papa e Papato,
Palle e mitraglia, Qual degno premio
E le sacrileghe Ti fia serbato?
Orde rubelle Forse a’ tuoi meriti
Il sangue versano Pronta giustizia
A catinelle. Farà la porpora
Già veggo il diavolo Cardinalizia?
A cappellate Nel calendario
Insaccar l’anime Forse porranti,
La cifra a crescere Per piedestallo
Degli altri santi? E sotto, a lettere
Queste serbandoti Da cartellone,
Glorie modeste, Vi farei incidere
Io vorrei fondere Quest’iscrizione
L’alte tue geste Sub Antonellico
In una statua Pii noni imperio,
1 Celebre poliglotto.
D’aureo metallo Posuit Ecclesia
Col monte Pincio Lamoricerio.
L’autore di codesta satira è ignoto: ma è senza dubbio romano, e la somiglianza dello stile fa supporre
che sia quello stesso della Satira del Pappagallo. Questo nascondersi degli autori ha per cagione
principale il pericolo cui andrebbero incontro rivelandosi; ma dipende anche in parte da una certa ritrosia
che hanno tutti i Romani dal far pompa del loro genio satirico, che per essi è cosa comune e naturale. A
Roma la satira non è un oggetto di lusso, ma un’arma come qualunque altra per ferire il Papato; perciò
nessuno se ne fa bello, allo stesso modo che il soldato, se non è un imbecille, non fa mostra della sua spada,
e quasi non s’accorge d’averla a fianco.
Il dispotismo politico e religioso ha imbastardito a Roma l’eloquenza, la lirica, il romanzo, la
drammatica, la storia e ogni altro genere di letteratura;
1
ma ha fornito largo pascolo alla satira, ed ha fatto
dei Romani il popolo più satirico del mondo
2
; tanto più satirico d’ogni altro popolo, per quanto il Papato è
peggiore d’ogni altro governo. E finc Roma non si sia rivendicata in libertà, la satira politica continue a
prosperarvi; perciocchè un governo come quello de’ papi troverà sempre coscienze sdegnose che gli si
ribelleranno, e che, non potendo altrimenti, faran prova di finirlo col ridicolo. Pasquino non può morire che
col Papato!
III.
Da quanto abbiamo discorso fin qui, si può logicamente dedurre che per guadagnarsi il nome di poeta
satirico in Roma, dove tanti sono i maestri di finissima satira, bisogna aver toccato il sommo dell’arte. E
questo può dirsi di Giuseppe Gioachino Belli, i sonetti del quale s’odono sulle bocche di tutti i Romani, e
formano anche oggi, come quarant’anni fa, la delizia delle loro conversazioni. È una prova un po’empirica,
se vogliamo, ma la più certa che possa darsi del valore di questo poeta.
Egli nacque a Roma nel settembre del 1791, e rimasto in tenera età orfano del padre, dovette sul più bello
abbandonare le scuole, per darsi a qualche occupazione lucrosa, dacchè un suo zio, che l’ospitava, pare non
avesse modo o volontà di mantenerlo.
Fu scrivano-apprendista nella computisteria del principe Rospigliosi, e in quella delli Spogli
ecclesiastici; poi segretario del principe Poniatowski, dalla casa del quale usper ritirarsi in un convento di
Cappuccini, dove più liberamente potè attendere agli studi letterari, consacrando tuttavia una parte del suo
tempo a dar lezioni private di grammatica italiana, di geografia, di aritmetica, e persino all’umile ufficio di
copista di scritture forensi, affine di procacciarsi quel tanto che gli bisognava per pagar la dozzina a’ frati, e
provvedersi di libri e di vestiario.
In quel tempo all’incirca, anche il Parini (che sempre aveva vissuto meschinamente, e dicono facesse
anch’egli l’amanuense) versava nelle maggiori strettezze, e scriveva quel Capitolo, diventato poi famoso, in
cui pregando il canonico Agudio a prestargli dieci zecchini, esclama:
......... Ch’io possa morire,
Se ora trovomi avere al mio comando
Un par di soldi sol, nonchè due lire.
Limosina di messe Dio sa quando
Io ne potrò toccare, e non c’è un cane
Che mi tolga al mio stato miserando.
La mia povera madre non ha pane
Se non da me, ed io non ho danaro
Da mantenerla almeno per domane.
Versi che fanno piangere, perchè al certo furono scritti piangendo. E poco prima del Parini e del Belli,
Gian Giacomo Rousseau aveva copiato musica per campare la vita.
Dalla rivoluzione del 1789 al trattato del 1815, fu un avvicendarsi di fatti così grandi e così strani, un
succedersi così rapido di speranze e disinganni, e direi quasi una fantasmagoria storica tanto bizzarra, che
chi visse quel solo breve periodo, poteva già dire di averne vedute più assai di Matusalemme.
1 Non mi è ignoto che parecchi Romani onorano le lettere italiane; ma pochi fiori non fan primavera, e resta sempe vero
che coll’Indice, colla Censura, e col Sillabo, la sola satira può prosperare.
2 Una ricca raccolta di satire romane, nel mentre sarebbe un prezioso documento storico, rileverebbe una faccia quasi
nuova del genio del popolo, e messa di costa alle fiabe, a’ canti e a’ proverbi, completerebbe la collana della letteratura
popolare. Quella intitolata Pasquino e Marforio, che ho citato più volte, è troppo incompleta e non risponde al
bisogno.
In tempi così burrascosi, i cervelli un po’ deboli per natura perdono facilmente la bussola, e mal
reggendo agli scotimenti subitàni, finiscono per diventar pancotto; ma i cervelli robusti, nella lotta che
durano per rendersi ragione di quanto avviene intorno a loro, s’aguzzano e s’ingagliardiscono
maggiormente, e v’acquistano tesori di esperienza. E sotto questo rispetto, il Belli fu fortunato. Da fanciullo
egli udì raccontare e forse novellare della grande Rivoluzione, e poi sotto ai suoi occhi (proprio negli anni in
cui le forti impressioni lasciano nell’anima un’impronta indelebile) vide svolgersi tutto quel dramma
meraviglioso che ha per protagonista il primo Napoleone; e fu spettatore, e fors’anco dal canto suo attore,
della lotta gigantesca che s’andava combattendo tra il medio e il nuovo evo. Le libere idee che dalla Francia
irrompevano in Italia, per quanto si tirassero dietro un brutto codazzo di crudeltà e di ruberie, dovevano far
breccia nell’anima ardente di lui ch’era allora sul fiore degli anni. Quando s’è giovani, il cuore ha un palpito
per ogni cosa nuova che abbia un lato generoso; si può esser sognatori, fanatici, rompicolli e peggio, ma
codini, no, grazie a Dio! Il codinismo è una delle tante malattie che vengono in groppa agli anni, e que’
pochi fanciulloni castrati de’ nostri giorni sono rare e compassionevoli eccezioni.
Roma a que’ tempi era quasi in pieno medio-evo basti dire che vi si continuava a dare nel pubblico Corso
il tormento della corda,
1
e si tollerava ancora la barbara costumanza di evirare i bambini, per farli poi adulti
cantare in chiave di soprano nella Cappella Sistina; non ostante che un papa, Clemente IV, verso il 1266,
avesse fulminato la scomunica contro gli autori d’una speculazione tanto ladra e snaturata. Un po’ di
Censura e di Sant’Ufficio provvedevano a mantener fitte le tenebre; quindi la nova luce che veniva
d’oltr’Alpi, doveva maggiormente commovere chi viveva laggiù.
L’essere stato costretto ad abbandonare le scuole, dopo avervi appreso quel tanto che basta per dare l’aìre
al giovine che sente nell’animo l’inclinazione allo studio, deve reputarsi buona ventura del Belli; perchè così
si avvezzò per tempo a studiare da , che sarà sempre l’unico modo di farsi uomo e non pappagallo; e
doppia ventura fu per lui la miseria, madre provvidamente austera di grandi uomini e di grandi nazioni. Fu
dessa che privandolo fin da giovinetto d’ogni comodità della vita, lo spinse al lavoro, e cagionandogli dolori
ineffabili, gli aprì il cuore a’ nobili affetti; e ponendolo a contatto con ogni classe di persone, gli sviluppò
quella naturale tendenza allo studio minuto degli uomini e delle cose, che doveva poi essere il carattere più
spiccato del suo ingegno. Tant’è: senz’aver goduto e dolorato molto; senza aver letto molte pagine, e belle e
brutte, di quel gran libraccio che si chiama mondo, non si diventa scrittori di qualche valore. A questo
riguardo, i poveri son più fortunati dei ricchi, e il Belli per propria esperienza, in un’epistola al pittore
bolognese Cesare Masini, scriveva:
Fra pompe ed ozi; che sol cerca e prezza,
Credi, Cesare mio, che assai di rado
Consigliera di studî è la ricchezza.
Il giovinetto, il sai, quanto a malgrado
Pieghi a’ travagli, sì che poi rimane
Di qua dal fiume per terror del guado.
Né il ricco ha presso da sera e da mane
La sollecita madre che gli dica:
— Studia, figliuolo mio, buscati il pane. —
Mal per onor si adusa alla fatica
Ventre satollo; in sugli aviti campi
Il grande ha il poverel che lo nutrica.
1
Divenuto marito d’una ricca e giovine vedova che s’era invaghita di lui, il nostro poeta ebbe agio di
dedicarsi tutto agli studi prediletti; si perfezionò nella conoscenza del latino, dell’inglese e del francese;
scrisse un gran numero di poesie italiane
2
e più di duemila sonetti
3
in dialetto romanesco, nei quali fece suo
il linguaggio e il genio satiro del popolo romano; così che riusciva ad un tempo scrittore di dialetto da porsi
1 Si veda il sonetto La corda ar Corzo.
1 Versi inediti di Giuseppe Gioachino Belli romano. Lucca, dalla tipogafia Giusti. 1843, pag. 83
2 Due raccolte si pubbilcarono de’ versi italiani del Belli: una pei tipi del Salviucci in Roma, nel 1839; l’altra dal Giusti
a Lucca, che ho già citata. Ambedue meritarono gli elogi di Felice Romani. A me, che considero il Belli come
scrittore di dialetto, basta di aver riferito quel brano della epistola al Masini, per dare un’idea del modo con cui scriveva
la lingua comune. Negli ultimi anni della sua vita pubblicò anche una bella traduzione degl’Inni del Breviario
romano. Dopo la sua morte, furono pubblicati in Roma, per cura del figlio Ciro, quattro volumi di sue poesie inedite,
cioè: ottocentocinque sonetti in dialetto romanesco e moltissimi versi italiani. Vedremo in seguito perché due terzi de’
sonetti sieno rimasti inediti.
3 È un testimonio non sospetto che fa salire i sonetti a Duemila e forse trecento. (Vedi Elogio storico di G. G. Belli,
scritto dall’avvocato Paolo Tarnassi; Roma,1864, pag. 24.)
allato al Meli, al Porta e al Brofferio, e poeta satirico non secondo a nessuno per lo scopo civile cui mirava
con una parte de’ suoi sonetti.
IV.
I dialetti, per rispetto alla lingua che dicono illustre, sono come le donne di campagna per rispetto alle
signore di città. In queste trovi studio di acconciature, grazia affettata, civetteria, languore, isterismo,
belletto; in quelle, nessun ornamento, molta rozzezza, ma vigore, semplicità e colorito naturale. Un mio
amico ha scritto che il vero stato dell’amore è il concubinato: perchè a me non sa lecito dire che la veste
più vera e naturale del pensiero è il dialetto? Fra tante, ci può stare anche questa.
Il dialetto romanesco non abbonda di voci originali, come parecchi altri dialetti d’Italia; ma può
riguardarsi come una corruzione del toscano, ricchissima di traslati arditi e vivaci, di vocaboli composti alla
maniera greca, di modi proverbiali arguti, di similitudini spesso bizzarre, ma sempre efficaci, e finalmente di
spropositi che danno luogo ad ambiguità e controsensi ridicolissimi. Pochi barbarismi, e quasi tutti regalo
delle invasioni francesi. La maggior parte del metaforico è cavata da analogie di fatti e di persone e di luoghi
reali, e perciò si muta cogli anni, a mano a mano che le vecchie metafore cedono il posto alle nuove. E
poichè la lingua è sempre lo specchio dell’anima di un popolo, nel vernacolo romanesco si riflette
limpidamente il bernoccolo satirico de’ figli di Quirino, e frasi, traslati, proverbi, similitudini, sono
epigrammi: tutto il dialetto, starei per dire, è una satira. Se oggi andate da un vetturino di piazza per
contrattare una scarrozzata in campagna, e gli profferite una ricompensa che a lui sembri meschina, vi
risponde seriamente: Non pòzzumus! Codesto è traslato e satira ad un tempo. Ai genitori che si dolgono
di un giovine che sedusse la loro figlia, il padre o la madre del seduttore rispondono: Chi nun vô er cane,
tienghi la cagna!
Io non mi dimenticherò mai d’un fatto che mi accadde, quando da giovinetto dimoravo a Roma. Passando
per una viuzza, m’imbattei in due ragazzi, che si picchiavano maledettamente; sostai per curiosità: la lotta
durò un pezzetto indecisa; ma alla fine uno de’ due piccoli atleti fu messo sotto dall’altro, che, profittando
del sopravvento, gli dava giù a campane doppie. A tal vista, per quell’istinto che abbiamo tutti di ripigliarla
pe’ deboli e per gli oppressi, non potei tenermi: corsi e suonai alla lesta tre o quattro pugni sulle spalle
dell’indiscreto ragazzo, il quale, vedendo sopraggiunto quell’inaspettato rinforzo nemico, se la diede a
gambe, anche prima che l’altro si fosse rialzato da terra. Fra me e me già godeva la compiacenza di aver
fatto un’opera buona, quando il mio difeso, rialzatosi e raccolto il cappello, dopo avermi squadrato da capo
a piedi, mi disse con accento tra grave e stizzoso: «Bêr fìo! sapete che c’è scritto su la porta der curato? Chi
s’impiccia, môre ammazzato!»
Per chi ne fosse al tutto ignaro, ecco un piccolo saggio di parole composte, traslati e spropositi del
vernacolo romanesco.
1
Uno spavaldo lo chiamano ammazza-sette; un susurrone, capo-d’abisso; uno
storto, cianchette-a-zzêta. Per ischernire un soldato, lo chiamano er-zor tajja-calli; a una donna maligna e
maldicente danno lo strano appellativo di squacqueraquajjasquícquera; e ad esprimere la meraviglia o il
dolore, servonsi d’una esclamazione composta in un modo tutto nuovo: Cristoggesummaria! D’un
bestemmiatore dicono che se biastima er pastèco (pax tecum) e lla lelujja (alleluja); di un mangiatore, che
ha er male de la lupa; di un pauroso, che manna in funtana li carzoni; d’un ammalato incurabile dicono che
nu’ la rippezza, nu’ la ricconta, e che è arrivato ar profiscissce. Un morto che si nominava Girolamo, lo
chiamano er zor Girolimo requiesca; un servitore che va dietro il cocchio del padrone, un uditor-de-rota; un
carceriere, un zervo de Pilato. D’una vecchia sdentata dicono che in ner parlà, er naso je fa converzazzione
cor barbozzo. La giubba de’ giorni di lavoro è la giacchetta che nun zènte (sente) messa; i miei figli, er
zangue mio; le scarpe rotte, le scarpe che rideno; e il danaro riposto si chiama con un traslato biblico er
mammone. Ma gli spropositi tengono il primo luogo. Chiamano brodomedico il protomedico;
indiggestione, la digestione; legabbile, il legale; Qui-e-llì, il Chilì; massima der zangue, la massa del
sangue; radica d’arteria, la radica d’altea; incarcato d’Astra, l’incaricato d’Austria; Rabbia-petrella,
l’Arabia petrea; poscritto, il coscritto; omaccio l’omaggio; ccrisse, la crisi; grobbo arrostatico, il globo
areostatico; medico culista, il medico oculista; potenze alleatiche, le potenze alleate; sêtte indemogratiche
che vônno l’arcanìa, le sétte democratiche che vogliono l’anarchia. — Nè più fortunati sono i nomi propri di
persona. Il principe Federico di Saxe-Gotha, lo chiamavano er duca Sassocotto; e Poniatowskj, er principe
Piggnatosta; Giano quadrifronte diventa Giano quattrofronne (ossia, quattro fronde); Cecilia Metella,
Sciscilia Minestrella; Dante Allighieri, Dant’Argéri; e quando vogliono dire che un pittore è bravo assai, lo
paragonano a Raffaelle Bonaroto.
Tutti codesti spropositi ed altri molti che ne potrei citare, escono dalla bocca del popolano di Roma colla
massima serietà, anzi come voci elette e peregrine, perchè la plebe romana è ignorante al pari d’ogn’altra,
1 Li tolgo dai sonetti del Belli, il quale, come avverte in più luoghi, non usava mai parole che non avesse udito dalla
bocca del popolo.
ma prosuntuosa in grado superlativo. Pel trasteverino, che ha piena la testa di confuse tradizioni sulla
passata grandezza del suo paese; che vede le pompe asiatiche della Corte romana, e una moltitudine
immensa e sempre nuova di forastieri fermarsi attonita davanti a’ monumenti antichi e poi inginocchiarsi al
cospetto del papa; per lui che non sa nulla della magnificenza delle moderne metropoli, Roma è ancora il
caput mundi, l’urbs, la città unica. E però, dotato com’è d’un ingegno naturale non ordinario, egli si stima
un gran che, pel solo motivo che è romano de Roma,
2
e tiene per gente dappoco tutti quelli che non nacquero
all’ombra della gran cupola. Chiama provinciali (per lui sinonimo di zotici) i nativi delle altre città d’Italia,
sieno pur Napoli, Firenze o Torino; e tratta con loro dall’alto al basso. Non fa nessuna stima del papa, e ne
dice ira di Dio in ogni occasione opportuna; ma guai se un forastiero ardisce sparlarne in sua presenza! Egli
allora diventa un papista fanatico più di Ravaillac, ed è capace di metter mano al coltellaccio; perchè i panni
sporchi vuol lavarseli da a casa propria, e perchè chi non è romano de Roma non può aver voce in
capitolo. Bestemmia, e, in modi novissimi, da mane a sera; ma va alla messa puntualmente tutte le
domeniche e le altre feste comandate. Ha i suoi bravi dubbi sulla esistenza di Dio, ma crede al diavolo, alle
streghe, agli spiriti, meglio che se li avesse toccati con mano
3
. Porta nella stessa tasca coltello e corona
4
.
Ognun vede che siffatti contrasti offrono una ricca sorgente di ridicolo; il vernacolo romanesco è, come
ho tentato di mostrare, pieno di sale e di vivacità; quindi soggetto e lingua adattati pel poeta satirico. E di
questo s’accorse Giuseppe Gioachino Belli, che aveva ingegno satirico elettissimo; e si propose di ritrarre
col dialetto il carattere e la vita della plebe romana, nelle loro più spiccate manifestazioni. Bisognava
dipingere a quadretti, come i Fiamminghi; e però scelse il sonetto, la cui brevità offre modo di allogarvi
piccole scene. Ma udiamo dallo stesso Belli il suo intendimento. «Io ho deliberato» egli dice «di lasciare un
monumento di quello che oggi è la plebe di Roma. In lei sta, certo, un tipo d’originalità; e la sua lingua, i
suoi concetti, l’indole, il costume, gli usi, le pratiche, i lumi, le credenze, i pregiudizi.... tuttoc insomma
che la riguarda, ritiene un’impronta che assai per avventura si distingue da qualunque altro carattere di
popolo.... Questo disegno così colorito, checchè ne sia del soggetto, non trova lavoro da confronto che lo
abbia preceduto.... Esporre le frasi del romano, quali dalla bocca del romano escono tuttodì, senza
ornamento, senza alterazione veruna, senza pure inversioni di sintassi o troncamenti di licenza, eccetto
quelli che il parlator romanesco usi egli stesso, insomma cavare una regola dal caso e una grammatica
dall’uso, ecco il mio scopo.... Il numero poetico e la rima debbono uscire come per accidente
dall’accozzamento in apparenza casuale di libere frasi e correnti parole non iscomposte, non corrette,
modellate, acconciate con modo differente da quello che ci manda il testimonio delle orecchie, attalchè i
versi gettati con somigliante artificio non paiano quasi suscitare impressioni, ma risvegliare reminiscenze. E
dove con tal corredo di colori nativi io giunga a dipingere la morale, la civile e la religiosa vita del nostro
popolo di Roma, avrò, credo, offerto un quadro di genere non al tutto dispregevole da chi non guardi le cose
attraverso la lente del pregiudizio.
1
»
Per venire a capo del suo divisamento, il Belli teneva un modo curioso, ma naturale. Si arrischiava fra le
più umili classi del popolo, negli omnibus, nelle chiese, nelle taverne, ne’ teatri, e in quelle vie più remote,
dove i popolani, sentendosi come a casa propria, non badano a star sui convenevoli e si rivelano per quel che
sono. Era insomma un pittore che ricavava i suoi bozzetti dal vero. Alla sera, tornato a casa, coloriva in tanti
sonetti le scene che aveva vedute; e il giorno seguente li comunicava agli amici, che subito l’imparavano a
memoria, e come i rapsodi dell’antica Grecia, li andavano recitando negli allegri ritrovi. Così senza esser
stampati, i sonetti del Belli diventavano popolarissimi, e d’una popolarità vera, perchè spontanea, non
comprata a un tanto alla riga sulle quarte pagine de’ giornali.
V.
Un critico di professione, arrivato a questo punto, metterebbe fuori Dio sa quante parole sesquipedali, per
dimostrare dove stia il bello poetico di codesti sonetti. Io andrò per la più corta, e dirò: —Signor lettore,
conoscete il dialetto e il popolo di Roma?
No. Dunque voi, leggendo i sonetti del Belli, vi trovate nel caso di chi osserva un ritratto, senza
conoscerne l’originale: può giudicare del colorito, del disegno e d’altri accessori, ma non della prima dote,
che è la verosimiglianza. Ora supponiamo per un momento che voi andaste a Roma (con patto che ci
2 Questa fase di cui si serve il popolano, per distinguersi dai non romani dimoranti in Roma, potrebbe dirsi una
traduzione libera dell’antico Civis romanus sum.
3 Non pochi sonetti del Belli hanno per soggetto curiose superstizioni della plebe romana, o vi fanno allusione. Un
libro sugli Errori popolari de’ moderni, sarebbe non meno pregevole di quello di Leopardi sugli Errori popolari degli
antichi.
4 Si veda il sonetto ’Na bbôna educazzione.
1 Codeste parole fanno parte d’una prefazione scritta dal Belli pe’ suoi sonetti, e le ho tolte dallElogio storico del
Tarnassi, già citato. Ignoro perché questa prefazione non sia stata premessa a’ sonetti editi dal Salviucci.
andaste da voi, senza aspettare che vi ci conduca il Governo italiano). Passando per una via qualunque della
nostra Capitale di diritto, v’imbattete in una povera accattona, e affrettate il passo per ischivarla. Ella se ne
accorge, capisce il vostro debole, è già sicura del fatto suo: vi si affila dietro con un bimbo sul braccio
sinistro e con due più grandicelli attaccati alla vesta, che la seguono a stento, non passibus æquis direbbe
Virgilio; e tendendovi la destra e articolando le parole con prestezza e querula petulanza, vi recita questa
litania, finchè non l’abbiate accontentata:
Bbenefattore mio, che la Madonna
L’accompagni e lo scampi da ogni male,
Dia quarche ccosa a sta povera donna
Co’ ttre fijji e ’l marito a lo spedale.
Me la dà? me la dà? ddica, eh? rrisponna:
Ste crature so’ ignude tal’e cquale
Ch’el bambino la notte de Natale
Dormimo sott’a un banco a la Ritonna.
1
Anime sante!
2
se movessi un cane
A ppietà! Armeno ce se movi lei,
Me facci prenne un bocconcin de pane.
Signore mio, ma ppropio me la merito
Sinnò, davero nu’ lo seccherei
Dio lo conzoli e jje ne renni merito.
1
Presso il Pantheon, chiamato volgarmente la Rotonda, veggonsi de’ banchi di venditori di commestibili, aperti
solo sul davanti in modo da potere offerire un ricovero.
2
Sottintendi del Purgatorio. È un esclamazione di
dolore.
Codesto, signor lettore, è un sonetto del nostro Belli, scritto in vettura dallOsteria del fosso alla Storta,
il 13 novembre 1832.
1
E quale è il suo massimo pregio? Quello stesso d’un ritratto: la perfetta
verosimiglianza. La poverella avrebbe detto niente più e niente meno di quelle parole; il poeta le ha
ordinate, le ha costrette in quattordici versi, ma senza stirarle o snaturarle, e facendo uscire la rima da una
combinazione tutta spontanea. Ecco il magistero del Belli. E questa può chiamarsi poesia? A me pare di sì,
poichè i critici dicono che anche nella riproduzione del reale v’è creazione fantastica, dovendo il poeta
ricreare coll’immaginazione le cose udite o vedute.
Quasi tutti i sonetti del Belli rappresentano una piccola scena, di cui è sempre protagonista un popolano;
e però le osservazioni fatte sul sonetto della poverella, valgono per tutti gli altri, che sono ugualmente
pregevoli. Ma meglio che isolati, giova riguardarli come parti di un tutto armonico, come altrettante scene di
uno stesso dramma, il qualepotrebbe intitolarsi Carattere e vita della plebe romana. E perciò mi astengo
dal recare in mezzo altri esempî, tanto più che il lettore, voltando poche pagine, può veder da sè il fatto suo.
VI.
Ma nella sua giovinezza il Belli mirò anche a più alto scopo, che non fosse quello di ritrarre la vita e il
carattere del popolo romano. Egli era conoscitore profondo di quel complicato organismo, che si chiama
Governo de’ papi; e con una serie di sonetti satirici ne mise a nudo e ne flagellò senza pietà le vergogne e le
infamie. Dal papa all’abatucolo, dall’inquisitore al birro, dalla Curia alla sacristia, dalla scomunica
all’indulgenza, il Belli versò a piene mani il ridicolo su tutti e su tutto. Parecchi de’ suoi sonetti politici
hanno perduto il pregio fatto loro dalla opportunità; e per gustarli oggi, bisogna riportarsi
coll’immaginazione al tempo e alle occasioni in cui furono scritti; ma la maggior parte sono opportuni
adesso, come lo erano cinquant’anni fa; perocchè il Papato è al presente quello che era allora, che fu e sarà
sempre, la cancrena d’Italia.
I poeti satirici sono dimenticati dal popolo, quando il nemico da essi combattuto è stato interamente
sconfitto. In altre parole: la satira è un’arma, che si spezza nella ferita. Quindi è che, essendo caduti tutti i
Tiberî in diciottesimo flagellati dal Giusti, il culto popolare di questo poeta va scemandosi a poco a poco,
nella stessa misura con cui s’impallidisce nella mente dell’universale la ricordanza degli uomini e de’ fatti
che furono argomento alle sue satire. E quando siffatta ricordanza, non vivrà più che nelle storie, il Giusti
sarà del tutto confinato nelle biblioteche e nelle scuole. Il Belli, al contrario, è poeta vivo e militante oggi,
come mezzo secolo addietro; e lo sarà finchè duri la Roma de’ Papi. Le sue satire sono avidamente cercate e
1 Poesie inedite di G. G. Belli romano. Roma, tipografia Salviucci, vol. 2, pag. 165.
corrono per mille e mille bocche, perchè servono ancora a combattere il grande inimico d’Italia. Insomma, il
Poeta toscano ha raggiunto il vertice, e adesso discende; il romano, all’opposto, cammina tuttora sopra una
linea ascendente Per questo lato, il Belli merita, non meno del Giusti, un posto onorevole tra quegli scrittori,
che da Dante a Mazzini precorsero al nostro risorgimento nazionale. Anzi, i nomi de’ due satirici andranno
alla posteri accoppiati, come quelli che nel fecondo agitarsi del pensiero italiano contro i tirannelli di casa
e l’oppressione straniera, a cominciare dal 1815 fino al ’48, rappresentano la parte più acre della lotta, e
fanno presentire allo storico che se gli spiriti sono tanto esacerbati da inalzare il sarcasmo al sublime, la
rivoluzione di popolo non tarderà molto a scoppiare.
Gli è ben vero che il Belli, qualche tempo dopo il 1831, mutò d’opinione, e dicono facesse ogni suo
potere per ritirare tutte le copie manoscritte delle sue satire che circolavano per Roma; ma ciò non iscema di
un ette il suo merito davanti alla critica, la quale ha l’obbligo di dividere lo scrittore dall’uomo. Il caso del
Belli non è come quello di Orazio e di Sallustio, e di quasi tutti gli scrittori del secolo d’Augusto, che
parlavano bene e ruspavano male nel medesimo tempo. Il nostro Poeta fu sempre onesto e sempre logico con
stesso: finc credette il Papato una piaga sociale, gli scrisse contro; quando lo credette un bene, se ne
fece paladino. È il caso di una conversione bella e buona, e la critica non può entrare nel santuario della
coscienza. Tutt’al più, ella può tentare di spiegarsi il fatto: ed io lo tenterò, perchè c’è chi nega persino che il
Belli sia stato mai liberale, e chi attribuisce la conversione di lui a secondi fini di privato interesse, indegni
d’un’anima onesta
1
.
Il nostro Poeta appartiene alla schiera di quei liberali, che trascinati dalla fiumana della Rivoluzione
francese, si diedero a combattere il Papato, in cui vedevano il più potente ostacolo al civile progresso. Essi
probabilmente non credevano al Papa e agli attributi sovrannaturali di lui; ma avevano la fortuna invidiabile
di credere fermamente in Dio. Lo scetticismo della nuova letteratura, causa ed effetto ad un tempo della
grande Rivoluzione, aveva appena appena sfiorato le loro coscienze. Odiavano i preti, ma andavano a
confessarsi: condizione equivoca, fatta loro dai tempi poco maturi alle nuove idee, e che li portò poi ad aver
paura dell’ombra propria. Pertanto, finchè videro attraverso la lente delle loro convinzioni religiose, che la
Provvidenza favoriva il primo Napoleone e le riforme liberali con danno manifesto del Papato, se ne stettero
fermi nella loro opinione; ma quando ad un tratto la scena si mutò, vennero, cioè, le restaurazioni del 1815,
e poi la discordia tra’ liberali, e i moti italiani del 21 e del ’31 miseramente soffocati nel sangue; e le
recriminazioni codarde, le accuse reciproche, l’onta e il danno di tutti; allora si persuasero d’essere stati in
errore sino a quel giorno: credettero che la Provvidenza fosse davvero col Papato, il quale era uscito salvo e
trionfante da quella paurosa burrasca; si pentirono e rinnegarono, ma nobilmente, a viso aperto, la loro
antica fede. Prima il papa e poi Dio; prima il papa e poi l’Italia, la cui indipendenza volevano sì, ma di buon
accordo col papa, perocc tutti i tentativi per ottenerla, fatti senza di lui e contro di lui, erano andati falliti.
A codesta scuola di neoguelfi, che oggi è ridotta a pochi avanzi fossili, appartennero allora, come ognun sa,
molti illustri del tempo, non pochi de’ quali, disingannati da dura sperienza, si rimutarono poi d’opinione,
convenendo nell’idea del Machiavello propugnata da’ Mazziniani, che coi papi non si faceva l’Italia, e sono
adesso altolocati e venerati fra noi. Il Belli non si rimutò; ma noi non dobbiamo adoperare due pesi e due
misure, biasimando chi volle onestamente convertirsi ad una seconda fede politica e morire in quella, solo
perchè codesta fede non è la nostra. Egli s’era legato in amicizia coi gesuiti Bresciani, Taparelli d’Azeglio,
Pellico, Curci, Rossi, e Giganti, che era anche suo confessore: cattivi arnesi quanto si vuole, se si
considerano come membri della Compagnia; ma tutti, più o meno, egregi uomini, se si pigliano
individualmente. Costoro lo comprendevano, lo stimavano, lo amavano: è quindi facile immaginare quanto
potessero sull’anima sua, che si trovò così rinchiusa in una cerchia di ferro, senza neppure avvedersene.
Nel 1846, parve per un momento che si risvegliasse in lui
l’an____________________________________________________________________________________
___________________________________________tico uomo. Gli eruppero dal cuore, riboccante di
sdegno per le turpitudini del polititicato di Gregorio, quei due famosi sonetti: «Papa Grigorio è stato un
po’scontento» e «Fr:...a! a cche ttempi semo, sor Cremente;» ma poi si quie subito, anzi furono quelli gli
ultimi strali lanciati da lui contro il Papato. Per noi sono preziosissimi: essi ci provano che la conversione
del Poeta era stata sincera, dacchè egli conservava ancora tutta l’indipendenza del suo nobile carattere, non
temendo di sfidare l’ira dei Sanfedisti (o Gregoriani, come li chiamavano allora), i quali erano tanto potenti,
da spaventarne lo stesso Pio IX, l’idolo d’Italia. e del mondo, e da imporglisi poi nel modo che tutti sanno.
Il mutamento del Belli deve dunque attribuirsi ai tempi e al luogo in cui nacque e operò, agli uomini che
1 In una strenna livornese del 1863, si leggevano queste gravi parole: «Gius. Belli, giace ora disteso nella tomba d’un
ufficio papale… Il sacro Collegio gli gettò nelle fauci l’offa di un impiego lucroso, e il poeta uccise con una indigestione
la musa! Dio gli usi misericordia nel mondo di là. — Per noi G. Belli, morto come uomo, resterà vivo come poeta.»
A mostrare l’ingistizia di codeste accuse, basterebbe dire che il Belli aveva ottenuto l’impiego nell’amministrazione del
Bollo e Registro, molti anni innanzi al 1831, e l’occupò per tutto il tempo in cui scrisse satire politiche. Soltanto verso il
1840 fu promosso, per diritto d’anzianità, a più alto incarico nell’ufficio del Debito pubblico.
lo circuirono, e non già a basse mire di vile interesse, ch’ei mai non ebbe; perocchè possedeva del proprio
tanto da campare agiatamente la vita, e teneva per norma il «Vivitur exiguo melius» di Claudiano.
1
Del resto, ei non riuscì a rimangiarsi come Saturno le proprie creature. Le sue satire erano troppo note e
troppo care a’ Romani, perchè si potesse d’un tratto farle dimenticare. La freccia era uscita dall’arco,
valeva il richiamarla; però che essa aveva ferito nel cuore del Papato. Il poeta se ne avvide, e nella sua
timorata coscienza di cattolico n’ebbe grave e angoscioso rimorso. Dai fatti del 1848 e ’49, non solo si tenne
in disparte, ma se ne afflisse moltissimo, e temendo che suo figlio Ciro venisse per legge ascritto al corpo
mobile della guardia civica, lo fece precipitosamente ammogliare.
Dal nuovo trionfo del Governo pontificio il Belli ebbe cagione di riconfermarsi anche meglio nella sua
fede, e si ascrisse alla Società di san Vincenzo de’ Paoli;
2
pago di questo, per far quasi ammenda de’
giovanili trascorsi, dettò poesie di argomento religioso, e in difesa de’ gesuiti, sermoni ed epistole contro le
idee moderne;
3
tradusse gl’Inni del Breviario romano, e, pubblicandoli, li dedicava a Pio IX;
4
finchè logorato
dalle fatiche e dagli anni e da domestiche sciagure, moriva improvvisamente il giorno 21 dicembre del 1863.
Moriva il poeta, quasi ripudiando le sue migliori creature, quelle finissime satire politiche, le quali,
opprimendo col ridicolo il Governo papale, avevano posto il loro autore nel novero di que’ pochi eletti, che
fecero dell’arte non vano trastullo, ma terribile arme per combattere i nemici della civiltà e della patria.
Negli ultimi anni s’era fatto increscioso a e ad altrui: egli sosteneva una lotta terribile con l’antico
stesso, il quale si ridestava in lui prepotente, poichè l’Italia risorgeva a nuova libertà, a nuova vita, a nuove e
non fallaci speranze, e il Papato accennava oramai a certa e non tarda rovina. Dicono che vicino a morire
raccomandasse come sua ultima volontà, quasi a pena di maledizione, che il figlio altri desuoi osassero
pubblicare i sonetti politici; ma che nello stesso tempo li lasciasse aggiustati magnificamente di note e
preparatissimi per la stampa, proibendo pur di bruciarli. Poveretto! Nella tempesta che gl’infuriava
nell’anima, tentava di salvare almeno, come il naufrago Camoens, il parto prediletto della sua mente. E noi,
davanti alle angoscie di questa nobile vittima, dobbiamo inchinarci e commiserare.
Il popolo romano prese la tutela di queste satire reiette dal padre loro; le fece cosa propria, poi che in
esse udiva un’eco della sua coscienza, uno sfogo e una protesta contro la tirannia che l’opprime. E noi
possiamo rispettare l’ultima volontà del poeta, considerando queste satire come creazione diretta del popolo
1 Si veda la poesia La Mediocrità, nel vol. II, pag. 29, dell’edizione del Salviucci.
2 Tarnassi, Elogio citato, pag. 14.
3 Vedi i quattro volumi delle Poesie inedite, pubblicate della tipogafia Salviucci in Roma, nell’anno 1865-66. Tutti
codesti componimenti, a mano a mano che li scriveva, erano letti dal poeta nelle tornate della pontificia Accademia
tiberina, di cui era socio fondatore.
4 Inni ecclesiastici secondo l’ordine del Breviario romano, volgarizzati da Giuseppe Gioachino Belli; Roma, tipografia
della rev. Cam. Apostolica, 1856. Questa traduzione fu molto lodata dalla Civiltà Cattolica, nel fascicolo del 22
gennaio 1857.
romano, dal quale, alla fin fine, egli aveva attinto inspirazione e pensieri.
1
1 Ecco com’è adombrata la conversazione del Belli, dall’avvocato Paolo Tarnassi, che è una quintessenza di cattolico, e
fu pompa di un odio poco cristiano contro la nostra Italia. Alla pagina 24 di quella sua pappolata accademica, che
intitola Elogio storico di G. G. Belli, scrive: «È a tutti noto come il nostro Belli desse un prodigioso saggio della
rarissima facoltà imitativa, onde natura lo arricchì, nei duemila e forse trecento sonetti ch’egli compose in vernacolo
romanesco, e dei quali molti corrono per molte mani commisti a moltissimi che a lui arbitrariamente si attribuiscono.
L’intendimento ch’egli ebbe in tale suo lavoro fu, come dirò, senza sua colpa, malissimo interpretato, ed a siffatta
interpretazione si deve appunto, credo io, la sola celebrità onde si volle illustrare il suo nome dalla dominante fazione
del tempo. Non io intendo con ciò d’implicitamente affermare che indegno di fama sia codesto arduo lavoro: esso n’è
anzi, a mio credere, degnissimo, sebbene, come pure dirò, non in tutto e per ben altro rispetto, il quale nulla ha certo di
attinente alla trista rinomanza che il nostro Belli lungi da disdegnosamente respinse, con la stessa nobiltà d’animo,
con cui rigettò pure il lautissimo prezzo che per ciascuno di questi sonetti gli si voleva offerire. Ma su tale avvertenza
varrà meglio tornare più tardi… »
E infatti ci torna su, alla pagina 27, ma senza punto chiarire il negozio. Giudichi il lettore: «Se non che questa stessa sua
rara valentìa gli fu cagione, con candore di storico il dirò, ch’egli cadesse materialmente in una colpa, dalla quale tanto
lontano era il generoso suo animo, che non seppe, se non dopo vedutone l’effetto, avvertirla. L’arte ha certi suoi confini,
nei quali sta appunto riposta la sua nobiltà, né ad essa conviene il ritrarre in tutto la verità delle cose. Ora, contro questo
canone dell’arte peccò per un eccesso di genio il nostro Belli, il quale, volendo dare un immagine fedele del popolo
romanesco, lo rappresentò, con una scrupolosità che doveva certo evitare, in tutta quella sua indipendenza che ne forma
il carattere, e che lo porta a satireggiare su tutto, non rispettando nelle sue parole la verecondia dell’onestà, ogni
autorità di cose o di persone. Fu questo, come ho già accennato, un peccato nell’arte piuttosto che una morale sua colpa,
pure dovè, ahi, pagare con amarissimo fio. Imperocchè incominciatesi a diffondere molte copie manoscritte di alcuni de’
suoi sonetti, il suo scopo non venne che da pochissimi compreso, e se molti degli onesti, confessando pure il valore del
poeta, gridarongli addosso la croce, tutto il partito che osteggia oggidì l’altare e il trono, e questo fu ciò che più
dolorosamente il trafisse, portollo, quasi uno dei suoi, portarlo fragorosamente in trionfo, dando con implicita calunnia a
credere che, presa la maschera del popolano avesse egli voluto o esalare o infiltrare massime di sedizione e di licenza. E
così fu pure che venne profusa al nome di lui una celebrità, la quale, in opera non data alla luce, non saprebbe altrimenti
spiegarsi. Chè la fama, o Signori, per una rete ben ordinata di segrete e di manifeste fila sta oggi sventuratamente in
mano di questo poderoso partito, e chi prende a combatterlo è assai gan ventura se possa con la forza del genio
superarne le astutissime mène, e recingere la meritata aureola della gloria. E il nostro Belli fu di cotal successo
profondamente amareggiato e preso non da pentimento come calunniosamente o erroneamente si è detto di lui, il quale
fu sempre il medesimo uomo, sempre probo, sempre onesto, sempre virtuoso cittadino, ma da uno sdegno che è il più
bello dei suoi elogi, e desideroso di terminare la sua vita tanto ignuda di tal gloria, quanto monda d’ogni nota di
vituperio, non solo le ricche offerte sprezzò che a lui per questo suo lavoro si fecero, ma moltissimi di tali sonetti diede
alle fiamme, e ad altri molti, che forse senza pericolo avrebbe potuto dare in luce, volle negata, lui vivo, la stampa, e,
chiusi e sigillati, consegnolli a autorevole persona, il cui nome ci è ignoto, come ignoto ci è pure il fine del pregevol
deposito. »
Quante involontarie confessioni in codeste parole! Essendo impossibile negare che il Belli scrivesse de’ sonetti
satirici, si vorrebbe dare a credere che lo facesse senza la mira diretta di offendere il Papato. La pia menzogna è troppo
ingenua perché valga la pena di confutarla con molte parole. Basta leggere uno solo di que’ sonetti satirici, che sono
indubbiamente del Belli, per giudicare se il poeta , quando li concepiva e li scriveva, fosse un nemico o un puntellatore
del trono e dell’altare. Gli è proprio vero l’adagio: Causa patrocinio non bona pejor erit: e il signor Tarnassi, avvocato,
se lo ricorderà per un’altra occasione.
VII.
Ciò che abbiamo detto de’ sonetti che dipingono il carattere e la vita della plebe romana, vale anche per i
satirici, che hanno la stessa forma e gli stessi pregî di quelli. È sempre un popolano che figura sulla scena,
giudicando secondo le sue vedute la natura e gli atti del governo temporale e spirituale dei papi. Dobbiamo
solo avvertire che ne’ sonetti satirici l’autore non ha badato, come negli altri, a schivare le molte scurrilità
del vernacolo romanesco. Questi sonetti sono proprio un frutto proibito ai ragazzi (pei quali d’altronde non
furono scritti); ma vincono di naturalezza tutti gli altri, perchè appunto ritraggono più al vivo il linguaggio e
l’indole del popoletto di Roma, che non si cura molto di misurar le parole. L’oscenità della forma non porta
però seco l’osceni di concetto, e s’ingannerebbe assai chi mettesse in fascio queste satire colle sozzure del
Casti. Anche in que’ sonetti (e sono più di un centinaio), che ritraggono con vivaci colori i turpi scaltrimenti
delle male femmine, le coperte lascivie de’ chierici e le immondizie dei postriboli, si sente che il Poeta vuol
far ridere, ma per castigare i costumi, non mai per adescare al vizio. Questa parte della poesia del Belli, della
quale diamo qui pochi saggi, meriterebbe per più rispetti di venir pubblicata separatamente.
Come accade a tutti gl’ingegni originali, scrittori od artisti, il Belli creò in Roma una scuola ed ebbe un
gran numero d’imitatori più o meno felici; sicchè molte satire che vanno sotto il suo nome, in verità non
sono sua creazione diretta. Ad un occhio un po’esperto sarà tuttavia agevole discernere la mano del maestro
da quella degli scolari.
Le poche edizioni che io conosco di questi sonetti politici, sono incomplete e scorrettissime, per una
vergognosa negligenza de’ raccoglitori. Non v’ha dubbio che, mancando gli autografi, e bisognando fidarsi
alla tradizione orale, è affatto impossibile ridurli alla vera lezione; ma le piccole diversi di forma (se non si
stampano, come s’è fatto sinora, con versi storpiati o difettosi di senso) non alterano punto la sostanza: anzi
talvolta possono offrire una lezione che in qualche punto superi di naturalezza l’originale; perchè il popolo,
accentando e variando i versi a modo suo, li ha fatti più consonanti al proprio linguaggio e al proprio genio.
E valga questo esempio. Uno de’ sonetti più popolari del Belli, è quello che va comunemente sotto il titolo
Er dovere od anche Er zervitore umbro, il quale, perchè non politico, fu pubblicato colla guida
dell’autografo nella raccolta del Salviucci. Ora a me sembra che la variante popolare sia più bella
dell’originale. Giudichi il lettore:
L’IMMASCIATA BBUFFA.
1
(Ediz. Salviucci; vol. 4, pag. 294.)
Cosa me n’ho da intenne
2
io de l’usanze
De stì conti e mmarchesi e ccavajjeri?
Io ar zervizzio sce so’
3
entrato jjeri,
Pe’ ttirà ll’acqua e ppe’ scopà le stanze.
È vvenut’uno co’ ddu’ bbaffi neri,
Longhi come du’ remi de paranze,
4
Disce: —So’ ir cacciator di monzù
5
Ffranze,
Che mi manna
6
a pportà li su’doveri. —
Dico: —Ebbè, ddate cqua. — Ddisce: —Che ccosa?
Dico: —Che! sti doveri che pportate.
Nun me s’è mmesso a rrìde,
7
in faccia, Rosa?
8
Guardate llì cche pezzo d’inzolente!
Che ne so de st’usanze sminchionate,
9
Che sti lôro doveri nun zo’ ggnente?
10
1
L’ambasciata ridicola.
2
Da intendere.
3
Ci sono.
4
Paranze o paranzelle, barche da pesca.
5
Monsieur. —
6
Manda. —
7
Ridere. —
8
È il nome della serva, a cui fa il racconto. —
9
Stravaganti. —
10
Non sono
niente.
ER DOVERE o ER ZERVITORE UMBRO.
(Variante popolare.)
Come vôi che m’intenna de l’usanze
De sti conti, mmarchesi e ccavajjeri?
Io ar zervizzio sce so’ entrato jjeri,
Pe’ llavà i piatti e ppe’ scopà le stanze.
N’omone arto
1
co’ ddu’ bbaffi neri,
Longhi come du’ remi de paranze,
Disce: —So’ ir cacciator di monzù Ffranze,
Che mi manna a pportà su doveri.
2
Dico: —Ebbè, ddate cqua. — Ddisce: —Che ccosa?
Je dico: —Li doveri che pportate. —
E nun me fa ’na risataccia, eh Rosa?
Ma gguarda sì cche omaccio impertinente!
So un ca..o de st’usanze scojjonate,
Che li doveri lôro nun zo’ ggnente!
1
Alto.
2
Il servo cerca di contraffarre il parlare affettato del messo: ir, di, mi, a vece di er, de, me, sono goffe
ricercatezze di que’ popolani, che, studiandosi di scansare il dialetto, non parlano bene questo la lingua
illustre.
Questi sonetti politici, oltre all’essere al pari degli altri un capolavoro d’arte, sono anche una vigorosa
manifestazione del pensiero italiano, e quindi un documento prezioso per la storia de’ nostri tempi. Se negli
altri si trova dipinta con pennello maestro la vita intima del popolo di Roma, in questi si rivela la lotta da lui
durata nella prima metà del nostro secolo centro il Governo papale. Quelli possono giovare all’etografo;
questi allo storico. Tutti poi hanno uguale importanza, se si considera che racchiudono gli elementi di un
intero dialetto, e di un dialetto che viene secondo a quello che meritò l’onore di diventar lingua comune. A
questi sonetti dovrà attingere, come a fonte sincera ed inesauribile, chi voglia compilare un vocabolario
dell’uso romanesco: il quale bisognerà pure che entri come terzo elemento nel Dizionario universale della
lingua italiana, almeno per quella parte di locuzioni che mancano al fiorentino e agli altri dialetti toscani.
Imperocchè così consigliano di fare la situazione e la importanza politica, di Roma, la pronuncia romana per
comune consenso migliore della toscana, e quel fare largo dignitoso e magnifico, che si sente nel dialetto
romanesco, il quale, secondo il Gioberti, tiene da vantaggio del latino; mentre la semplicità, la discioltura, il
brio del toscano risentono del greco; così che, a parere di molti, i due dialetti si completano a vicenda, e
sono entrambi elemento indispensabile a far perfetto il linguaggio e lo stile italiano.
1
Per questi ed altri rispetti, ho fede che la presente raccolta non riesca sgradita agl’Italiani
2
. Darò ora
ragione del modo tenuto nel compilarla.
VIII.
In questo volume si trovano tutti i sonetti del Belli conservati dalla tradizione popolare, e insieme i
migliori di quelli che vanno comunemente sotto il suo nome, ma che sono d’altri.
Io li ho raccolti quasi tutti dalla bocca di persone che li udirono più volte dallo stesso autore, ed ho in
1 Si vedano a questo proposito le Osservazioni del professore Alessandro Roncaglia, intorno all’unità della lingua
italiana. Bologna, 1869.
2 A confermarmi nell’opinione di non aver fatto opera inutile mi soccorre opportuno un recente scritto del De Sanctis
(Nuova Antologia: fasc. del marzo 1869, Settembrini e i suoi critici). L’illustre scrittore dopo essersi domandato
quando sarà possibile una storia della letteratura italiana, risponde: «Quando su ciascuna epoca, su ciascuno scrittore
importante ci sarà tale monografia o studio o saggio, che dica l’ultima parola e sciolga tutte le questioni. Il lavoro
d’oggi non è la storia, ma è la monografia, ciò che i Francesi chiamano uno studio.» E più sotto ripiglia:
«E mi dolgo soprattutto che presso noi sieno così scarse le monografie o gli studi speciali sulle epoche e sugli scrittori. I
nostri concetti sono vasti, inadeguati alle nostre forze; e più volentieri mettiamo mano a lavori di gran mole, da cui non
possiamo uscir con onore, che a lavori ben circoscritti e ben proporzionati a’ nostri studi. Così niente abbiamo
d’importante su nessuno de’ nostri scrittori, e abbiamo già molte storie della letteratura. Presso gli stranieri non ci è
quasi epoca e scrittore che non abbia la sua monografia e questo genere di lavoro vi è tenuto in grandissima stima… Una
storia della letteratura è il risultato di tutti questi lavori; essa non è alla base, ma alla cima; non è il principio, ma la
corona dell’opera.»
Io non posso al certo lusingarmi d’aver detto l’ultima parola intorno al Belli; sto pago d’aver detto la prima e di aver
raccolto il materiale necessario a far conoscere questa nuova manifestazione del pensiero italiano.
pari tempo tenuto conto di quelle varianti; che mi parevano risponder meglio al carattere del dialetto
romanesco. Perc non trascurai di consultare anche molte e molte delle raccoltine manoscritte, che ne
corrono per tutta Italia, e che sono più o meno spropositate. Chi ebbe in mano qualcuna di queste raccolte, si
meraviglierà forse vedendo che nel nostro volume spesso un intero sonetto è affatto mutato. Ma la sua
meraviglia cesserà, se ripensi che questi sonetti, col passare per mille bocche e col venire trascritti da chi
poca o nessuna conoscenza aveva del vernacolo romanesco, dovevano di necessità riuscirne storpiati
maledettamente. Tale è la sorte di tutti i poeti, che acquistarono, come il nostro, una popolarità straordinaria.
La lezione che io presento, se non è sempre la vera, è certo la migliore che se ne conosca.
Quanto al modo di scriverli, mi sono studiato di imitare, colla maggiore esattezza possibile, l’ortografia
dell’autore, riscontrando pazientemente ogni parola sugli altri sonetti dell’edizione del Salviucci.
Taluni (non escluso qualche romano) avrebbero voluto che usassi un’ortografia più semplice, che si
accostasse maggiormente a quella della lingua comune; massime perchè, dicevano essi, le diversi che sono
tra questa e il dialetto romanesco, vanno oggi giorno più scomparendo. Altri mi consigliavano la stessa cosa,
perchè, a loro avviso, certe inflessioni, certe consonanti appena accennate nella pronuncia, non si possono
far intendere co’ segni dell’alfabeto comune il che in altre parole varrebbe che il nostro Poeta sbagliò nel
modo di scrittura di quel dialetto.
Io non reputai conveniente di seguire questo consiglio, che pur mi avrebbe risparmiato una fatica lunga e
noiosa; ma ringrazio que’ cortesi che me lo diedero, per avermi così pòrto occasione di liberarmi da ogni
futura molestia, coll’esporre qui le ragioni, che m’indussero a tenermi strettamente all’ortografia dell’autore.
E per rispondere alla prima obiezione, non ricorderò che in regola generale i dialetti si scrivono come
sono, o si lasciano dove stanno; ma dirò bene, che se il dialetto romanesco accenna già di voler scomparire
fondendosi nella lingua comune, questo fatto pare a me una ragione di più per iscriverlo oggi fedelmente
com’è, affine di tramandarlo nella sua genuina immagine a’ posteri, i quali altrimenti non potrebbero
conoscere quello ch’ei si fosse realmente. In quanto alla seconda, riconosco di buon grado che ha molto
di vero: e per fermo, chi pronunziasse giusta il valore che hanno nella lingua comune, alcuni modi
ortografici usati dal Belli, com’è per un esempio lo sc, farebbe quasi una caricatura della retta pronunzia
romana; ma non è meno vero, che non sarebbe più esatto chi mettesse la sola c al posto dello sc. Costui
taglierebbe, non iscioglierebbe il nodo. Insomma quando si scrive un dialetto coll’alfabeto della lingua
illustre (che val quanto dire scrivere una lingua co’ segni di un’altra), i modi ortografici hanno
necessariamente un valore relativo alla pronunzia del dialetto; e per evitare, come meglio si può, lo sconcio
che altri li pigli nel loro valore comune, non c’è che il mezzo di mettere sull’avviso i lettori con appositi
avvertimenti. E questo io l’ho fatto, a quando a quando nelle note, e più particolarmente nelle avvertenze
intorno al dialetto, premesse a’ sonetti, le quali ho prima sottoposto all’approvazione di due giudici
competentissimi, il professore Ferdinando Santini e il deputato Giuseppe Checchetelli, che per questo lavoro
mi furono larghi di amichevoli conforti e di aiuto efficace.
A queste considerazioni generali debbono aggiungersene alcune speciali al caso nostro.
E in primo luogo, se per consentimento dell’universale il Belli è sinora (e tutto fa credere che rimarrà
sempre) il primo scrittore del dialetto romanesco, e se egli adottò costantemente per lo spazio di
cinquant’anni quella ortografia, noi dobbiamo credere ch’ella sia la più adatta a significare il carattere
speciale di quel dialetto: lo dobbiamo credere, almeno fino a tanto che non sorga un santo Padre colla barba
più lunga, che ci dimostri il contrario.
Dovendo poi entrare nel presente volume anche un centinaio e più di sonetti non politici, scelti
nell’edizione romana che fu fatta col riscontro dell’originale; e non potendosi, senza offendere ogni legge di
letteraria convenienza, mutarne l’ortografia, era pur necessario di uniformarvi anche quella de sonetti
politici, se non si voleva fare una brutta stonazione.
Nella prima edizioncella ch’io pubblicai di una trentina di questi sonetti
1
, c’era qualche doppia
consonante soverchia nel principio di alcune parole; ma ora, questo ed altri piccoli difetti li ho emendati, e
posso affermare con sicurezza, che se avessimo gli autografi, si vedrebbero scritti con una ortografia
identica a quella da me adottata. Cosicchè, per dirla alla buona, l’asino è stato legato proprio dove voleva il
padrone: e tale è appunto l’obbligo di un raccoglitore di scritti altrui.
Le note a’ sonetti conservati dalla tradizione popolare, son tutte mie. Prevedo che sembreranno troppe a
chi ha un po’ di pratica del dialetto, e poche a chi non ne conosce punto; ma questo è lo Scilla e Cariddi, in
cui si rompono il capo tutti i chiosatori; quindi non saprei che farci.
Le note a’ sonetti non politici, scelti nell’edizione del Salviucci, sono in parte dell’autore e in parte di
me, che le ho messe dove mancavano affatto, e dove mi parevano insufficienti. In questi sonetti, la Censura
romana, spigoiistra ed ipocrita secondo il costume, aveva tolto molte parole innocenti, come buggiarone,
perdio, cazzotto, ecc., sostituendovi buzzarone, pebbìo, cacchiotto, ecc., che non sono del popolo, ma di
1 Sonetti satirici in dialetto romanesco, attibuiti a G. G. Belli, ecc. San Severino (Marche) Tipografia Sociale
editrice, diretta da C. Corradetti, 1869.
quei santificetur che si scandolezzano molto delle parole e niente delle azioni disoneste. Io ho rimesso le
parole popolari nella loro integrità di forma.
Nel fine del volume, quasi in appendice, mi è sembrato opportuno di mettere anche alcuni sonetti italiani
del nostro autore, non perchè abbiano in se stessi un gran pregio e possano reggere al confronto di quelli in
dialetto, ma perchè sono molto popolari.
Di altre piccole cose spettanti al modo tenuto nel compilare questo volume, il lettore discreto scoprirà da
sè la ragione.
SONETTI
CONSERVATI DALLA TRADIZIONE POPOLARE
AVVERTENZE
INTORNO ALL’ORTOGRAFIA E ALLA PRONUNZIA
DEL DIALETTO ROMANESCO
La consonante raddoppiata in principio di parola, indica che deve pronunziarsi con forza. Quando il
senso lo permette, si appoggia la prima delle due consonanti sulla voce finale della parola antecedente: per
esempio: a ppietà si pronunzia ap-pie-; tu ssentirai, tus-sen-ti-rai; ma cche ddiavolo,
mac-ched-dia-vo-lo; ecc.
Le sillabe scia, sci, scio, sciu, e particolarmente sce che s’incontra spessissimo, quando stanno in vece di
cia, ci, cio, ciu, ce, come in camiscia (camicia), calisci (calici), voscione (vocione), sciuco (ciuco, piccolo),
disce (dice), filisce (felice), e simili, devono pronunziarsi con uno strisciamento piano ed uguale in tutta la
sillaba, non con quel colpo aspro che si suol dar loro nella lingua comune, com’è, per esempio, quando
leggiamo: floscio, fascio; tampoco così dolce che somigli al g francese. Si avverta che la c si muta in sc,
quando è in luogo dove non si richiede che venga raddoppiata. Così dirai: È ttroppo sciuco, ma dovrai dire
altresì: È cciuco.
Dopo una consonante, al posto dell’s si trova sempre una z, che si pronuncia forte; ma quando la z non
istà per s, ritiene la regolare pronuncia italiana. Vi si dice un zero dolcemente, ma si dirà conzonante, un
zole, er zole colla z ben aspra.
Si o ssi vale se congiunzione condizionale; se o sse, e dopo una consonante ze, vale si affisso.
Al posto del gl c’è sempre la doppia j, che a prima giunta può parere soverchia (fijji, figli); ma non lo è
perchè scrivendosi a mo’ d’esempio con una sola j la parola fiji, i non Romani sarebbero indotti a leggerla
con un suono dolce e rapido, quasi fosse una sola sillaba, come nell’italiano guajo, e non col suono forte de’
Romaneschi, che la pronunziano in due tempi distinti : fij-ji. S’oda un verso del Belli:
«Desiderà li fijji, eh, sora Ghita?»
È d’avvertire, che il popolo romano per figlio, oltre che fijjo, usa anche fîo, massime quando parla con
ischerno come quando dice: Eh! bbér fîo, come dicesse: Eh! Signorino!
Nun e il suo troncamento nu’ valgono non.
Pe’ o ppe’ è sempre troncamento di per; co’ o cco’, di con.
Al posto degli articoli i e gli, i Romaneschi mettono costantemente li.
In ner, che talvolta, secondo i capricci dell’eufonia, muta in in der, vale nel, e fa al plurale in de li (nelli).
In ne lo e in de lo tengono il posto di nello, e fanno al plurale in ne li, in de li (negli).
In ne la e in de la valgono nella, e fanno al plurale, in de le (nelle).
Ched’è o chedè (che il Belli scrive quasi sempre ch’edè) vale che cos’è. È forse una corruzione del quid
est latino; oppure è fatto per ragion d’armonia, come quando noi per o congiunzione, seguendovi una parola
che cominci per vocale, facciamo od.
Si sono contrassegnati coll’accento grave o acuto (a seconda che la voce è larga o stretta) que’
troncamenti d’infiniti, che i Romaneschi pronunziano accentati sull’ultima vocale, come parlà (parlare), avé
(avere), sentì (sentire), ecc.; e coll’apostrofo quelli che sogliono pronunziare coll’accento sulla penultima,
come êsse’ (essere), véde’ (vedere), vìve (vivere), ecc. Si noti pure che i Romani per l’infinito vedere
talora fanno véde’, e tal altra vedé, a capriccio: Sémo annati a vvedé la festa, e vvoi nu’ lla volete véde’?
Abbiamo contrassegnato coll’accento acuto, o col grave, le vocali e ed o, soltanto nel caso che la loro
pronunzia debba essere l’opposto della comune, o se ne discosti sensibilmente.
L’accento circonflesso, come ogn’altro segno ortografico, compie nel dialetto romanesco gli stessi uffici
che nella lingua comune, e le vocali da esso contrassegnate devono pronunziarsi larghe, ma non mai
allungate o doppie, come talvolta usano i Francesi.
Gioverà anche di avvertire che davanti a’ verbi che cominciando colla sillaba ri, significano ripetizione
di azione, i Romaneschi aggiungono quasi sempre un’a: aritorno (ritorno), aripete (ripete), arisponne
(risponde).
SONETTI
CONSERVATI DALLA TRADIZIONE POPOLARE
I.
LI GIUDII.
1
(1825?)
In cuesto io penzo come penzi tu:
Io l’odio li giudii peggio de te;
2
Perché nun zo’
3
cattolichi, e pperchè
Mésseno
4
in crosce er Redentor Gesù.
Ma ripescanno poi dar tetto in giù
5
Drento la legge vecchia de Mosè,
Disce er Giudio che cquarche ccosa sc’è
Pe’ scusà le su’ dodici tribbù.
Infatti, (disce lui) Cristo partì
Da casa sua e sse ne venne cqua,
Co’ l’idea de quer zanto venardì.
6
Duncue, (seguita a ddì’ Bbaruccabbà
7
)
Subbito che
8
llui venne pe’ morì,
9
Quarchiduno l’aveva d’ammazzà!
1
Con questo sonetto il Poeta vuole vendicare le persecuzioni crudeli e le umiliazioni fatte patire dai cattolici di
Roma agl’Israeliti. La satira è terribile, perché va armata da un sillogismo stringente, e perché tocca un punto
capitale della dottrina cattolica. Nell’edizione Salviucci (vol. II, pag. 396), v’ha un altro sonetto del Belli,
intitolato L’omaccio (l’omaggio) de l’Ebbrei. Eccone l’argomento. Il primo giorno di carnovale, er Cacamme,
specie di giudice della Sinagoga, va al Campidoglio a fare omaggio di sudditanza e a giurare ubbidienza alle
leggi del Senato e del popolo romano, davanti ai tre Conservatori o magistrati municipali di Roma. Il più anziano
di questi, quando l’Ebreo ha recitato la solita formola, Arza una scianca (gamba) e jj’arisponne: Andate.
Anticamente non faceva soltanto l’atto, ma gli posava un piede sul collo, o gli affibbiava proprio un calcio ner
chitarrino. E tanta umiliazione era pure un fiore di grazia per que’ poveri Ebrei; dacchè col sottoporsi ad essa e
collo sborso d’una grossa somma, avevano ottenuto che il Municipio vietasse al popolaccio di andare in
carnevale di saccheggiare il ghetto e a perpetrarvi impunemente ogni nefandezza, barbara usanza che fu tollerata
per tutto il medio evo. In altro sonetto (vol. III, 310), il nostro Poeta accennava pure all’obbligo imposto un
tempo agli Israeliti, di portare sul cappello un cenciolino, affinchè si potessero subito e dovunque riconoscerli fra
la turba degl’incirconcisi. Egli insomma prediligeva questo tema doloroso, massimamente perc(crediamo noi)
nell’anno trentesimoterzo dell’età sua vide ricominciarsi da Leone XII una bestiale persecuzione contro gli Ebrei.
Codesto papa, che fu una brutta caricatura di Sisto V, ritolse a que’ disgraziati ogni diritto di proprietà,
obbligandoli a vendere entro un determinato tempo quello che già possedevano; ordinò che venissero chiusi nei
ghetti con muraglie e portoni; li affidò alle paterne cure del Santo Ufficio; e non pago di tutto questo, volle anche
richiamare in vigore a carico loro molte barbare usanze medioevali, tra cui quella iniquissima del calcio.
2
Più
che non li odi tu.
3
Sono. —
4
Méssero.
5
Ripescare dal tetto in giù, vale guardar la cosa più addentro, più
profondamente.
6
Intendi: col proposito di morire per la redenzione del genere umano. —
7
Nome volgare dato
agli Ebrei, ma particolamente a’ rabbini. Credo sia una corruzione di certe parole ebraiche che il rabbino canta
nella Sinagoga. —
8
Dacchè. —
9
Variante: Subbito che cce venne pe’ morì.
II.
ER DEPOSITO DE PAPA LEONE.
(1829)
In ner vedè
1
cquer zasso bbuggiarone
Lì avanti
2
a la Madonna de l’Archetto,
3
Che lo pòrteno a un studio d’architetto,
4
Pe’ ffa’ er deposito a ppapa Leone
Un villano che stava sur cantone
A ccavallo ar zomaro: —Eppuro, (ha detto)
Ce scommetto sta bbestia, ce scommetto,
Si nun vale ppiù llui
5
che sto pietrone. —
No (jj’ha risposto allora un omo grasso);
6
Frater caro, scommetti quanto vôi,
7
Ma pper adesso, no, vvale ppiù er zasso
Lassa che ssia finito, frater caro;
Lassa che ssia finito, e allora poi
Valerà d’avantaggio er tu’ somaro. —
1
Nel vedere.
2
Variante: Accanto.
3
Chiesa di Roma.
4
Architetto e scultore sono una stessa cosa pel
popolano di Roma, che non la guarda tanto nel sottile, e sa che chi fece la Cupola fece anche il Mosè.
5
Il
somaro: sarebbe stato innaturale il dir lei, riferendolo a bestia. Su questa preziosa sgrammaticatura così mi
scriveva l’egregio amico prof. Santini: «Per rispetto alla grammatica, dovrebbe dir lei, perchè questo relativo
riferisce a bestia. Ma quel lei, più grammaticale, sarebbe meno estetico e men logico. Perocchè il lettore tiene già
piantata in capo l’idea mascolina di somaro; gli si è tolta via per la parola bestia, sotto la quale è pur sempre
chiusa l’idea del prode animale; e però pensando tuttavia al somaro, quel lei verrebbe come una stonatura in
orchestra, e forse il lettore non saprebbe a chi riferirlo, almeno a prima giunta. Questa è la ragione del bellissimo
fatale monstrum, quæ di Orazio, riferito a Cleopatra. E il popolo ch’è più logico dei puri gramatici sempre, dice
sempre così in simili casi.» —
6
Variante: No, (jj’ha risposto un omo grasso grasso.) —
7
Vuoi.
III.
LA RRIVULUZZIONE DER 31.
Più cce se penza e mmeno se pô ignótte’,
1
Ch’er zanto Padre ha dd’abbozzà,
2
perdio!,
Co’ sti porcacci fijji de miggnotte,
Che lo tràtteno
3
peggio d’un giudìo.
Stasse a mme a commannà, bbrutte marmotte!,
Ve vorrebbe fa’ vvéde’ chi sso’ io:
’Na scommunica, e annateve a fa’ fótte’!
Ma ste cose, si, pproprio a ttempo mio!
Sémo o nun zémo?
4
Fa pparà dde nero
La cchiesa de San Pietro, indeggnamente;
Metti le torce ggialle, chiama er crêro,
5
Furmina,
6
come usava anticamente:
E allora vederemo si ddavero
Mòreno
7
tutti cuanti d’accidente.
8
1
Inghiottire, mandar giù: detto metaforicamente per tollerare.
2
Abbozzare è voce viva anche in Toscana, e
vale: Astenersi dal prendere vendetta di offese ricevute, dissimulare.
3
Trattano.
4
Siamo o non siamo?
5
Clero. —
6
Fulmina, scomunica.
7
Muoiono. —
8
Dicono che questo sonetto sia del Pistrucci.
IV.
NA PAVURA DE PAPA GRIGORIO.
1
(1831)
L’antra sera ar quartiere a la Reale,
2
A ssan Pietro, le scento sentinelle
Strillôrno
3
all’arme!, e a lo strillà dde cuelle
Er tammùrro
4
batté la ggenerale.
Pènzete er Papa!…
5
Bbutta l’orinale,
6
In camiscia, e ssi e nno co’ le ciafrelle,
7
Va a li vetri…
8
e cche vede, Raffaelle?
9
Passà fra cquattro torcie er Principale.
10
Cor naso mezzo drento e mmezzo fôra,
11
(Chè ttanto inzino a llì lu’ sce s’arrischia
12
)
— Oh! (disce) bbuggiarà; pproprio a cquest’ora! —
13
Povero Papa! è ttanto scacarcione,
Chè ssi ’na rondinella passa e ffischia,
14
La pijja pe’ ’na palla de cannone!
1
Questo sonetto fu scritto quando i moti liberali del ’31 non essendo ancora del tutto repressi, Gregorio XVI
temeva ad ogn’istante una rivoluzione dentro Roma, e faceva rafforzare il posto di guardia al Vaticano. —
2
Così
si chiama il quartiere di piazza Rusticucci, presso San Pietro.
3
Strillarono.
4
Tamburo.
5
Pènsati il Papa:
Figurati lo spavento del Papa! La variante popolare è non meno rapida ed efficace: Hai visto er Papa?...
6
Perchè allora andava al letto. —
7
Ciabatte. —
8
Alla fenestra. —
9
Nome della persona a cui si fa il racconto. —
10
Il Sacramento: metafora tolta dai padroni di bottega, che in Roma si chiamano principali.
11
Gregorio XVI
aveva un naso di grandezza straordinaria, e i Romani lo chiamavano: er zor Grigorio der peparone.
12
Lui ci si
arrischia.
13
Variante: Fa: - Bbuggiarallo! mo, ppropio a cquestora!
14
Stupenda la variante popolare: Er
Papa poveromo! è un po’ cacone, E ssi ppassa ’na rondine che ffisschia, ecc.
V.
L’INCONTRO COR PADRONE VECCHIO.
1
(1° ottobre 1831.)
Sor Conte... — In grazia, chi?... — Vostr’accellenza
Che! nun m’ariffigura?... — Non m’inganno... —
— Taccagna. — Ah, sì: e di dove? — Da Fiorenza. —
Che siete stato a farvi? — Er contrabbanno. —
Buono! Ed or? — Servo er Papa. — In quale essenza?
— De sordato. — E da quanto? — Eh, mmuffalanno.
2
In qual’armi servite? — Culiscenza,
3
Reggimento Zamboni,
ar zu’ commanno. —
Cioè? — Guardia-d’onor-de-pulizzia. —
— Corpo di Bacco a fè. — Ma cce se maggna. —
Dunque, siete contento. — Eh, ttiro via. —
Dove state? — A Marittimo-e-Ccampagna.
4
Ma ora? — Sto in promesso
5
a casa mia. —
Ed abitate sempre... — A la Cuccagna.
6
Addio, dunque, Taccagna. —
Vorrìa bascià la mano... — Oh! un militare!
Nol permetterò mai. — Come ve pare.
1
Questo sonetto, stampato già nell’edizione romana, è una satira contro le truppe raccogliticce, di cui il Governo
pontificio si valse a reprimere nel ’31 i moti liberali delle Romagne. I Cacciatori a piedi ed a cavallo che lo
Zamboni raccolse a Ferrara, dall’ultima feccia delle plebi, «operarono (scrive il Farini) assassinii e tumulti a
Bologna, a Lugo, a Ravenna, dovunque andarono; ed i cittadini sgomentati accoglievano gli Austriaci in qualità
di protettori, ed in qualche luogo li chiamavano ed invitavano.» (Lo Stato romano dal 1815 al 1850: vol I, cap.
V.)
2
Mo fa lanno: è un anno.
3
Con licenza: frase di rispetto verso l’antico padrone, come quell’ar zu’
commanno che viene sotto, e che i servitori cacciano in qualunque discorso. Ma siccome culiscenza vale anche
con rispetto parlando, così qui fa ridere, perchè veramente nomina poi una cosa non pulita, qual era il
Reggimento Zamboni.
4
Marittima e Campagna: provincia al sud-est di Roma.
5
In permesso.
6
Così è
detta una estremità della piazza Navona.
VI.
LI PUNTI DORO.
1
(27 dicembre 1832)
Ccusí vviengheno a ddí’
2
li ggiacubbini
Ar gran zommo pontescife Grigorio:
— Che tte fai de li stati papalini
Dove la vita tua pare un mortorio?
Va,
3
e tt’upriremo palazzi e ggiardini,
T’arzeremo una statua d’avorio,
Te daremo un mijjone de zecchini,
Te faremo stà ssempre in rifettorio.
4
Ma er Papa, a sta bbellissima protesta
De palazzi, de statua e mmijjone
Je dà st’arispostina lesta lesta:
— Vojantri me pijjate pe’ ccojjone.
Io sempr’ho inteso ch’è mmejjo êsse testa
D’aliscetta che coda de sturione.
5
1
Ponti d’oro a chi fugge: proverbio. In Roma però dicono punti, non già perchè in questa maniera si pronunci il
vocabolo ponti, ma perchè così dicono.
2
Così vengono a dire: così press’a poco dicono.
3
Va via.
4
Refettorio. Giova qui ricordare che Gregorio XVI era stato frate, ed aveva fama di mangiatore e bevitore
straordinario. —
5
Proverbio.
VII.
ER GIUCATOR DE PALLONE.
1
(31 gennaio 1833)
Ar Bervedé cc’è ppoco.
2
Er Papa vola,
Che ppe’ vvolate
3
manco Ggentiloni.
4
Ma in partita è ttareffe,
5
e ffa cciriola,
6
Ché li falli so’ assai piú de li bbôni.
7
Che sserve che nnoi poveri cojjoni
Je seggnamo le cacce?
8
A cquella scôla
De mannà ssempre a sguincio
9
li palloni,
Si ll’impatti è, pper dio, grasso che ccola.
10
Ggiuchi a ppassa-e-rripassa, o ccor cordino,
11
Dà llui solo l’inviti e le risposte,
12
E vvô sta’ ssempre lui sur trappolino.
13
Cuann’è all’onore poi,
14
fa ccerte poste,
15
Scerte finte,
16
c’a ess’io Tuzzuloncino,
17
Je darebbe er bracciale in de le coste.
Ne le partite toste,
18
O mossce,
19
lui s’ingeggna, (nun ridete!)
Cor vadi e vvienghi, e cquale la volete.
20
Tira sempre a la rete
21
Cuann’è in battuta, e nnun fa mmai un arzo
O rribbatti de primo o dde risbarzo.
22
Ar chiamà,
23
cchiama farzo;
E ssi er quinisci
24
penne
25
da la tua,
Procura de tornà ssempre a le dua.
26
Ha una regola sua
Oggni tanto de dà’ ffôra una messa,
27
Pe’ ffàtte ariddoppià la tu’ scommessa:
E cco’ sta jjoja
28
fessa,
Qualunque cosa er cacciarolo
29
canti,
Cce dàne er farzamento
30
a ttutti cuanti.
1
Sotto il velo allegorico delle astuzie usate nel gioco del pallone, si adombrano in questo sonetto gl’infingimenti
e le male arti di Gregorio XVI. — Fu stampato nell’edizione romana, sostituendo nel primo verso il nome di Tosto,
giocator di pallone, a quello di Papa, e mutando parecchie altre parole. Le note son tutte dell’autore.
2
Manca poco al vedersi gli effetti. Notisi che quel modo proverbiale è tolto dal Belvedere, luogo sotto al Museo
Vaticano, dove fino agli ultimi anni si giuocava al pallone.
3
Volare, volate, cioè iattanze, sfoggio di vane
promesse. Al giuoco di pallone si dice volare e far volate il mandare di prima battuta i palloni oltre i termini
estremi della palestra.
4
Rinomato giuocator di battuta, o battitore.
5
Fallace.
6
Far ciriola: intendersi
segretamente cogli avversarii in fraude di chi è con lui o tiene dalla sua.
7
Dicesi fallo o buono, secondochè il
pallone trapassi o no le linee che limitano o partono l’arena.
8
Le cacce sono quei punti, sui quali un
giuocatore di rimando ha arrestato in qualunque modo un pallone; si che non trascorra più lungi: ciò che egli si
sforza di eseguire il meno discosto che può dalla battuta di dove egli stesso è obbligato ad oltrepassare quel
segno, onde vincere quel giuoco. Segnar le cacce significa notare gli altrui mancamenti. —
9
A sghembo. —
10
È,
cioè, il maggior de’ successi.
11
Il giuoco a passa-e-ripassa è quello in cui si conviene di non dovere che
oltrepassare la linea media della palestra. Quello poi col cordino consiste nel superare una corda attaccata in alto
e attraversante l’arena in sito e direzione parallela alla detta linea media. —
12
L’invito è una specie di scommessa
fra giuocatori, che vinta o perduta da ciascuna delle parti avversarie, le raddoppia il successo favorevole o
contrario della partita. La risposta è l’accettazione o il rifiuto dell’invito, con certe regole che qui sarebbe
inopportuno e lungo il riferire.
13
Tavolato inclinato, dal quale discende il battitore nel battere, onde il colpo
prenda più vigore dall’urto del corpo in discesa.
14
All’onore: così gridasi dal chiamatore o cacciarolo al
principiarsi dell’ultima partita.
15
Poste: palloni colpiti in aria, prima cioè che abbino toccato terra: ciò che
sarebbe di balzo.
16
Finte: astuzie di giuoco.
17
Tuzzoloncino: giuocatore rinomato per la sua forza, e detto
Tuzzoloncino da tuzzare o percuotere.
18
Partite di dura prova.
19
Il rovescio della nota 18.
20
Formule
d’invito o accettazione, di che vedi la nota 12.
21
In fondo all’arena è un palchettone coperto da una rete che
difende gli spettatori. Chi percuote in quella, o al disopra indeterminatamente, fa volata. Vedi la nota 3.
22
Vedi la nota 15.
23
Il chiamare è dire ad alta voce il numero de’ punti de’ quali si è in guadagno.
24
Il
quindici, ossia una quarta parte della partita, che si divide in quindici, trenta, quaranta e cinquanta. Ciascuno di
questi quattro numeri dicesi un quindici.
25
Pende: inclina.
26
Quando entrambi gli avversari, fatti nella
partita pari guadagni, sono giunti egualmente a 40, cioè al terzo quindici, si torna alle due, cioè si retrocede al
punto anteriore, cioè al trenta, vale a dire si torna a passar due volte per quel grado, onde la partita abbia più
probabilità di eventi, e non termini di un sol colpo al 50, che n’è il fine.
27
Messa: posta pecuniaria delle
scommesse. —
28
Joia, cosa lunga e noiosa. —
29
Il chiamatore del giuoco. —
30
Falsamento: canzonatura.
VIII.
ER ZERVITORE DE MONZIGGNOR TESORIERE.
(1833)
Ma ssai c’ha riccontato oggi er padrone?
Che avenno inteso er gran ebbreo Roscilli
1
C’ar monte sce ballaveno li grilli,
2
Ha ddato ar Papa in prestito un mijjone.
Accusí ’gnuno avrà la su’ penzione,
E nun ze
3
sentiranno tanti li strilli;
Chè a sto paese cqui, tutto er busilli
Sta in ner campà a lo scrocco e ffa’ orazzione.
È proprio un gran miracolo de Ddio,
Che pe’ sspìgne’ la Cchiesa a ssarvamento,
Abbi toccato er core d’un giudìo.
Er Papa ha fatto espóne er Zacramento,
Pe’ rringrazzià Ggesú bbenigno e ppïo,
Che ccià
4
ssarvato ar zessantun pe’ ccento!
5
1
Rotschild.
2
Per intendere la satira mordace di questo verso, bisogna sapere che a Roma v’è un Monte detto
de’ depositi (annesso a quello di pietà), che riceve danaro in deposito senza pagarci interessi, anzi esigendo una
tenue ricompensa dai depositatori, ad ogni richiesta de’ quali si obbliga di restituirlo. Il Governo pontificio,
morale com’è, fece più volte tabula rasa nella cassa di codesto sacro istituto, ed è facile immaginare lo scandalo
che ne nacque. Sce ballaveno li grilli (ci ballavano i grilli) significa, appunto che era piazza pulita: equivale alla
frase italiana ci ballavano i topi.
3
Si.
4
Ci ha.
5
Gl’interventi stranieri, lo arruolamento e l’ordinamento
delle truppe svizzere, le commissioni militari, le polizie costarono enormi spese, durante tutto il regno di
Gregorio: si fecero prestiti rovinosi, uno de’ quali con Rotschild al 65 per cento; e quantunque le tasse
crescessero, si ebbe una deficienza annua di cinque in seicentomila scudi almeno; ed il debito pubblico, regnante
Gregorio, crebbe di ventisette milioni di scudi. L’amministrazione del Tosti tesoriere fu un vero disastro.
Nessuno accusa di inonestà lui rimasto povero, ma tutti lo rendono in colpa di inesperienza e scioperataggine:
l’erario impoverì: il disordine crebbe: molti in Roma traricchirono per usure, per appalti pubblici, per lavori fatti
dal Tosti, come dicono, economicamente. Di un decennio della sua amministrazione non si è mai potuto fare e
dare un vero rendiconto. Un Galli computista della reverenda Camera arruffò cifre, e diede ad intendere di averlo
compiuto; ma la fu polvere gettata negli occhi. (Farini: Lo Stato romano dall’anno 1815 al 1850, vol. I, cap. XI.)
In tale condizione di cose, s’immagini ognuno quale effetto producesse questo sonetto del Belli.
IX.
ER PRESTITO.
1
(1833)
Ma eh? Gessummaria!
che monno tristo!
Si sse
2
vedesse fa’ a li ggiacubbini,
Va bbè;
3
ma er Papa ha da pijjà cutrini
Da un omo c’ha ammazzato Ggèsucristo!
Uh! rriarzasse la testa Papa Sisto,
Ch’empí zzeppo Castello
4
de zecchini:
Ve direbbe: —Ah ppretacci malandrini!
C’era bbisogno de sto bbell’acquisto?
Nun ciavete perdìo tanta de zecca,
Da cugnà mmille piastre ’ggni minuto,
Senza fàlli
5
vení fin da la Mecca?
6
E cco’ ttutto sto scannalo futtuto,
Maneggiate a ssan Pietro la bbattecca,
7
Pe’ bbuggiarà la ggente senza sputo!
1
Questo sonetto allude, come l’antecedente, al prestito rovinoso contratto dal Governo pontificio con Rotschild;
ma ci mancano testimonianze che sia del Belli.
2
Se si.
3
Va bene: sarebbe men male.
4
Castel sant’Angelo.
5
Farli.
Il li si riferisce a cutrini, non a piastre. Per questa ragionevole sgrammaticatura, si veda la nota 5 al Sonetto Er
deposito de papa Leone.
6
Qui Mecca sta per qualunque paese lontano e d’infedeli.
7
La bacchetta con cui dallo
sportello del confessionale i penitenzieri maggiori di San Pietro, e d’altre chiese privilegiate, toccano
leggermente la testa ai baciapile che s’inginocchiano davanti a loro, per essere assolti così a buon mercato dai
peccati veniali.
X.
DON MICCHELE DE PORTOGALLO.
1
(1833)
Ce mancava pe’ nnoi st’antro accidente!
Doppo fatto ar Brasile er pappagallo,
Riècchete
2
don Pietro a ffa’ er reggente,
Pe’ rróppe’ li cojjoni ar Portogallo
In fónno, a nnoi nun ce n’importa ggnente;
Chè, grazziaddio, noi stamo a culo callo:
3
L’Ebbreo cce dà cutrini alegramente,
E ssi cce maggna sopra,
4
buggiaràllo!
Io me sento schiattà pe’ ddon Micchele.
Je volevo dì’: Ssei troppo bbono!…
Quanno vedi ch’er popolo è infedele,
Nu’ sta’ a ssentì nè angeli nè ssanti:
Stàmpeje un bell’editto de perdono,
E ’r giorno appresso impicca tutti cuanti.
5
1
Questo famoso sonetto, comunemente attribuito al Belli, è del commediografo Giovanni Giraud romano. — Per
agevolarne l’intelligenza, delineeremo a brevi tratti il quadro storico, di cui don Michele di Braganza fu
protagonista.
Giovanni VI, re di Portogallo, dopo la rivoluzione scoppiata a Porto nel 1820, e divampata poi in tutto il regno,
dovette mal suo grado giurare la costituzione che i rappresentanti del popolo gli proponevano, e tornato nel 1821
a Lisbona fra le solite acclamazioni, lasciava in qualità di reggente nei possedimenti brasiliani il primogenito suo
don Pietro. Passò appena un anno, che mentre il Re studiava il modo di levarsi d’attorno l’incomodo delle
Cortes, i democratici del Brasile, insofferenti della soggezione al Portogallo, gridarono la loro indipendenza, e
sapendo il Principe reggente di spiriti liberali, lo incoronarono imperatore. Re Giovanni protestò e dichiarò
guerra al figlio e a’ ribelli. Intanto il secondogenito suo don Michele, d’indole e di principii affatto opposti a
quelli del fratello, s’affaccendava d’accordo coll’alto clero, colle corti di giustizia e cogli ordini privilegiati, a
buttar esca sul fuoco; affinché i liberali portoghesi pagassero il fio de’ ribelli brasiliani. In conseguenza di tali
maneggi, che non potevano essere ignoti al Re, scoppiò nel febbraio del 1823 una rivoluzione in senso
reazionario a Villa Real, capitanata da un Conte di Amarante. Minacciò estendersi anche nelle provincie, ma i
costituzionali riuscirono a soffocarla. Allora la reazione volse i suoi sforzi a corrompere e tirar dalla sua una
parte dell’esercito, il che agevolmente le venne fatto. La notte del 29 maggio, dello stesso anno, il principe don
Michele, tacitamente consenziente il padre, usci da Lisbona per Villafranca alla testa del 23° reggimento di
fanteria, dando così il segnale della rivolta, che in brev’ora fu seguita da tutto l’esercito. A’ 2 di giugno, le Cortes
costrette a separarsi, protestarono solennemente contro il Re spergiuro. Quasi tutte le corti d’Europa, e prima
d’ogni altra, quella pontificia, mandarono congratulazioni e ringraziamenti a don Michele, e il padre lo nominò
generalissimo dell’esercito. Ma se in Portogallo il vento spirava così propizio a’ retrivi, la guerra contro il Brasile
non procedeva loro seconda: e nell’agosto del 1825, re Giovanni doveva finirla, riconoscendo l’indipendenza di
quell’impero.
Morto il Re ai 10 marzo 1826, nel successivo mese il figlio, don Pietro, istigato dai liberali portoghesi, aggiunse
al titolo d’imperatore del Brasile quello di Re di Portogallo ed Algarvia; e pubblicata una nuova costituzione,
sulle norme di quella spergiurata dal padre, a’ 2 maggio abdicava il regno in favore della figlia Maria II da Gloria,
ch’era ancora bambina. La reazione dal canto suo non si stette inoperosa, e nel luglio e ottobre 1827 acclamò re
don Michele. Parecchie corti d’Europa fecero rimostranze a quella di Rio-Janeiro. Allora don Pietro, per provare
col fatto ch’egli aborriva quant’altri mai dalla guerra civile, nominò il fratello luogotenente de’ regni portoghesi.
Don Michele accettò, e da Vienna recossi immediatamente a Lisbona, dove prestava giuramento solenne di
fedeltà al fratello Pietro IV e alla nipote Maria II, obbligandosi a rimetter questa nel governo, appena fosse giunta
all’età maggiore. L’ebbe anche promessa in isposa e firmò il contratto nuziale. Ma tutto ciò non lo appagava, e
nel prestar giuramento aveva forse, come il padre suo, avvisato al modo di spergiurare. Infatti, quando tribunali,
clero, e nobiltà che incarnavano la reazione, e che in ogni modo la volevano finita co’ liberali, lo acclamarono re
legittimo di tutto il reame, egli, simulando come tutti i suoi pari, convocò a Lisbona i tre Stati del regno,
acciocchè provvedessero alla successione della Corona. Poi, per recitar bene la sua parte nella vieta commedia,
presentòssi alle Cortes senza le insegne reali. Gli Stati (è inutile il dirlo) lo confermarono re legittimo,
sciogliendolo dal giuramento. Allora il nuovo re, di agnello fatto lupo, ricominciò una feroce persecuzione contro
i liberali, fautori di don Pietro. Il Papa e le Corti d’Europa plaudivano, meno Inghilterra e Francia, che
protestarono contro l’usurpazione, richiamando i loro ambasciadori. In questo mezzo moriva a Roma Leone XII, e
don Michele ordinava pubblico lutto e solenni funerali.
Don Pietro, dopo aver abdicato l’Impero brasiliano in favore del figlio, a’ 17 aprile 1831 venne alla volta
d’Europa contro don Michele, e nel luglio del 1832 sbarcato a Porto con 7000 uomini, dopo varia vicenda di
piccola guerra, aiutato efficacemente dai liberali, a’ 24 luglio dell’anno successivo, riuscì ad impadronirsi di
Lisbona e a mettere la figlia sul trono, sotto la sua reggenza. Aveva già dichiarato che tratterebbe come ribelli i
vescovi eletti da don Michele e riconosciuti dal Papa. Tenne la parola, e quindi ne nacque un battibecco colla
Corte di Roma, la quale favoriva sottomano i Michelisti. Ma sconfitti costoro alla battaglia di Asseiceira (16
maggio), dieci giorni dopo don Michele capitolava a questi patti: che gli si lasciassero i beni privati, e gli venisse
pagata un’annua pensione di 75 mila ducati; egli dal canto suo si obbligava a partir subito e a non più tornare
nella Penisola iberica. Arrivato a Genova, si pentì, e protestò per salvare i suoi pretesi diritti. Così perdeva
pensione e beni privati. Ma Gregorio XVI gli apriva a Roma le paterne braccia, accogliendolo con que’ riguardi
dovuti a un caporale della reazione europea, e assegnandogli la bagattella di 1800 scudi al mese, da levarsi dal
pubblico erario, il quale dopo i casi del 1831 era venuto in tali angustie, che poco prima si era dovuto contrarre
un prestito con Rotschild al 65 per cento (Vedi il sonetto: Er zervitore de Monziggnor tesoriere). Di tal modo, i
sudditi del Papa facevano la penitenza non solo de’ propri, ma anche dei peccati de’ liberali portoghesi: ed ecco
perchè il romanesco di questo sonetto, a prima giunta esclama: Ce mancava pe’ nnoi st’antro accidente.
2
Rieccoti. —
3
Comodamente: come chi sta sopra sedia soffice.
4
Vedi la nota 1
a
, sul fine. —
5
Questo consiglio
dato a don Michele, che in parecchie occasioni lo aveva già posto ad effetto, colpiva di rimbalzo la Corte
romana, la quale aveva di fresco violata la capitolazione d’Ancona, e permesso che il prode generale Zucchi ed
altri patrioti modanesi e romagnoli (che giusta i patti conchiusi col cardinal Benvenuti, dovevano essere
amnistiati), venissero presi, mentre emigravano, dagli Austriaci, e poi condotti a Venezia, e là tenuti prigioni, e lo
Zucchi condannato a morte da un tribunale militare: compiendosi di tal modo i voti del paterno core di Gregorio
XVI, il quale disconobbe l’atto solenne del suo cardinal legato, e volle svellere fin dalle radici la zizzania, affinchè
non fosse soffocato il grano eletto. (Si veda il Manifesto indirizzato da papa Gregorio a suoi dilettissimi sudditi,
il 5 aprile 1831.)
XI.
ER PORTOGALLO.
(27 novembre 1832)
— Cuanno ho pportato er cuccomo ar caffè,
Mamma, llà un omo stava a ddí’ accusí:
”Er Re der portogallo vô mmorì,
P’un bottaccio c’ha ddato in grabbiolè
1
”.
Che vvô ddì’, mmamma? dite, eh? cche vvô ddì’?
Li portogalli
2
puro ciànno er Re?
Ma allora cuelli che mmaggnamo cqui,
Indóve l’hanno? dite, eh, mamma? eh? —
— Scema, ppiù ccreschi, e ppiù sei scema ppiù:
Er portogallo è un regno che sta llà,
Dove sce regna er Re che ddichi tu.
Ebbè, sto regno tiè sto nome cqua,
Perché in cuelli terreni de llaggiù
De portogalli sce ne so’ a ccrepà.
3
1
Veramente don Michele di Braganza si offese molto per una caduta di cocchio.
2
Cedri, aranci.
3
A
crepapelle.
XII.
L’UFFIZZIO DER BOLLO.
1
(17 febbraio 1833)
Presa a Ppiazza de Ssciarra
2
la scipolla
Dall’ortolano, e, llì accanto, er presciutto,
Le paggnottelle e ’r pavolo de strutto,
Annavo
3
a ffa’ bbollà la fede a Ttolla;
4
Quanto m’accosto a un omettino assciutto,
Che stava a ppij er Cràcas
5
tra la folla:
— Faccia de grazzia, indov’è cche sse bbolla?
6
— Eh, a Rroma, nu’ lo sai?, (disce): pe ttutto —.
Doppo, ridenno,
7
m’inzeggnò ll’uffizzio.
Ma ttratanto capischi che ffaccenna?
Che stoccatella a nnostro preggiudizzio?
Ma ssai cche jje diss’io? — Sor coso, intenna,
8
Ch’è vvero che li preti hanno sto vizzio,
Ma cquer tutti lo lassi in de la penna. —
1
Il bollo straordinario della carta.
2
Piazza sulla via del Corso, dove si crede che fosse eretto anticamente
l’arco trionfale di Claudio per le vittorie sopra la Britannia e le isole Orcadi.
3
Andavo.
4
Anatolia.
5
Il
Diario di Roma, chiamato volgarmente Cracas o Cracasse dal nome dell’editore (Si veda la nota 5
a
al sonetto Pe’
la morte de Papa Grigorio.)
6
Bollare significa in Roma anche il fraudare altrui del danaro.
7
Ridendo.
8
Intenda.
XIII.
ER RICRAMO.
1
(1833)
Ma a cquer cazzaccio der padron de Rosa
Sabbito a ssera nun je prese er ramo
2
De portà ar Papa un fojjo
3
de ricramo
Su li guai de la ggente bisoggnosa?
Bê? che arispose er Papa?
4
— “Ma cche ccosa!…
Che mmiseria!… li zoccoli d’Abbramo?!
Lei puro
5
ha sst’ideaccia stommicosa?
6
Noi però, ggrazziaddio, sce ne fregamo.
7
E un’antra vôrta che Llei viè a ppalazzo
8
Co’ ssti sturbi
9
in zaccoccia, signor tale,
10
Io je so a ddi’
11
che Llei nnun entra un ca..o.
12
Fino ch’er tesoriere nun ze sstracca
De fa’ ddebbiti e vénne’
13
er capitale,
Staremo sempre in d’un ventre di vacca.”
1
Reclamo, ricorso.
2
Non gli prese l’estro.
3
Foglio.
4
È una dimanda fatta dallo stesso narratore, per
accrescere efficacia al discorso. Variante: Che jj’arispose er Papa?
5
Pure.
6
Stomacosa.
7
Il popolo ha
trasposto i versi delle due quartine: ma il sonetto ci guadagna in forza e naturalezza. Variante: Noi, pe’ ggrazzia
de Ddio, sce ne fregamo.
8
Variante: E ssi Llei ’n’ antra vôrta viè a ppalazzo.
9
Disturbi in zaccoccia
chiama il foglio di reclamo; nota la vivacità del traslato, che fa di questo verso un vero capolavoro.
10
Il Papa
non conoscendo il padrone della Rosa, lo chiama per dispregio signor tale.
11
Gli so dire.
12
Variante: Io je
so a ddi’ che cqui nun z’entra un ca..o. —
13
Vendere.
XIV.
ER PARLÀ CCHIARO.
(1834)
Oh, vvolete sentìlla
1
a la bbadiale,
2
E cche vv’uprimo
3
er core schietto schietto?
Che vvoi fussivo un brutto capitale
4
Ggià l’avémio maggnato
5
da un pezzetto.
Quer che ppo’ adesso masticamo male,
6
È cch’una scerta mmaschera
7
scià
8
ddetto
Che vv’ingeggnate puro cor zoffietto,
9
Pe’ ffa’ un giorno la fine de le scecale.
10
O sii caluggna
11
o nno, cquesto
12
io nun c’entro.
Er cert’è cch’un brigante com’e vvoi,
Quanno che vva a soffià sta in ner zu’ scentro.
13
O ssii caluggna o nno, vvisscere mie,
Questo ve pôzzo assicurà, cche a nnoi
Nun ce va a ssangue er zangue de le spie.
1
Sentirla.
2
Alla badiale, qui per chiara.
3
Apriamo.
4
Brutto capitale: brutto suggetto.
5
Avevamo
mangiato; l’avevamo compreso.
6
Masticar male: patire a malincuore.
7
Persona occulta.
8
Ci ha.
9
Ingegnarsi col soffietto: fare la spia. Ricorda i versi del Gingillino di Giusti: «E di più ci è stato detto che lavori
di soffietto.» —
10
La fin delle cicale, che cantano cantano e poi crepano. Modo proverbiale.
11
Calunnia.
12
Intendi: in questo. —
13
Centro.
XV.
ER GOVERNO DE LI GGIACUBBINI
(5 aprile 1834)
Iddio ne guardi, Iddio ne guardi, Checca,
Toccassi
1
a ccommannà a li ggiacubbini:
Vederessi
2
una razza d’assassini
Peggio assai de li Turchi de la Mecca.
Pe’ aringrassasse
3
la panzaccia secca,
Assetata e affamata de quadrini,
Vederessi mannà cco’ li facchini
Li càlisci de Ddio tutti a la zecca.
Vederessi sta manica de ladri
Raschià ddrent’a le Chiese der Ziggnore
L’oro da le cornisce de li quadri.
Vederessi strappà senza rosore
4
Li fijji da le bbraccia de li padri,
Che ssaria mejjo de strappàjje er core.
5
1
Toccasse.
2
Vedresti.
3
Ringrassarsi.
4
Rossore.
5
Tutto il sonetto ritrae fedelmente l’opinione, che
aveva de’ liberali il popolino imboccato e sobillato dai Sanfedisti.
XVI.
ER LEGGNO PRIVILEGGIATO.
1
(9 aprile 1834)
Largo, sor militare cacarella:
2
Uprimo
3
er passo, aló,
4
ssor tajja-calli:
Chè sti nostri colori ner’e ggialli
Nun conoscheno un ca..o sentinella.
Sò Ccasa-d’Austria,
5
so’, ddio serenella!
6
Dich’e abbadat’a vvoi,
7
bbrutti vassalli,
Perch’io co’ sta carrozza e sti cavalli
Pôzzo entrà, ccasomai, puro in Cappella.
8
E ddoman’a mmatina, sor dottore,
Ciariparlamo
9
poi co’ ssu’ Eccellenza
Davant’a Monziggnor Governatore.
Guardate llí ssi
10
cche cquajja-lommarda
11
Da soverchià er cucchier
12
d’una Potenza,
E nun portà rispetto a la cuccarda!
13
1
I cocchi degli ambasciatori, ed alcuni altri, godono a Roma il privilegio di passare in ogni momento e per ogni
verso dove tutti gli altri debbono osservare delle regole.
2
Nome di sprezzo, per dare ad alcuno del fanciullo.
3
Apriamo.
4
Voce storpiata dal francese allons.
5
Sono Casa-d’Austria. I cocchieri e i servitori de’ grandi si
attribuiscono senza complimenti i nomi de’ loro padroni. Siccome poi a Roma è costume d’indicare i diversi
diplomatici col nome della potenza che rappresentano, dicendosi: sono stato da Francia; c’era Russia; è venuto
Austria, ecco il perchè un cocchiere può divenire addirittura casa-d’Austria.
6
Esclamazione.
7
E, dico, badate a
voi.
8
S’intende la cappella papale, e quel casomai vale un però contro i nostri preti, i quali volevano meglio esser
servi umilissimi dell’Austria, che liberi cittadini di nazione indipendente.
9
Ci riparliamo: cioè «Renderete conto a
sua Eccellenza il mio padrone, davanti a monsignor Governatore di Roma.»
10
Se.
11
Quaglia-lombarda:
escremento umano.
12
Cocchiere.
13
Coccarda, o, come direbbe un purista, nappa.
XVII.
LA BBATTAJJA DE GGEDEONE.
(8 dicembre 1834)
Li trescento ggiudìi de Ggedeone
Se n’aggnédeno,
1
dunque, a ffila a ffila
Armati inzin all’occhi d’una pila,
D’una fiaccola drento, e d’un trombone.
Arrivati poi llà, ccome che sfila
La truppa de li bballi a Ttordinone,
Girônno
2
tante vôrte in priscissione,
Che de trescento parzeno
3
tremila.
Quanno tutú, ttutú, lle pile rotte,
Torce all’aria, trescento ritornelli,
4
E li nimmichi ggiú ccom’e rricotte.
E mmo ttutti st’eserciti cojjoni
Invesce d’annà in guerra com’e cquelli,
Se metteno
5
a spregà ttanti cannoni!
1
Se ne andarono. —
2
Girarono. —
3
Parvero —
4
Il grido ripetuto ad un tempo dai trecento uomini: La spada del
Signore, e di Gedeone.
5
Si mettono.
XVIII.
ER PAPA A LI SCAVI.
1
(15 marzo 1836)
Bbene!, disceva er Papa in quer mascello
2
De li du’ scavi de Campo-vaccino:
Bbêr bùscio!
3
bbella fossa! bbêr grottino!
Bbelli sti serci!
4
tutto quanto bbello!
E gguardate un po’ llì cquer capitello,
Si
5
mmejjo lo pô ffa’ uno scarpellino!
E gguardate un po’ cqui sto peperino
Si
5
nun pare una pietra de fornello!
E ttratanto ch’er Papa in mezzo a ccento
Antiquarî che staveno pe’ ccorte,
6
Asternava
7
er zu’ savio sintimento,
La ggente, mezzo piano e mmezzo forte,
Disceva: Ah! sto siggnore ha un gran talento!
Ah, un Papa de sto tajjo è una gran zòrte!
8
1
Questo sonetto fu pubblicato nell’edizione del Salviucci (vol. IV, pag. 276), sostituendo la parola Duca a Papa.
2
In quel macello. —
3
Bel buco.
4
Questi selci. —
5
Se. —
6
Per fargli corte.
7
Esternava. —
8
Sorte. — Il
papa era Gregorio XVI, col quale il grande Poeta romano aveva una cordiale antipatia.
XIX.
LE TRUPPE DE ROMA.
(1837)
Che rrabbia è de sen sti forestieri
De tremmonti,
1
che, ssenz’êsse’
2
romani,
Arriven’oggi ar Popolo,
3
e ddomani
Ne sanno ppiù de li romani veri.
Vedi, dua de sti bbrutti sciarlatani
Pe’ la ppiù ccurta l’ho ssentiti jjeri
Dí’
4
mmale de li nostri bberzajjeri,
5
Civichi, Capotori
6
e Zzampoggnani.
7
Disce: «Futtre! aver nixe dissciprina».
Nun ze chiama aprí bbocca e ddàjje fiato
Er parlà a sta maggnera,
8
eh Caterina?
S’informino, canajja sscemunita!
La dissciprina, cqui, ’ggni bbôn zordato
9
Va a ddàssela
10
’ggni sera ar Caravita.
11
1
D’oltremonti.
2
Senza essere.
3
La Porta del popolo, per cui si entra in Roma dal Nord.
4
Dire.
5
Bersaglieri.
6
Capitori: truppa capitolina, composta di artieri di Roma.
7
Zambognani: del reggimento
Zamboni. —
8
A questa maniera. —
9
Soldato. —
10
Darsela. —
11
Oratorio notturno dei Gesuiti.
XX.
ER CIVICO DE CORATA.
1
(1837)
Stamo
2
immezz’a ’na macchia, Caterina,
E nnò in d’una scittà ddrent’a le mura.
T’abbasti a ddí’ cch’a Ssan Bonaventura
Me sciassartònno
3
a mmé jjer’a mmatina.
Pavura io?! de che! Ppe’ cristallina!
Un omo solo m’ha da fa’ ppavura?
M’aveva da pij senza muntura
Lui, e ppoi ne volevo una duzzina.
Quanno me venne pe’ investí, me venne,
4
Io pe’ la rabbia me sce fesce
5
rosso;
Ma ccosa vôi!
6
nun me potei difènne’.
7
E archibbuscio, e ssciabbola, e bbainetta!...
Co’ sta bbattajjerìa
8
d’impicci addosso,
Com’avevo da fa’, ssi’
9
bbenedetta?
10
1
Coraggioso.
2
Stiamo.
3
Mi ci assaltarono.
4
La variante popolare è più naturale: Quanno me venne
p’assartà, me venne.
5
Mi ci feci.
6
Vuoi. —
7
Difendere.
8
Con questa batteria, quantità.
9
Che tu sia,
ec. —
10
Questo sonetto fu pubblicato nella raccolta del Salviucci (vol. IV, pag. 357), e porta la data del 25 Aprile
1837; laonde è chiaro che si riferisce alla guardia civica di quel tempo, e non a quella del 1848, come
comunemente si crede. Il Belli, secondo che noi abbiamo dimostrato, si tenne nel più assoluto riserbo durante gli
avvenimenti del ’48 e del ’49. Tuttavia è probabile che questo sonetto tornasse alla mente dei più, nel vedere la
grave uniforme della guardia civica del 1848.
XXI.
ER CIVICO DE GUARDIA.
1
Chi evviva? Chivvalà? Pss, ssor grostino,
2
Nun ze risponne ppiù a la sentinella?
Voi volete finí dde bévve’ vino.
Ve dico chivvalà, Ddio serenella!
3
Chi evviva?... ah, ssete voi, mastro Grespino?
Che! ve puzzeno sane le bbudella?
Eh, ssi avevo la pietra all’acciarino
Un antro po’ vve la fascevo bbella!
Cuanno la guardia dar zu’ posto v’urla,
Risponnete: si nno, vvienissi l’orco,
Cquà sse tira de netto, e nnun ze bburla.
Ma Ddioguardi lo schioppo me fa ffôco,
Co’ sto vostro sta’ zitto eh nun ve córco?
Bella cazzata de morí ppe’ ggioco!
1
Questo sonetto e l’altro che viene dopo, già stampati nell’edizione romana, furono scritti nel 1831, e li mettiamo
qui come in appendice al Civico de corata. A far poi conoscere che razza di milizia civica fosse quella che il
Belli metteva tanto spietatamente in ridicolo, gioverà leggere un passo del manifesto indirizzato da papa
Gregorio a’ suoi dilettissimi sudditi, il 5 aprile 1831, appena li Austriaci ebbero soffocati i primi moti liberali
delle Romagne. Ecco le parole del Papa: «Ma se colla sincerità di riconoscenza la più viva ravvisiamo
nell’Imperiale Reale Esercito Austriaco quelle elette schiere di Prodi, alle quali volle Dio riservato il trionfo
sopra la perversità de’ rivoltosi, e con esso l’onore di rendere i suoi Stati alla Santa Sede, coronando con sì felice
successo gl’impulsi incessanti di quella Religione purissima, che forma il più bell’elogio dell’Augusto e Potente
loro Signore Francesco I, al quale indelebile gratitudine ci legherà perpetuamente; gloria sia pure e lode a quegli
onorati cittadini, che riunitisi premurosi in Milizia Civica vegliarono indefessi sotto le armi, e fra i travagli di
servizio il più stretto, alla salvezza della nostra persona, ed alla quiete di questa Città.» —
2
Nome di spregio. —
3
Esclamazione comunissima.
XXII.
ER CIVICO AR QUARTIERE.
Buggiaràlle, perdio, chi ll’ha inventate
St’armacciacce da fôco bbuggiarone,
Che ggià de scerto furno aritrovate
Co’ un po’ de patto-tascito a Pprutone.
Sor zargente, nun fâmo
1
castronate:
Cuanno che mme mettete de piantone,
O ccapateme
2
l’arme scaricate,
O ar piuppiù ssenza porvere ar focone.
Cortello santo! Armanco nun è quello
Vipera da vortàsse
3
ar ciarlatano!
4
Pe’ mmé, vviva la faccia der cortello!...
Lo scanzate quer buggero, eh sor Pavolo?
Nun ze pô mmai sapé co’ st’arme in mano!
E ppô a le vôrte caricàlle er diavolo.
1
Facciamo. —
2
Capatemi: sceglietemi: dal latino capere, che aveva anche il significato di scegliere. —
3
Voltarsi.
4
Modo proverbiale.
XXIII.
ER CONGRESSO TOSTO.
1
(2 ottobre 1835)
Tutti quanti a Ppalazzo lo vederno.
2
Un gran ministro d’una gran Potenza
3
Venne a Rroma a pparlà cco’ ssu’ Eminenza
Er Zegretar-de-Stato de l’isterno.
Er Cardinale preparò un quinterno
De carta bbianca, eppoi je diede udienza;
E cce tenne una gran circonferenza
4
Sopra a ttutti l’affari der governo.
Tra llôro se
5
trattò dder piú e der meno;
E scannajjòrno
6
l’ummido e l’asciutto,
Er callo e ’r freddo, er nuvolo e ’r zereno.
Arfine er Cardinale uprí la porta,
Discenno:
7
— Evviva, è combinato tutto:
Ne parleremo mejjo un’antra vôrta.
8
1
Il congresso importante. —
2
Lo videro. —
3
Il conte di Rigny, Ministro della marina di Francia. —
4
Conferenza.
5
Si. —
6
Scandagliarono. —
7
Dicendo. —
8
Un’altra volta.
XXIV.
LA RISPOSTA DER GIUDICE PROCESSANTE.
(1835)
L’unniscèsima vôrta ch’io sciaggnéde,
1
Ebbe
2
arfine la grazzia de l’udienza;
E cche vôi!
3
ner trovàmmeje
4
in presenza,
Fui llì llì cquasi pe’ bbasciàjje er piede.
Poi je disse:
5
Lustrissimo, Eccellenza,
Nassce de cqui ffin qui, ccome pô vvéde’
6
Dar momoriale, che ppô ffàjje fede
7
De la ggiustizzia a scàpito innoscenza.
8
Lui stava quieto, e io: — Dov’è er dilitto?
C’ha ffatto er fijjo mio? Fôra le prove:
Nun parlo bbene? E lui se stava zitto.
Ner mejjo der discorzo, er carzolaro
Venne a pportàjje un par de scarpe nove,
E mme mannòrno
9
via com’un zomaro.
1
Che ci andai.
2
Ebbi.
3
Vuoi.
4
Nel trovarmigli. —
5
Gli dissi.
6
Può vedere.
7
Può fargli fede.
8
Ex capite innoceatiæ. —
9
Mi mandarono.
XXV.
LE GABBELLE DE LI TURCHI.
(1836)
Un tar munzú Ccacò, cch’è un omo pratico,
E Ddio solo lo sa cquanti n’ha spesi
Pe’ vviaggià ddrent’ar reggno musurmatico,
Dove nun ce commànneno Francesi;
Ricconta che in sti bbarberi paesi
’Ggni sei mesi sc’è un uso sbuggenzatico,
1
Che sse paga sei mesi de testatico
Pe’ pprologà
2
la vita antri sei mesi.
Dunque, disce er Francese, che ssiccome
Ar re che li governa indeggnamente
3
Nun j’amanca de turco antro ch’er nome,
C’è ggran speranza che jje vienghi
4
in testa
De métte’ sopra er fiato de la gente
’Na gabbella turchina uguale a cquesta.
1
Sgarbato, incitativo.
2
Per prorogare.
3
Espressione ironica di tal quale umiltà, di cui si fa molto uso.
4
Gli venga.
XXVI.
L’INCONTRO DER BECCAMORTO.
(21 gennaio 1843)
— Padron Zanti…
1
me sbajjo? — Oh ssor Pasquale! —
Filiscia
2
notte. — Grazzie: bbôna sera.
Che n’è de tu’ fratello? Sta in galera.
Poveraccio! E ttu’ mojje?— A lo spedale.
Vanno bbene l’affari? — Ah! vvanno male. —
E da quanno? — Dar tempo del collèra.
Ma ssento vojji aritornà.
3
— Se spera.
Me l’ha ddetto un dottore. — E a me un spezziale.
Quanti sta sittimana? — Eh! appena dua.
E ll’antra?
4
— S’annò llisscio.
5
— E ll’antra avanti?
Uno, madètta
6
l’animaccia sua! —
E ttu mmuta parrocchia. — È tempo perzo.
7
Ma er curato che ddisce, padron Zanti?
Disce quer che ddich’io: sémo a traverzo.
8
1
Colla z aspra, come in prezzo. Sante, nome proprio.
2
Felice.
3
Sento che voglia ritornare. La variante
popolare è più naturale: Disce che vojji aritornà.
4
E l’altra?
5
Si andò liscio: non si fece nulla. Metafora
tolta dal gergo del giuoco delle boccie.
6
Maledetta. La variante popolare ha mannàggia.
7
Perduto.
8
Siamo a traverso.
XXVII.
ER TESTAMENTO DE PAPA GRIGORIO.
(1846)
Papa Grigorio è stato un po’ scontento;
Ma ppe’ vvisscere poi, ma ppe’ bbôn core,
Ch’avesse in petto un cor da imperatore,
Ce l’ha fatto vedé ner testamento.
Nu’ lo sentite, povero siggnore!,
Si cche ccojjoneria d’oro e dd’argento
Ha mmannato sopr’acqua e ssopr’a vvento
1
A li nipoti sua, pe’ ffàsse onore?
Eppoi doppo sc’è
2
ll’antro contentino
3
De tutte le mijjara ch’ha llassato
Tra bbajjocchelle
4
e robba, a Ghetanino.
5
E ’r credenziere? (Mica sò ccarote!)
Ventiseimila scudi ha gguadaggnato,
Sortanto a vvetro de bbottijje vôte.
6
1
Come dicesse: per mare e per terra: con una rapidità quasi diabolica; essendo che la frase è tolta dalla nota
formula di scongiuro delle streghe al diavolo: «Sopr’acqua e sopra vento, portami alla Noce di Benevento.» —
2
C’è.
3
L’altra bagattella, detto ironicamente.
4
Danari.
5
Gaetano Moroni, la moglie del quale si diceva
per Roma avesse segreti negozii col Papa.
6
È noto che Gregorio XVI aveva l’abitudine di alzare un po’ troppo
il gomito.
XXVIII.
PELA MORTE DE PAPA GRIGORIO.
1
(1846)
Fr…a! a cche ttempi sémo, sor Cremente!
Se nega er zole!
2
Basti a ddì’, cche cc’era,
Doppo morto Suarfa
3
l’antra sera,
Chi ha detto: «A Rroma nun j’importa ggnente!»
E lo sciamanno
4
ar braccio der tenente?
E in der Cracàsse
5
la striscetta nera?
E Pallacorda ch’ha ffatto moschiera?
6
E ar pallone
7
che ppiù nun ce va ggente?
E li tammùrri cor farajoletto?
8
E le tromme che ssòneno a scorregge?
9
Ce vô deppiù pp’addimostrà l’affetto!?
Ma pperò, ffa er dolore meno amaro
Er penzà che pp’er papa che s’elegge
Sce so’ ttanti Grigorii ar piantinaro!
10
1
A meglio intendere questo sonetto, giova ricordare che il Governo pontificio, quando muore il papa, impone un
lutto ufficiale non solamente a’ suoi impiegati, ma anche a’ fedelissimi sudditi. Ordina la chiusura di tutti i teatri
(senza credersi obbligato per questo a compensar dei danni gl’impresari): sospende per parecchi giorni ogni altro
pubblico divertimento, e fa suonare a morto tutte le campane dello Stato. — S’immagini ognuno il parapiglia che
succede, se un papa si fa lecito di morire durante il carnevale! Allora che i sudditi, e particolarmente le
sudditesse, lo piangono di cuore. Leone XII morì appunto sul più bello del carnevale, e i Romani, non potendo
divertirsi altrimenti, sfogarono la stizza con questo epigramma:
«Tre dispetti ci hai fatto, o Padre santo:
Accettare il papato, viver tanto,
Morir di carneval per esser pianto.»
2
Nota la vivacità e l’efficacia di codesta frase.
3
Suarfa, detto anche Sualfa dalle persone meno idiote, è il nome
con cui per ispregio si designano tutte le autorità abborrite, e sta in luogo di Sua Maestà, Sua Altezza, Sua Eccellenza, e
simili. Qui significa il Papa. Può darsi che questo vocabolo abbia una qualche parentela coll’Alfa, prima lettera
dell’alfabeto, presa nel senso di anteriore a tutti, soprastante, principale.
4
Il lutto: e pspesso dicono sciamanno a
uno straccio grande o piccolo, a uno scialle malandato, e simili. Donde le voci: sciamannato (sconcio negli abiti e nella
persona), sciamannone e sciamannarsi, proprie anche della lingua comune.
5
Fin dal 1716, si chiamò comunemente
Cràcas, e dai popolani Cracàsse il Diario ordinario d’Ungheria, dal nome di Luca Antonio Cracas, o Chracas, che ne
fu il fondatore, e che lo pubblicava coi tipi del fratello Giovanni Francesco Cracas, il quale teneva stamperia presso san
Marco al Corso. Scopo di cotesto giornaletto era allora di ripubblicare le notizie che ufficialmente riceveva da
Vienna intorno alla guerra di Ungheria, che si combatteva dal principe Eugenio di Savoia per l’imperatore Carlo VI,
contro Acmet III. Il primo numero, in piccolissima forma, us il 5 agosto 1716. Finita la guerra, continuò le sue
pubblicazioni col titolo di Diario di Avvisi, e pare che sin d’allora diventasse giornale ufficiale del Governo. Nel 1808
prese il nome di Diario di Roma. Col primo numero del 1837 comparì in foglio grande. Nel 1849, il Governo
repubblicano lo intitolò Monitore Romano, per far la scimmia ai Francesi. Pio IX, dopo il ritorno da Gaeta, lo ribattezzò
col nome di Giornale di Roma, che serba tuttavia. Pare anche che per un certo tempo si chiamasse Gazzetta di Roma.
Ma il popoletto non tenne conto di tutti questi battesimi, e lo chiamò sempre, e lo chiama anche oggi Cràcas o
Cracàsse. Di tal guisa, quel buon uomo di Luca Antonio passa alla posterità collo scappellotto; e sempre bisognerà
sciorinare tutti questi cenci d’erudizione, per far capire come il verso di Belli: «E in der Cracàsse la striscetta nera?»
significhi: «E la striscia nera messa per la morte del Papa nel giornale ufficiale?» Non sarà inopportuno lo avvertire che
il popolo chiamò, e chiama tuttora, Cràcas, anche una specie d’Almanacco statistico-amministrativo, che sotto il titolo
di Notizie annuali di Roma, si cominciò a pubblicare dalla Tipografia Cracas.
6
Il Teatro Metastasio, che, come tutti
gli altri, si chiuse per lutto legale; quindi il popolo diceva: ha fatto moschiera, ha fatto mosca, ossia: «ha fatto silenzio,
ha taciuto.» Fate mosca, per fate silenzio, lo dicono anche i meno idioti. Moschiera per mosca si dice però solo in senso
traslato come qui, non sempre.
7
Al giuoco del pallone all’Anfiteatro di Corèa; ora più spesso a Campovaccino.
8
Coperti di gramaglia. Farajoletto è il mantellino lungo nero, che portano i preti sopra il soprabito.
9
Anche i
trombettieri della soldatesca pontificia avevano, per la morte del papa, una suonata funebre, a lenti e lunghi squilli, come
per imitare voci gementi e lamentevoli. A tale suonata il popolo trovò per similitudine (Ahi! parlo, o taccio?) il suono
dei peti, che diconsi comunemente scorregge quando son rumorose, e loffe quando escono a chetichella.
10
Piantinaro, da piantine, piccole piante, equivale al latino viridarium, al toscano piantonaio, e all’umbro pàstine. Con
ciò è chiarito il significato sarcastico dell’ultima terzina: «Ogni cardinale è una certa pianta, cui per diventare albero
come fu Gregorio, non manca che di venir trapiantata sulla sedia papale. Laonde consoliamoci della morte di Gregorio,
perchè il nuovo papa, chiunque esso sia, gli rassomiglierà perfettamente.»
XXIX.
L’ANIMA DE PAPA GRIGORIO.
1
(1846)
Stese appena le scianche
2
er zor Grigorio,
Che l’anima jj’uscì dar peparone,
3
E senza toccà manco er Purgatorio,
Annò der Paradiso in der portone.
— Ah
4
Pietro! — Oh! M’arillegro e me ne grorio.
5
Opri tu, ch’hai le chiave e ssei er padrone. —
Èccheme,
6
e ffàmme strada ar rifettorio.
7
Bè? opri! — Ah Pietro mio, nun jje la fône! —
Va là, riprova. — Gnente! — Ar buscio drento
C’è cquarche cosa? — Gnente! — Hai bbè sgrullato?
8
Sine: e nun z’opre! — Dàlle qua un momento. —
Tièlle. — Ruzze, e la mappa nun cunvina!…
9
Che strumenti so’ cquesti ch’hai portato? —
Oh bbuggiarà! le chiave de cantina. —
1
Questo sonetto, divenuto popolarissimo in grazia della vivacità della chiusa, la quale gli copre parecchi difetti,
non è del Belli. Ad intendere la satira che racchiude, gioverà ricordare che Gregorio XVI aveva fama di uomo cui
piacesse mangiar bene e bever meglio.
2
Gambe.
3
Naso grosso.
4
Esclamazione vocativa che tiene il
luogo di o, e che si pronunzia molto aperta.
5
Il romanesco vero avrebbe detto grolio.
6
Eccomi; cioè:
eccomi pronto ad aprire.
7
Gregorio era stato frate.
8
Sgrullare vale sbattere. Si sgrullano i panni
impolverati, i tovaglioli, ecc., e così le chiavi femine, per farne uscire quel che potesse essersi introdotto nel
buco. —
9
Combina.
XXX.
SÌCCHE ITURE ADDÀSTRA.
1
Er chirichetto appena attonzurato,
2
Penza a ordinàsse prete, si ha ccervello;
Er prete penza a ddiventà pprelato;
Er prelato, se sa,
3
penza ar cappello.
Er cardinale, si ttu vvôi sapéllo,
4
Penza ’ggnisempre
5
d’arivà ar papato:
Er papa, dar zu’ canto, poverello,
Penza a ggòde’
6
la pacchia
7
ch’ha ttrovato.
Su l’esempio de st’ottime perzone,
8
’Ggni giudisce, impiegato, o militare
Penza a le su’ mesate e a le penzione.
Chi pianta l’arbero, penza a li frutti.
9
Qua inzomma, pe’ rristriggnere l’affare,
10
Oggnuno penza a ssè, Ddio penza a ttutti.
1
Sic itur ad astra!
2
Tonsurato.
3
Si sa: è noto.
4
Se tu vuoi saperlo.
5
Ogni sempre.
6
Godere.
7
Pacchia, «lieto vivere, il mangiare e ber bene senza pensieri.» Così il Fanfani, nel Vocabolario dell’uso toscano:
e aggiunge che è voce di uso comune per molti luoghi di Toscana.
8
Variante: Su l’esempio de tutte ste
perzone. —
9
Questo verso è un modo proverbiale, e v’hanno testimonianze non dubbie che fu proprio messo così
dall’autore. Dalla maniera di pronunziarlo dipende il far meno sensibile il difetto di accento.
10
Ristriggnere
l’affare vale: Restringere, far breve il discorso. A proposito di questa frase, l’egregio amico prof. F. Santini mi
scriveva: «Il popolo romano non compie mai nel discorso l’infinito dei verbi, salvo quando vuol parlare con
affettazione satirica, con un’aria di caricatura. Quindi a queste parole pe’ rristriggnere l’affare, dobbiamo
immaginarci di vedere il popolano, che sollevando meglio la persona, e aggrottando le ciglia, per conciliarsi
meglio l’attenzione di chi lo ascolta, comincia a mentire un linguaggio dottorale per isputare una grande
sentenza; della quale egli stesso si ride in segreto.»
XXXI.
LI COLLARINI.
Quanno avevo da métte quer rigazzo
Pe’ cchirico a Ssan Chirico e Ggiuditta,
1
Fesci
2
ar barettinaro: Padron Titta!
Ciavete
3
un collarino da strapazzo?
4
Lui opre la vetrina de man dritta,
E mme dà un collarino pavonazzo.
Dico: — Eh sto coso, nun me serv’a un ca..o:
Lo vojjo nero, sor faccia affritta.
5
Nero? Sapete mo quanto ve costa!?
Neri, a sti tempi, indóve li trovate?
Li neri, mo, bbisoggna fàlli apposta.
Mo nun ze
6
fanno ppiù de sto colore,
Perché adesso oggn’abbate, appena è abbate,
È abbate ippisi-fatto
7
e mmonziggnore. —
1
San Quirico e Giuditta, chiesa di Roma. —
2
Dissi. —
3
Ci avete. —
4
Da portarsi ogni giorno, da non tenersi da
conto. —
5
Afflitta. —
6
Si. —
7
Ipso facto.
XXXII.
ER CARDINALE VERO.
Naturarmente
1
è ccosa naturale,
E bbasta a ddajje ’na squadrata addosso,
2
Pe’ ppoi descìde’
3
da tutto cuer rosso,
Che ssu’ Eminenza è ppropio un cardinale.
E ggnisuno sarà ttanto stivale
Da scannaj ’na bbruggna inzin’all’osso,
Pe’ ppoi sartà cco’ ssicurezza er fosso,
E ddescìde’: è er tar frutto o er frutto tale.
4
Fin che ddunque ha er color de peparoni,
E scarrozza a ssan Pietro in Vaticano,
È un cardinal co’ ttanti de
5
cojjoni.
Metteje
6
poi ’na mazzarella in mano,
Dàjje ’na camisciòla
7
e ddu’ scarponi,
E allora te dirò: «quest’è un villano».
1
Naturalmente.
2
Basta dargli un’occhiata.
3
Decidere.
4
Ecco il senso della seconda quartina: «Nessuno
sarà tanto sciocco (stivale), da volere esaminar minutamente (scandagliare) una prugna sino al nòcciolo (osso),
per poi giudicare con sicurezza (sartà co’ sicurezza er fosso), e decidere: è il tale o tal altro frutto; potendo bene
riconoscerlo a prima vista dalla forma esteriore.»
5
Con tanto di.
6
Mettigli.
7
Chiamano camisciòla una
sorta di giacchettina, tanto corta, che arriva appena alla cintura. Un tempo la portavano non solo i villani, ma
anche tutti i romaneschi veri: ora è andata in disuso insieme con que’ brutti calzoni a campana, stretti al
ginocchio e larghi a’ piedi.
XXXIII.
ER RITRATTO DER CARDINALE.
Da cuer pittore (ggiù ppe’ lo stradale
Fra ssant’Iggnazzio e ’r Culleggio romano),
Che pe’ arme
1
e rritratti è ’n artiggiano,
Ch’in tutta Roma nun ze dà
2
ll’uguale;
Jeri sce stava in mostra un cardinale,
E sse scopriva un bôn mijjo lontano
Da la mozzetta de scarlatto, e in mano
Er zolito spappié
3
der mormoriale.
4
Io m’accosto ar pittore e lo saluto;
Dico: — Perché sto coso senza testa?
Disce: —Je ll’ho rraschiata e jje la muto. —
Allora un pasticcetto
5
co’ li guanti
Disce: Lo lassi sta senza di questa,
Perché accusì si rassomijja a ttanti!
1
Armi: stemmi gentilizi. —
2
Si trova.
3
Dal francese papier. Su questa parola, l’ottimo amico mio prof. F.
Santini, mi mandava le seguenti avvertenze: «Non faccia meraviglia di trovare dove scritto papié o pappié, e
dove spappié. Il popolo romano aggiunge e toglie lettere a modo suo, secondo che voglia dar più o meno aria di
caricatura alle cose. Qui alla caricatura, in quell’s, v’è aggiunto anche il dispregio, che per essere gustato nella
sua intierezza, bisognerebbe fosse veduto in bocca di uno di quel popolo, nell’atto che lo pronunzia; e sentito
quell’empiere della bocca, e ripercotere dell’aria fra gli organi gutturali e nasali, e l’allungare d’una vocale,
secondo che più o meno si voglia schernire o gli uomini o le cose. Così nessuno potrà mai significare con
avvertimenti o annotazioni la pronunzia di quel moecco per baiocco; nè lo strisciare del ce segnato dal Belli; col
sce, il quale sce porta nella pronunzia usata da noi italiani, un suono duro, che è ben altro da quello strisciare
piano e corrente, senza appoggiatura, de’ romaneschi.»
4
È vero che cardinali e papi si fanno per lo più
ritrattare con un memoriale in mano: ridicola usanza, che mostra in costoro la boria di far pompa della propria
grandezza. Certo non la pensava così, Chi disse che quando si benefica, la mano sinistra non deve vedere ciò che
fa la destra; ma i preti, anche in effige, hanno trovato modo di rinnegare il Vangelo. —
5
Zerbinotto.
XXXIV.
LA SONNAMBULA.
1
Io che sso’ vecchio e ssempre ho visto, fijja,
Come vanno le cose de sto monno,
Io, co’ sti casi, nun me sce confonno;
E nun me fanno un ca..o maravijja.
Questa è ’na mmalatia che a cchi jje pijja,
Lo fa ddiscùrre’,
2
e nun je roppe
3
er zonno;
E cce so’ ttanti che, ddormenno pônno
4
Fa’ ’ggni faccenna e ccamminà le mijja.
Dunque nun c’è ggnisuna inconcrudenza,
5
Si sta regazza, in ner pijjàjje
6
er male,
Parla e rrisponne
7
come ’na sentenza.
8
Io ho sservito tant’anni un cardinale,
Che in oggni venardì che ddava udienza,
Risponneva dormenno tal’e cquale!
1
Un vecchio avendo condotta la figlia al teatro, dove si rappresentava la Sonnambula, tornando a casa, cerca di
spiegare alla ragazza il fenomeno del sonnambulismo. La gravità che assume, fa un ridicolo contrasto cogli
spropositi che dice; e tutto il sonetto è d’una naturalezza veramente meravigliosa. Molti lo stimano il capolavoro
di Belli.
2
Variante: Nun je dà frebbe.
3
Rompe. —
4
Possono.
5
Inconcludenza: non c’ è niente di strano.
6
Nel pigliarle: quando la prende il male.
7
«Dicono risponne e arìsponne. Queste varianti del dialetto
romanesco mi pare che possano accennare a quello sparire e confondersi che da trent’anni va facendo il dialetto
stesso con la lingua nobile; giacchè alcuna di esse varianti si va raccostando alle regole; e dove prima nessun
Trasteverino avrebbe detto risponne in luogo del paesano arisponne, ora dallo stesso risponne, che è ben
frequente, il popolo passa molto spesso al risponde. Con lo smettersi di quella brutta giacchettina, chiamata da
loro camisciòla, e dei bruttissimi calzoni a campana, i Romani hanno cominciato a scordare il dialetto. E il Belli
venne a tempo per levargli l’unico monumento degno di restare.» (Da una lettera dell’amico Santini).
8
Variante: Che sta rigazza in ner pijjàjje er male, Parli e risponna come ’na sentenza.
XXXV.
ER CONCRAVE DE ROMA.
Er Concrave de Roma, mastro Checco,
Tu lo chiami er pretorio de Pilato.
1
Senti mo in che maggnéra
2
io l’ho spiegato,
E ccojjóneme poi si nun ciazzecco.
3
A mme ttutto st’imbrojjo ingarbujjato
Me pare un gioco-lisscio
4
secco secco;
Ché cqua ttutto lo studio è dd’annà ar lecco,
Là ttutto er giro è dd’arrivà ar Papato.
Duncue ’gni eminentissimo è ’na bboccia,
Che ss’ingeggna
5
cqua e llà, cor piommo o senza,
6
De ficcàcce, si ppô, la su’ capoccia.
7
Finchè cc’è posto de passà ffra er mucchio,
Se prova de fa’ er tiro e cce se penza;
Sinnò sse zompa e ss’aricorre ar trucchio.
8
1
Dove Gesù udì la sentenza di morte. —
2
Maniera. —
3
Ci azzecco, c’indovino. —
4
Chiamano così il giuoco alle
boccie, o palle di legno.
5
Una variante ha: sse studia.
6
Qualche volta usano metter del piombo dentro le
palle di legno, per farle più pesanti e più adatte al giuoco. Qui, col piombo o senza, pare che valga,
metaforicamente, in un modo o nell’altro, o forse: coll’inganno o senza.
7
Variante: De ficcàcce, si ppôle, la
capoccia.
8
Il senso proprio dell’ultima terzina è questo: «Finchè c’è posto da passare fra ’l mucchio delle
boccie per avvicinarsi al lecco, si prova di fare il tiro, e prima ci si pensa bene; se non c’è posto, si trucchia, cioè
si cacciano via le altre boccie colla propria.» Se zompa indica, probabilmente, quel mezzo salto che fa il
giocatore, pontando il piede destro e spingendo avanti il sinistro, mentre scaglia la propria boccia contro un’altra.
Trucchio è precisamente il trucciare, che dal popolo dicesi trucchiare: donde abbiamo, nel traslato, trucchiatore
e trucchio, per truffatore e truffa: voci usate anche nell’Umbria. Dopo ciò, è agevole a capirsi la metafora chiusa
in questi tre versi.
XXXVI.
L’INCURONAZZIONE DER PAPA.
M’aricòrdo
1
quann’ero regazzino
Ch’aggnédi
2
a vvéde l’incuronazzione,
Che ffanno ar Papa sotto ar bardacchino,
3
A ssan Pietro, lassù nner finestrone.
E mm’aricòrdo puro,
4
Ggiuacchino,
Che cquanno je coprirno
5
er cocciolone,
6
Io dissi a ’n omo granne llì vvicino:
7
— E cche jje fanno mo, cco’ cquer pilone?
8
Lui m’arispose:Oggi, in de sta
9
festa,
Ar zolito je fanno un comprimento;
10
E lla raggione ggià sse sa ch’è cquesta:
Che mmo, co’ cquelo straccio de strumento,
11
Che jj’incàrcheno
12
bbene in de la testa,
Je danno, fijjo mio, l’intontimento.
1
Mi ricordo che. —
2
Andai. —
3
Baldacchino. —
4
Pure. —
5
Coprirono. —
6
Testa, zucca.
7
Che stava vicino a
me.
8
Con quel pilone: chiama così il triregno per la somiglianza che ha con una grossa pentola, che a Roma
dicesi pila, pilone.
9
In questa.
10
Complimento.
11
Co’ cquelo straccio de strumento, «con quel grosso
negozio» (il triregno). —
12
Gl’incalcano.
XXXVII.
LA PRIMA BBINIDIZZIONE PAPALE.
Dicheno
1
che ’na vôrta
2
un papa novo,
E cche dder monno nun capiva ggnente,
Quanno de su la loggia
3
come un ovo
Vedde la piazza piena a llui presente;
Disce che sse vôrtasse ar maggiordovo,
4
Strillanno: — Pe’ Ddio-padre-onnipotente!
Che ssubbisso de popolo cqui ttrovo!
E ccome fa a mmagnà tutta sta ggente? —
Un cardinale che jje stava accanto,
Je disse co’ rrispetto e ddevozzione:
— Uno buggera l’antro, Padre santo.
Allora lui, co’ ppochi sârti e bbrutti,
5
Disse, danno la su’ bbinidizzione:
— E nnoi, ccusì, lli bbuggiaramo tutti! —
1
Dicono.
2
Una volta.
3
La loggia del Vaticano, sulla piazza di San Pietro.
4
Maggiordomo.
5
Con
pochi salti e brutti, cioè alla spiccia, alla lesta. Credo che questo verso non sia del Belli; ma per quante ricerche
abbia fatte, non m’è riuscito di trovare una lezione migliore.
XXXVIII.
L’UCCUPAZZIONE DER PAPA ONA VITACCIA DA CANI.
Ah! nun fa ggnente er Papa? ah! nun fa ggnente?
Ah! nun fa ggnente lui, brutte marmotte?
Accusí vve pijjàsse ’n accidente,
Com’er Papa fatica e giorno e nnotte!
1
Chi parla co’ Ddio-padre-onnipotente?
Chi assòrve
2
tanti fijji de miggnotte?
Chi vva in carrozza a bbenedì la ggente?
Chi mmanna fôra l’innurgenze a bbótte?
3
Chi jje li conta li cudrini
4
sui?
Chi l’ajjuta a ccreà li cardinali?
Le gabbelle, perdio!, nu’ le fa lui?
E cquell’antra fatica da facchino
De strappà ttutt’er giorno i momoriali,
5
E bbuttà li a ppezzetti in ner cestino?
6
1
Dicono che l’autografo avesse il verso così: Ah! sse chiam’ozzio er suo, brutte marmotte? E il 4°: Pe’
cquanto lui fatica e ggiorno e nnotte, ovvero: Come lui se strapazza giorno e nnotte.
2
Assolve.
3
Variante:
E cchi vve manna l’indurgenze a bbótte?
4
Quattrini.
5
Memoriali, suppliche.
6
Variante: E bbuttàlli a
ppezzetti in ner cestino?
XXXIX.
ER CONCIASTORO.
1
Disce c’a ssentì er Papa in Conciastoro,
Quanno sputa quarc’antro cardinale,
Ce sarebbe da fàcce un carnovale
Da vénne li parchetti a ppeso d’oro.
2
Principia a inciafrujjà
3
cche ppe’ ddecoro
De tutto cuanto er monno univerzale,
Vorrebbe dà’ er cappello ar tale e ar tale…
E llì aricconta le prodezze loro.
Ariccontate ste prodezze rare,
Passa a ddí’: —Vvenerabbili fratelli!
Je lo volémo dà? cche vve ne pare?
Detto accusí, ssenz’aspettà cche cquelli
Je mettino la bocca in ne l’affare,
Vôrta
4
er culo, e spidisce li cappelli.
1
Questo sonetto è storia. A’ primi tempi della Chiesa; il Concistoro de’ cardinali aveva grandissima autorità, e si
riuniva più volte alla settimana per disbrigare le faccende spirituali non meno che le temporali. A lungo andare,
non v’ha dubbio che il Concistoro avrebbe annullato l’autorità papale, come i magnati polacchi annullarono
quella regia, e i patrizi veneti quella del doge; ma i papi se ne accorsero in tempo, e lo esautorarono a poco a
poco, spergiurando a modo loro le antiche costituzioni della Chiesa. Quando oggi si riunisce per l’elezione de’
nuovi cardinali, il Papa espone i nomi e i meriti de’ candidati, e pronunzia la vecchia formola: «Venerabiles
fratres! quid vobis videtur?» ma non aspetta risposta; perchè ha già stabilito a suo piacimento le elezioni, e i
cardinali non hanno alcun diritto di opporsi a’ suoi voleri.
2
Come se si dovesse assistere a uno spettacolo
straordinario in teatro. Una variante dice: È ppropio na commedia, un carnovale, Da pagà li parchetti a ppeso
d’oro.
3
Inciafrujjare vale imbrogliare, e nel traslato, come qui, «discorrere senza capo coda, per dar a
vedere lucciole per lanterne.» La variante popolare ha: Cumincia a spanpanà che ppe’ ddecoro.
4
Volta.
XL.
ER DISPOTISMO.
1
C’era ’na vorta un re, che ddar palazzo
Mannò ffôra a li popoli st’editto:
Io so’ io, e vvoi nun zéte
2
un ca..o,
Sori
3
vassalli bbuggiaroni, e zzitto!
Io fo ddritto lo storto, e storto er dritto:
Pôzzo vénneve
4
a ttutti a un tanto er mazzo;
5
Io, ssi vv’impicco nun ve fo strapazzo,
Chè la vita e la robba io ve l’affitto.
Chi àbbita a sto monno senza er titolo
6
O de papa, o de re, o dd’imperatore,
Cuello nun pô avé
7
mmai vosce in capitolo.
Co st’editto, annò
8
er bojja pe’ ccuriero,
A interrogà la ggente in zur tenore,
9
E arisposeno tutti: È vvero, è vvero!
1
Il dispotismo. —
2
Siete. —
3
Signori. —
4
Posso vendervi. —
5
A un tanto al mazzo: come gli zolfanelli; e l’han
fatto pur troppo migliaia di volte! —
6
La variante popolare dice: Chi nnasce in cuesto monno senza er titolo.
7
Non può avere. —
8
Andò. —
9
Sul proposito. Una variante di questo verso suona cosi: Interroganno tutti in zur
tenore.
XLI.
LA COLETTA PER TEMPO BBONO!
1
Eppoi se disce
2
un pover’omo è strano!
Ma pperché annàmo
3
a cojjonà li santi?
Io, pe’ nnun dàlla
4
vinta a sti bbirbanti,
Vorebbe che ppiovesse un anno sano.
5
Mo cce
6
er zole,
7
e mo la pioggia ar grano;
E tutto come vônno
8
li mercanti:
9
Er Padreterno, pe’ ddà’ ggusto a ttanti,
Dovrebbe sta’ ccor Barbanera
10
in mano!
Poi cuanno l’hann’avuta a mmodo loro,
T’appòggeno dde posta cuarche mmiffa,
11
E sse vénneno
12
er grano a ppeso dd’oro.
Dunque: o è ’r Ziggnore che cce dà li guai
O sinnò ciarrimedia
13
la tariffa,
14
E un po’ dde caristia nun manca mai!
1
La collètta pel tempo buono. È noto che in tempi di soverchia pioggia o di siccità, i preti costumano questuar
danaro per la celebrazione di tridui e d’altre funzioni religiose, affinchè Domineddio mandi un tempo più
propizio alle mêssi. —
2
Si dice che.
3
Andiamo.
4
Darla.
5
Intero.
6
Ora ci vuole, ci bisogna.
7
Il
sole. —
8
Vogliono. —
9
Mercanti di campagna, traffichini del bestiame e de’ cereali.
10
Famoso lunario. —
11
Ti sballano di botto qualche bugia: per esempio, che il grano si tarla, che la grandine ha fatto guasti, ecc.
12
Vendono. —
13
Ci rimedia, ci ripara. —
14
La tariffa del prezzo delle grascie.
XLII.
’NA BBONA RAGGIONE.
Cor gruggno a la ferrata de la posta
Strillavo: — Arfonzo Ceccarelli e intanto
Un abbataccio che mme stava accanto,
Me sfraggneva cor gommito ’na costa.
Io me storcevo, e armeno er prete santo
M’avesse detto: nu’ l’ho ffatto apposta.
Ggnente: lui llì cco’ la su’ faccia tosta
M’arepricava
1
er recipe ’gni tanto.
Ie faccio arfine: Eh ssor abbate, ca..o!...
Disce: Silenzio! Che ssilenzio, (dico);
Chi ssete voi? Disce: So’ dde Palazzo!
2
Capischi? Se ne venne co’ le bbrutte!…
Sò de Palazzo!… Ma ggià, a Rroma, amico,
Sta raggione che cqui
3
vale pe ttutte.
1
Mi replicava: tornava ad urtarmi.
2
Appartenente al servidorame del Palazzo papale. Una variante di questa
terzina suona così: Je fo a la fine: Sor abbate, ca..o!... Silenzio! (disce). Che ssilenzio! (dico): Chi,
ssete voi E llui: So’ dde Palazzo!
3
Che è qui, cioè detta adesso, quasi volesse dire qui presente,
maniera molto popolare anco in Toscana.
XLIII.
LE CORNA RÓDENO.
Oh! Stasera, Marianna, nun ciabbozzo!
1
No, sta scoletta
2
nun me piasce un ca..o!
E cche mm’hai preso proprio pe’ un regazzo?
Te credi ch’io nun zo
3
der bagarozzo?
4
Finisce che jje sfraggno er chiricozzo!
5
Che sse crede che ssia cuarche ppupazzo?
Si llui sce ruga,
6
per quel Dio, lo strozzo:
Credessi d’annà a Pponte a ffa’ er rampazzo.
7
Varda
8
che ggente, e ssi cche bell’usanza
De fa’ ste cose in de la mi’ presenza?
E indóve l’ha imparata la creanza?
Bêr modo d’operà, bbella prudenza!
Armeno se n’annasse all’antra stanza,
E sarvasse un tantino l’apparenza!
1
Ci abbozzo.
2
Disturbo che capita ogni giorno, appunto come la scuola.
3
So.
4
Specie di scarafaggio,
detto anche dai meno idioti bacherozzo, e nell’Umbria scardaone, che si trova per lo più nei luoghi umidi. Il suo
color nero ed altre qualità meno pulite, gli procacciano l’onore di fare spesso le veci del nome prete.
5
Gli
sfrango il chericozzo: gli do sul cocuzzolo.
6
Se lui ci ruga: se pretende di averci ragione; se ci batte di cassa.
Rugare, nell’Umbria, vale anche sgridare, rimproverare. Da questo verbo derivò alla maschera romana il nome
di Rugantino o Rogantino, che varrebbe accattabrighe, susurrone.
7
Rampazzo: grappolo d’uva. — Andare a
fare il rampazzo a Ponte, essere impiccato a Ponte sant’Angelo. —
8
Guarda, vedi.
XLIV.
SENTITE CHE GGNÀCCHERA.
1
Io me ne vado dunque in Dataria.
Me presento a ’n abbate: — Abbia pascenza,
2
(Dico): vorìa
3
du’ righe de liscenza,
Pe’ sposà mmi’ cuggina Annamaria.
4
Disce: Fijjolo, si chiama dispenza.
Basta (dico), sia un po’ cquer che sse sia...
Disce: Er zu’ nome?Dico: Er mio?… Tobbia».
Disce: Er casato suo?Schiatti, Eccellenza.
Ggià llei, (disce), lo sa:
5
ppe’ li cuggini
Ce vô
6
sseiscentonovantotto scudi,
Quarantasei bbajocchi e ttre cquadrini...
Figuret’io come me fesci
7
in faccia!
Me credevo
8
tre ggiuli gnudi e ccrudi,
9
Com’er promesso
10
p’er fuscil da caccia.
1
Sentite che bagattella. —
2
Abbia pazienza. —
3
Vorrei.
4
E’ noto che nell’uffizio della Dateria si spediscono
tra le altre dispense quelle per matrimonio fra parenti; le quali tanto più costano, quanto è più stretto il grado di
parentela che lega i supplicanti, e quanto più sono ricchi; benchè talvolta, per intercessione di persone influenti,
si faccia grazia di una parte del prezzo.
5
Nota la naturalezza di questo Ggià llei lo sa, che fa dell’Abate un
vero maestro di furberia mercantesca. —
6
Ci vogliono. —
7
Feci. —
8
Sottintendi: che ci occorressero.
9
Nudi
e crudi. —
10
Permesso.
XLV.
ER CARDINALE NOVO.
— Che cce dite de novo, sor Pasquale? —
Che tt’ho dda dì
1
dde novo, nun zo
2
ggnente. —
Ah! nu’ lo sai ch’ha ffatto er Principale?
3
De scêrto
4
’n’antra
5
cosa sorprennente!…
6
A dìlla proprio papale papale,
7
Chè cqui nun c’è ggnisuno che cce sente
Ha ffatto cuer birbone… cardinale.
Capischi,
8
amico?!… Lui… cuell’accidente!
Dichi
9
davéro?! Che jje piî
10
’n dolore!
Ma ggià er proverbio disce tanto bbene:
Chi ppiù ssporca la fa, divié ppriore.
Ssarà ccome tu ddichi un gran birbone;
Ma vvôi che tte la canti senza sscene
Chi arriva inzino a llà, nun è un cojjone!
11
1
Dire.
2
So.
3
Il papa.
4
Di certo.
5
Un’altra.
6
Sorprendente: è detto ironicamente.
7
A dirla
proprio schietta schietta.
8
Capisci.
9
Dici.
10
Gli pigli.
11
Mancano testimonianze che questo sonetto
sia del Belli.
XLVI.
’NA BBONA LEZZIONE.
Dichi che nun hai sorte, eh sor Simone
Subbito che,
1
tte pijji ’n accidente,
2
Sei granne e ggrosso e bbello cazzaccione,
E dde sto monno nun capischi ggnente!
3
Nun zai cuer ch’hai da fa’, bbrutto cojjone,
Si a sto paese vôi
4
fregà la ggente?
P’un
5
mese hai d’annà a ffa’
6
la cummuggnóne,
7
Che lo sappi
8
er Curato e ’r Presidente;
9
Sèntete la tu’ messa ’ggni matina;
Va ar Caravita
10
a cciancicà rosarii;
Dàtte
11
sur culo un po’ dde disciprina,
Come fanno li furbi e li somari:
Eppoi sàppime a ddì,
12
ppe’ ccristallina!,
13
S’in testa nun te piòveno
14
l’affari!
1
Poi che, da che. —
2
È detto per complimento.
3
Tutta la prima strofa è un’ironia. —
4
Vuoi. —
5
Per un. —
6
Hai da andare a fare: devi andare... —
7
Comunione. —
8
In modo che lo risappia. —
9
Il Presidente del rione, che
è una specie di questore di polizia.
10
Oratorio de’ Gesuiti.
11
Datti.
12
Sappimi dire.
13
Ppe’
ccrisstallina! fa le veci di per Cristo! affine di non nominare il nome di Dio invano. —
14
Piovono.
XLVII.
’N ODORE DE RIVULUZZIONE.
Ce penzeranno lôro!
1
Ecco sti santi
Che cianno
2
sempre in bocca, pe’-ddio-d’oro!
3
E cco’ sto bbêr
4
Ce penzaranno lôro,
Intanto cqui nun ze pô annà
5
ppiù avanti.
Ma sti lôro chi sso’?…
6
Si ttutti cuanti
Nun fann’antro qui ddrento ch’un lavoro
De dormí, maggnà, bbéve, e ccantà in coro…
Ma sti lôro chi sso’? l’appiggionanti?
Si le cariche a Rroma l’hanno tutte
Li portroni,
7
sti lôro indóve stanno?
Dove stanno sti lôro? in Galigutte?
8
Sai come va a ffiní? finissce poi
Che ssi sti ro nun ce penzeranno,
Un po’ ppiú in là cce penzaremo noi.
1
Ci penseranno loro, cioè: «ci penserà chi può, chi comanda.» Pare che fosse il ritornello, con cui i clericali
rispondevano a chi lamentava i danni del malgoverno de’ preti.
2
Ci hanno.
3
È una bestemmia mezzo
velata, come pe’ ccristallina, potendosi intendere per Diodoro. Avrà di certo avuto origine quando il
Sant’Uffizio condannava alla berlina sulle porte delle chiese, colla morsa alla lingua, i bestemmiatori. E poichè
cade in acconcio, giovi qui ricordare che non v’è paese del mondo, dove si bestemmi tanto, quanto a Roma. —
4
Con questo bel. —
5
Non si può andare. —
6
Se. —
7
Poltroni. —
8
Calcutta.
XLVIII.
NOVE BBESTIE NOVE.
1
Curre vosce ch’er prencipe Turlôni
2
Abbi fatto vienì nove camèi,
3
Che ddisce
4
che sso’ ccerti animaloni
De l’antichi paesi de l’Abbrei.
Disce ch’er Papa j’abbi detto: E llei
Che sse ne fa di quelli accidentoni?.
Disce: Tre n’arivénno, e ll’antri sei
Li manno a straportà carcia
5
e mmattoni.
Disce: Ma ccome?! nun ce so’ cavalli,
Muli, somari, sor principe mio,
P’addopràlli
6
in ste cose, p’addopràlli?
Sì, Padre Santo! sce ne so’ dde scêrto
7
(Disce che llui j’arepricò);
8
ma Ddio
Vvô li camèi pe’ bbazzicà er deserto!
9
1
Nuove.
2
Torlonia.
3
Camelli.
4
Si dice: è proprio il dicitur dei latini.
5
Trasportar calce.
6
Adoperarli: in ste cose, a quest’uso.
7
Di certo.
8
Replicò, rispose.
9
Allude alla desolazione della
campagna romana, o fors’anco di Roma.
XLIX.
LA PREGHIERA DUN ZERVITORE.
Vergine bbenedetta der Rosario!
Voi che cco’ ssette spade immezz’ar core
V’incontrassivo a vvéde
1
er Redentore
A mmorì morto in crosce
2
in sur Carvario;
Movéteve a ppietà d’un zervitore
Che
3
jje manca inzinenta
4
er nescessario;
Fateje crésce’
5
un scudo de ssalario,
Pe’ ppagà la piggione a l’esattore.
Voi lo sapete ch’io servo un prelato
Che mm’ha ppromesso in oggni mmalatia
De lassàmme,
6
si mmore, ggiubbilato;
Dunque, bbeata vergine Mmaria,
Bbenedite la vojja
7
ch’ha mmostrato:
Riccojjetelo
8
presto; e ccusissìa.
9
1
V’incontraste a vedere.
2
Croce.
3
Al quale, e il jje (gli) che segue, è un pleonasmo d’uso frequente.
4
Persino. —
5
Fategli crescere. —
6
Lasciarmi.
7
Voglia, desiderio. —
8
Raccoglietelo. —
9
Così sia.
L.
ER ZIGGNORE, O VVOLÉMO DIIDDIO.
1
Er Ziggnore è ’na cosa ch’è ppeccato
Fino a ccredese indegni
2
de capìlla.
3
Più indifiscile
4
è a noi sto pangrattato,
5
Che a la testa de Dàvid la Sibbilla.
6
A ssanta Prudenziana e Ppravutilla,
7
Me diceva da sciuco
8
er mi’ curato
Ch’è ccome un fiato, un zoffio, una favilla,
Inzomma un vatt’a-ccérca-chi-tt’-ha-ddato.
9
E ppe’ famme capì nne li bbuscetti
Siccome Iddio sce se trova a ffasciolo,
10
Metteva attorno a ssè ttanti specchietti:
Poi disceva: Io, de cqui,
11
ccome mazzolo,
12
Faccio arifrètte’
13
tutti sti gruggnetti,
Eppuro è er gruggno d’un curato solo.
1
Il Signore o vogliamo dire Iddio.
2
Indegni per degni è un controsenso dei soliti, come inzalubbre per
salubre, e simili.
3
Capirla.
4
Difficile.
5
Nel traslato, questo nome ha molti significati: qui sta per
«quistione difficile, astrusa.»
6
Il versetto del Dies iræ, «Teste David cum Sybilla,» è così inteso dai
Romaneschi, i quali fanno traduzioni cervellotiche di tutti i passi latini che odono, non potendo acconciarsi a
confessare a stessi che non li capiscono.
7
Santa Prudenziana e Plautilla: chiesa di Roma.
8
Da ragazzo.
Ciuco o sciuco vale sempre piccolo. —
9
È una frase usata dai ragazzi, giuocando a gattacieca. Quello tra essi che
un pugno su le spalle al compagno bendato, cioè alla gattacieca, per indicargli che deve cominciare il giro in
cerca di chi lo ha colpito, pronunzia le parole: «Gattasceca, vatt’a cérca’ chi tt’a ddato.» Nell’Umbria dicono:
«Gattacieca, dove vai?Vado al mercato. — Che te sei perza? — Una spilletta. — Eccote un pugno, e vattel’a
cérca’.» A Roma il giuoco stesso lo chiamano della gatta-sceca-chi-tt-ha-dato. Laonde, qui, pare che valga: «una
cosa, cercando la quale, abbiamo la benda agli occhi, andiamo a tentoni;» ovvero, più semplicemente: un giocare
a gatta cieca. E non ha torto!
10
Senso: «Per farmi capire come Dio si trovi comodamente (a ffasciolo) anche
nei più piccoli luoghi (buscetti), senza perdere la sua unità, metteva, ecc.» —
11
Da qui.
12
Come la civetta sul
mazzuolo. —
13
Riflettere.
LI.
L’INFERNO.
Si vvôi
1
che tte lo dica chiaro e ttonno,
2
Io nun ce pôzzo crede’
3
ch’er Zignore
4
Ch’ha fatto l’omo, ciabbi
5
d’avé er core
De mannàllo laggiù nne lo sprofonno,
S’infrattanto che stane
6
in de sto monno
Ar Papa nun vô créde’ e ar confessore,
E lla penza a ssu’ modo. — Sarvatore!
7
Sta cosa nun me carza,
8
e mme confonno.
9
Disceva la bbôn’anima de zio,
Che ttanto er poverello ch’er riccone
Libberi in ner penzà
10
lli fésce Ddio.
Si ar Papa nun je garba… In concrusione,
Bisognerebbe dì’, ssangue de bbìo,
Che nne sa più er Vicario, ch’er Padrone!
11
1
Se vuoi. —
2
Chiaro e tondo.
3
Non ci posso credere. —
4
Signore. —
5
Ci abbia.
6
Sta. —
7
Salvatore: è il
nome della persona con cui parla.
8
Calza: non mi quadra.
9
Mi confondo.
10
Nel pensare.
11
Il
costrutto poco naturale delle due quartine e parecchi altri difetti ci fecero sospettare che questo sonetto non fosse
del Belli, e infatti nessuno de’ suoi amici potè dirci di averlo udito mai dalla sua bocca.
LII.
ER GIUDIZZIO UNIVERZALE.
Quattro Angeloni co’ le tromme
1
in bocca
Se metteranno oggnuno pe’ ccantone
A ssonà;
2
poi co’ ttanto de voscione
3
Cuminceranno a ddì’:
4
Ffôra a cchi ttocca!
5
Allora vierrà ssu ’na filastrocca
De schertri
6
da la terra a ppecorone,
7
Pe’ rripijjà
8
ffigura de perzone,
Come ppurcini
9
attorno de la bbiocca.
10
E ssta bbiocca sarà Ddio bbenedetto,
Che ne farà ddu’ parte, bianca, e nnera:
Una p’annà in cantina, una sur tetto.
11
All’urtimo vierrà ’na sonajjera
12
D’angeli, e ccome si ss’annasse a lletto,
Smorzeranno li lumi, e bbôna sera.
1
Trombe. —
2
Sonare. —
3
Con tanto di vocione, come se lo volesse misurare.
4
Dire. —
5
Fuori a chi tocca, è
frase dell’uso, specialmente nel giuoco delle bocce, per invitare a turno i giocatori.
6
Scheletri.
7
A
ppecorone, colle mani e co piedi; carponi. Il traslato è tolto dal camminar delle pecore.
8
Ripigliare.
9
Pulcini.
10
Chioccia.
11
Cioè: una per l’inferno, l’altra pel paradiso.
12
Sonagliera, che qui sta per
moltitudine.
LIII.
L’INDURGENZE.
1
Ebbè! ssi nun m’intenno
2
de latino,
Tu ccredi che ssia tanto gnoccolone
3
Da bbéve’ l’acqua e ccréde’ che ssia vino?
Questo lo pôi
4
scassà
5
dar cocciolone.
6
Tu mme vôi dà’ a ddintènne’,
7
sor paìno,
8
Ch’er Papa, pe’ bbôn core e ddivozzione
E ssenza guadaggnà mmanco un quatrino,
Co’ ll’indurgenze dà l’assoluzzione.
Ma vvôi sapé la cosa dritta dritta?
9
Fa cquesto pe’ rriempì la saccoccietta.
Eppoi, lo vôi vedéne,
10
eh padron Titta?
Va in chiesa, e va a gguardà la tavoletta
Indóve
11
l’indurgenza sce
12
sta scritta,
E nun ciammanca
13
mai la bbussoletta.
14
1
L’indulgenze.
2
Se non m’intendo. —
3
Sciocco.
4
Puoi.
5
Scassare, cancellare.
6
Testa dura, zucca:
lo pôi scassà dar cocciolone equivale alla frase italiana puoi levartelo di capo.
7
Mi vuoi dare ad intendere. —
8
Bellimbusto: ma qui sor paino è detto ironicamente.
9
Ma vuoi sapere la cosa come sta?
10
Vedere.
11
Dove. —
12
Ci.
13
Ci manca. —
14
Cassettina per ricevere le offerte, che si vede in molte chiese, sotto alle bolle
papali che accordano indulgenze. — Credo che questo sonetto non sia del Belli.
LIV.
ER TEMPO CATTIVO.
1
Me sapressivo a ddì’ cche nn’è dder zole?
Accidenti!, dich’io: Cristo, ch’inverno!
E ppiove, e ppiove, e ppiove in zempiterno!
E cche ll’òmmini so’ rrote de mole?
2
Ranocchie? granci teneri?
3
sciriole?…
4
So cch’è un penziero d’annàcce a l’inferno,
5
Ma mme sta in testa a mme ch’er Padreterno
6
Abbi
7
dato de vôrta a le cariòle.
8
De cqui nun z’esce: o er Padreterno è mmatto,
O pe’ cquarche gran buggera ch’ha in testa,
Nun z’aricorda ppiù come scià
9
ffatto.
Nun c’è antra raggione: o quella, o questa;
O che, sinnò, ppe’ ffa’ ’na chiusa d’atto,
10
Cojje a cchi cojje,
11
e bbuggiarà cchi resta.
1
Questo sonetto è di Francesco Spada romano, vivente, amicissimo del Belli; ed è tra i rarissimi che sieno degni
di andare per le bocche sotto il nome del Poeta romanesco.
2
Ruote di mole. Pigliano la mola per il molino.
Anche nell’Umbria s’ode spesso: «Dove se’ jito? So’ jito a la mola
3
Specie di granchi, chiamati così,
forse perchè sono più teneri di altri.
4
Ciriuole.
5
Intendi: «So che questo pensiero che ho io, è tale da
andarci all’Inferno; ma tuttavia lo dirò.»
6
Variante: Ma in testa me sce sta ch’er Padreterno.
7
Abbia. —
8
Dar di volta alle carriole, vale impazzire. —
9
Ci ha. —
10
Fare una chiusa d’atto significa «finir qualche cosa in
modo straordinario;» dacchè gli atti al teatro finiscono per lo più colla sparata, come i sonetti. Qui poi la
metafora calza a puntino, trattandosi della commedia che si chiama mondo. Una variante di codesto verso suona
così: Oppuro pe’ ddà ffine all’urtim’atto.
11
Coglie chi coglie, cioè: chi le tocca, son sue; chi more, more.
Variante: Chi cojje, cojje.
LV.
L’IMPICCIATORIO
1
DER PADRE-CURATO.
Dio nu l’ha ffatto pe’ spiegà er Vangelo
Sto sor Padre-curato don Petronio.
Un po’ ppiú mm’addormivo io, sor Antonio,
Bello che in chiesa,
2
e cc’è mancato un pelo.
Che sso cche ss’è impicciato!…
3
Er monno, er celo,
L’inferno, er purgatorio, er matrimonio,
Li farisei, le pecore, er Demonio,
L’acqua, er vento, la nebbia, er callo, er gelo...
Eppoi, pe’ cconnimento
4
a st’inzalata,
5
’Gni du’ parole, tosse,
6
raschia,
7
sputa,
E sse mette a strillà: sserva mannata!
8
Ma sta serva chi è? cchi cce la manna?
Dove va, ccosa vô? cquanno è vvenuta?
Come se chiama, Lia, Stella, Susanna?...
1
L’imbroglio, il pasticcio.
2
Benchè fossi in chiesa. —
3
Che so io che cosa s’è imbrogliato! —
4
Condimento.
5
Chiama così la predica confusa del curato, perchè v’ha infatti una certa insalata composta di molte erbe di
vario sapore ed odore, che si ammannisce per lo più dai frati, e che dicesi particolarmente misticanza (da
misticare, «mescolare»).
6
Tossisce.
7
Spurga.
8
Serva mandata (osserva i comandamenti di Dio), che il
Romanesco intende: la serva mandata.
LVI.
LE CALUGGNE CONTRO ER GOVERNO.
1
E ddàjje cor Governo! O è ccaro er pane,
O nun c’è da scallàsse in ne l’inverno,
O vve sbàjjeno un nummero in un terno,
O vv’abbuscate un mozzico da un cane,
O la commedia
2
in musica è un inferno,
O sse fa ttroppo ghetto
3
a le bbefane,
4
O le ggente se ménéno le mane...
Subbito senti: E ccosa fa ir Governo?
Ma sso’ ppropio bbadiali sti ciarloni!
Er Governo ha da sta’ com’un editto
Appiccicato a ttutti li cantoni?
Sta a vvéde’ che mmommó ppuro è un dilitto
Der Governo si ll’osti nun zo’ bbôni,
O er friggitore jj
5
ha brusciato er fritto!
1
Quel che si dice in questo sonetto, è purtroppo la nuda verità, e cade opportunissimo oggi che tanto si parla di
decentramento amministrativo. Le popolazioni dello Stato pontificio, come quelle del resto d’Italia, abituate a
vedere immischiarsi il Governo anche ne’ più futili negozi, a lui attribuiscono, e non senza ragione, tutta la
somma de’ loro beni e de’ loro mali: e poichè questi sono sempre maggiori di quelli, trovano più da biasimarlo
che da lodarlo, più da tenerlo per nemico che amico. Quindi le migliaia di accidenti al governo ad ogni minuto;
quindi, i carri di suppliche dirette quotidianamente ai ministri e al sovrano; quindi l’inerzia de’ cittadini, che tutto
aspettano dall’alto. Persuadiamocene: tutto ciò accadrà, finchè il Governo vorrà governar troppo, e per governar
troppo dovrà governar male, caricandosi di tanta parte di responsabilità che potrebbe riversare, sulle spalle dei
cittadini, i quali, alla fin fine, se facessero male, potrebbero dire mea culpa.
2
Qualunque spettacolo al teatro
viene designato dai romaneschi col nome di commedia.
3
Troppo chiasso: è quasi inutile avvertire che la
metafora è tolta dal ghetto degli Ebrei.
4
Nella piazza di Sant’Eustacchio, dove pel natale e per l’epifania, si
elevano delle bottegacce di legno per vendervi bambòccioli da trastullo pei ragazzi, i quali fanno spesso
attorno un chiasso indiavolato, a cui sogliono pigliar parte gli studenti della Università romana, che è sulla stessa
piazza. —
5
Gli, che qui sta per a loro, ossia a sti ciarloni.
LVII.
ER PRIVILEGGIO.
Tu sstrilli tanto e cce divienghi
1
rosso,
Si
2
un cucchiere vestito co’ li guanti
Ha messo sott’er leggno mastro Santi
E vvia currenno, jj’è ppassato addosso?!
Gia llui j’averà
3
ddetto: A vvoi davanti!
4
E allora è córpa
5
sua si nun z’è
6
mmosso;
Eppoi, si ffusse stato un pezzo grosso!...
Ma dde vassalli ar monno sémo
7
tanti.
C’è dda rìde
8
penzanno a l’imprudenza
De la povera vedova der morto
Che rroppe li cojjoni a ssu’ Eccellenza;
9
Perché cquine
10
er discorzo è ccorto corto:
Tra omo e omo c’è ggran diferenza,
E cchi vva a ppiedi ar monno ha ssempre torto.
11
1
Diventi. —
2
Se, che in questo caso equivale a perchè.
3
Gli avrà.
4
È il grido con cui i cocchieri di Roma
avvertono la gente perchè si guardi dalle carrozze.
5
Colpa.
6
S’è.
7
Siamo. —
8
Ridere.
9
Al padrone
del legno, affinchè la risarcisse de’ danni patiti per la morte del marito.
10
Qui.
11
Questo sonetto fu scritto
dal Belli in italiano, e quel quine, ch’egli non usava mai, perchè è una stiracchiatura, fa supporre che sia stato
voltato in dialetto da altri. Ecco il sonetto italiano, come si legge nell’Edizione di alcune poesie del Belli fatta a
Lucca nel 1843, e già da noi più volte citata:
Gridi sì forte e ci diventi rosso,
Perchè un cocchier, che alfin portava i guanti,
Di cento e cento mascalzoni erranti
N’ha urtato uno e gli è passato addosso?!
Già, in primis, gli avrà detto: A voi d’avanti,
E allor colpa è di lui che non s’è mosso:
Poi, fosse stato almeno un pezzo-grosso;
Ma di costoro se ne trovan tanti.
Quello di che stupisco, è l’insolenza
De’ figli e della vedova del morto,
D’andarne a disturbare Sua Eccellenza.
Perchè, insomma, il discorso è corto corto:
Da uomo a uom c’è molta differenza;
E al mondo, chi va a piedi ha sempre torto.
LVIII.
L’INCURONAZZIONE DE NAPUJJONE.
Ma eh?!… ddoppo ch’er povero bbabbione
Der Papa,
1
co’ cquer core suo paterno
Annò a Ppariggi proprio in ne l’inverno,
Currenno
2
tanto che cciarzò er fiatone:
3
Er fijjo suo, er caro Napujjone,
(Che Ddio lo pôzza frìgge’
4
in zempiterno
Ne la peggio padella dde l’inferno!)
Je fesce,
5
bbontà ssua, ’na bbella azzione!
Tra
6
’n Deo passa er toro e Mmêo m’intenne,
E ddomina Ggiuvanni co’ Ffaustina,
S’incuronò da sé!, ddeograzzia ammènne.
7
Se nota, dico io, la su’ modestia!
Eppoi pe’ ggiunta, je vôrtò la sschina,
8
Senza dìjje nnè asino nnè bbestia.
9
1
Pio VII, che andò a Parigi per assistere all’incoronazione di Napoleone I, a’ 2 dicembre 1804.
2
Correndo.
3
Ci alzò il fiatone: ci fece il respiro grosso. —
4
Possa friggere. —
5
Gli fece. —
6
Mentre si cantava: Deus, in
adjutorium meum intende; Domine, ad adjuvandum me, festina, s’incoronò da sè ecc. Mêo è un accorciamento di
Bartolomeo; e perciò Mmêo m’intenne significa Bartolomeo m’intende. Così il popolo spiega meum intende.
7
Amen.
8
Gli voltò la schiena.
9
Quando, dopo il ritorno di Pio VII, venivano fatti segno a sospetti e
persecuzioni gli uomini che s’erano mostrati ligi a Napoleone, Pasquino domandò per loro al Papa:
Ma, santo Padre, in cosa abbiam peccato?
Voi l’avete unto, e noi l’abbiam leccato.
LIX.
ER REGAZZINO DE BOTTEGA.
1
Sor padrone! tenetevelo a mmente:
Io nun me vojjo
2
scorticà li piedi.
3
Voi ve sbajjate
4
assai!… cuanno ciaggnédi,
5
Sonava mezzoggiomo a ssan Cremente.
6
Bbè, quanto stiedi
7
a ttornà? cquanto stiedi?
Un’ora! Un ca..o! nun è vvero ggnente.
Vorìa che mme pijjàsse ’n accidente
Si cce cùrze
8
nèmmanco un par de crêdi!
9
De che?!
10
dar Culiseo a Ssan Giuvanni
11
Ce se va e cce se viè
12
cor un minuto.
Ce se va cco’ la fr…a che vve scanni!
Eppoi, senza sto scànnalo
13
futtuto,
Si sséte stufo,
14
a mme me sa mmill’anni
D’annàmmene
15
e vvedé chi è ppiù ccocciuto!
16
1
Questo e gli altri sonetti non politici che seguono, sono dipinture inarrivabili per verità e naturalezza. La forma
vi è un po’ più oscena che negli altri, poichè lo richiedeva il soggetto. Intorno a questa licenza di forma abbiamo
già detto il nostro parere nella Prefazione. Chi ci conosce, sa che noi siamo gelosi quant’altri mai della pubblica
moralità, e sa che ci studiamo d’insegnarla coll’esempio, meglio che colle vane declamazioni. Ma se ci
offendono quelle ladre industrie librarie, in cui tutto un romanzo o una novella sono maestri di corruzione; non
potremmo in verità offenderci di quattro frasi un po’ lubriche, che sono affatto incapaci di recare il minimo
danno al buon costume; perchè coloro i quali si trovano in grado d’intenderle a traversa il velame della metafora,
o di rifarle sopra i puntini, devono già conoscerne tutto il significato. Certi sepolcri imbiancati che tengono
spaccio di morale a un tanto al metro, non si persuaderanno facilmente di queste nostre ragioni, e ci vorrà
pazienza.
2
Voglio.
3
Sottintendi: per la troppa fretta, quando mi mandate a far qualche servizio.
4
Vi
sbagliate assai, rimproverandomi che ho tardato.
5
Ci andiedi, ci andai, in quei luogo dove mi mandaste. —
6
Alla chiesa di San Clemente.
7
Stetti, tardai.
8
Corse.
9
Il tempo che ci vuole per recitar due volte il
Credo.
10
E che?
11
Dal Colosseo a San Giovanni in Laterano.
12
Ci si va e si ritorna.
13
Scandalo,
baccano, strepito.
14
Di tenermi al vostro servizio.
15
Andarmene.
16
Più vivace la variante popolare: De
mannàvve a ffa’ fótte’, sor cornuto!
LX.
’NA BBÓNA EDUCAZZIONE.
Fijjo, nu’ rribbartà
1
mmai tata tua;
Abbada a tte, nun te fa’ mmétte sotto;
2
Si cquarchiduno te viè a ddà
3
un cazzotto,
Lì, callo callo,
4
tu ddàjene dua.
E si ppoi quàrche porcaccio da ua
5
Te sce facesse un po’ de predicotto,
Dijje:
6
De ste raggione
7
io me ne fótto:
8
Oggnuno abbadi a li fattacci sua.
Si ggiuchi un mezzo a mmorra, oppuro a bboccia,
Bevi, fijjo; e a sta ggente bbuggiarona
Nun je ne fa’ restà
9
mmanco una goccia.
D’êsse’ cristiano è ppuro
10
cosa bbôna;
Pe’ cquesto hai da portà ssempre in zaccoccia
L’aggnusdêo,
11
er cortello e la corona.
1
Non ribaltare mai tuo padre: cioè, «non sottrarti mai alla sua autorità.» La metafora è tolta dal buttar giù che fa
un cavallo il cavaliere, lo che dicesi comunemente, come dell’andar sossopra de’ cocchi, ribaltare, in senso
attivo: per esempio il cavallo lo ha ribaltato. Potrebbe anche significare: «Non degenerar dal padre tuo; fa
sempre quello che ho fatto io.» cioè quello che è detto ne’ versi seguenti.
2
Non ti far metter sotto: non ti far
soverchiare.
3
Ti viene a dare.
4
Caldo caldo: per , a sangue caldo.
5
Uva. Porcaccio da ua é una
frase appellativa di spregio molto usata, ma della quale, come di tante altre, sarebbe forse impossibile rintracciare
l’origine, che pur ci dev’essere. —
6
Digli.
7
Di queste ragioni.
8
Io me ne impipo, me ne sgrullo.
9
Non
gliene far restare. —
10
Pure, anche. —
11
Agnus Dei.
LXI.
ACCU VA ER MONNO.
1
(1831)
Quanto sei bbôno a stàttene a ppijjà,
2
Perché er monno vô ccùrre’
3
pe l’ingiù!
Che tte ne frega a tté? llassel’annà;
4
Tanto che speri? aritiràllo su?
Che tte preme la ggente che vvierà,
5
Quanno a bbôn conto sei crepato tu?
Oh ttira, fijjo mio, tira a ccampà,
E a ste cazzate
6
nun penzàcce
7
ppiù.
Ma ppiù de Ggesù Cristo che ssudò
’Na camiscia de sangue pe’ vvedé
De sarvà er monno… eppoi che ne cacciò?
8
Pe’ cchi vvô vvìve’
9
l’anni de Novè
Ciò
10
un zegreto sicuro, e tte lo do:
Lo ssciroppetto der dottor me ne…
11
1
Questo sonetto è stampato nell’edizione del Salviucci (I, 311), ma colla prima terzina mutata di pianta, e con
altre alterazioni che lo travisano completamente. La nostra è la vera lezione.
2
A startene a pigliar pena.
3
Correre. —
4
Lascialo andare. —
5
Verrà. —
6
Sciocchezze. —
7
Pensarci. —
8
Qual costrutto ne cavò? — Ecco la
terzina dell’edizione romana: «Ma ppiù der tu’ compare, che ssudò Tutta cquanta la vita, pe’ vvedé De fasse
ricco, e ppoi che ne cacciò?
9
Vuol vivere. —
10
Ci ho: ho. —
11
Del dottor Me-ne-frego.
LXII
LI BBÔNI CONZIJJI.
1
Vedi l’appiggionante c’ha ggiudizzio,
Come s’è ffatta presto le sscioccajje?
2
E ttu, ccojjona, hai quer ’mazzato
3
vizzio
D’avé scrupolo inzino de le pajje.
4
Io nun te vojjo fa’ ccattivo uffizio;
5
Ma cquanno trovi da dà’ ssotto,
6
dàjje.
Si un galantômo ricco vô un zervizzio,
Nun je lo fa’ stirà cco’ le tenajje!
7
T’avesse da costà cquarche ffatica,
Vorebbe dí’!…
8
mma ttu mettete in voga,
Eppoi chi rroppe paga:
9
è storia antica.
Oh! cquanno vederai troppa magoga,
10
Tiètte su,
11
e ddàlla a mmollica a mmollica.
12
Chi nun z’ajjuta, fijja mia, s’affoga!
13
1
I buoni consigli. La trista femmina che parla in questo sonetto, é dello stampo della Raffaella di Alessandro
Piccolomini vescovo in partibus.
2
Scioccaglie: grossi orecchini, a cui tengono molto le minenti o donne del
popolo.
3
Ammazzato, che qui sta per maledetto.
4
Persino delle paglie: delle più minute e sciocche cose.
5
«Io non ti voglio dare un cattivo consiglio, o rendere un cattivo servigio; ma…» ma intanto glielo dà e glielo
rende.
6
Dar sotto vale «darsi con tutta lena ad un’operazione.» —
7
Tenaglie.
8
Vorrei dire: Non farlo. Il
non farlo, nell’uso comune, è sempre sottinteso.
9
Proverbio.
10
Confusione di gente inutile, importuna,
spregevole. —
11
Tienti su: sta sulla tua. —
12
A briciola a briciola: a spilluzzico.
13
Chi nun z’ajjuta, s’affoga:
proverbio.
LXIII.
LE SCARPE ROTTE.
1
Voi me guardate ste scarpacce rotte?!
Eh! sora sposa mia, stateve zitta,
2
Chè cciò
3
un gelone ar piede de man dritta,
4
Che nun me fa requià
5
mmanco la notte.
Io ciò mmesso ajjo pisto, io mela cotte,
Io farina de de ceci, io marva affritta...
6
Mo nun ce spero ppiù, sora Ggiuditta,
Finché st’inverno nun ze va a ffa’ fótte.
7
S’averò dda guarì, gguarirò allora;
8
Ma intanto ho dda schiattà la sittimana,
9
E arzàmme de notte e uscì abbonora.
10
Me fate rìde’!
11
— Nun annà in funtana!
No?!
12
chi cce va ppe’ mme? So’ ’na siggnora?
Campo d’entrata io? fo la put…a?
1
Nei duemila è più sonetti del Belli sarebbe forse impossibile trovare un solo verso un po’ stiracchiato. Egli è
sempre felicissimo, e lo si riconosce un miglio lontano fra la turba de’ suoi imitatori; ma in questo sonetto ha
davvero superato sè stesso. S’io non temessi di scivolar nel rettorico, esclamerei: Ah! perchè tutti gl’Italiani non
conoscono il dialetto e il popolo romano, per poter gustare appieno la peregrina bellezza di codesti versi?
2
Statevi zitto è una maniera molto comune ed efficace, che si dirige a chi, senza volerlo, ci richiama alla mente
qualche nostro malanno.
3
Ci ho.
4
Al piede destro.
5
Requiare (dal lat. requiesco), poco usato nella
lingua scritta, ma vivissimo nella parlata.
6
Fritta. È uno de’ tanti spropositi curiosi che danno luogo ad
equivoco, potendo affritta pigliarsi anche per afflitta. —
7
Non si va a far buggerare: non ci leva l’incomodo. —
8
Cioè, finito l’inverno. —
9
Schiattar la settimana vale «penar sempre, tutti i sette giorni della settimana.» —
10
A
buon’ora, di buon mattino.
11
Mi fate ridere, dicendomi: non andare in fontana. Il dicendomi è sottinteso,
perchè l’uso chiede strettamente così; ma vien compensato ad usura dal tuono di dolore e di maraviglia con cui si
dicono le parole: Me fate ride’!, e da un allungamento esclamativo delle altre: Nun annà in funtana, che la
povera donna accompagnerebbe con un lento scuoter della testa e delle spalle. —
12
Quel no?! deve proprio dirsi
con un modo tra l’interrogativo e l’esclamativo.
LXIV.
LE FICCANASE.
— Cosa vedi, eh? cche ffa? ddì’, scropi
1
ggnente?
Traòpri un antro po’
2
cquelo sportello.
Che? cc’è un paìno?
3
indov’êllo? indov’êllo?
4
Mannaggia! nun ze vede un accidente!
Ecco, ecco, vviè
5
avanti… — E cquant’è bbello!
Chi ddiavolo sarà?... Ma cche pparente!
Uh, va’, va’:
6
llui je stuzzica un pennente,
Llei je dà ssu le deta er mazzarello.
7
Che ffiandra!
8
e nnun ce ffa l’innòscentina!
Sta ffresco er zor milordo! oh llui cià ddato!
9
Vederà llui si è ssemmola o ffarina!
S’è ccacciat’er cappello!... mo sse caccia!...
Statte zzitta: nu’ rrìde’...
10
Uh!... cche peccato:
Cianno
11
serrato la finestra in faccia.
1
Scopri.
2
Apri un altro poco.
3
Giovine ben vestito.
4
Dov’è? dov’è?
5
Vieni.
6
Guarda, guarda,
che nel dialetto si muta spesso in varda, e quindi per troncamento, in va’.
7
Chiamano mazzarello quella
bacchettina, che portano al fianco le donne, bucata ad una estremità per introdurvi come su punto d’appoggio il
ferro da calzetta. —
8
Scaltra. —
9
Ci ha dato, ci è capitato. —
10
Ridere. —
11
Ci hanno.
LXV.
’NA SCIACQUATA DE BOCCA.
Disce: — Vanno pulite;
1
— ebbè? cce vanno,
Chi vve disce de nò? cchi vve lo nega?
Ma sta painerìa
2
come se spiega
Cor culetto scuperto de l’antr’anno?
Disce: — Cianno cudrini;
3
— ebbè? cce l’hanno:
So’
4
rriccone e lla ggrascia
5
jje se ssprêga…;
6
Ma Ddio sa cco’ cche bbuscio de bbottega
Fanno cquer po’ dde guadaggnà cche ffanno!
Oh rialzasse la testa er zor Filisce!…
7
Povero padre! povero cojjone,
Che lle credeva l’arbera Finisce!
8
Saranno, ve’!, du’ zitellucce bbône:
Qui nun ze fa ppe’ mmormorà: sse disce
Pe’ ddí’ cche sso’ ddu’ porche bbuggiarone.
9
1
Nel vestire.
2
Questo lusso.
3
Ci hanno quattrini.
4
Sono.
5
La roba da mangiare, e, in senso più
largo, l’abbondanza d’ogni cosa. —
6
Si spreca, va a male per la gran quantità. Lo dice ironicamente. —
7
Felice.
Non meno efficace per evidenza è la variante: Oh! si ruprisse l’occhi er zor Filisce!...
8
L’araba Fenice.
9
Non c’è bisogno di avvertire che è una donna che parla in questo sonetto.
LXVI.
LA COMPASSIONE DE LA COMMARE.
Chi? cchi è mmorto? Er zor Checco?... Uh cche mme dichi!
Me fai rrimàne’
1
un pizzico de sale.
E de che mmale è mmorto, eh?, de che mmale?
Ma ggià, dde che?!… de li malacci antichi.
Gesusmaria! chi vvô ssentì Ppasquale
2
Quanno lo sa, ch’eréno tanti amichi!
Ma ggià, er zor Checco, Ddio lo bbenedichi,
Ciavéva
3
proprio un gruggno da spedale.
4
E cch’ha llassato? Me figuro, stracci.
E la mojje che ddisce, poverella?
So’ ffiniti li ssciali
5
e li testacci!
6
Vedova accusì ppresto!… Mma ggià, cquella,
Nun passa un mese che bbôn pro jje facci,
7
Va cco’ ’n antro cornuto in carrettella.
1
Rimanere, restare, per la sorpresa.
2
Il marito di lei.
3
Ci aveva.
4
Non meno bella è la variante:
L’aveva, ve’! ’na scera da spedale. — V’è chi legge le due quartine così:
Chi, cchi è mmorto?... Er zor Checco?... Uh, che mme dichi!
Me fai rrimàne’ un pizzico de sale!
Gesummaria! cchi vvô ssenti’ Ppasquale
Quanno lo sa, ch’eréno tanti amichi!
E de che mmale è mmorto, eh? de che mmale?
Ma ggià, de che?!... de li malacci antichi.
E ppo’ er zor Checco, Ddio lo bbenedichi,
L’aveva, ve’!, ’na scera da spedale.
5
Le pompe, le baldorie. Taluni leggono: scialli, plurale di scialle.
6
Testaccio è un luogo poco lunge da Roma,
dove ne’ dì festivi il popolo va a fare le sue ricreazioni. —
7
Le faccia.
LXVII.
LA COMPAGGNIA DE LI SIGGNORI.
E tu pparli co’ mme de li Siggnori?
Co’ mme cche cce fo vvita tutto l’anno!
Co’ mme che l’ho ’ggnisempre ar mi commanno!
Co’ mme che li conosco drento e ffôri?
Fijja! io so le gattuccie
1
indóve vanno,
Li nomi de li lôro creditori,
Le panchiane che affìbbieno,
2
l’onori
Ch’arrùbbeno, le trappole che ffanno.
Basti a ddì’ che ’ggni giorno che ffa Iddio,
Sto cor Conte, e cce sto cor mi’ decoro,
Chè indóve ce va lui, ce vado io.
E cquann’hanno rïarto,
3
Madalena,
Me vedressi ’ggnissempre llì co’ llôro,
Ne la stanza der pranzo e de la cena.
1
Gatte morte. —
2
Le bugie che dicono.
3
Rialto. Avere o fare rialto vale, come in Toscana, «fare un pranzo o
una cena più lauta del solito, in occasione di feste, d’inviti, ecc.»
LXVIII.
ER CUNGRESSO.
1
(1860)
Che sserve che v’annàte stroliganno!
È ttommola sta vôrta, sor Abbate!
Er Cungresso ve vô levà er commanno:
È inutile ch’er greve me sce fate.
È un pezzo che ciannate
2
cojjonanno,
E Cristo ar poverello predicate;
Poi tutto a modo vostro accommidanno,
Sinenta all’osso vivi sce sporpate.
Sti forastieri che vve vônno bbene,
E che a cchiacchiere fanno la saetta,
Perché nun ve se porteno co’ ssene?
Io nun vorrebbe ggià che la bbarchetta
S’avessi d’affonnà; ma mmanco chene
Restasse sempre ar porto de Ripetta.
3
1
Questo sonetto comparve quando, poco dopo l’annessione delle Marche e dell’Umbria, correva voce che un
Congresso di Potentati avrebbe messo fine al potere temporale dei papi. L’opportunità e la chiusa felice lo fecero
diventar popolarissimo; ma quei gerundi, quel sene e chene messi per la rima in fin di verso, mostrano un miglio
lontano la mano dello scuolare. —
2
Ci andate. —
3
Noto porto sul Tevere; dentro Roma.
LXIX.
ARIGALO AR PAPA PEMMAGNÀ DE MAGRO.
1
(1865)
È vienuta ’na bbarca de salumi
Co’ ccerti Francoporci
2
e Torlantesi,
3
Che vièngheno de là, dda li paesi
Ch’a mmezzoggiorno accènneno li lumi.
Disce che cianno li cutrini a ffiumi;
Tutti fijji de principi e mmarchesi:
E cc’è ’n po’ de Todeschi e de Francesi,
Misticati con antri fracicumi.
4
Disce chè ttutta robba senza sale,
Che vviè per arigàlo a ddon Prillone
5
Dar cattolico monno univerzale.
E la lettera
6
disce: — Sor padrone!
Ve mannàmo ’na botte de caviale,
Co’ sti fijji de porche bbuggiarone.
1
Questo e il seguente sonetto sono del sig. F. F.
2
Franco-belgi.
3
Irlandesi.
4
Fracidumi.
5
Don
Pirlone: il Papa. —
6
La lettera che accompagnava il dono.
LXX.
ER ZOGGNO DER PAPA.
(1865)
Dormenno er Papa vedde una figura
Co’ ’na camiscia rossa da sordato;
E dda cuer giorno in poi, lui nun è stato
Più cristiano,
1
e cchi ssa quanto je dura.
Er Papa nun è mmica ’na cratura;
2
Ma ppuro er zangue je cce s’è guastato:
In ner zonno, accusì, da la pavura
Cuminciò a ppiàggne’ e aritienésse
3
er fiato.
Un omo che sta ssu come Dio vôle,
So’ ccose a fàjje véde’ l’Itajjani,
De fàjje arisvej l’infantijjole.
E adesso, pe’ ppavura de sti cani,
Che li pô strùgge’
4
llui co’ ttre pparole,
Disce che ddorme su li bbarbacani.
5
1
Non è stato più bene.
2
Creatura, bambino.
3
Ritenersi.
4
Struggere: annientare.
5
Così chiamavansi
per ischerno le soldatesche pontificie; e pare che siffatto traslato avesse origine a Bologna, dove poco dopo i
rivolgimenti del 1831, un uffiziale superiore in una sua arringa a’ soldati, li chiamò sostegno e puntello del trono
e dell’altare. Lo stesso nome di barbacani fu dato poi anche agli arruolati in una specie di milizia ausiliaria, o
guardia urbana, la quale venne istituita nel 1860, poco prima dell’annessione delle Marche e dell’Umbria.
SONETTI
SCELTI NELL’EDIZIONE ROMANA.
I.
L’ASTRAZZIONE.
(20 agosto 1830)
Tiràmese
1
ppiù in là, chè cqui la gujja
2
Ciarippara
3
de véde’ er roffianello...
4
Varda
5
varda, Grigorio, mi’ fratello
Che s’è mmesso a intignà
6
cco’ la patujja!
Mosca!
7
Er pivetto
8
arza la mano, intrujja
9
Mo in de le palle... Lesto, eh bberzitello.
Ecco ecco che lleggheno er cartello:
Ch’edè?
10
Ccinquantasei! Senti che bbujja!
11
Je la potessi fa’, sangue de ddina!
Sor coso, vorticàmo
12
er bussolotto.
Ch’edè? Trenta! Cell’ho ddrento a l’ottina.
Dièsci! ggnente: Sei! ggnente: Discidotto!
Ggnente. Ca..o! nemmanco stammatina?
Rotta de collo a chi ha inventato er lotto.
1
Tiriamoci.
2
Obelisco di Monte Citorio.
3
Ci ripara.
4
Orfanello dell’Ospizio degli Orfani. —
5
Guarda.
6
Ostinarsi in alterco. —
7
Silenzio! Si veda la nota 6 al sonetto Pe’ la morte de Papa Grigorio. —
8
Fanciullo:
V. la nota 4. —
9
Rimescola. —
10
Che è? —
11
Buglia, bisbiglio. —
12
Rivolgiamo.
II.
ER CONFORTATORE.
(13 settembre 1830)
Sta notte a mmezza notte, er carcerato
Sente uprì er chiavistello de le porte,
E fàsse avanti un zervo de Pilato
A ddijje: Er fischio
1
te condanna a mmorte.
Poi tra ddu’ torce de sego incerato,
Cco’ ddu’ guardiani e ddu’ bbracchi de corte,
2
Entra un confortatore incappucciato
Coll’occhi lustri e cco’ le guance storte.
Te l’abbraccica
3
ar collo, e l’assicura
Strillanno: Alegri, fijjo mio! riduna
Le forze pe’ mmorì ssenza pavura.
— Alegri un ca..o! corpo de la luna!
Disce quello: — Pe’ mme, chi se ne cura?
4
Pijjatela pe’ vvoi tanta furtuna.
1
Fisco.
2
Birri della corte.
3
Abbraccicare è «abbracciar fortemente.» Lo dicono anche nell’Umbria e a
Siena. —
4
Quanto a me, non me ne curo davvero!
III.
L’INAPPETENZA DE NINA.
(Morrovalle, 22 settembre 1831)
Eh, sor dottore mia, che vvorà ddì’
Che mm’è sparita quell’anzianità,
1
Che ’na vòrta sentivo in ner maggnà,
Anzi nun pôzzo ppiù addiliggerì?
2
Me s’è mmessa ’na bboccia propio cquì:
3
’Ggnisempre ho vojja d’arivommità:
E cquanno, co’ rrispetto, ho da cacà,
Sento scêrti dolori da morì.
Perchè nun m’ordinate quer zocché,
4
Che pij Ttuta quanno s’ammalò
Pe’ sgranà
5
ttroppi dórci der caffè?
Oppuramente un po’ d’asscenzo,
6
o un po’
De leggno-santo: chè ar pijjà ppe’ mme,
Io nun ciò
7
ggnisun scrupolo,
8
nun ciò.
1
Ansietà.
2
Digerire.
3
Un peso, una gravezza, indicando lo stomaco. —
4
Quel non-so-che.
5
Mangiare.
6
Assenzio. —
7
Non ci ho. —
8
Difficoltà.
VI.
LE SPACCONERIE.
1
(Morrovalle, 23 settembre 1831)
’Gni sordo-nato dice che ssei l’asso,
2
E vvòrti
3
l’ammazzati co’ la pala!
Prz,
4
te fischieno, Marco: tiétte bbasso:
C’ereno certi frati de la Scala!…
5
Te vedo, Marco mia, troppo smargiasso,
6
E cquarchiduna de le tue se sala.
7
Lassa de spacconà, nun fa’ er gradasso,
E aricòrdete er fin de la scecala.
8
A ssentì a tte fai sempre Roma e ttoma:
9
E poi ch’edè? viè spesso e vvolentieri
Chi tt’arizzòlla
10
e tte ne dà’ una soma.
Ognomo
11
hanno d’avé li su’ mestieri:
Chi fa er boia, chi er re, chi scopa Roma:
Sei bbraghieraro tu? ffa li bbraghieri.
1
Millanterie.
2
Asse: principal carta a varii giuochi. —
3
Vôlti, rivolgi.
4
Il suono del peto.
5
Parte di ciò
che si canta a chi millanta, cioè: C’erano certi frati della scala, che dicevano cala cala.
6
Smargiasso,
spaccone, millantatore, che al romore delle parole unisce certa importanza di mimica. —
7
Si sala per fermarne la
corruzione.
8
A’ ciarloni si ricorda il fine della cicala, che canta canta e poi crepa.
9
Mari e monti.
10
Ti
darà le busse. —
11
Ogn’uomo, che qui sta per «tutti gli uomini
V.
ER CARCIO-FARZO.
1
(Morrovalle, 25 settembre 1831)
Rosa, nun te fidà de tu’ cuggnata:
Quella ha ddu’ facce e nun te viè ssincera.
Dimannelo cqui ggiù a la rigattiera,
Sì ccome t’arivòrta la frittata.
Stacce a la lerta,
2
Rosa: io t’ho avvisata.
A la grazzia..., bbôn giorno..., bbôna sera...,
E ttocca la vïola:
3
chè a la scera
Je se smiccia la quajja arisonata.
4
Sibbè cche
5
(a ssentì a llei) tiè er core in bocca,
Fa ddu’ parte in commedia la busciarda,
E vvô ddì’ ccacca si tte disce cocca.
6
Quanno tu pparli, a cchi tira la farda,
A chi ttocca er piedino: e intanto, ggnocca,
7
Tu la crompi pe’ alisce, e cquella è ssarda.
8
1
Tradimento. —
2
Stacci all’erta.
3
E basta così; e va pei tuoi fatti. —
4
Alla cera le si conosce l’idea di furba,
di maligna.
5
Sebbene, benchè. —
6
Cuor mio. —
7
Semplice che sei.
8
Modo proverbiale.
VI.
LA LETTRA DE LA COMMARE.
(Morrovalle, 26 settembre 1831)
Cara Commare. Piazza Montanara,
1
Oggi li disciannove der currente.
Ve manno a scrìve’ che sta facciamara
De vostra fijja vô pijjà
2
un pezzente.
Poi ve faccio sapé che la taccara
Morze, in zalute nostra, d’accidente:
E l’arisposta so’ a pregàvve cara -
mente a dàlla alla tórre
3
der presente.
Un passo addietro.
4
Cqua la capicciola
Curre auffa,
5
mannandove un zaluto
Pe’ pparte d’Antognuccio e Luscïola.
Me scordavo de dìvve, si ha ppiovuto
Che sta lettra nun pô passà la mola,
Come, piascenno a Dio, ve dirà el muto.
Titta nun ha possuto;
E con un caro abbraccio resto cquane
Vostra Commare Prascita Dercane.
6
A l’obbrigate mane
De la Signiora Carmina Bberprato,
Roccacannuccia, in casa der curato.
1
In piazza Montanara, presso l’antico teatro di Marcello, siedono alcuni scrivani o segretarii in servizio dei
villani dello stato, che ivi si radunano particolarmente le feste ad aspettare occasioni di vendere la loro opera pe’
lavori delle campagne romane: questi segretarii hanno certa tassa per le varie lunghezze di lettere; le più preziose
delle quali sono dipinte a cuori trafitti. —
2
Sposare.
3
Al latore.
4
Frase usata spessissimo dagl’indotti, che
nel discorso abbiano obliata qualche circostanza. —
5
La bavella va a vil prezzo. —
6
Placida del Cane.
VII.
LA GUITTARIA.
1
Sonetto 1°
Cacaritto a Cacastuppini
(Morrovalle, 26 settembre 1831)
Guitto
2
scannato,
3
e cchè!, nun te conoschi
D’êsse’ ar zecco,
4
a la fetta
5
e a la verdacchia?
6
Stai terra-terra come la porcacchia,
7
Abbiti a Ardia
8
in casa Miseroschi.
Ha spiovuto,
9
sor dommine, la pacchia
10
D’annà in birba,
11
bburlà, e gguardàcce loschi,
12
Pei pranzi che te dava Ppuggnattoschi;
Maggni a bbraccetto,
13
e bbatti la pedacchia!
14
De notte all’Osteria de la Stelletta,
15
De ggiorno ar Zole;
16
e cquer vinuccio chiaro
17
Che bbevi, viè a stà’ ggnente a la fujjetta.
Mostri ’na chiappa, un gommito e un ginocchio;
E chi tte vô, fa ccapo all’ammidaro
A li Greghi,
18
a l’inzegna der pidocchio.
19
1
Miseria.
2
Miserabile.
3
Senza denari.
4
Essere in secco.
5
Essere a la fetta, vivere assegnato per
povertà. —
6
Essere al verde, rovinato. —
7
Erba porcellana.
8
Ardea, antica città del Lazio. Essere ad Ardea,
ardere, non avere un quattrino.
9
È finito.
10
Il comodo.
11
Andare in tresca o in cocchio.
12
Guardarci
bieco.
13
Mangiare a braccetto, a braccio: «cibarsi magramente e senza neppure apparecchio di mensa.»
14
Pedacchia, via di Roma. Batter la pedacchia, andare a piedi.
15
Dormi alla bella stella.
16
Altra osteria di
Roma: metafora consimile.
17
Acqua.
18
Essere all’amido, all’amidaro, esser fallito. Presso la chiesa di
Sant’Anastasio de’ Greci era un mercante di amido. —
19
Pidocchio, si prende per simbolo di miseria.
VIII.
SONETTOCOLA CODA.
RISPOSTA DE CACASTUPPINI A CACARITTO.
So’ un po’ spiantato: ebbè? nnun me vergoggno
De dìllo a ttutto er monno a uno a uno.
Mejjo pe’ mmé: cussì nun ho bbisogno
D’imprestà ddiesci pavoli a ggnisuno.
Nun te créde’ però,
1
chè cce sbologgno:
2
So conósce’ er panbianco
3
dar panbruno:
E nnun m’intraviè
4
mmai, manco in inzoggno,
D’annà a la cuccia a stommico a ddiggiuno.
E vvoi che ffate l’ammazzato
5
ar banco
De Panza er friggitore a Tiritone,
6
Conosscete er panbruno dar panbianco?
V’annerebbe
7
un boccon de colazzione?
Ve rode er trentadue?
8
ve sfiata er fianco?
Le bbudelle ve vanno in priscissione?
Quer landàvo
9
marrone,
È rrobba crompa
10
in ghetto, oppuramente
11
Scarti de Monziggnor Logotenente?
Un accicí ccor dente,
Sor ricacchio
12
de brutta matriciana:
13
Lo mettete ar cammino a la bbefana.
14
Quella porca mammana
V’avessi ssciòrto subbito er bellicolo,
Camperessivo mo senza pericolo
D’avé l’abbiffa ar vicolo
De li tozzi,
15
e d’annà, ppe’ ppiù ccordojjo,
A sbàtte’ er borzellino in Campidojjo.
16
Co’ ssale, asceto e ojjo,
Fateve un’inzalata de mazzocchi,
17
Che ve pônno costà ppochi bbaiocchi.
So’ rradiche pell’occhi
Che cor un po’ de fedico suffritto
Fanno abbozzà
18
er cristiano
19
e stàsse
20
zitto.
Dico, eh sor Cacaritto,
Si vve bbattessi mai la bbaïnetta,
Volete che vve manni una sarvietta?
21
La povera Ciovetta,
Quanno anderete poi da quer Ziggnore,
22
V’ariccommanna de cacàvve er core.
1
Non credere però; non prendere abbaglio. —
2
Ci vedo. —
3
Pan bianco, uomo stolido. —
4
Non mi accade. —
5
Far l’ammazzato, «patire desiderio innanzi a qualche cosa.»
6
Tritone, fontana in piazza Barberini.
7
Vi
appetirebbe.
8
Avete fame?
9
Vestito.
10
Comperata.
11
Oppure.
12
Cacchio, germoglio; ricacchio,
«secondo germoglio, il rigettare delle piante, il dar fuori nuove messe;» e nel traslato, come qui, vale «figlio
spurio, o bastardo.»
13
Matriciana, contadina della Matrice, terra del Napoletano, sul confine dello Stato
pontificio. —
14
Si usa di esporre al camino della casa i denti che cadono ai bambini, onde la Befana vi sostituisca
qualche moneta.
15
Gola.
16
In Campidoglio sono le carceri de’ debitori, i quali dalle inferriate sporgono
alcune borsette all’estremità di una canna per avere elemosina da chi passa.
17
Ironia di pugni.
18
Cagliare.
19
L’uomo. —
20
Starsi. —
21
Equivoco romanesco di saetta.
22
Ironia di cesso.
IX.
CE SOINCAPPATI!
(29 settembre 1831)
Le tavolozze
1
so’
2
a cquest’ora ar posto,
Le bbussolette
3
ggià sse fanno avanti,
E mmo er Gesummaria e l’Agonizzanti,
4
Hanno messo er Zantissimo indisposto.
5
Domatina, ora scêrta,
6
sti garganti,
7
Si nun tiengono
8
ppiù cch’er collo tosto,
9
S’hanno co’ cquer boccon de ferragosto
10
Da cacà ll’animaccia com’e ssanti.
11
E ffurno lôro, sai?, ch’a ddon Annibbile
12
L’assartorno
13
in ner vicolo d’Ascanio
Pe’ rrubbàjje
14
un cuperchio de torribbile;
15
E jje dièdeno un córpo
16
subbitanio,
Che jje penneva un parmo d’intestibbile,
17
Sotto ar costato, cqui, ppropio in ner cranio.
1
Tavole scritte, che invitano i fedeli alla indulgenza in suffragio delle anime de’ condannati.
2
Sono.
3
Si
allude alla questua.
4
Due chiese.
5
Esposto.
6
Horâ certâ.
7
Questi ribaldi.
8
Se non tengono. —
9
Duro.
10
Con quel piccolo regalo.
11
Con rassegnazione.
12
Annibale.
13
L’assaltarono.
14
Per
rubargli. —
15
Turibolo. —
16
Coll’o chiuso: colpo. —
17
Intestino.
X.
MUZZIO SSCEVOLA ALLARA.
(Otricoli, 10 ottobre 1831)
Tra ssei cherubbigneri e ddu’ patujje,
Co’ le mano dereto manettate,
Muzzio Scevola in tonica d’istate
Annò avanti ar zoprano de le trujje.
1
Stava Porzenno a sséde in zu le gujje
2
Che sse vedeno a Arbano inarberate.
— Sora mmaschera, come ve chiamate?
(Er Re jje disse), e ccosa so’ ste bbujje?
3
—.
Disce: — Sagra Maestà, so’ Mmuzzio Sscèvola:
Ve volevo ammazzà; ma ppe’ ’n equivico
ho rotto un coppo in cammio d’una tevola.
4
Ditto accusì, pe’ ariscontà er marrone,
5
Cor un coraggio de sordato scivico
6
Se schiaffò la mandritta in ner focone.
1
Sovrano della Etruria.
2
Guglie, obelischi.
3
Buglia, sobbuglio, chiasso.
4
In cambio di una tegola. —
5
Per iscontar l’errore.
6
Il sarcasmo andava a ferire la Guardia civica, formatasi in Roma durante i moti del 31,
per difendere il Trono e l’Altare. Si veda a questo proposito la nota 1
a
al sonetto Er civico de guardia.
XI.
ER VIAGGIATORE.
(14 novembre 1831)
È un gran gusto er viaggià! St’anno so’ stato
Sin’a Castèr Gandorfo
1
co’ Rrimonno.
Ah! cchi nun vede sta parte de Monno
Nun za nnemmànco pe’ cche ccosa è nnato.
Cianno
2
fatto un bêr lago, contornato
Tutto de peperino, e ttonno tonno,
Congeggnato in maggnéra,
3
che in ner fonno
Sce s’arivede er monno arivòrtato.
Se pescheno llì ggiù ccerte aliscette,
Co’ le capòcce, nun te fo bbuscìa,
4
Come vemmarïette de rosario.
E ppoi sc’è un buscio, indóve sce se mette
Un moccolo sull’acqua che vva via:
E sto bbuscio se chiama er commissario.
5
1
Castel Gandolfo: dove suol villeggiare il Papa.
2
Ci hanno.
3
Maniera.
4
Non ti dico bugia.
5
L’emissario del lago di Albano. Chi lo visita, si diletta di mandarvi dentro dei moccoletti accesi, sostenuti da
pezzetti di legno galleggianti sull’acqua che vi s’interna.
XII.
È MEJJO PÈRDE UN BÔNAMICO, CHE UNA BBÔNA RISPOSTA.
1
(13 settembre 1830)
Jjer’ar giorno, pe’ vvia de sto catarro
Der mi’ povero gozzo arifreddato,
Maggnat’appena du’ cucchiar’ de farro
Curze
2
da quer cirusico arrabbiato.
Ma io ch’una ch’è una nun n’ingarro,
3
Te lo trovai che ggià sse n’era annato
In frett’e in furia a rinnaccià uno sgarro,
4
Co’ lo spezziale, er medico e ’r curato.
La mojje che mme vedde métte’ a sséde’,
5
Disse inciurmata:
6
— Ihì! ppuro
7
la ssedia!
Ve dà ffastidio d’aspettàllo in piede
— Che! vve la logro?
8
(io fesce
9
a la scirusica)
Pozziat’êsse
10
ammazzata a la commedia!,
Accusì armanco
11
creperete in musica. —
1
Proverbio.
2
Corsi.
3
Non ne indovino.
4
A medicare una ferita.
5
Mi vide mettermi a sedere.
6
Inciprignita, accigliata: da ciurma, che in romanesco vale cipiglio.
7
Pure.
8
Logoro.
9
Dissi.
10
Possiate essere. —
11
Almeno.
XIII.
LI VENTISCINQUE NOVEMBRE.
(18 novembre 1831)
Oggiaotto ch’è Ssanta Catarina
Se cacceno le store
1
pe’ le scale,
Se
2
leva ar letto la cuperta fina,
E ss’accenne er focone in de le sale.
Er tempo che farà cquela matina
Pe’ Nnatale ha da fàllo tal’e cquale.
3
Er bbusciardello
4
cosa mette? bbrina?
La bbrina vederai puro a Nnatale.
E ccominceno ggià li piferari
5
A ccalà da montagna a le maremme,
Co’ cquelli farajôli tanti cari!
6
Che bbelle canzoncine!
7
Oggni pastore
Le cantò spiccicate
8
a Bbettalemme
Ner giorno der presepio der Ziggnore.
1
Si cavano le stuoie. —
2
Si. —
3
Opinione volgare costantissima, che si ride della esperienza. —
4
Il bugiardello:
il lunario.
5
Abbruzzesi suonatori di pive e cornamuse o cennamelle, che il popolo chiama ciaramelle.
6
Mantelletti rattoppati, che raramente giungono loro al ginocchio.
7
Niuno può vantarsi di aver mai inteso ciò
che essi cantano. —
8
Tali e quali.
XIV.
LA CORDA AR CORZO.
(21 novembre 1831)
Cqui, (e cquant’è ggranne Roma
1
l’aricorda),
Propio in ner mezzo a sta ritiratella,
C’era piantato un trave e ’na girella,
Dove prima sce daveno
2
la corda.
Sto ggiucarello era una lima sorda,
O ffussi a tratti oppuro a ccampanella,
3
Che cchi ss’è intesa in petto la rotella
De le spalle, perdio, nun ze ne scorda.
Sia benedetto sempre er cavalletto!
Armanco mo tte n’esci con onore,
E nun ce fai li cardinali in petto.
4
Chè ffôr de quer tantino de bbrusciore,
Un galantòmo senza stàcce
5
a lletto,
Pô annà pp’er fatto suo com’un ziggnore.
1
«Roma tutta intiera. La ricorda anche l’autore di questi versi, benchè giovane.» Così annotava il Belli, che era
nato nel 1791.
2
Ci davano.
3
Il tirar su e poi ricalare il paziente; senza abbandonarne il peso a stesso,
come si usava ne’ tratti, da quali, restando il corpo sospeso e legato per le mani dietro il dorso, riceveva
l’infelice dolore acutissimo e slogamento di ossa. —
4
Fare i cardinali vale «sputar sangue.» —
5
Starci.
XV.
ER FALEGNAME COR REGAZZO.
(21 novembre 1831)
Fàmme la carità, ma cche tte fai!
Cosa te seghi, pe l’amor de Ddio!
Nu’ lo vedi che ddritto nun ce vai,
Mannaggia li mortacci de tu zio?!
Gran chè de nun potesse fidà mai
Co’ sta faccia de cane d’un ggiudìo!
Animo, lass’annà, cché nun ce dài:
1
A cchi ddico? aló,
2
cqua, chè ssego io.
Lasseli sta’ sti poveri strumenti,
Ché, a cquer che vvedo, er legno, fijjo caro,
Nun è pane adattato a li tu’ denti.
Va piuttosto a fa’ er medico o ’r notaro;
Oppuro er mercordì, si tte la senti,
Viàggia a Piazza-ladrona
3
pe’ somaro.
1
Che non ci azzecchi.
2
Storpiatura di allons francese.
3
Piazza-navona, detta talvolta ladrona, a causa del
fraudolento traffico che vi fanno i rivenduglioli, ossien bagherini.
XVI.
L’EDITTO PELA CUARESIMA.
(24 novembre 1831)
Er curato a la messa ha lletto er fojjo
Che cc’è
1
l’indurto, e ccià
2
spiegato tutto:
A ppranzo se connissce co’ lo strutto,
Ma la sera però ssempre coll’ojjo.
Carne de porco mai: sai che cordojjo
Sti jotti
3
de salame e dde presciutto!
Pe’ mme, ciò
4
un zanguinaccio, ma lo bbutto;
Ché ïo nun vojjo scrupolo, nun vojjo.
La matina se
5
pe’ ccolazzione
Pijjà un deto
6
de vino e un po’ de pane,
Da non guastà er diggiuno in concrusione.
Poi disce a li cristiani e a le cristiane
D’abbandonà er peccato, e ffa’ orazzione
Sin che nun s’arissciojje
7
le campane.
1
Nel quale è. —
2
Ci ha. —
3
Si sottintende a, per questi ghiotti, ecc. —
4
Quant’a me, ci ho, ecc.
5
Si può. —
6
La misura di un dito. —
7
Si riscioglie per si risciolgono.
XVII.
LA GGIOSTRA A GGOREA.
1
Jeri sì che ffu ggiostra! Che bbisbijjo!
Figurete che Mmeo de bborgonovo
A vvent’ora er bijjetto nun l’ha ttrovo:
Epperò dde matina io me li pijjo.
Oh cche ggran ccarca!
2
pieno com’un ovo!
Nun ce capeva ppiú un vago de mijjo!
Le gradinate poi!... Io e mmi’ fijjo
Paremio
3
propio du’ purcini ar covo.
Che accidente de toro! D’otto cani,
A ccinque j’ha ccacciato le bbudella,
E ll’antri l’ha schizzati
4
un mîo
5
lontani.
E cquer majjone,
6
vôi ppiú cosa bbella?
Eppoi, lo vederai doppodomani:
Bbast’addí’ c’ha sfonnato
7
Ciniscella!
8
1
Anfiteatro detto di Corèa, dal palazzo già della famiglia di tal nome, al quale è aderente. È fabbricato sulli
avanzi del famoso Mausoleo di Augusto.
2
Calca.
3
Parevamo.
4
In senso attivo, scagliàti.
5
Un
miglio.
6
Toro castrone.
7
Ferito con lacerazione.
8
Cinicella, soprannome di un famigerato giostratore
nativo di Terni.
XVIII.
CHE LLINGUE CURIOSE.
(7 dicembre 1831)
Sta tu’
1
Francia sarà una gran città;
Ma li Francesi che nnascheno llì,
Hanno una scêrta gorgia de parlà,
Che ssia ’mmazzato chi li pô ccapí.
Llà ttre e ttre nun fa ssei, tre e ttre ffa ssì;
2
E, cquanno è rrobba tua, sette a ttuà.
3
Pe’ ddì’ de sì, sse
4
bburla er porco: :
E cchi vvô ddì’ de no, disce: nepà.
E mm’aricordo de quer zor monzù
Che pprotenneva
5
che discenno a s,
6
Discessi
7
abbasta, nun ne vojjo ppiù.
E de quell’antro che mme se maggnò
’Na colazzione d’affogàcce a te,
8
E me sce disse poi che ddiggiunò?!
1
Questa tua. —
2
Per esempio six pauls ecc. —
3
C’est à toi. —
4
Si.
5
Pretendeva.
6
Assez. —
7
Dicesse. —
8
Da affogarci te pure.
XIX.
LA SPIA.
(7 gennaio 1832)
Che arte fate mo, vvoi, sor Ghitano?
Fate er curier de corte,
1
o la staffetta?
Fate er zoffione, er pifero, er trommetta,
L’amico, la minosa, o er paesano?
2
Quanno stavio a abbità ttra Rruff’e Ffiano,
3
Ve volevio bbuttà ggiù da Ripetta;
4
E mmo pportate ar petto la spilletta,
Du’ lumache
5
a la panza, e ’r pomo immano.
6
Che cc’è a ppiazza Madama,
7
ch’è da maggio
Ch’ogni ggiorno l’avete pe’ ccustume
D’annàcce a ffa’ ttra er lusco e ’r brusco
8
un viàggio?
Nun alzàmo però ttutto sto fume,
Per via ch’er Vicoletto der vantaggio,
9
Sor Cavajjere mio, riesce a ffiume.
1
Corte per birraglia.
2
Otto sinonimi di spia.
3
Quando facevate il ruffiano. Ruffo e Fiano, due palazzi di
Roma.
4
Porto sul Tevere. Intendi: «Volevate annegarvi, disperato pei magri affari che vi capitavano».
5
Oriuoli da tasca.
6
Con in mano il bastone guarnito di pomo di argento. —
7
V’era il palazzo della polizia. —
8
Sull’imbrunire del giorno. —
9
Una delle vie di Roma, che dal Corso traversando Ripetta fa capo al Tevere.
XX.
LE CAPATE.
(10 gennaio 1832)
Co st’antre ammazzatore
1
sgazzerate
2
Ch’hanno vorzuto
3
arzà
4
ffôra de porta,
5
Nun ze
6
disce bbuscìa che Rroma è mmorta
Più ppeggio de le bbestie mascellate.
Dove se
6
gode ppiù com’una vôrta
Quer gusto er venardí dde le capate,
7
Quanno tante vaccine indiavolate
Se
6
vedeveno annà ttutte a la sciòrta?
8
Si
9
scappava un giuvenco o un mannarino,
10
Curreveno su e ggiù ccavarcature
11
Pe’ Rripetta, p’er Corzo e ’r Babbuino.
12
Che rrìde’
13
era er vedé ppe’ le pavure
L’ommini métte’ mano
14
a un portoncino,
E le donne scappà cco’ le crature!
15
1
La pubblica ammazzatoia.
2
Voce di spregio.
3
Voluto.
4
Alzare.
5
Del Popolo.
6
Si.
7
Erano
detti capate que’ branchi di bestie vaccine che s’introducevano in Roma disciolte, nel giovedì e venerdì di ogni
settimana.
8
Alla sciolta.
9
Se.
10
Mandarino.
11
Butteri a cavallo.
12
Le tre vie che mettono capo
alla Piazza del Popolo.
13
Che ridere ecc. —
14
Metter mano per entrare. —
15
Creature.
XXI.
ER PRESEPIO DE LA RESCÈLI.
1
(12 gennaio 1832)
Er boccetto
2
in perucca e mmanichetti
È Ssan Giuseppe spóso
3
de Maria.
Lei è cquella vestita de morletti
4
E de bbroccato d’oro de Turchia.
Vedi un regazzo pieno de fiocchetti
Tempestati de ggioje? ècch’er Messia.
Viva! viva sti frati bbenedetti,
Che nun ce fanno véde’ guittaria!
5
Cuello a mezz’aria è ll’angelo custode
De Ggesucristo; e cquelli dua viscino,
6
La donna è la Sibbilla e ll’omo Erode.
Lui disce a llei: dovèllo sto bbambino
Che le gabbelle mie se vô ariscòde?
7
Lei risponne: hai da fa’ mórto
8
cammino.
1
Il presepio de’ frati Francescani dell’Ara-Cœli sul Campidoglio (dov’era il tempio di Giove Capitolino) è
costruito ogni anno veramente secondo la descrizione che qui se ne dà.
2
Vecchietto.
3
Coll’o stretta come
in ascoso.
4
Merletti.
5
Miseria.
6
I due seguenti personaggi a ragionamento fra loro si trovano quasi a
contatto col gruppo del mistero. —
7
Riscuotere per esigere. —
8
Colla o stretta: molto.
XXII.
CHI VA LA NOTTE, VA A LA MORTE.
1
(21 gennaio 1832)
Come so’ lle disgrazzie! Ecco l’istoria:
Co’ cquell’infern’uperto de nottata,
Me ne tornavo da Testa-spaccata,
2
A ssett’ora indóv’abbita Vittoria.
Come llì ppropio dar palazzo Doria
So’ pe ssalì ssanta Maria ’nviolata,
3
Scivolo, e tte do un botto de cascata,
E bbatto apparteddietro la momoria.
4
Stavo pe’ tterra a ppiàgne’ a vvita mozza,
5
Quanno c’una carrozza da siggnore
Me passò accanto a ppasso de bbarrozza.
6
— Ferma! — strillò ar cucchiero un zervitore;
Ma un voscino ch’escì da la carrozza,
Je disse: —Avanti, alò:
7
chi mmore more.
8
1
Proverbio.
2
Via di Roma.
3
Santa Maria in via lata, antico nome del Corso.
4
È comune opinione del
popolo che la memoria risieda nella parte posteriore del capo, la quale si chiama per ciò propriamente la
memoria.
5
A gocciole, come una vite recisa che dia umore.
6
Baroccio, carretta da buoi.
7
Dall’allons
de’ Francesi.
8
È una parte di quel proverbio insensato e crudele, che dice: «Pecora nera, pecora bianca; chi
more, more ; chi campa, campa.»
XXIII.
LE FUNTANE.
(24 gennaio 1832)
Semo tre appiggionante? ebbè ciaspetta
1
D’avé in mano la chiave de funtana
Du’ ggiorni e ggnente ppiù ppe’ ssittimana:
E cchi vvô ppiù ssciacquà vvadi a Rripetta.
Luneddì e mmarteddì ttocca a Nninetta,
Mercordì e ggiuveddì ttocca a Bbibbiana,
E ’r venardì e ’r sabbito a sta sciana,
2
Come me chiama Sôr Maria Spuzzetta.
3
E llei s’intròita
4
de fa’ a mme lla lègge?
5
Ah,
6
c’è bbôn esattore vivo e verde,
Che nun pijja piggione e mme protegge.
Ma ggià co’ ste lustrissime de merde
Che nun zo’ bbône ch’a ttirà scorregge,
7
Ce se perde a pparlàcce, ce se perde.
1
Ci spetta.
2
Ciana: adornata con caricatura.
3
Il titolo di suor o suora vien dato alle religiose: qui è detto
per ischerno. Spuzzetta, donnuccola.
4
Si arroga per sicurezza.
5
Colla e larga.
6
Pronunziato con vivace
impazienza vale no davvero.
7
Peti.
XXIV.
ER DILUVIO DA LUPI-MANARI.
1
(28 gennaio 1832)
Ma cche sperpètua! ma cche llùscia,
2
eh?
Tutta la santa notte, sci sci sci…
Nun ha fatt’antro che sto verzo cqui!,
E gguarda puro mo cquanta ne viè!
Sto tettino de latta accost’a mme,
Che nnoja! nun m’ha ffatto mai dormì:
Se pô ddì’ inzomma ch’è dda venardì
Ch’er zole nun ze sa si che cos’è.
Ma ssenti che sgrullone
3
è cquesto cqua!
Nun pare che ccominci a ppiòve’ mo?
Che ppioviccicarella, eh?, se pô ddà’?
4
Jèso, che ttempi! e cche cce sta llà ssù!
Cosa seria! va bbene un po’ un po’,
Ma er troppo è troppo, e nnun ze ne pô ppiú!
1
È opinione che nelle notti molto piovose alcuni uomini sieno assaliti da un male, che togliendoli di ragione, gli
spinge urlanti e carponi fra l’acqua: ne’ quali momenti è pericoloso il farsi loro dappresso. Costoro vengono
chiamati lupi-mannari.
2
Pioggia dirotta e continua.
3
Pioggia forte e improvvisa, che poi rallenta.
4
Si
può dar di peggio?
XXV.
LI COMMEDIANTI DE CUELLANNO.
(2 febbraio 1832)
Ciappizzo:
1
Palaccorda
2
è la ppiù bbella
De tutti li teatri che sso’ uperti:
Tra ttanta mucchia
3
de sturioni asperti,
4
Nun fuss’antro la Ggiobba e Ccatinella!
5
Ma un’antra compagnia, come che cquella
Ch’un anno rescitaveno a Llibberti,
6
Me ce ggiuco er zalario co’ l’incerti,
Ch’a Rroma tanto nun ze pô ppiù avélla.
Grattapopolo,
7
ch’era l’impresario,
Pe’ le parte d’aspèttito
8
era l’asso,
9
E cciaveva der zuo sino er vestiario.
E er zor Nicola Vedovo,
10
er tiranno?
Cuanno disceva Oh rrabbia, che fracasso!
Fasceva un strillo che ddurava un anno!
11
1
Ci convengo.
2
Il teatro di Pallacorda degl’infimi di Roma.
3
Quantità.
4
Istrioni esperti.
5
La Job e
Gattinelli: due primi attori. —
6
Teatro delle dame, detto di Alibert, il più vasto di Roma, ma inornato e di cattiva
forma.
7
Raftopolo.
8
D’aspetto.
9
Cioè senza superiore: metafora presa dal giuoco della briscola.
10
Vedova. —
11
Tanto in basso era l’arte della recitazione a que’ tempi! Per chi voglia conoscere a fondo gl’istrioni
laceratori di ben costrutti orecchi, che qui mette in canzone il nostro Poeta, gli bisogna leggere la stupenda a
operetta del perugino Bonazzi, Gustavo Modena e l’arte sua.
XXVI.
LE SPILLE.
(27 novembre 1832)
Chi ddà una spilla a un antro che vô bbene,
1
Se perde l’amiscizzia in pochi ggiorni;
2
Er zangue je se guasta in de le vene,
3
E vvatte a rripescà cquann’aritorni!
4
Si sso’ sgrinfi,
5
principieno le pene:
Si sso’ sposi, cominceno li corni:
E ggià in un mese de ste bbrutte scene
N’ho vviste cinqu’o ssei da sti contorni.
Ne li casi però ch’in testa o in zeno
D’appuntàvve un zocché,
6
ssora Cammilla,
Nun potessivo fànne condimeno,
7
A cquela mano che vve vô esibbìlla,
8
Dateje, pe ddistrùgge’ sto veleno,
’Na puncicata
9
co’ l’istessa spilla.
10
1
A cui vuol bene.
2
La sintassi degli antecedenti due versi dia un saggio della reale dei romaneschi.
3
Guastarsi il sangue verso di alcuno, vale «prenderlo in odio.»
4
Vatti a cercare quando ritorni in salute.
5
Amanti.
6
Un non so che.
7
Farne a meno.
8
Vuole esibirla.
9
Puntura.
10
Dimorando a Roma,
ricordo di aver udito più volte dalla bocca di donne, che non erano femminette, questo curioso pregiudizio. Del
resto, ho già avvertito in più luoghi che il nostro Poeta copiava sempre dal vero.
XXVII.
LA POVERA MADRE.
1
(30 novembre 1832)
Eccolo llì cquer fijjo poverello,
Che ll’antro mese te pareva un fiore!
Guàrdelo all’occhi, a le carne, ar colore,
Si ttu nun giuri che nun è ppiù cquello!
Sin da la notte de cuer gran rumore,
Da che er padre je messono in Castello,
2
Nun m’ha pparlato ppiù, ffijjo mio bbello:
Me sta ssempre accusí: mmore e nnun more.
Sei nottate so’
ggià cch’io nun me metto
Più ggiù, e sto ssempre all’erta pe’ ssentìjje
3
Si mme respira e ssi jje bbatte er petto.
Anime sante mia der Purgatorio,
Che pregate pel ben de le famijje,
Liberateme voi da sto martorio!
1
Questo e gli altri due sonetti che seguono, sono una dipintura vivace e passionata delle angoscie di una povera
madre cui gli odi preteschi dopo i fatti del 31, avevano strappato il marito, per cacciarlo in esilio. Il facit
indignatio versum é vero qui, come nelle satire politiche del nostro Poeta; il quale (giova ripeterlo), nella sua
giovinezza ebbe cuore e mente di fervido patriota, checchè ne blaterino in contrario certi cristianelli annacquati.
2
Castel sant’Angelo, dove a que’ tempi il paterno Governo tappava i detenuti politici. —
3
Sentirgli.
XXVIII.
LA POVERA MADRE.
(30 novembre 1832)
Che mm’è la vita, da che sta in esijjo
Cuell’innoscente der marito mio!
Perchè sto ar Monno e nnun m’ammazza Iddio
Mo cche sso’ sola e cche mm’è mmorto er fijjo?
Ah Vvergine Mmaria der bôn conzijjo!
1
Mamma, nun m’abbadà:
2
chè nun zo’ io,
3
È er dolore che pparla: ah! nun zo’ io,
Si
4
cco’ la Providenza io me la pijjo.
5
Llà Ggiggio
6
mio ggiocava: in cuesto loco
Me se bbuttava ar collo: e cquì l’ho vvisto
A sparìmme davanti a ppoco a ppoco!
Cosa saranno le smanie de morte!
Chi ppô ddí
7
la passion de Ggesucristo,
Si er dolor d’una madre è accusì fforte!
1
Del buon consiglio.
2
Non mi badare: non mi dar retta. Quanta verità e quanta poesia in questo confidente
abbandono della poveretta, che chiama mamma la Madonna! Un sentimento consimile ha fatto un capolavoro
della famosa canzone del buon frate da Todi.
3
Non sono io.
4
Se.
5
Piglio.
6
Luigi: il figlio. —
7
Può
dire quel che sia stata, ecc.
XXIX.
LA POVERA MADRE.
(30 novembre 1832)
Via, via da me ste fasce e ste lenzola
Che
1
cc’invortavo
2
la speranza mia:
Fuggite tutti cuanti, annate via,
E llassàteme piàgne’ da me ssola.
Nun pôsso ppiù: me se serra la gola:
Nun zo
3
ssi er core... più in petto... sce sia...
Ah Ddio mio caro!... Ah Vvergine Mmaria!...
Lassateme dì’ ancora... una parola:
Come tu da la crosce... o Ggesú bbono...,
Volesti perdonà... ttanti nimmichi…,
Io... nun odio li mii... e li perdono.
E... si in compenzo..., o bbôn Gesù... te piasce...
De sarvà Ccarlo mio..., fa che mme dichi...
4
Una requiameterna... e vvivi in pasce.
5
1
Con cui. —
2
Involtavo. —
3
Non so. —
4
Dica. —
5
Viva in pace, quand’io sarò morta.
XXX.
LA SPEZZIARIA.
(2 dicembre 1832)
L’antr’anno er mi’ padrone lo spezziale,
Ebbe dar Brodomedico
1
l’avviso,
Ch’er primo luneddí de carnovale
Vierebbe a vvisitàllo a l’improviso.
Allora lui, ch’è un omo puntuale,
Empì ddu bbocce o ttre dd’acqua de riso:
E a mmé ttoccò ’na bbucataccia ar viso
A ttutti li bbarattoli e ar mortale.
2
Ecco er dottore er luneddì a mmatina.
— Tutto in regola ggià... —Tutto, (arispose
Lo spezziale), ecco cqua la su’ bbropina
3
—.
— Bbravo! accusì me piàsceno
4
Bbravo! accusì
m______________________________________________________________
________________________________________________ le cose.
E intanto s’acchiappò la su’ cartina,
La pesò ttra le mano, e l’aripose.
1
Protomedico. —
2
Mortaio. —
3
Propina. —
4
Piacciono.
XXXI.
ER COSTITUTO.
(3 dicembre 1832)
— Chi ssiete? — Un omo. — Come vi chiamate? —
Biascio Chiafò. — Di qual paese siete?
Romano com’e llei. — Quanti anni avete?
Sò entrato in ventidua. — Dove abitate?
Dietr’a Ccampo-Carleo.
1
— Che arte fate?
Gnisuna, che ssapp’io. — Come vivete?
De cuer che Ddio me manna. — Lo sapete
Perché siete voi qui? — Pe’ ttre pposate —.
Rubate? — Ggià. — Vi accusa? — Er Presidente.
2
Ma le rubaste voi? — Nun zo’
3
stat’io.
Dunque chi le rubò? — Nu’ ne so ggnente. —
E vvoi da chi le aveste? — Da un giudio. —
Tutto vi mostra reo. — Ma so’ innoscente. —
E se andaste in galera? — È er gusto mio. —
1
Chiesetta e contrada del foro Trajano.
2
Presidente onorario di polizia. —
3
Sono.
XXXII.
LI FIJJI IMPERTINENTI.
(4 dicembre 1832)
Checco, la vôi finì? Fferma, Sceleste;
1
Toto, mo vviengo llà: zzitta, Nunziata.
E cche ddiavolo mai! forcine, creste!
2
Nenaccia,
3
dico a tté, ffuria incarnata!
Jeso!
4
e cch’edè,
5
Mmadonna addolorata!
Se discurre
6
che ggià ttiengo du’ teste!
Ma ddate tempo c’aritorni Tata,
E vv’accommido er corpo pe’ le feste.
Io dico ch’è una cosa, ch’è una cosa,
Che cce vorìa la fremma
7
de li Santi:
Nun z’ariposa mai, nun z’ariposa!
Li sentite bbussà l’appiggionanti?
8
Volete fa svejjà la sora Rosa,
Che Ccristo v’ariccojji
9
a ttutti cuanti?!
1
Celeste.
2
Irrequieti, birichini, ecc.
3
Nena, accorciativo di Maddalena.
4
Gesù!
5
Che è.
6
Si
discorre, basti dire.
7
Flemma; pazienza.
8
Ne’casi di soverchio romore sogliono gli abitanti inferiori
percuotere il soffitto con un bastone. —
9
Vi raccolga.
XXXIII.
LA MOJJE DER GIUCATORE.
(5 dicembre 1832)
Commare mia, so’ ppropio disperata:
Nun pôzzo
1
ppiù ddormì, nun trovo loco.
Da che ha ppijjato la passion der gioco
St’infame de Matteo m’ha aruvinata.
Cuer po’ dde dota mia ggià se n’è annata
Più cche ll’avessi
2
incennerita er foco:
E ssi vvedi
3
la casa! appoco appoco
Già mme l’ha ttutta cuanta svalisciata!
E jjerzera, Madonna bbenedetta!
Che spasimo fu er mio, come a cquattr’ora
Me lo vedde tornà ssenza ggiacchetta!
4
Ma la cosa più ppeggio che mm’accora,
5
________________________________________________________________
______________________________________________________________
So’ ggravida, Commare! Io poveretta
Con che infascio sto fîo cuanno viè ffôra?!
1
Non posso.
2
Avesse.
3
Se vedessi.
4
Camiciola a maniche, vestimento ordinario del volgo.
5
Sottointendi: È questa.
XXXIV.
LE LINGUE DER MONNO.
(16 dicembre 1832)
Sempre ho ssentito a ddí’ cche li paesi
Hanno oggnuno una lingua indifferente,
1
Che dda sciuchi
2
l’impareno a l’ammente,
3
E la pàrleno poi per êsse’ intesi.
Sta lingua che ddich’io l’hanno uguarmente
Turchi, spaggnoli, moscoviti, ingresi,
Burrini, ricciaroli, marinesi,
E ffrascatani,
4
e ttutte l’antre ggente.
Ma nun c’è llingua come la romana
Pe’ ddí’ una cosa co’ ttanto divario,
Che ppare un magazzino de dogana.
Così noi dîmo:
5
culo, chitarrino,
Preterito, soffietto, tafanario,
Mela, tonno, trommóne
6
e siggnorino.
1
Differente.
2
Ciuchi, piccoli, ragazzi.
3
A mente.
4
Villani di romagna; naturali della Riccia, già
Ariccia; abitanti di Marino e di Frascati, terre vicino a Roma. —
5
Diciamo. —
6
Trombone.
XXXV.
LE COSE CREATE.
(21 dicembre 1832)
Ner monno ha ffatto Iddio ’ggni cosa deggna:
Ha ffatto tutto bbôno e ttutto bbello.
Bbôno l’inverno, ppiù bbôna la leggna:
Bbôno l’abbacchio,
1
mejjo assai l’agnello.
Bbôna la midiscina e chi l’inzeggna,
Più bbôno chi cce logora er ciarvello:
Bbôno assai l’ubbidì, mejjo chi reggna:
Bbôno er merlo, e bônissimo er franguello.
Sortanto in questo cqui ttrovo lo smanco,
2
Che ppoteva, penzànnosce
3
un tantino,
Creàcce
4
l’acqua rossa e ’r vino bbianco:
Perché ar meno, ggnisun’oste assassino
Mo nun vierìa
5
co ttanta faccia ar banco
A vénnesce
6
mezz’acqua e mmezzo vino.
1
Agnello di latte. —
2
Difetto. —
3
Pensandoci. —
4
Crearci. —
5
Verrebbe. —
6
Venderci.
XXXVI.
ER CARZOLARO AR CAF.
(13 gennaio 1833)
Cos’è, ccorpo de ll’ajjo, eh caffettiere,
Ch’ancora nun me date sti grostini?
Volete véde’
1
ch’agguanto
2
un bicchiere,
E vve lo fo vvolà ssu li dentini?
Ma vvarda
3
sti fijjacci d’assassini
Si cche bbêr modo
4
d’abbadà ar mestiere!
Io viengo cquì a ppagà li mi quadrini,
E vvojj’êsse’ servito de dovere.
Sicuro, sor caldèo,
5
che ddico bbene:
Sicuro, sor mustaccio
6
de falloppa,
Che mme se scalla er zangue in de le vene.
Cuann’uno spenne,
7
una parola è ttroppa;
Duncue mosca,
8
pe’ crilla, e ppoche sscene,
O vve faccio iggnottì
9
sta sottocoppa.
1
Vedere.
2
Do di piglio a ecc.
3
Guarda.
4
Che bel modo hanno.
5
Imbecille.
6
Mostaccio.
7
Spende. —
8
Silenzio.
9
Inghiottire.
XXXVII.
ER CARZOLARO AR CAF.
(14 gennaio 1833)
Li grostini cor tê! vvoi sete franco:
Io vojjo li grostini cor melazzo:
E li vojjo pe’ mmé e ppe’ sto regazzo;
E li vojjo, de ppiù, dde pane bbianco.
Io so cche ll’arte mia nu’ la strapazzo:
Sto ar banchetto pe’ ttutti, e nnun j’amanco;
E nnun fo ccom’e vvoi, che ddrent’ar banco
Stat’a mmétte’ li conzoli in palazzo.
1
Scrìve’! Guardate llì cch’arifreddori!
2
Scrìve’! E ttratanto nun ze tiè dde vista
A cquer c’hanno bbisoggno l’aventori!
Che mme ne preme
de la vostra lista?!
Cuanno avevio
3
pe’ scrìve’ sti furori,
Ve dovevio impiegà
4
ppe’ ccomputista.
1
Mettere i consoli in Palazzo, frase che si usa sempre ironicamente anche nell’Umbria, e che ricorda le nostre
repubbliche del medio evo. —
2
Che pretensioni; che vanità. —
3
Se avevate. —
4
Vi dovevate impiegare.
XXXVIII.
ER CARZOLARO AR CAF.
(14 gennaio 1833)
Oh, adesso che vvienite co’ le bbone,
È un antro par de maniche,
1
fratello.
Mo vve so’ schiavo, ve caccio er cappello,
Se toccàmo er cinquanta,
2
e vva bbenone.
Cquà nnun ze fa ppe’ ddì, ccore mio bbello...
Ecco llì: la capischi la raggione?
Oggnuno ha le su’ propie incrinazzione:
A cchi ppiasce la trippa, e a cchi er budello.
Tu ffai er caffettiere, e tte strufini
Le deta su l’inchiostro: io ’r carzolaro,
E mme va a ggenio er tê cco’ li grostini.
Io nun ho ggnisun’odio ar calamaro:
Lo dichi lui
3
che vva ssu li puntini,
4
Perch’io nun vojjo er zangue mio
5
somaro.
1
È un’altra cosa.
2
Ci tocchiamo la mano.
3
Cioè il figlio, ivi presente.
4
Scrive sui puntini, tracce di
lettere. —
5
I figli miei.
XXXIX.
ER CARZOLARO AR CAF.
(14 gennaio 1833)
Io nun tiengo
1
de fijji antro che cquesto;
Duncue vojjo ch’impari a llègge’ e a scrive’,
E accusì mmai j’amancherà dda vìve’,
E averà in culo er monno e ttutt’er resto.
Bbast’a ffa le su’ cose sbrigative:
Bbast’arzasse a bbôn’ora, e êsse’ lesto,
Timorato de Ddio, lescit’e onesto,
2
E attento a nnun pijjà ppieghe cattive.
Tratanto io piaggno
3
sempre; e ttra cquarch’anno
Io servo, grazziaddio, tant’avocati,
Che in cuarche llôgo me l’imbusceranno.
4
Provisto er fijjo, coll’occhi serrati,
E ssenza sturbo de ggnisun malanno,
Dormirò li mi sonni ariposati.
1
Non ho.
2
Lecito e onesto. Quel lecito aggiunto a persona è tutto romanesco.
3
«Mi dolgo sempre della
mia condizione, perchè qualcuno poi mi aiuti.» —
4
Imbucheranno, allogheranno.
XL.
ER LUPO MANNARO.
1
(15 gennaio 1833)
’Na notte diluviosa de ggennaro
A Ggrillo er zediaretto a Ssan Vitale
Tutt’in un bòtto j’ariprese er male
Dell’omo-bbestia, der lupo-manaro.
Ar primo sturbo, er povero ssediaro
Lassò la mojje e ccurze
2
pe’ le scale,
E ssur portone diventò animale,
E sse n’aggnéde
3
a urlà ssur monnezzaro.
4
Tra un’ora tornò a ccasa e jje bbussò;
E cquela sscema, senza dì’ — cchi è? —
Je tirò er zalissceggne,
5
e ’r lupo entrò.
Che vvôi! appena fu arrivato sú,
Je s’affiarò
6
a la vita, e ffôr de sè
La sbramò
7
ssenza fajje dì’ Ggesú.
8
Lui je lo disse:
9
— Tu
Bbada de nun uprì, ssi nun te chiamo
Tre vvôrte, chè ssinnò; Rrosa, te sbramo. —
Cuanno aveva sto ramo
10
D’uprì, ppoteva armanco
11
a la sicura
Dàjje una chiave femmina addrittura.
12
1
Male di convulsioni, vero o finto che sia. Si veda, a questo proposito, la nota 1
a
al sonetto Er diluvio da lupi-
manari.
2
Corse.
3
Andò.
4
Immondezzaio.
5
Saliscendo.
6
S’avventò. —
7
Sbranò.
8
Senza che
ella potesse far parola.
9
L’avvisò.
10
Capriccio.
11
Almeno.
12
Questo è il rimedio prescritto dalle
donne: dare in mano al lupo una chiave femina. Tutto il sonetto è una fedele esposizione di quanto si crede che
accada su questo soggetto.
XLI.
LA REGAZZA ACCIUFFATA.
1
(18 febbraio 1833)
Che ccos’ho, cche ccos’ho! Nun ve l’ho ddetto
Mill’antre vôrte
2
ggià cche nun ho ggnente?
C’ho da fa’? Pe’ ddà’ ggusto ar zor gaudente,
M’ho da métt’a bballàjje
3
un minuetto?
Bbè, ssi llei se la sona,
4
io fo un balletto.
Ma sso’ bbuffe l’idee ch’hanno le ggente!
Cuanno che stanno lôro alegramente,
Vônno
5
ch’oggnuno ridi
6
a ssu’ dispetto.
Io ve la canto un’antra vôrta sola,
Ch’io nun ho ggnente; e ssippuro l’avesse,
Nu’ ne direbbe a llei mezza parola.
Caso dunque lei tiè
7
cquarch’interresse
Da sbrigà cco’ la sora Luscïola,
8
Vadi, chè ttanto noi semo l’istesse.
1
La innamorata cipigliosa.
2
Mill’altre volte.
3
Ballargli.
4
Suonarsela, partire.
5
Vogliono. —
6
Rida.
7
Se dunque per caso ella ha, ecc. —
8
Lucïola, l’altra supposta amante.
XLII.
DA ERODE A PPILATO.
(19 febbraio 1833)
Sei mesi fa, la siggorina Coma
Se n’entrò dda un Mercante che cconossce,
E dde morletti
1
e dd’antre robbe frossce,
2
Nun fo bbuscìa, ne caricò una soma.
Ma pperchè aveva le saccocce mossce,
(Guajo c’accade spesso spesso a Rroma),
Fesce:
3
—Nun dubbità, sso’ ggalantôma:
Pagherò ttutt’assieme cor filossce.
4
Cuant’ecco, venardì, tutto compito,
5
Er Mercante cor conto de le dojje.
6
—Portatelo (lei disce) a mmi’ marito. —
Ma er zu’ marito, poco avvezzo a ssciòjje,
7
Visto cuer conto, tutto inviperito
J’arispose: —Portateto a mmi’ mojje.
1
Merletti.
2
Flosce.
3
Disse.
4
Filoche de’ Francesi.
5
Compito, nel senso di gentilezza.
6
Delle
doglie, cioè della spesa. —
7
Sciogliere, cavar danari.
XLIII.
L’ARITROPICA.
1
(3 marzo 1833)
Eh! ’ggnicuarvôrta
2
che sse sii
3
guastata
La massima
4
der zangue, sora Nina,
Sce vô antro che ppìrole
5
de china
Pe’ aridà
6
la salute a un’ammalata!
Guarda Checca:
7
se trova mediscina
Ner monno, che in cuer corpo nun c’è entrata?
C’è ppiù ddonna de lei mejjo trattata,
Che nnun j’amanca er latte de gallina?
Eppuro, ècchela llì. Cquann’io sciaggnéde
8
Jerzèra a rriportàjje
9
er biribbisse,
10
Me parze
11
d’avé avanti un mort’in piede.
Tiè ddu’ gamme accusí:
12
ttanta de panza...
Uhm, ssi er male da sè nnun fa un ecrisse,
13
Pe’ llei dar tett’in giù
14
nnun c’è speranza.
1
La idropica.
2
Ogni qualvolta.
3
Si sia.
4
Massa. —
5
Ci vuol altro che pillole.
6
Ridare.
7
Guarda
quel che accade a Checca.
8
Quand’io ci andai.
9
Riportarle.
10
Biribisso
11
Mi parve.
12
Si deve
accompagnare queste parole con un gesto di braccia. —
13
Crisi. —
14
Secondo le vie umane.
XLIV.
LI COMMEDIANTI.
(13 novembre 1833)
Chi vve
1
sente a vvoantri
2
commedianti,
Tutti nasscete scime de Siggnori.
A ccasa avete serve e sservitori,
E Ttata
3
viàggia cor curiero avanti.
E cqua pregate poi tutti li santi
De fa’ ppiòve
4
ar teatro l’aventori,
Sinnò
5
er zor oste e all’antri creditori
Je seppagarò-pper-antrettanti.
Tutti fate er mestiere pe’ ccrapiccio:
Ma ttratanto, se
6
va ppe’ nnove mesi
Dell’anno in carzoncini de terliccio.
7
Tutti ricconi a li vostri paesi.
Però in zaccoccia nun ce n’è uno spiccio,
Nè un antro da spiccià. Cce semo intesi.
1
Vi.
2
Voi altri.
3
Tata, sinonimo di babbo, papà.
4
Di far piovere.
5
Se no, altrimenti.
6
Si.
7
Traliccio.
XLV.
LI FIJJI DE LI SIGGNORI.
(18 novembre 1833)
La madre pe’ nnun fàlli
1
vienì ggrassi,
Poveri disgrazziati Siggnorini,
Li governa a l’usanza de purcini:
E Ddio guardi de noi chi jje ne dassi.
2
Guardeli llì! nun pàreno
3
compassi,
Manichi de palette, tajjolini,
4
Tiri de campanelli? Accusì ffini
Farebbeno pietà ppuro
5
a li sassi.
Ecco poi che vvôr dì’,
6
mmadracce infame,
Nun métteje
7
lo stommico a bbôn’ora
D’accordo co’ la gola e cco’ la fame:
Chè cquanno co’ sta porca educazzione
So’
8
ppoi grannetti
9
e giuvenotti, allora
Crèpeno, grazziaddio, d’indiggistione.
1
Per non farli.
2
Chi gliene dasse.
3
Non paiono.
4
Tagliolini: lasagne sottilissime e strette, che in
Toscana si chiamano anche tagliarini, taglierini e tagliatini, e nell’Umbria tagliatelli.
5
Pure.
6
Che vuol
dire. —
7
Metter loro. —
8
Sono. —
9
Grandicelli.
XLVI.
ER GRANN ACCADUTO SUCCESSO A PPERUGGIA.
(5 gennaio 1834)
Ma cche ffatti se
1
senteno, eh Strijjozzo?
Manco fussimo
2
ar tempo de Nerone.
Legà in der zonno un povero padrone
E bbuttàllo in camiscia drent’ar pozzo!
Striggneje, sarv’oggnuro, er gargarozzo
3
Co’ un fazzoletto bbianco de cottone!
Ficcàjje un stracc’in bocca, e cco’ un bastone
Incarzàjjelo ggiú ssino in der gozzo!
4
Pe arrubbà cquattr’argenti e cquarc’anello
C’era bbisoggno mo, ffijji de cani,
De fa’ ttutto st’orrore de sfraggello?
5
Volete ammazzà un omo oggi o ddomani?
Eh bbuggiaràvve, pijjate un cortello
E ammazzatelo ar meno da cristiani!
1
Si.
2
Nemmeno se fossimo.
3
Gargozzo, strozza.
4
Questi orribili particolari del misfatto sono storici.
5
Sfragello che dicesi anche sfracello, deriva dal verbo sfragellare o sfracellare, e qui vale «strage sanguinosa,
orrenda.»
XLVII.
ER CARZOLARO.
(21 marzo 1834)
Antro
1
che nnobbirtà! Chiunque guitto
Cqui ha mmess’a pparte un po’ de bbajocchella,
2
Subbito, aló,
3
carrozz’e ccarrettella,
E a la ppiù ppeggio la pijja in affitto.
Si ccommannassi io, dio serenella!
4
Te je vorrebbe appiccicà un editto,
5
Che s’avesse d’avè come dilitto
Reo de morte l’annà ppuro in barella.
Ma cche le scianche
6
sce l’avete rotte?
Marceno
7
in grabbiolè
8
ll’antri animali?
Camminate vo’ puro,
9
e bbôna notte.
L’ommini, o ricchi o nno, sso’ ttutti uguali:
Dunque a ppiede, fijjacci de miggnotte,
E llograte le scarpe e li stivali.
1
Altro.
2
Denari.
3
Dall’allons de’ Francesi.
4
Esclamazione insignificante.
5
I Romani, abituati a
vedersi imporre nuove leggi con editti improvvisi, usano sempre nel linguaggio comune editto per legge.
6
Cianche per gambe. —
7
Marciano. —
8
Cabriolet. —
9
Voi pure.
XLVIII.
LO STRACCIAROLO.
(22 marzo 1834)
Lo stracciarolo a vvoi ve pare un’arte
Da fàlla
1
bbene oggnuno che la facci?
Eppuro ve so ddì’, sori cazzacci,
Che vierebbe in zaccoccia a Bbonaparte.
La fate accusì ffranca er mett’a pparte
Co’ un’occhiata li vetri e li ferracci,
A nnun confònne’
2
mai carte co’ stracci,
E a ddivìde’
3
li stracci da le carte?
Nun arrivo a ccapì ccom’a sto monno
S’ha da sputà ssentenze in tutte quante
Le cose, senza scannajjàlle a ffonno.
Prima de dí’: —cquer tar Duca è un zomaro, —
O — cquer tar stracciarolo è un iggnorante,
Guardateli a ppalazzo e ar monnezzaro.
4
1
Farla. —
2
Confondere. —
3
Dividere. —
4
Chacun à sa place, direbbe il francese.
XLIX.
L’ILLUMINAZION DE LA CUPPOLA.
(4 aprile 1834)
Tutti li forestieri, oggni nazzione
De qualunque paese che sse sia,
Dicheno tutti-quanti: —A ccasa mia
Sce se fa ggran bellissime funzione.
E nun dico che ddichino bbuscìa:
Forzi,
1
chi ppiù, chi mmeno, hanno raggione.
Ma cchï la facci?
Eppuro ve so ddì’,
s_______________________________________________________________
_________________________________unque viè a Rroma, in concrusione,
Mette la coda fra le gamme, e vvia.
Chi
2
ppopolo pô êsse’,
3
e cchi ssovrano,
Che cciabbi
4
a ccasa sua ’na cuppoletta
Com’er nostro San Pietr’in Vaticano?
In qual’antra scittà, in qual antro Stato
C’è st’illuminazzione bbenedetta,
Che tt’intontissce
5
e tte fa ppèrde’
6
er fiato?
1
Forse. —
2
Quale. —
3
Può essere. —
4
Ci abbia. —
5
Ti instupidisce. —
6
Ti fa perdere.
L.
’NARESIA
1
BELLE BBONA.
(6 aprile 1834)
Quarche vvôrta la ggente de talento
Spaccia cojjonerie ccusì llampante,
Mastro Pio mio, che nnoi ggente iggnorante
Manco nu’ le diressimo
2
a le scento.
3
Nun più cche jjeri a la Riscèli,
4
drento
La portarìa, fra’ Ccòmmido
5
er cercante
Ne seppe ti ggiù ttant’e ppoi tante,
Da fa’ scannalizzà ttutt’er Convento.
Tra ll’antre cose, aggnéde
6
a ddìcce,
7
aggnéde,
Che sta canajja che nun crede in Dio
È un’Apostola
8
vera de la fede.
Dunque chi ha ffatto er Credo, mastro Pio,
Sarà adesso querch’è cchi nun ce crede?!
Poterebbe parlà ppeggio un giudìo?
1
Una eresia.
2
Diremmo.
3
Cento. —
4
Ara-cœli: Chiesa e Convento di Francescani.
5
Fra Comodo. —
6
Andò. —
7
Dirci. —
8
Apostata.
LI.
LA LEZZIONE DER PADRONCINO.
(8 aprile 1834)
Mo hanno messo er più fijjo granniscello
1
A la lingua itajjana. Oh ddì’, Bbastiano,
Si
2
nun ze chiama avé pperzo er cerbello
D’imparà l’itajjano a un itajjano.
Lo sento sempre co’ un libbraccio in mano
Dì’: «Er fraggello, ar fraggello, cor fraggello,
Der zurtano, er zurtano, dar zurtano…»
E ’ggnisempre
3
sta storia, poverello!
Sarà una bbella cosa, e cquer che vvôi;
Ma a mme me pare, a mme,
4
cche ste parole
So’ cquell’istesse che ddiscémo
5
noi.
Si ffussino indiffiscile
6
uguarmente
Come che ll’antri
7
studî de le scôle,
Io nu’ ne capirebbe
8
un accidente.
9
1
Il figlio più grandicello.
2
Se.
3
Ogni sempre; sempre.
4
Ma a me mi pare, a me: ripetizione efficace e
d’uso frequente. —
5
Diciamo. —
6
Se fossero difficili: e qui notisi che i nomi femminili che nel singolare escono
in e, ritengono la medesima desinenza nel plurale, quasi che la naturale ideologia de’ romaneschi temesse di
cambiar sesso alle cose, dove accettasse la desinenza in i. —
7
Gli altri. —
8
Capirei. —
9
Equivale a nulla.
LII.
LE FIJJE OZZIOSE.
(14 aprile 1834)
Ecchele:
1
sempre co’ le man’in mano!
Se le maggna l’accidia: le vedete?
Nun ze pô llavorà? ddunque leggete
Quarche ccosa struttiva da cristiano.
Ciavete
2
tante favole! ciavete
L’istorie che vv’ha ddato er zor Ghitano
De le femmine doppie, che sapete
Disce che ppropio è un libbro da Surtano.
3
Femmine doppie, sì; cche cc’è da rìde’?
Vô ddì’ cch’è un libbro cc’ha gran robba drento,
Sore bbrutte crestose
4
cacanìde.
5
Ma ggià, vvojantre
6
nun capite un zero,
Sbeffate tutto, sore teste ar vento,
E ste cose se troveno davero.
1
Eccole.
2
Ci avete.
3
Un libro prezioso.
4
Pettegolette.
5
Figlio caca-nido è l’ultimo nato. La nostra
buona mamma ha qui tutte figlie ultime. —
6
Voi altre.
LIII.
LA VISITA DE LA SOR’ANNA.
(14 aprile 1834)
Sor’Anna! e cche mmiracoli? E cchi è stato
Che vve scià
1
spinta? l’Angelo Custode?
Nun ze ne sa ppiù ppuzza!
2
Eh, ggià, bbeato
Chi vve vede, e ffilisce chi vve gode.
Guardela! mejj’assai de l’an passato.
Tutte le sciafrerie... tutte le mode...
Oh vvoi potete dí’ dd’avé pescato
Quela luscertoletta de du’ code.
3
Vecchia?! eh cche vecchia: vecchi so’ li panni,
E nno vvoi, che cchi ssa... cquarche bbamboccio
Ggià a cquest’ora... Ch’edè?!
4
Vvoi scinquant’anni?!
Bbè, e cquesto che vvôr dì’? vvô dì’ cch’ar monno
Ggià vv’è ariusscito de vôtà un cartoccio;
5
E mmo da bbravi pe’ vvôtà er ziconno.
6
1
Vi ci ha.
2
Non se ne sa più nuova.
3
È costante credenza del popolo che il possessore di una lucerta di
due code debba andar favorito da tutti i doni della sorte.
4
Cos’è?
5
Metafora tolta dalla numerazione delle
monete, che soglionsi dividere in cartocci da sc. 50 per cadauno. —
6
Secondo.
LIV.
ER MONNEZZARO PROVVIBBITO.
1
(18 aprile 1834)
Pagà ssedisci fette
2
de penale
Io pover’omo che nun ciò
3
un quadrino!
Io che nemmanco posso bbéve’ vino,
Antro
4
che cquanno vado a lo spedale!
Eppuro me toccò a bbuttà un lustrino,
5
Pe’ ffàmme stènne’
6
drent’ar momoriale
Le raggione da dìsse
7
ar tribbunale
Pe’ ajjutà er mi vôto borzellino.
Je sce discevo: — Sor giudisce mio,
Quanno Lei trova er reo, voi gastigatelo:
Ma er monnezzaro nun ce l’ho ffatt’io. —
Che mme fesce arispónne’ quer leone?
— Questo nun jje confinfera:
8
arifàtelo:
9
Che llui nun vô ssentí ttante raggione.
1
L’immondezzaio proibito. —
2
Scudi. —
3
Non ci ho: non ho. —
4
Altro che: fuorchè. —
5
Un grosso di argento.
6
Per farmi stendere. —
7
Da dirsi. —
8
Non gli garba. —
9
Rifatelo.
LV.
SE MORE.
1
(20 aprile 1834)
Nun zapéte
2
chi è mmorto stammatina?
È mmorto Repisscitto,
3
er mi’ somaro.
Povera bbestia, ch’era tanto caro
Da potécce
4
annà in groppa una reggina.
L’ariportavo via dar mulinaro
Co’ ttre sacchi-da-rubbio de farina,
E ggià mm’aveva fatte una diescina
De cascate, perch’era scipollaro.
5
J’avevo detto: —Nun me fa’
6
la sesta;
Ma llui la vorze fa’,
7
porco futtuto;
E io je diede
8
una stangata in testa.
Lui fesce allora come uno stranuto,
9
Stirò le scianche,
10
e tterminò la festa.
Poverello! m’è ppropio dispiasciuto.
1
Si muore. —
2
Non sapete.
3
Repiscitto, o ripiscitto, é l’ordinario soprannome che si ai villanelli. —
4
Da
poterci.
5
Cipollaro, aggiunto di cavallo o di asino che abbia vizio d’inciampare.
6
Non mi fare.
7
La
volle fare. —
8
Gli diedi. —
9
Starnuto. —
10
Le gambe.
LVI.
LI CANTERINI NOTTETEMPI.
1
(22 aprile 1834)
Si
2
dda du’ ora inzino a ssei d’istate,
E in ne l’inverno inzin’a ssett’e a otto,
Voi sentite pe’ strada un giuvenotto
Sorfeggià mmille ariette sfiorettate;
Tramezzo a ttanti trilli e sgorgheggiate
Potete puro
3
dí’: — Cquer musicotto
Ha una pavura che sse
4
caca sotto;
E er grancio, ve dich’io, nu’ lo pijjate.
5
Jerzèra uno cantava a la Missione:
6
«Alesandro che ffai?»
7
, e all’aria bbujja
Se sentì rrepricà: «Mmaggno un boccone».
Avete visto mai ladro e ppatujja?
Accusí llui: pijjò presto un fugone,
Che annò a sbàtte’ le corna in de la gujja.
8
1
Notturni. —
2
Se. —
3
Pure. —
4
Si. —
5
Non lo pigliate. —
6
Chiesa e cenobio sulla piazza di Monte Citorio. —
7
Emistichio di Metastasio, che a tempo de’ nostri padri si udiva spessissimo a notte risuonare nel buio di Roma.
8
Aguglia. L’obelisco eretto in mezzo alla piazza.
LVII.
ER TUMURTO.
(24 aprile 1834)
Ch’è stato? uh quanta ggente! E cch’è ssuccesso?
Guarda, guarda che ffolla ar Conzolato!
1
Volemo dì’ cche cc’è cquarc’ammazzato?
Nò, ssarà un ladro co’ li sbirri appresso.
Pô êsse’ forzi
2
che sse sii incenniato...
Ma nnun ze vede fume. O ssii ’n ossesso?
Ah, nnèmmanco, pe’ vvia ch’ar temp’istesso
Tutti guarden’in zu.
3
Dunque ch’è stato?
S’arivòrteno
4
mo ttutti a mman destra...
Vedi, àrzeno le mane.
5
Oh! ffussi un matto
Che sse vojji bbuttà da la finestra!
Rìdeno!... Oh bbella! je vienghi la rabbia!
Nu’ lo vedi ch’edè?
6
Ttutto er gran fatto
È un canario scappato da ’na gabbia.
1
Via del Consolato.
2
Può essere forse.
3
Guardano in su. —
4
Si rivoltano. —
5
Alzano le mani. —
6
Che è:
cosa è.
LVIII.
ER PESCIVÉNNOLO.
1
(25 aprile 1834)
Un lustrino
2
li scefoli?! Un grossetto
2
Li merluzzi, in ste razze
3
de giornate?!
Leccateve li bbaffi, sor pivetto,
4
Chè vvoi, questi che cqui, nnu’ li cacate.
Oh ffateme er zervizzio, annate in ghetto
A ccontrattà cco’ li par’ vostri, annate:
5
E cquanno avete er borzellino agretto,
Scerte grazzie-de-ddio nu’ le guardate.
Puzza?! puzzerà er vostro tafanaro.
Lo sapete pe’ vvoi quello ch’odora?
Un ber fritto d’orecchie de somaro.
Guardate si
6
cche stommichi da pessce!
Maggnate la pulenta; e ccusí allora
Vederete ch’er pranzo v’arïesce.
7
1
Il pescivendolo.
2
Lustrino, grossetto, grosso: moneta d’argento da 5 bajocchi.
3
In queste specie.
4
Pivetto, nome di scherno che si dà a’ garzonetti. —
5
Andate. —
6
Se. —
7
Vi riesce.
LIX.
ER NEGROSCOPIO SOLARO ANDROMATICO.
1
(9 giugno 1834)
Mettèmo da ’na parte, mastro Bbiascio,
L’ascéto che cce noteno
2
l’inguille;
Lassamo sta’ la porvere der cascio
Piena d’animalacci a mmill’a mmille.
Dove a ggiudizzio mio merita un bascio
Quer negroscopio è ar véde’
3
in certe stille
D’acqua più cciuche
4
de capi de spille,
Créssceve
5
tanti mostri adasciadascio.
6
Questa è la cosa a mme cche mm’ha incantato,
E bbenedico sempre e in oggni loco
Er francesce
7
e ’r papetto che jj’ho ddato.
Questo è cc’ho ggusto assai d’avé scuperto,
Perché ggià ll’acqua me piasceva poco,
Ma dd’or impoi nun me la fa ppiù ccerto.
1
Il microscopio solare acromatico. Il vocabolo andromatico è quello di cui si vale un certo occhialaio romano,
per indicare quella tale specie di lenti.
2
Ci nuotano.
3
Al vedere.
4
Piccola.
5
Crescervi. Il vi non
particella di luogo, ma pronominale. —
6
Adagio adagio.
7
M.
r
Lagarrigue, proprietario del microscopio che si
mostrava a Piazza di Spagna. Il prezzo d’ingresso era di un papetto, moneta d’argento del valore di una lira
italiana e poco più, chiamata così per la piccola effigie del papa che ci si vedeva da una parte.
LX.
LA CRATURA IN FASCIÒLA, FIJJO DER CAPITANO.
(14 giugno 1834)
Bbella cratura! E cche ccos’è? Un maschietto?
Me n’arillegro
1
tanto, sora Mea.
Come se
2
chiama? Ah, ccom’er nonno: Andrea.
E cche ttemp’ha?… Nnun più?! Jjeso! eh a l’aspetto
Nun mostra un anno? Che ggran bell’idea!
Quant’è ccaruccio llì cco’ cquer cornetto!
3
Lui mo sse penza de succhià er zucchietto,
4
La sisa
5
o er cucchiarin de savonea.
Vva’, vva’, vva’,
6
ccome fissa la sorella!
Nun pare vojji dìjje
7
quarche ccosa
Co’ cquella bbocchettuccia risarella?
Nun ho mmai visto un diavoletto uguale;
Dio ve lo bbenedichi, sora spósa,
E vve lo facci presto Ggenerale.
1
Me ne rallegro. —
2
Si. —
3
Si suole appendere al petto de’ bambini, mercè una catenella di argento, un cornetto
o di pietra o di corallo, ch’eglino vanno sempre tenendosi per la bocca e biascicando. Così pure vi si aggiunge un
cerchiolino di avorio, detto volgarmente la sciammella (ciambella), sul quale i bambini si arruotano le gengìe
verso il tempo della dentizione. Alcune madri uniscono a tuttociò un campanelluzzo di argento.
4
Zucchero
involto e legato entro un pezzetto di pannolino.
5
Il latte.
6
Come dicesse: ve’, ve’, ve’. Si veda la nota 6 al
sonetto Le ficcanase. —
7
Voglia dirle.
LXI.
ER COCO.
(21 giugno 1834)
Voi, fijjo caro, ne sapete poco.
Che mme parlate de lingua latina,
Mattamatica, lêgge, mediscina?!...
So’
1
ttutte ssciaparìe:
2
studî pe’ ggioco.
Cqui è ddove l’omo se conossce: ar foco.
Cqui ar fornello, un talento se scutrina.
3
La prima scôla in terra è la cuscina
Er piú stimato perzonaggio è er coco.
E cquanno un coco soffre un torto, spesso
Er Monno (e sso bbe’ io quer che mme dico)
Lo viè a cconsiderà ffatto a ssestesso.
Bbasti a ssapé cch’er mi padrone antico
Tanto bbenvisto, appena ebbe dismesso
Er coco, a vvoi!,
4
nun je restò un amico.
1
Sono.
2
Scipitezze.
3
Si scrutina.
4
A voi: eccovene prova. Ironicamente sogliono anche dire: A vvoi!
annàtesce a bbéve’.
LXII.
LO SCARDÌNO PERZO.
1
(21 giugno 1834)
Che scerchi? lo scardìno? E ffai sta spasa
2
De sciafrujji,
3
che ppare un arzenale?!
Quieta: lo troverai. Mica è un detale:
4
Mica un scardìno è un zeppo de scerasa.
5
Si
6
ll’avevi oggi, e nun ha mmesso l’ale
Pe’ vvolà vvia, pôi êsse’
7
perzuasa,
Fijja mia bbenedetta, che la casa
Annisconne e nnun rubba: eh? ddico male?
Io puro
8
un giorno m’ero perza
9
un pavolo:
E azzecca
10
indóve poi me lo trovai?
In zaccoccia. Eh sse sa: rruzze der diavolo.
Tu ddi’ er zarmo Cquì-àbbita,
11
Lonora;
12
E All’acqua de Venanzio
13
vederai
Che sto scardìno tuo scappe ffôra.
1
Il caldanino perduto.
2
Questo sparpagliamento.
3
Minutaglie confuse.
4
Ditale: anello da cucire.
5
Un picciuòlo di ciliegia.
6
Se.
7
Puoi essere.
8
Pure.
9
Perduta. Il participio, retto dall’ausiliare essere
preceduto da particella pronominale, è accordato con la persona che fa l’azione, e non con ciò che la soffre. Così
direbbesi da una donna: Io avevo perzo un pavolo. Io mero perza un pavolo.
10
Indovina.
11
Qui abitat
ecc., salmo cui si attribuisce la virtù di far trovare le cose smarrite.
12
Eleonora.
13
«Quoniam ipse liberabit
me de laqueo venantium, ecc.» versetto del suddetto salmo.
LXIII.
LO SPASSEGGIO DER PAÌNO.
1
(29 giugno 1834)
Ch’edè,
2
ssor fischio,
3
sto su-in-giù? Pijjate
L’acqu’a ppassà?
4
cce sarìa mai pericolo?
5
Pe’ vvostra bbôna regola, sto vicolo
Nun è aria pe’ vvoi. Dunque sviggnate.
E ppe ffàvve
6
capasce, in prim’articolo
Cqua nnun ze trova quer che vvoi scercate:
E cce vóleno
7
poi scêrte stoccate
Da favve arivortà puro er bellicolo.
8
E nun zerve de bbàtte’ la scianchetta,
9
Sor faccia da patate e ppomidoro,
Sor pronipote de Maria Spuzzetta.
Oh gguardate un po’ cqua cche bbêr lavoro!
Vônno puro
10
un tantin de rezzoletta,
11
Co’ ttante caggne de mojjacce lôro.
1
Le persone del ceto civile sono pel volgo paìni, cioè eleganti.
2
Che è?
3
Fischio e fischietto, nome di
spregio dato ai giovinetti. —
4
Prender l’acqua a passare, passar l’acqua: passeggiare innanzi e indietro.
5
Vi
sarebbe mai questo caso?
6
Per farvi capace, per capacitarvi.
7
Ci volano.
8
Bellìco.
9
Non serve di
batter la gambetta: fremere.
10
Pure.
11
Rezzola chiamasi la rezza, o reticella, in cui le donne di certi rioni
accolgono i capelli. Pendente essa dalla parte posteriore del capo, vi è stretta da un largo nastro che si annoda
sulla fronte con un gran cappio ardito e aperto in forma di corna. Quindi rezzola diconsi pure le stesse donne che
ne usano, e così anche il ceto di esse.
LXIV.
A GGESÙ SSAGRAMENTATO.
(1 dicembre 1834)
Ggesú mmio, pe’ li meriti der pranzo
De le nozze de Cana, e in divozzione
De la vostra santissima passione,
Esaudite sto povero Venanzo.
Date la providenza ar mi’ padrone,
E ffate, o bbôn Gesú, cc’abbi uno scanzo,
1
Da potémme
2
pagà cquer che jj’avanzo
Pe’ êsse’
3
stato co’ llui troppo cojjone.
Dateje la salute, o Ggesù mmio,
Chè nun porti er mi’ sangue in de le vene,
Cosa da fàmme arinegàcce
4
Iddio.
Dateje una penzion da cavajjere:
E cuanno ha dato a mme cquer che mme viene,
Si ve lo riccojjete,
5
io sciò
6
piascere.
1
Abbia un propizio intervallo di tempo.
2
Potermi. —
3
Per essere.
4
Da farmi rinnegarci. —
5
Raccogliete.
6
Ci ho.
LXV.
ER BECCAMORTO DE CASA.
(5 dicembre 1834)
Lo sai chi è cquello che jj’ho ddetto addio
E mm’ha arisposto senza comprimenti?
Quell’è un Marchese, un aventore mio:
Inzomma, è un antro
1
de li mi’ crïenti.
Eh! ssémo amichi antichi assai, perch’io
J’ho ssotterrati tutti li parenti;
E ll’urtimo, l’antr’anno è stato un zio
Che ll’arricchí mmorènno d’accidenti.
Sappi ch’è un gran bravissimo siggnore
Che ppaga li mortorî da sovrano,
Come faranno a llui quanno che mmore.
Pe cquesto io spero che nun zii
2
lontano,
Co’ l’ajjuto de Ddio, d’avé l’onore
De seppellillo io co’ le mi’ mano.
1
In somma è un altro. —
2
Non sia.
LXVI.
UNA FATICA NOVA.
(11 dicembre 1834)
Tutta la mi’ passione, Sarvatore,
Sarebbe quella de nun fa’ mmai ggnente;
E cquanno che sto in ozzio, propiamente
Me pare, bbene mio!, d’êsse’ un ziggnore.
Du’ mesi fa pperò cquel’accidente
Der Generale mio pescò un dottore
Che jj’ha ordinato pe’ le strette ar core
De strufinàsse
1
er corpo isternamente.
Me tocca dunque a mme mmatina e ssera,
D’esiguìjje sta porca de riscetta;
E ècchete,
2
compare, in che mmaggnera:
3
Se
4
strufina la pelle ar Generale,
E jje s’allustra a fforza de scopetta,
Come se dassi
5
er lustro a uno stivale.
1
Di strofinarsi. —
2
Eccoti. —
3
In qual maniera. —
4
Si. —
5
Si dasse.
LXVII.
LE BBESTIE DER PARADISO TERRESTRE.
(19 dicembre 1834)
Prima d’Adamo, senza dubbio arcuno,
Er ceto de le bbestie de llà ffôri
Fascéveno
1
una vita da Siggnori
Senza dipènne’ un ca..o
2
da ggnisuno.
Ggnente cucchieri,
3
ggnente cacciatori,
No mmascelli,
4
no bbòtte, no ddiggiuno...
E rriguardo ar parlà, pparlava oggnuno
Come parleno adesso li dottori.
Venuto però Adamo a ffa’ er padrone,
Ècchete
5
l’archibbusci e la mazzola,
Le carrozze e ’r sughillo
6
der bastone.
E cquello è stato er primo tempo in cui
L’omo levò a le bbestie la parola
Pe’ pparlà ssolo e avé rraggione lui.
1
Facevano. —
2
Senza per nulla dipendere. —
3
Niente cocchieri. —
4
Macelli —
5
Eccoti. —
6
Il sugo.
LXVIII.
LE CRATURE.
(26 dicembre 1834)
Voi sentite una madre. Ammalappena
1
La cratura
2
c’ha ffatta, ha cquarche ggiorno,
Ggià è la prima cratura der contorno,
E ssi jje
3
dite che nun è, vve mena.
Conossce tutti, disce tutto, è ppiena
D’un talento sfonnato, è ffatta ar torno,
4
Va cquasi sola, è ttosta
5
come un corno,
E ttant’antri
6
prodiggi ch’è una scena.
E sta prodezza poi sarà un scimmiotto,
Tonto,
7
mosscio, allupato, piaggnolone,
Pien de bbava e llattime e ccaca-sotto.
A le madre,
8
se sa,
9
li strilli e ’r piàggne
10
Je pareno ronnò
11
dde Tordinone.
12
Le madre ar monno so’ ttutte compaggne.
1
Appena.
2
Creatura, bambino.
3
Se le.
4
Tornio.
5
Dura.
6
Altri.
7
Stupido.
8
Madri.
9
Si
sa. —
10
Il piangere. —
11
Pajono rondò.
12
Tor-di-Nona, teatro regio di Roma.
LXIX.
LI PERICOLI DER TEMPORALE.
(13 gennaio 1835)
Santus Deo, Santus fòrtisi,
1
che scrocchio!
2
Serra, serra li vetri, Rosalia;
Chè, ssarv’oggnuno, viè una porcheria,
3
Te sfraggne,
4
nun zia mai,
5
com’un pidocchio.
Puro
6
lo sai quer c’aricconta zia
Ch’assuccesse a la nonna der facocchio,
Ch’arrivò un tôno e la pij in un occhio,
Che mmanco poté ddì’ ggesummaria.
E la soscera
7
morta de Sirvestra?
Stava affacciata; e cquella je disceva:
— Presto, chè ss’arifredda la minestra.
E vvedenno
8
che llei nun ze
9
moveva,
L’aggnéde
10
a stuzzicà ssu la finestra...
Cascò in cennere llì cco’ cquanto aveva!
11
1
Sanctus Deus, sanctus fortis ec., trisagio angelico che si recita, segnandosi, al balenare o allo scoppiar del
tuono.
2
Quasi croccamento; lo scoppio elettrico.
3
Fulmine. La plebe ha ripugnanza di chiamarlo col suo
nome.
4
T’infrange.
5
Non sia mai.
6
Pure.
7
Suocera.
8
Vedendo.
9
Non si.
10
L’andò.
11
Crede il nostro popolo che il fulmine passando presso una persona la incenerisca, lasciandole nulladimeno tutte
le forme del corpo e delle vesti, che si dissolvano poi al minimo urto.
LXX.
L’USANZE BBUFFE.
(16 gennaio 1835)
Per êsse’
1
bbuffo abbasta êsse’ Siggnore.
La ggente attitolata e cquadrinosa
Qualunque usanza l’ha d’avé ccuriosa,
O ccrede d’ariméttesce
2
d’onore.
Da sí
3
cche ss’è ammalato er mi’ Siggnore
De castrica
4
maliggna verminosa,
Nun z’ariposa
5
ppiù, nnun z’ariposa,
Pe’ ccopià li bbijjetti der dottore.
Figurete
6
ch’er povero decano
Ne schicchera
7
un trescento oggni matina,
Pe’ ppoi distribbuìlli a mano a mano.
E pperché ppoi sti bbullettini a bbótte?
8
Pe’ ddà’
9
ar monno sta nova sopraffina:
Er zor conte ha ccacato a mmezza-notte.
1
Per essere. —
2
Di rimetterci. —
3
Dal punto. —
4
Gastrica. —
5
Non si riposa. —
6
Figurati. —
7
Ne sciorina. —
8
A botti. —
9
Per dare.
LXXI.
CHI SSATTACCA A LA MADONNA
NUN HA PPAVURA DE LE CORNA.
1
(21 gennaio 1835)
Ar punto de morì, cquanno se
2
caccia
L’anima, fijji mii, credete a Nnonna,
Chi ha la divozzion de la Madonna
Pô rrugà
3
ccor demonio a ffaccia a ffaccia.
Abbi puro
4
tenuta una vitaccia,
Un zervo de Maria nun ze sprofonna:
5
Chè in quer momento llì, povera donna,
Lei pe’ li fijji sui propio se sbraccia.
Io nun protenno
6
ggià, crature
7
mie,
Che in onor de Maria nostr’Avocata
Ce sii nescessità dde fa’ ppazzie.
No, abbasta oggni matina a la svejjata
De rescità ppe’ llei tre vvemmarie,
E onoràlla co’ cquarche scappellata.
8
1
Proverbio.
2
Si.
3
Può disputare. —
4
Abbia pure.
5
Non si sprofonda.
6
Non pretendo.
7
Creature,
figli.
8
Questo sonetto e il proverbio che gli serve di titolo, ci danno ragione del come vi possano essere
briganti antropofagi, devotissimi tuttavia della Madonna; e l’uno e l’altro meritano di venir considerati
attentamente da coloro che in buona fede sostengono essere il cattolicesimo e la sua idolatria un freno gagliardo
alle irrompenti passioni delle plebi.
LXXII.
ER TEMPORALE DE JJERI.
1
(24 gennaio 1835)
Ciamancava
2
un bôn quarto a mmezzanotte,
Quanno, tutt’in un bòtto
3
(oh cche spavento!),
Sentissimo
4
un gran turbine, e ar momento
Cascà cqua e llà ll’invetrïate rotte.
Diventò er celo un forno acceso, e, ddrento,
Li fùrmini pareveno paggnotte.
Pioveva foco, come quanno Lotte
Scappò vvia ne l’Antico Testamento.
L’acqua, er vento, li tôni, le campane,
Tutt’assieme fascéveno un rumore
Da atturàsse
5
l’orecchie co’ le mane.
6
Tremàmio tutti quanti pe’ tterrore;
Mà ppe’ Rroma nun mòrze
7
antro ch’un cane.
Cusí er giusto patí pp’er peccatore.
1
Il 23 gennaio 1835.
2
Ci mancava.
3
All’improvviso.
4
Sentimmo.
5
Turarsi.
6
Colle mani.
7
Non morì altro.
LXXIII.
LA SEPPORTURA GGENTILISSIMA.
1
(2 febbraio 1835)
Sganàssete de rìde’.
2
Er mi’ padrone
Ha dato scento scudi senz’usura
A li frati de San Bonaventura,
3
Pe avé un zeporcro a ssu’ disposizzione.
Nun te pare un penzà fôr de natura?
Nu’ la credi una spesa da cojjone,
Ch’uno ch’è ssenza casa e sta a ppiggione
Abbi poi da crompà
4
una sepportura?
Lui disce sempre a li fijji e a la fijja,
Che cquella fossa apprivativa
5
è un loco
Che pprepara pe’ ssè e ppe’ la famijja.
Disce: Fijjoli cari;isce: Fijjoli
cari,____________________________________________________________
________________________________________________ da cqui avanti
Cqua, ssi Ddio sci dà vvita, appoc’a poco
Sci saremo inzepórti tutti quanti.
1
Gentilizia.
2
Sganàsciati dal ridere.
3
Chiesa di Francescani riformati, sul Palatino.
4
Comperare.
5
Privativa.
LXXIV.
LE LETTANÌE DE NANNARELLA.
(4 febbraio 1835)
Ora pre nobbi-Ora pre... Attenta, Nanna:
Tu aritorni a zzompà.
1
Ddoppo in violata
Viè, fijja mia, madre arintemerata.
Fede e rrisarca sta più ggiù una canna.
Ora pre nobbi-Ora pre no... Sguajata!
Ma cche Tturris e bbruggna! che, mmalanna,
Domminus àuria e vvirgo veneranna!
Virgo cremis, bestiaccia sgazzerata.
Di’ cchiaro quelo Spè coll’ojjo stizzia.
Ora pre nobbi... Alò,
2
Ssede e ssapienza.
Avanti su: Ccausa nostr’allettizzia.
Animo, a tté: Arifugg’impeccatôro.
Reggina profettaro?! Oh cche ppazzienza!
Manco male che vviè: Er zantòru moro.
1
Saltare. —
2
I Romani si servono di questa voce così storpiata da allons, nel senso stesso e nelle stesse occasioni
in cui è adoperata dai Francesi.
LXXV.
LI CREDITI.
(3 aprile 1835)
Tristo ar monno chi avanza, Crementina!
È un anno che cquer gruggno da sassate
De zor Bruno ha da dàmme
1
una diescina
De scudi pe’ ttre rrubbie de patate.
Co’ ssalìlle
2
oggni ggiorno e oggni matina,
J’ho llograte le scale, j’ho llograte.
«Dorme, pranza, nun c’e; sta all’officina...».
E ssempre sta canzona: «Aritornate».
N’ariviengo mo ppropio co’ ste gamme,
Ma invece de quatrini io ciò
3
carote;
E aveva aripromesso de pagàmme!
Sai ch’ha ffatto rispónneme
4
er zor Bruno?
Ch’è ttanto affaccennato in ner riscòte’,
Che nun ha ttempo de pagà ggnisuno.
1
Darmi. —
2
Col salirle. —
3
Ci ho: mi si dànno. —
4
Rispondermi.
LXXVI.
LA PADRONA BBIZZOCCA.
(16 aprile 1835)
L’osso-duro de casa è ddonna Teta,
La sorella ppiù ggranne der padrone,
Che ssagrata
1
e sse
2
mozzica le deta
3
Si
4
la ggente nun fa ll’opere bbône.
Disce: —Set’ito a mmessa oggi, Larione?
5
Dico: — Sí. — E ddove? — A Ssan Zimon profeta. —
A cche ora? — Un po’ ddoppo er campanone. —
E de che ccolor’era la pianeta? —
Allora me zomporno,
6
e jj’arispose:
7
— Oh, ssa cche jj’ho da dì’? Cquann’io sto a mmessa,
Sento messa e nun bado a ttante cose.
Sarìa
8
bbella ch’er prete da l’artare
Scutrinassi
9
la robba che ss’è mmessa
La ggente! Oggnuno và ccome je pare. —
1
Bestemmia.
2
Si.
3
Le dita.
4
Se.
5
Ilarione.
6
Mi saltarono.
7
Le risposi.
8
Sarebbe.
9
Scrutinasse, scrutasse.
LXXVII.
LA NOTIZIA DEL TELÈFRICO.
1
(14 agosto 1835)
Ha ssentito, Eccellenza, a ddon Bennardo
Che ggran nôva j’ha ddato un uffizziale,
Che ll’ha intesa da un omo ggiù ar bijjardo,
Che ll’ha lletta in ner fojjo der giornale?
Disce ch’er Re de Francia, ar baluardo
Der tempio
2
de le guardie nazzionale,
Un certo monzû Ggiachemo Ggerardo
3
J’ha sparàt’una machina infernale.
Le palle hanno ammazzato pe’ ffurtuna
Un zubbisso
4
de popolo innoscente,
E ar Re ppoi, ch’era robba sua, ggnisuna.
5
Chi è stato côrto
6
in testa, chi in ner core,
Chi in ne la panza; e er Re e li fijji ggnente!
Ce se
7
vede la mano der Ziggnore!
1
Di telegrafo.
2
L’attentato del 8 luglio au boulevard du Temple.
3
L’assassino Fieschi si nomi sul
principio Gérard. —
4
Un subisso, una gran moltitudine. —
5
Nessuna. —
6
Colpito. —
7
Ci si.
LXXVIII.
ER DILETTANTE DE PONTE.
1
(29 agosto 1835)
Viengheno: attenti: la funzione è llesta.
2
Ecco cor collo iggnudo e ttrittichente
Er prim’omo dell’opera, er pazziente,
L’asso a ccoppe, er ziggnore de la festa.
E ecco er professore che sse
3
presta
A sservì da scirùsico a la ggente
Pe’ ttre cquadrini,
4
e a tutti ggentirmente
Je cura er male der dolor de testa.
Ma nno a mman manca, no: ll’antro a mman dritta.
Quello ar ziconno posto è ll’ajjutante.
La proscedenza aspetta a mmastro Titta.
5
Volete inzeggnà a mmé sta cosa cquane?
Io cqua nun manco mai: so’ ffreguentante;
E er boia lo conosco com’er pane.
1
Per ponte, detto così assolutamente, intendesi il Ponte sant’Angelo. La piazza sulla quale esso si apre, era uno
dei luoghi ove si eseguiva la giustizia contro i malfattori.
2
È vicina.
3
Si.
4
Molto ben pagato è il
carnefice, e in qualunque servizio del suo mestiere gode di varii e bei profitti. Si vuole però che l’atto della
uccisione del paziente siagli pagato tre quattrini, cioè tre centesimi della lira romana (il papetto), a dimostrare la
viltà dell’opera. —
5
Ogni carnefice è dai romani chiamato mastro Titta.
LXXIX.
LE CREANZE A TTAVOLA.
(31 agosto 1835)
Su er barbozzo
1
dar piatto. Uh cche ccapoccia!
2
Madonna mia, tenéteme le mane.
Sora golaccia, aló,
3
mmaggnamo er pane,
Presto, e ar cascio
4
raschiamoje la coccia.
5
E adesso che pprotenni
6
co’ sta bboccia?
7
De pijjà ’na zzarlacca?
8
Eh, ciurlo
9
cane!
Se n’è strozzate
10
du’ fujjette sane,
E mmo sse vô
11
assciugà ll’urtima goccia!
Bbè, ssi
12
avete più ssete sc’è la bbrocca.
Ggiù er bicchiere, e iggnottìte
13
quer boccone,
Chè nun ze
14
bbeve cor boccone in bocca.
Eh cciancica,
15
te pijji una saetta!
Nun inciaffà,
16
ingordaccio bbuggiarone...
E la sarvietta?
17
porco; e la sarvietta?
1
Mento.
2
Che testa dura che sei!
3
Andiamo, presto.
4
Al cacio.
5
Raschiamogli la scorza.
6
Che
pretendi.
7
Caraffa.
8
Di pigliare una imbriacatura.
9
Imbriaco.
10
Se n’è ingoiato.
11
Ed ora si
vuole.
12
Se.
13
Inghiottite.
14
Non si.
15
Mastica.
16
Non aggiungere boccone a boccone.
17
Salvietta.
LXXX.
RIFRESSIONE IMMORALE SUR CULISEO.
1
(4 settembre 1835)
St’arcate rotte ch’oggi li pittori
Vièngheno
2
a ddiseggnà cco’ li pennelli,
Tra l’arberetti, le crosce, li fiori,
Le farfalle e li canti de l’uscelli;
A ttempo de l’antichi imperatori
Èreno un fiteatro, indóve quelli
Curreveno a vvedé li gradiatori
Sfracassàsse
3
le coste e li scervelli.
Cqua llôro
4
se pijjaveno
5
piascere
De sentí ll’urli de tanti cristiani
Carpestati e sbramati da le fiere.
Allora tante stragge
6
e tanto lutto,
E adesso tanta pasce!
7
Oh avventi
8
umani!
Cos’è sto monno!
9
Come cammia
10
tutto!
1
Riflessioni morali sul Colosseo.
2
Vengono.
3
Fracassarsi.
4
Essi.
5
Si pigliavano.
6
Stragi.
7
Pace. —
8
Eventi. —
9
Questo mondo. —
10
Cambia.
LXXXI.
LA PRIMARÒLA.
1
(2 settembre 1835)
E accusì? ggrazziaddio, sora Susanna,
L’avémo arzàta poi la trippettóna?
Che la bbeata Vergine e ssant’Anna
Ve protegghino, e ssia coll’ora bbôna.
E in che lluna mo state? Ah, in de la nona.
Eh, ar véde’,
2
si
3
la panza nun inganna,
Pare che nun dev’êsse’ una pissciona;
4
Ma ssarà arfine quer ch’Iddio ve manna.
5
Ve la sentite in corpo la crâtura?
Dunque bbôni bbocconi, e ccamminate;
E llassate fa’ er resto a la natura.
Ggnente: tutte sciocchezze. Voi penzate,
Pe’ llevàvve
6
da torno
7
la pavura,
Quante prima de voi sce so’
8
ppassate.
1
Primajuola: «Donna che è gravida per la prima volta.»
2
Al vedere: all’apparenza.
3
Se.
4
Non
dev’essere una femmina.
5
Vi manda. —
6
Per levarvi. —
7
D’attorno. —
8
Ci sono.
LXXXII.
LA MADONNA DE LA BBASILICA LIBBRERIANA.
1
(11 settembre 1835)
Che ppriscissione! Oh ddio, stàteve quieti
Ch’io vòrze annàcce pe’ li mi’ peccati!
2
Vennero tre ddiluvî scatenati,
Da intontì li padriarchi e li profeti.
Li preti nun paréveno ppiù ppreti,
Li frati nun paréveno ppiù ffrati,
Ma ppanni stesi,
3
purcini abbaggnati,
Trippette, scolabbrodi, sottasceti...
Li vedevi cantanno lettanìe,
4
Chi in cotta, chi in pianeta, chi in piviale,
Scappà ppe’ li portoni e ll’osterie.
Inzomma, ggente mia, fu una faccenna,
5
Che inzino la Madonna e ’r Cardinale
6
Dovérno fa’
7
la sparizzion de Vienna.
8
1
Basilica Liberiana, così detta dal nome di san Liberio Papa, sotto il cui Pontificato fu eretta, ma più conosciuta
col titolo di Santa Maria Maggiore. In essa, entro la cappella borghesiana, si conserva la miracolosa immagine
della Vergine. Questa immagine per ordine di Gregorio XVI fu tratta di l’8 settembre 1835, ond’esser
trasportata processionalmente da tutto il clero secolare e regolare alla basilica vaticana, a preservare per sua
intercessione la città di Roma dal vicino flagello del cholera.
2
Ch’io volli andarci per far penitenza de’ miei
peccati!
3
Panni sciorinati per farli asciugare.
4
Cantando le litanìe. —
5
Faccenda.
6
Il cardinal Vicario,
Odescalchi, fuggì con la Madonna nella Chiesa di Santa Maria in Vallicella (Chiesa Nuova) de’ Filippini, ed ivi
la depose. Con altra processione poi nella seguente domenica si portò a San Pietro, dove per varî giorni rimase
esposta alla pubblica venerazione, e quindi fu ricondotta al suo luogo.
7
Dovettero fare.
8
Questa frase
dev’esser derivata dalla leggenda popolare di Paris e Vienna.
LXXXIII.
ER VISTÌ DE LA GGENTE.
(13 settembre 1835)
Nun concrude.
1
Vedete Sarafina?
Co’ cquella bbella su’ disinvortura
Lei
2
un straccio ch’è un straccio je figura:
Se
3
mette un corno e pare una reggina.
A l’incontrario poi, sc’è la spazzina,
Che ppô pportà cqualunque accimatura,
4
È un pajjaccio vistito, fa ppaura,
La pijjate pe’ un sacco de farina.
S’intenne: tutto sta nne la perzona.
Chi è svérta
5
com’e nnoi, la peggio robba
Je s’adatta e jje sta ccome la bbôna.
Dateme invesce un fusto basso e grosso,
Una guercia, una ssciabbola, una gobba:
Oggni galantaria je piaggne addosso.
1
Non conclude.
2
A lei. È una costruzione tutta romanesca, d’uso frequente.
3
Si.
4
Da cima; e vale
«cosa scelta, che sta sopra alle altre.»
5
Svelta.
LXXXIV.
LE MANAVANTI.
(14 settembre 1835)
Ggiù cco’ le mano;
1
se stia fermo; e ddua.
A cchi ddico? E da capo! Ahà, ho ccapito:
Savio, sor Conte, chè jje scotto un dito.
Ma ssa cche llei è un bbêr porco da ua?
2
Me pare una vergoggna a mme sta bbua
3
Co’ ’na regazza che nun ha marito.
Dunque me lassi in pasce:
4
ecco finito;
E sse tienghi le mano ccasa sua.
5
Ooh, adesso principiamo co’ la gamma.
6
Vô ffinìllao nno? Bbadi, Eccellenza,
Nun ciariprovi
7
ve’!, cchè cchiamo mamma.
E cche sse
8
crede lei? de stà ar precojjo?
9
Io co’ llei nun ce pijjo confidenza,
E ste su’
10
libbertà mmanco le vojjo.
1
Mani. —
2
Un bel porco da uva: «sozzo in grado estremo.»
3
Questa storia, questa faccenda, ec.
4
Mi lasci
in pace. —
5
E si tenga le mani a sè. —
6
Gamba. —
7
Non ci riprovi. —
8
Si. —
9
Al proquoio. —
10
E queste sue.
LXXXV.
LE CHIAMATE DELLAPPIGGIONANTE.
(16 settembre 1835)
— Sora Sabbella. — Ee. — Ssora Sabbella,
1
Affacciateve un po’ ssu la loggetta. —
Èccheme:
2
che vvolete sora Bbetta?
3
Ciavete
4
una piluccia
5
mezzanella? —
— Ciò
6
cquella de la marva.
7
— Ah, nno, nno cquella.
Eh, nun ciò antro,
8
fijja bbenedetta.
Bbè, imprestateme dunque un fil d’erbetta,
9
Un pizzico de spezzie una padella. —
Mo vve le calo ggiú ccor canestrino.
Dite, e me date uno spicchietto d’ajjo,
Un po’ d’onto e una lagrima de vino? —
Ma ffamose a ccapì,
10
ssora Bbettina:
A ppoc’a ppoco voi, si
11
nun me sbajjo,
Me sparecchiate tutta la cuscina!
12
1
Isabella.
2
Eccomi.
3
Elisabetta.
4
Ci avete, cioè semplicemente avete.
5
Un pignattino.
6
Ci ho:
ho.
7
Della malva.
8
Non ci ho altro: non ho altro.
9
Prezzemolo.
10
Ma facciamo ad intenderci. —
11
Se. —
12
Cucina.
LXXXVI.
LI SALARI ARRETRATI.
(19 settembre 1835)
Je li chiedo oggnisempre, io, fijji cari;
Ma cche sserve che ppìvoli
1
e ccammini?
Un giorno disce che nun cià ddenari,
E un antro
2
disce che nun cià cquadrini.
Jerzera arfine, fascenno lunarî,
Manco si
3
avessi li piedi indovini,
Passo davanti ar caffè de’ crapettari
4
E tte l’allùmo llì ttra ddu’ paìni.
5
Me metto de piantone in faccia a llôro,
E appena vedo che llui arza er tacco
Me je fo avanti com’un cane ar toro.
E llui che mm’arispose? Eh, stracco stracco,
Cacciò una bbella scatoletta d’oro
E mme diede una presa de tabbacco.
1
Pivolare è quel continuo insistere chiedendo, che non altrui riposo.
2
Un altro.
3
Se.
4
Al caffè in
Piazza de’ caprettari.
5
E lo vedo fra due ec. Il paìno è chiunque veste con proprietà cittadinesca.
LXXXVII.
UN PAVOLO BUTTATO.
(19 settembre 1835)
Che tteatri! Accidenti a sta put…a
D’Argentinaccia e cquanno se sprofonna.
1
Sta’
2
ssur un banco una nottata sana,
3
Pe’ ggòdese
4
le furie d’una donna!
Io, sentenno quer nome de Ggismonna
5
Sur bullettone a Pporta settiggnana,
6
La pijjai, com’è vvero la Madonna,
Pe’ la sora Ggismonna la mammana.
7
Ch’avevo da sapé cche sse trattassi
8
De sti mortòrî e ttutte ste magaggne
De li secoli arti e dde li bbassi?
Lo fo ddiscìde’
9
a vvoi, lo fo ddiscìde’:
Che! A la commedia sce se va ppe’ ppiàggne’?
10
A la commedia sce se va ppe’ rrìde’!
11
1
Quando si profonda.
2
Stare.
3
Intiera.
4
Per godersi.
5
Gismonda di Mendrisio, tragedia di Silvio
Pellico.
6
Porta Settimiana.
7
Lucia Gismondi, detta Gismonda, notissima ostetrica di Roma.
8
Si
trattasse. —
9
Decidere. —
10
Ci si va per piangere? —
11
Per ridere.
LXXXVIII.
ER PUPO.
1
(20 settembre 1835)
Che bber ttruttrù!
2
Oh ddio mio che cciammellóna!
3
No, pprima fate servo
4
a nnonno e zzio:
Fateje servo, via, sciumàco
5
mio,
E ppoi sc’è la bbebbella e la bbobbôna.
6
Bbravo Pietruccio! E ccome fa er giudìo?
Fa aèo?
7
bbravo Pietruccio! E la miscióna?
8
Fa ggnào? bbravo Pietruccio! E cquanno sona?
9
Fa ddindì? bbravo! E mmo, ddove sta Iddio?
Sta llassù?
10
bbravo! Ebbè? e la pecorella?
Fate la pecorella a zzio e nnonno,
Eppoi sc’è la bbobbôna e la bbebbella.
Oh, zzitto, zzitto, via: nòo, nnu’ la vônno.
Eccolo er cavalluccio e la sciammella...
Eh, sse
11
stranissce un po’, mma è ttutto sonno.
1
Il puttino.
2
Che bel cavallo! —
3
Ciambellona. —
4
Far servo, salutare colla mano. —
5
Ciumaco, cor mio, o
altro vocabolo carezzativo.
6
La cosa bella e la cosa buona.
7
Grido degli ebrei stracciaiuoli.
8
Micióna,
gattone. —
9
Quando è suonato il campanello di casa.
10
Così dicendo s’innalza verso il cielo l’indice disteso.
11
Si.
LXXXIX.
ER PUPO.
(20 settembre 1835)
Ajo,
1
commare mia, ajo che ffiacca!
2
Tenéllo
3
tutto er zanto ggiorno in braccio!
Mai volé sta’
4
in ner crino!
5
mai p’er laccio!
6
Io nu ne pôzzo ppiù: sso’ ppropio stracca.
Lo vedete? Mo adesso me s’attacca
E mme la tira inzin che nun è un straccio.
Uf, che vvita da cani! oh cche ffijjaccio!
Làssala, ciscio, via: fermo, ch’è ccacca.
Bbasta, Pietruccio mio, bbasta la sisa.
7
Dajjela un po’ de pasce
8
a mmamma tua...
Ecco er pianto. Che ggioia, eh sora Lisa?
Ssì, ssì, mmo jje menàmo ar cattivello.
9
Bbrutta sisaccia, c’ha ffatto la bbua
A li dentíni de Pietruccio bbello.
10
1
Ahi!
2
Quale fiacchezza.
3
Tenerlo.
4
Voler stare.
5
Crino, è quel cesto a campana, entro cui si
pongono i bambini perchè si addestrino a camminare di per sè stessi, senza cadere.
6
Il laccio che loro si
attacca dietro le spalle onde sorreggerli nel camminare.
7
Poppa.
8
Dagliela un poco di pace.
9
Al putto.
10
Così fin dai primi momenti della vita, si principia da alcune madri ad educare i bambini alla vendetta delle
reali offese e delle immaginarie, contro gli animati esseri e gl’inanimati.
XC.
LA POVERA MOJJE.
(25 settembre 1835)
E otto: ott’ora! E nnun ritorna! e intanto
Me lassa
1
cqui a spirà ssur una ssedia.
Oh cche vvita! Si Iddio nun ciarimedia,
2
È mmejjo de morì che ppenà ttanto.
Ma Ggesú mmio, ma ccroscifisso santo!,
Lui co’ l’amichi a cena e a la commedia,
E io, sola, tra er zonno e ttra l’inedia
Nun avé antro
3
che lavore
4
e ppianto!
E a cche sserveno mai tanti lamenti?
Ah! mme l’aveva detto mamma mia:
— Fijja, nu’ lo pijjà, cche tte ne penti.
Ecco cosa vvô ddì’ la frenesia
5
De nun volé ddà’ rretta a li parenti
Pe’ sposà un omo e nun zapé
6
cchi ssia.
1
Mi lascia.
2
Se Iddio non ci rimedia.
3
Non avere altro.
4
Lavoro.
5
Vuol dire la frenesia.
6
Non
sapere.
XCI.
LA FAMIJJA POVERELLA.
(26 settembre 1835)
Quiete, crature mie, stàteve quiete:
Sì, ffijji, zitti, chè mmommó vviè
1
Ttata.
Oh Vvergine der pianto addolorata,
Provedeteme voi che lo potete!
No, vvisscere mie care, nun piaggnete:
Nun me fate morì ccusì accorata:
Lui quarche ccosa l’averà abbuscata,
E ppijjeremo er pane, e mmaggnerete.
Si ccapìssivo
2
er bene che vve vojjo!...
Che ddichi, Peppe? nun vôi sta’ a lo scuro?
Fijjo, com’ho da fa’ ssi nun c’è ojjo?
3
E ttu, Llalla, che hai? Povera Lalla,
Hai freddo? Ebbè, nnun méttete
4
lì ar muro:
Viè
5
in braccio a mmamma tua che tt’ariscalla.
6
1
Or ora viene. —
2
Se capiste. —
3
Non c’è olio. —
4
Non metterti. —
5
Vieni.
6
Ti riscalda.
XCII.
LA SABBATINA.
1
(4 ottobre 1835)
— Pfch:
2
Mamma, oh mamma. — Ahó. — Mmamma. — Che hai?
3
Pijjateme la pippa
4
accapalletto,
5
E sporgeteme ggiù ppuro un papetto.
E sto papetto mo cche tte ne fai?
E a vvoi che vve ne preme de sti guai?
6
Voi abbadate a ffa’ cquer che vv’ho ddetto,
E nun state a sfassciàmme er ciufoletto.
7
Dimme arméno
8
a cquest’ora indóve vai. —
Dove me pare. — Ah Nnino! — Oh, pprincipiamo. —
Ma ffijjo!... — Ebbè, vvado a mmaggnà la trippa.
E cco’ cchi?
9
— Cco’ li zoccoli d’Abbramo. —
Co’ le solite schiume galeotte. —
Ma inzomma, sto papetto co’ sta pippa? —
Eccolo. E cquanno torni? — Bbôna notte.
10
1
La sabbatina è quel vegliare la sera del sabato, onde poi mangiar cibi vietati passata che sia mezzanotte.
2
Segno fonetico di quel fischio acuto e gutturale, che si fa mettendo in bocca il dito indice ripiegato su stesso.
3
Che vuoi?
4
Pipa.
5
A capo del letto.
6
Di queste cure.
7
Non istate a rompermi le scatole.
8
Dimmi almeno. —
9
E con chi? —
10
Questa risposta va pronunziata allungando le sillabe, quasi canterellando.
XCIII.
ER CAVAL DE BBRONZO.
(1 novembre 1835)
E ddàjjela
1
cor trotta e ccor galoppa!
Io v’aritorno a ddì’, ppadron Cornelio,
Ch’er famoso caval de Marc’Urelio
Un antro po’ ccasca de quarto o schioppa.
2
Er zor don Carlo Fea, jjeri (e nun celio!)
Ce stava sopra a ccianche
3
larghe in groppa,
E strillava: — Si
4
cqua nnun z’arittoppa
Se
5
va a ffa’ bbuggarà ccom’un vangelio.
6
L’abbate aveva in mano un negroscopico,
7
E ssegguitava a urlà ppien de cordojjo:
— Cqua cc’è acqua, perdio! questo è rritropico.
8
Disce inzomma che ll’unica speranza
De sarvà Mmarc’Urelio in Campidojjo,
È er fajje una parentisi
9
a la panza.
1
E dàgli, e seguita a dire che trotta e che galoppa. —
2
Poco mancava che cadesse, ec., o scoppiasse. —
3
Gambe.
4
Se.
5
Si.
6
Cioè, veramente, senza dubbio.
7
Microscopio.
8
Idropico.
9
È il fargli una
paracentesi, ec. Difatti il famoso cavallo erasi col tempo riempiuto di acqua e minacciava di crollare. L’abate
Fea, commissario vigilantissimo delle antichità, vi fece riparare.
XCIV.
LE SMAMMATE.
1
(3 novembre 1835)
Díllo, visscere mie de ste pupille:
Di’, ccore, chi vvô bbene a mmamma sua?
Uh ffijjo d’oro! E cquanti sacchi? Dua?
Du’ sacchi?... E mmamma sua je ne vô mmille.
No, bbello mio, nu’ le toccà le spille:
Sta attenta, sciscio,
2
chè tte fai la bbua.
Oh ddio sinnòe! Oh ppòvea catùa!
3
S’è ppuncicato la manina Achille!
Guarda, guarda er tettè,
4
ccocco mio caro...
Bbè, er purcinella, sí... Nno, er barettone...
5
Ecco la bbumba,
6
tiè... Vvôi er cucchiaro?
Oh, zzitto llì, cché mmo cchiamo barbone,
E vve fo pportà vvia dar carbonaro
Che vve metti
7
in ner zacco der carbone.
1
Smancerie, vezzi di madre.
2
Cicio; parola vezzeggiativa.
3
Oh Dio signore! o povera creatura! (che il
popolo dice cratura). Queste parole sono qui scritte senza la r, perchè così in Roma si suole parlare a’ bambini.
4
Cane. —
5
Berrettone. —
6
Bumba è pe’ bambini tuttociò che si beve. —
7
Vi metta.
XCV.
L’URTIMO BBICCHIERE.
(5 novembre 1835)
Dunque la fin der pranzo nu’ la sai?
Un po’ ppiù sse
1
pijjàveno a cazzotti.
Pe ’na mezza parola se so’ rotti,
2
Che gguai a llui si cciaritorna,
3
guai!
— Nò, — strillava er padrone, — nò, mmai, mai:
Caluggne de vojantri patriotti:
4
Li Dottori so’ stati ommini dotti,
E san Tomasso j’è obbrigato assai.
E cquello risponneva: —Eh ssa, siggnore,
Abbadi come parla. Io nun zo’
5
aretico,
Ma ppoteva sbajjà ppuro
6
un dottore.
— Che? — rrepricava l’antro;
7
— ggnente, ggnente:
Lei, siggnore, è un gismatico, è un asscetico,
Un uteràno marcio, un biscredente.
8
1
Si.
2
Si sono rotti tanto, che ecc.
3
Se ci ritorna.
4
Di voi altri settari.
5
Non sono.
6
Pure.
7
L’altro. —
8
Scismatico, scettico, luterano, miscredente.
XCVI.
LI TROPPI ARIGUARDI.
(25 novembre 1835)
Ma cche ppassione avete, sor’Ularia,
1
De tené ssempre sta finestra chiusa?
Nu’ la sentite cqui cche ariaccia uttusa?
2
Eh vvia, uprite, rinovate l’aria.
S’intenne:
3
un corp’umano che nun usa
D’avé l’aspirazzione nescessaria,
L’antimosfera
4
je se
5
fa contraria,
E ssi
6
ppoi s’accerota nun ha scusa.
Ecco da che ne nassce, sciorcinata,
7
Che vv’è vvienuta l’istruzion de fedico:
8
Dall’aria che vve sete nimicata.
Aria e ssole sce
9
vônno: io ve lo predico,
Perché vve vedo sta’ ttroppa attufata.
10
Dov’entra er zole, fìa,
11
nun entra er medico.
12
1
Signora Eulalia. —
2
Ottusa. —
3
S’intende. —
4
Atmosfera. —
5
Gli si.
6
Se. —
7
Disgraziata, poveretta.
8
L’ostruzione di fegato. —
9
Ci.
10
Chiusa. —
11
Contrazione di figlia. —
12
Proverbio, che vale tutto un trattato
d’igiene.
XCVII.
L’ASSAGGIO DELLE CAROTE.
1
(26 dicembre 1835)
Ciarlanno in compaggnia, succede spesso
Ch’uno o ll’antro
2
de quella compaggnia
Nun zai da quer che ddisce ar temp’istesso
S’abbi o nun abbi er don de la bbuscìa.
Tu allora pe’ scoprì che bbestia sia,
Di’ un buscïone da restàjje impresso;
E ssi
3
cquello è bbusciardo, Zaccaria,
Vederai che cciattacca
4
e tte viè
5
appresso.
Una vôrta io ne fesce
6
l’esperienza
Cor carzolaro antico der padrone,
Che sparava gran buggere in credenza.
Dico: — È arrivato er re de Princisvalle.
Disce: — Lo so, mm’ha ddato ordinazzione
De venti para de papusse
7
ggialle. —
1
Il saggio delle menzogne. —
2
Altro. —
3
Se. —
4
Ci attacca. —
5
Ti viene. —
6
Ne feci. —
7
Pantofole.
XCVIII.
LE DONNE LITICHINE.
1
(27 marzo 1836)
Indóv’êlla, indóv’êlla
2
sta caroggna
C’ha la ruganza
3
de menà a mmi’ fijja?
Essce
4
fôra, animaccia de cunijja,
5
E vvederai si cciò
6
arrotate l’oggna.
7
No, llassateme sta’, ssora Sciscijja:
8
Nun me tené, Mmaria, cch’oggi bbisoggna
Ch’a cquella bbrutta sfrizzola d’assoggna
9
Me je dii du’ rinnacci a la mantijja.
Va, vva, birbona
10
da quattro bbajocchi:
Bbrava, sèrrete drento, mmonnezzara
11
De scimisce, de piattole e ppidocchi.
Ma aritórnesce
12
sai, facciaccia amara!
Ch’io so’ figura de cacciàtte l’occhi
E ffàlli ruzzolà
13
ppe’ la Longara.
14
1
Litigiose.
2
Dov’è, dov’è? quasi dov’è ella, dov’è ella.
3
L’arroganza.
4
Esci.
5
Di coniglio; ed
essendo femina, le dice coniglia.
6
Se ci ho, se ho. —
7
Le unghie. —
8
Signora Cecilia.
9
Gli sfrizzoli sono
quelle pellicole mezzo asciutte, che rimangono della sugna, dopo colatone il grasso strutto.
10
Bagascia.
11
Sozzona. —
12
Ritornaci. —
13
Rotolare. —
14
Lungara, contrada in Trastevere.
XCIX.
LE DONNE LITICHINE.
(27 marzo 1836)
A cchi le man’addosso?! A cchi?! facciaccia
Sgazzerata, cco’ mme ste spacconate?
1
Nun m’inzurtà,
2
ttu nun mme fa’ bravate,
Chè tte scasso l’effiggia de la faccia.
Sti titoli a le femmine onorate?
Scànzete,
3
Mea, nun m’affermà
4
le bbraccia:
Fammeje scorti cquela testaccia,
Che ppare proprio un zacco de patate.
Che te penzi? Chedè?
5
A mme ’no sputo
In faccia? A mene?… — Ah strega fattucchiera,
Pijja su ddunque. — Oh ddio! fermete:
6
ajjuto!
No, nno, tte vojjo fa’ sto gruggno grinzo
Com’un crivello, e sta panzaccia nera
Più sbusciata, perdio, der cascio
7
sbrinzo.
1
Con me queste jattanze?
2
Non m’insultare.
3
Scanzati. —
4
Non fermarmi. —
5
Che ti pensi? Che è?
6
Fermati. —
7
Cacio.
C.
LE DONNE LITICHINE.
(27 marzo 1836)
Ch’edè sto tatanài?
1
Stamo
2
a la ggiostra?
Lassa sta’ cquela donna, vassallona.
E voi, sora scucchiaccia
3
barbottona,
Arzateve da terra, e a ccasa vostra.
Ma cche davero che sta strada nostra
È ddiventata mo Piazza Navona?
4
Oggni giorno se sente ’na canzona!
Sempre strilli, bbaruffe e gamme
5
in mostra!
Me fa spesce
6
de voi che ssete
7
vecchia,
E ddate un bell’essempio ar viscinato.
Su, a ccasa, o vve sce porto pe’ un’orecchia.
E vvoi, befana, corpo de Pilato
Nun me chiamate ppiù mmastro Nardecchia
Si un’antra vôrta
8
nun ve caccio er fiato.
1
Che è questo strepito?
2
Stiamo.
3
Mento lungo, aguzzo.
4
Sulla qual piazza si tiene mercato.
5
Gambe. —
6
Mi fa specie, maraviglia. —
7
Siete. —
8
Se un’altra volta.
CI.
LE DONNE A MMÈSSA.
(30 marzo 1836)
— Spósa,
1
è bbôna la messa? — È bbôna, è bbôna.
Bbè, mmettémose
2
cqua, ssora Terresa...
No, Ttota,
3
io vado via, che ggià ll’ho intesa.
Bbe’ llassàteme
4
dunque la corona.
Sposa, fateme sito. — Io me so’
5
ppresa
Sto cantoncello pe’ la mi’ perzona. —
Dico fateve in là, ssora cojjona:
Che! ssete
6
la padrona de la cchiesa? —
E in che ddànno
7
ste spinte? — Io vojjo er lôco
Pe’ ssentì mmessa. —Annàtevelo a ttròva’. —
8
Presto, o mmommò vve fo vvedé un bêr
9
giôco. —
Oh gguardate che bbell’impertinenza!
Se
10
sta in casa de Ddio e manco ggiova.
Tutti vônno
11
campà de propotenza. —
1
Il nome generico che si a qualunque donna incognita è quello di sposa. Questo vocabolo pronunciasi colla o
stretta.
2
Mettiamoci.
3
Antonia.
4
Lasciatemi.
5
Mi sono.
6
Siete.
7
Che voglion dire.
8
Andatevelo a trovare. —
9
Un bel. —
10
Si. —
11
Vogliono.
CII.
ER MISERERE DE LA SITTIMANA SANTA.
(31 marzo 1836)
Tutti l’Ingresi
1
de Piazza de Spaggna
2
Nun hanno antro
3
che ddì’ ssi cche ppiascere
È de sentí a Ssan Pietro er miserere
Che ggnisun’istrumento l’accompaggna.
Defatti, dico, in ne la gran Bertaggna
E in nell’antre cappelle furistiere
Chi ssa ddì’, ccom’a Roma in ste tre ssere:
Miserere mei Deo secunnum maggna?
Oggi sur maggna sce so’
4
stati un’ora;
E ccantata accusì, ssangue dell’ua!,
5
Quer maggna è una parola che innamora.
Prima l’ha ddetta un musico, poi dua,
Poi tre, ppoi quattro; e ttutt’er coro allora
J’ha ddato ggiú: mmisericordiam tua.
1
Inglesi. —
2
Piazza molto nota di Roma, dove sogliono abitare la maggior parte degli Inglesi. —
3
Altro. —
4
Ci
sono: ci si sono fermati. —
5
Dell’uva.
CIII.
ER MERITO DE LI RICCHI.
(3 aprile 1836)
Merito dite? O ppoveri merlotti!
Li quadrini, ecco er merito, fratelli.
Li ricchi soli so’ bboni, so’ bbelli,
So’ ggrazziosi, so’ ggioveni e sso’ ddotti.
A l’incontro noantri
1
poverelli
Tutti schifenze,
2
tutti galeotti,
Tutti deggni de sputi e de cazzotti,
Tutti cucuzze in càmmio de scervelli.
3
Fa ccomparì un pezzente immezzo ar monno:
Fussi magàra
4
una perla orientale,
Presto cacciate via sto vagabbonno.
Tristo chi sse
5
presenta a li cristiani
Scarzo
6
e ccencioso. Inzìno pe’ le scale
Lo vanno a mmozzicà ppuro
7
li cani.
1
Noi altri.
2
Sozzi, gente da letamaio, spregevoli ecc.
3
In cambio di cervelli. —
4
Fosse magari. —
5
Si.
6
Scalzo. —
7
Pure.
CIV.
CERTE PAROLE LATINE.
(26 settembre 1836)
Una sce n’ho ppur’io guasi
1
compaggna.
2
Quanno annài cor padron de zi’ Pascifica
3
A Terni indóve er marmo se pietrifica,
4
E ppo’ a Ssisi
5
e a la fiera de Bbevaggna;
In chiesa, doppo er canto der Maggnifica,
6
Dimannai a un pretozzo de campaggna:
— Quer parolone fescimichimaggna,
7
Sor Arciprete mio, cosa siggnifica?
L’abbate je pijjò un tantin de tossa,
8
Poi disse: Fescimichimaggna, fijjo,
Vô ddì’ in vorgàre:
9
Me l’ha ffatta grossa. —
Dico: — E ccosa j’ha ffatto, eh sor curato?
Oh, ccerti tasti, disce, io ve conzijjo
De nun toccàlli; e cquer ch’è stato è stato. —
1
Quasi.
2
Cioè: simile a quella che m’hai raccontato tu. Questo sonetto era forse preceduto da un altro
d’argomento analogo, e che si sarà dovuto omettere nell’edizione romana.
3
Di zia Pacifica.
4
Allude alle
stalattiti delle Marmore.
5
Ad Assisi.
6
Magnificat.
7
Fecit mihi magna.
8
All’abbate gli pigliò un
tantino di tosse, cioè finse di tossire per guadagnar tempo, trovandosi impacciato a rispondere.
9
Vuol dire in
volgare.
CV.
MASTRO GRESPINO.
1
(30 novembre 1836)
Stretti?! Ma gguardi llì: stanno attillati,
2
Che jje fanno un piedino ch’è un piascere.
Sôle schiette, se sa,
3
ppelle sincere:
So’
4
stivali, e nno zzànnoli
5
de frati.
Che ccosa se ne fa, ssor cavajjere,
De quelli fanfaroni
6
squatrassciati,
7
Che ddoppo un’ora o ddua che ll’ha ccarzati,
Je diventeno un par de sorbettiere?
Sbatti
8
er piede, accusì, ffacci de questo:
9
Ma ggià, er vitello come sente er callo
10
Cede da lui médémo
11
e ppijja er zesto.
12
Oggi e ddomani ar più cche sse li mette,
Lei, sti stivali cqui, pôzzo accertàllo
13
Che jj’anneranno su ccom’e ccarzette.
1
Crispino: nome comune de’ calzolai.
2
Stanno attillati in modo, che ecc.
3
Si sa.
4
Sono.
5
Sandali.
6
Goffi oggetti.
7
Deformi per larghezza.
8
Sbatta: batta.
9
Faccia di questo: «faccia in questo modo,
come faccio io.»
10
Il caldo.
11
Medesimo.
12
Piglia il sesto.
13
Questa costruzione spropositata, ma
efficace, è d’uso molto frequente tra’ Romaneschi.
CVI.
MASTRO GRESPINIO.
(30 novembre)
Larghi sti bbordacchè?!
1
Llavoro a ttanti
E oggnuno li vô ggranni ppiù de quelli.
Quanno lei commannava du’ bbudelli,
Sor Conte mio, poteva dìllo avanti.
Questi ar meno je vanno com’e guanti,
Senza che cce se
2
sforzi e s’appuntelli:
Nun c’è ar meno bbisoggno de mettélli
A ffuria de sapone e de tiranti.
Nu’ la sente che ppasta de gammàle?
La prim’acqua che vviè cquesto aritira;
E, si strozza,
3
o nun j’entra o jje fa mmale.
Carzi commido,
4
carzi: er tropp’è ttroppo.
Eppoi pe’ ffa’ er piedino, se
5
sospira
Co’ li calli e ssoprossi e sse
5
va zzoppo.
1
Brodequins: borzacchini.
2
Ci si.
3
Dal verbo strozzare. Qui significa però stringere eccessivamente,
mercè una strozzatura in qualche punto dello stivale. —
4
Calzi comodo. —
5
Si.
CVII.
LA BBEFANA.
(6 gennaio 1837)
Jerassera er baggeo
1
de la padrona
Venne ar tardi a pportàjje la bbefana,
E jje diede ’na scatola che ssona,
’Na saviggnèa
2
de smarto
3
e ’na collana.
Bbè, azzecchesce
4
sta fiandra
5
bbuggiarona.
Disce: — Oh cquesto poi no: ssuono
6
romana,
Ma ll’amicizzia de la mia perzona
Nun ze ottiè ccor dà’ ll’acqua a la funtana. —
E llui? A sta scappata arrepentina
Parze
7
la tartaruca de zi’ Nena
Quanno aritira er collo in ne la schina.
Allora lei, pe’ llevàllo de pena,
S’arivortò a la donna; disce: — Nina,
Riponéte sta robba e andate a ccena. —
1
Qui significa l’elegante, il languente, ec.
2
Una sévigné.
3
Smalto.
4
Azzeccaci: «indovinaci (cosa fa)
questa, ec.».
5
Furba, maliziosa. —
6
Affettazione di sono. —
7
Parve.
CVIII.
L’AMISCIZZIA VECCHIA.
1
(30 gennaio 1837)
Oh cquesto poi lo posso dì’ in cusscenza,
2
E ho ttant’in mano da dànne
3
le prove,
Ch’io so’ ott’anni e ccammina pe’ li nove,
Che, bbontà ssua, conosco su’ Eccellenza.
Sapete voi che ppieno de pascenza,
Quann’io stavo de casa a Cacciabbove,
4
Veniva sempre co’ ccamìsce
5
nove
Per avélle cuscite da Vincenza?
Appena entrato me disceva: — Bbiascio
Tiè,
6
vva ar teatro. — Eh cche bbravo Siggnore!
Inzomma èrimo
7
propio papp’e ccascio.
8
Anzi una sera, pe llevàmme
9
er vizzio
D’aringrazzià, lui mme fesce l’onore
De mannàmmesce
10
a ccarci in quer zervizzio!
1
È un Menelao di buona pasta, che parla in questo sonetto.
2
Coscienza.
3
Darne.
4
Una contrada di
Roma.
5
Camicie.
6
Tieni, piglia questi danari, e vacci al teatro.
7
Eravamo.
8
Pappa (pane) e cacio:
amici intrinseci. —
9
Per levarmi. —
10
Mandarmici.
CIX.
LO SCATOLARO.
(10 febbraio 1837)
Eh, ir ziggnore si vede ch’ha vviaggiato:
Ha sscérto
1
una gran bella tabbacchiera!
Radica der Perú, rradica vera,
E nno lleggno dipinto e invernisciato.
Lei, oggi, cqua in vetrina m’ha llevato
Ir capitale ppiù mmejjo che cc’era;
Nun zi dubbiti, no: ppe’ la scerniera
So bbè io si cche ottone sciò
2
addoprato.
Stenta? ma mme fa rrìde!
3
è robba nova.
Eppoi la ggente nun zi pijja in gola:
Io ste scatole cqui, jje le do a pprova.
Lei vadi puro,
4
lustrissimo mio,
Lei dormi
5
quieto su la mi’ parola;
E in oggni caso so’ ssempre cqua io.
6
1
Scelto. —
2
Ci ho. —
3
Mi fa ridere. —
4
Vada pure. —
5
Dorma. —
6
Son qua io, cioè per cambiarla se mai ec.
CX.
LO SCATOLARO.
(10 febbraio 1837)
Io mo nun m’aricordo er come e ’r quanno
J’ho vvennuta la scatola: me scotta
De sentì cche jj’ho ffatto er contrabbanno
D’appoggiajje un lavore
1
de ricotta.
Lo capisco pur’io che cqui cc’è ddanno
Ne la scerniera; ma cchi ssa cche bbôtta
Ha avuto in ner cuperchio! l’averanno
Fatta cas pper terra, e jje s’è rrotta.
La scatola era sana. Eppoi, chi ha ll’occhi,
Quanno che ccrompa
2
l’ha da uprì, bbêr fijjo.
Er monno nun è ffatto pe’ li ssciocchi.
Mo è sfracassata, sì: chi vve lo nega?
Ma io la marcanzia nu’ l’aripijjo,
3
Una vôrta
4
ch’è usscita da bbottega.
1
Di vendergli un lavoro, un oggetto. —
2
Compra. —
3
Non la ripiglio. —
4
Una volta: allorchè, quando.
CXI.
CHI LA FA, LASPETTA.
(22 febbraio 1837)
— Scusateme, sapé,
1
ssora Nunziata:
V’appunto una parola e scappo via. —
Commannateme, sora Nastasìa.—
Dite un po’: cquanno fate la bbucata?
2
Nun vedete? è ggià bbell’e ppreparata
La callàra
3
pe’ bbùlle
4
la lesscìa.
5
Dico, perché cciò
6
un po’ de bbiancheria...
Volémo fàlla tutta una tuttata?
7
Volentieri; ma... è ppiena la tinozza...
Anzi fàtem’annà,
8
ssinnò
9
la robba
Pijja troppo de covo
10
e mme s’incozza.
11
Ho ccapito. Ma ggià cquesto succede
A cchi ggratta le schine co’ la gobba.
12
Abbasta, chi nun more s’arivede!
13
1
Sapete.
2
Bucato.
3
Caldaia.
4
Per bollire, in significazione attiva.
5
La lisciva.
6
Ci ho: ho.
7
Vogliamo fare tutto insieme?
8
Fatemi andare.
9
Altrimenti.
10
Piglia di covo, cioè «acquista mal odore
per lo stagnar soverchio nel liquido.» —
11
Le sozzure la penetrano.
12
Modo proverbiale, che significa: A chi
blandisce i maligni.
13
Proverbio.
CXII.
LE MONTAGGNE NUN ZINCONTRENO.
1
(22 febbraio 1837)
— Eh sora Nastasìa. — Cosa ve dôle?—
Inzomma? eh sora Nastasìa! — Che vv’essce? —
Presto, chè vv’ho da dì’ cquattro parole. —
A nnoi, sentìmo cosa so’ ste pressce.
Me fate métte’
2
du’ matasse ar zole? —
Magara,
3
bbella mia; ma m’arincressce
Ch’er tetto serv’a mme. — Vvia, so’
4
ddua sole...
Sì, un po’ più in là: cquanno la luna cressce.
Ma ssapete che ssete
5
una cosaccia? —
Tirate er fiato a vvoi:
6
ggiucate er zei.
7
Sì, una sscontenta,
8
e vve lo dico in faccia. —
Nun z’aricorda ppiù de quel’affare?
Quer che llei fesce a nnoi, noi fàmo
9
a llei.
Oggni nodo viè ar pettine,
10
commare! —
1
Le montagne non s’incontrano: proverbio.
2
Mi fate mettere.
3
Magari.
4
Sono.
5
Siete.
6
Ritorcete su voi l’ingiuria. —
7
Giuocate il sei: cioè «sei tu ciò che dici di me.»
8
Discortese. —
9
Facciamo. —
10
Proverbio.
CXIII.
LI DILETTANTI DEL LOTTO.
(25 febbraio 1837)
Ma cch’asstrazzione!
1
arràbbieli! saette!
Guasi sce ggiurerìa
2
che sto scontento
O li nummeri mii nun mmette drento,
O cche li sa scanzà ssi cce li mette.
Giuco da un anno dua, tre e ottantasette,
Co’ la promessa amb’uno e terno scento:
3
Ciaffogo
4
sempre er mi’ lustrin
5
d’argento;
E cquanno semo llì nnun vinco un ette.
Quattro nummeri drent’a la ventina!
Eppoi nun dite so’ ccose accordate!
Dar capo viè la tiggna,
6
Caterina.
Ècchele cqua: ccinquantadu’ ggiucate
Senza un nummero. Eppuro la cartina
Cor terno scritto me la diede un frate!
7
1
Che estrazione! —
2
Ci giurerei. —
3
La promessa è la indicazione, che si fa sulla schedola della giuocata, della
cifra della vincita corrispondente al valore della posta. Ambo uno, promette uno scudo: terno cento, promette
cento scudi: ma v’è poi l’augumento del 20 per cento agli ambi e dell’80 ai terni.
4
Ci affogo.
5
Mezzo
paolo. —
6
Proverbio.
7
I frati, massimamente i francescani mendicanti, hanno grande riputazione di maghi.
CXIV.
LI DILETTANTI DEL LOTTO.
(25 febbraio 1837)
— C’hai ggiucato?Ottantuno pe ssiconno.
1
Bbôno: me piasce. Io sce ll’ho ddrent’a un terno
E a ’n ambo; e pprima che ffinischi inverno,
Nun c’è ccaso, ha da usscì, ccascassi er monno.
2
La figura de nove, sor Rimonno,
Ha da fa’ st’anno sospirà er governo.
Vedi ch’er ventisette lo chiudérno
3
Pe’ Ffiorenza, e ppe’ Rroma l’arivônno?
4
Te sbajji,
5
Checco
6
mio: quello è er zimpatico
De l’antr’anno: pe’ cquesto è er discidotto.
De ste regole cqui ssei poco pratico. —
Bbè, è ffigura de nove quello puro.
7
E in tutta la seguenza, o ssopra o sotto,
Pe’ ssei mesi sc’è er nummero sicuro.
1
Per secondo estratto.
2
Cascasse il mondo. —
3
Lo chiusero. Quando le poste raccolte sopra un numero, o un
ambo, o un terno qualunque superano una certa mèta prestabilita, il di più vien restituito ai giuocatori,
annullandone i giuochi; e allora dicesi essere chiuso il numero ecc.
4
Lo rivogliono per l’estrazione di Roma.
5
Ti sbagli per sbagli. —
6
Francesco. —
7
Pure.
CXV.
LI DILETTANTI DEL LOTTO.
(25 febbraio 1837)
Come diavolo mai me so’ accecato
1
A nun capí la gàbbola der mago!
Ma ssenti: l’incontrai sabbito
2
ar lago;
3
Disce: «É da jjeri che nun ho mmaggnato.»
Lo porto all’osteria: lui maggna: io pago:
L’oste sparecchia; e ddoppo sparecchiato
Er mago pijja un cane llì accucciato,
4
E jje lega la coda co’ uno spago.
Io fo un ambo: tre er cane, e ccoda ar nove.
Ebbè, azzécchesce
5
un po’? ppe’ pprim’astratto
6
Viè ffôra com’un razzo er trentanove.
Ma eh? ppoteva dàmmelo ppiù cchiaro?
Nun l’averìa
7
capito puro
8
un gatto?
L’avevo da legà, pporco-somaro!
1
Mi sono accecato talmente da ecc. —
2
Sabato. —
3
In ogni sabato e domenica di agosto si allaga artificialmente
la Piazza navona.
4
Cucciato. —
5
Azzeccaci, indovinaci. —
6
Estratto. —
7
L’avrebbe. —
8
Pure.
CXVI.
LI GATTI DELLAPPIGGIONANTE.
(27 febbraio 1837)
Ma ddavero davero, eh sora Nina,
1
Nun volémo finìlla co’ sti gatti?
Jerzera me sfassciôrno quattro piatti:
Oggi m’hanno scocciato una terrina.
2
Uno me te
3
dà addosso a la gallina:
L’antro
4
me
5
sporca li letti arifatti...
E oggni sempre bbisoggna che commatti
6
A ccacciàlli a scopate da cuscina.
7
Ecco, er pupo
8
oggi ha er gruggno sgraffiggnato...
9
E pperché ho da soffrì ttutti sti guasti?
P’er vostro luscernario
10
spalancato?
Quanno le cose so’ ddette una, dua,
Tre e cquattro vôrte, me pare ch’abbasti.
Lei se tienghi
11
li gatti a ccasa sua.
1
Caterina.
2
Zuppiera.
3
Mi ti.
4
L’altro.
5
Mi.
6
Che io combatta, che mi affanni. —
7
Cucina.
8
Il bambino. —
9
Graffiato. —
10
Abbaìno. —
11
Si tenga.
CXVII.
ER MARITO PASCIOCCONE.
1
(2 marzo 1837)
Si mme vô bbene?!
2
povero Cammillo!
Quell’omo io je potrebbe sfràggne l’ova
In faccia. A mme nun me sta bbene a ddìllo,
Ma un marito ppiù bbono nun ze trova.
In zett’anni che ll’ho, mmai uno strillo!
Mai un tíret’-in-là! ’Ggni cosa nova
Ch’essce a Rroma è ppe’ mme: cqualunque grillo
Me viè, llui me lo leva, o cce se
3
prova.
La sera poi ch’è stracco, poveretto,
Pe ffàmme
4
divertì, ffesta o nun festa
Me conzeggna ar compare, e llui va a lletto.
E ppe’ cquesto, ecco llì, sora Vincenza,
J’ariessce oggni affare che ttiè in testa,
E ’r Ziggnore je dà la providenza.
1
Uomo di pasta eccellente, trattabilissimo.
2
E voi mi domandate se mi vuol bene?!
3
Ci si. —
4
Per farmi.
CXVIII.
LE PIGGIONANTE SUSSURRONE.
(4 marzo 1837)
— Dico, ditem’un po’, ssora commare,
Ch’è ssuccesso cquassú? ffate la ggiostra?
Sora cojjona, stamo a ccasa nostra
E vôlémo zzom
1
cquanto sce pare.
Ma inzomma cqui da noi pe’ ccausa vostra
Viè ggiù er zolaro. — Povere somare!,
Ji fa mmale ir rimore!
2
— E ste caggnare,
Dico, in che dànno,
3
sora bbrutta mostra?
4
Drento a sti muri cquì, ssemo padrone
De sta’ alegre e godé ccome sciaggarba.
5
Pagamo, casomai, bbôna piggione.
Bbè, bbè, ddomani ve farà la lêgge
Er Presidente...
6
— E cce darà de bbarba.
Uggnuno ha er zanto suo che lo protegge.
7
1
Saltare.
2
Affettato civilismo di discorso in modo di sarcasmo: Ji fa mmale ir rimore! Altrimenti avrebbe
detto: Je fa mmale er rumore, o anche er rimore. —
3
Danno dal verbo dare: cosa significano queste cagnare? —
4
Femminino di mostro. —
5
Ci aggarba. —
6
Presidente di polizia del rione. —
7
Proverbio.
CXIX.
ER CAPPELLARO.
(4 marzo 1837)
— È in ordine,o no, questo cappello?
Quale? — Il cappello bianco. — Ah, ssissiggnora.
1
Checco,
2
venite cqua: ccacciate fôra
Quel tutto-lepre. No cquesto... no cquello...
Orsù, non dite piú bugie, fratello...
Via, dunque, el zu’ cappello se lavora. —
Vediamolo. — L’ha in mano l’orlatora.
Mandateci. — Eh, el regazzo sta al fornello...
— Ho capito. — Ma llei sii perzuasa,
Sor cavajjere, ch’el cappello è ppronto,
E ddomatina je lo manno a ccasa.
Lo stesso mi diceste l’altra festa.
Lei nun ce penzi ppiù: llei facci conto
Com’el cappello ggià ll’avessi
3
in testa. —
1
Sì signore. Il popolo l’usa sempre in femminino. —
2
Francesco. —
3
L’avesse.
CXX.
ER FIJJO DORO.
(11 marzo 1837)
Che ttalento de fijjo! Uh bbenedetto!
Je spunteno le grazzie co’ li denti.
C’è la commare che nn’ha ffatti venti
E cce ggiura ch’è un angelo, un folletto.
Eccolo, ancora me s’attacca ar petto,
Sì e nnò vva ssolo, e ggià ddisce accidenti.
Ha ttrenta mesi a maggio, e, ssi
1
lo senti,
Bbiastìma,
2
fijjo mio, com’un ometto.
Lui pe’ strada ’ggni bbrécciola
3
che ttrova
Nun pô ttiralla ché jj’amanca er fiato,
Ma bbisoggna vedé ccome sce prova.
Si
4
ttanto me dà ttanto
5
appena nato,
Da granne ha da venì ’na cosa nôva:
Ha da dà’ rresto
6
a ttutto er viscinato.
1
Se.
2
Bestemmia.
3
Breccia, per sassolino, pietruzza.
4
Se.
5
Giustissima regola del tre.
6
Ha da
dar brighe.
CXXI.
LA CORREZZION DE LI FIJJI.
(11 marzo 1837)
Tiè,
1
ccane; tiè, ccaroggna; tiè, assassino:
Tiè, ppijja su, animaccia d’impiccato.
No, ffìo
2
d’un porco, nun te lasso, inzino
Che cco’ ste mane mie nun t’ho stroppiato.
E zzitto, zzitto llì, cche ssi’ ammazzato:
Quietète, o tte do er resto der carlino.
Ah nnun t’abbasta? A tte, strilla caìno
Dunque pe cqueste sin che tt’essce er fiato.
E vvoi cosa sc’entrate, sor cazzaccio?
Je sete padre? Questo è ssangue mio,
È mmi’ fijjo, e sso io quer che mme
3
faccio.
Quanto va cche l’acchiappo
4
pe’ le zzampe
E vve lo sbatto in faccia? Oh a vvoi, per dio!,
Avémo messo er correttor de stampe!
1
Tieni: piglia su. —
2
Figlio, pronunziato in una sola sillaba. —
3
Mi. —
4
Lo afferro.
CXXII.
ER PANGILINGUA.
(28 maggio 1837)
No, nno, ddoppo quer gran spropositone
Nun je diedi antro
1
tempo, nun je diedi.
Vortai strada de bbôtto e mme n’aggnédi,
2
Senza volé più vvéde’
3
ppriscissione.
Sti musichi e ccantori der libbrone,
C’hanno sempre le note tra li piedi!
Che cciangòtteno
4
ppiù Ppassi e ppiù Ccrêdi
Che nun tiè ppurce addosso un can barbone!
De sta tinta se stroppia
5
er pangilingua?
Sto bbêr fior de resìe
6
vanno cantanno,
Che jje se pôzzi
7
inverminì la lingua?
Incollato?! Che mmoras incollato!
8
Ho ssempre inteso a ddì,
9
da trentun’anno,
Che Cristo in crosce sce morì inchiodato.
1
Altro.
2
Me ne andai.
3
Vedere.
4
Borbottano.
5
Di cotal modo si storpia.
6
Eresie.
7
Gli si
possa. —
8
Moras incolatus. —
9
Dire.
CXXIII.
L’AMISCIZZIA DER MONNO.
(6 giugno 1837)
Dico: — Eccellenza, se pô avé
1
l’onore?...
Oh addio (disce) che ffate, Fidirico?
Dico: — Er zolito mio: fo er zervitore. —
Disce: — E cco’ cchi? — Ccor mi’ padrone antico. —
Come! (disce) ho ssentito che sse more
2
De fame, e ancora tiè ffamijja? — Eeh (ddico),
Mo ss’è arifatto ricco; e ppiù maggiore,
3
Ch’a cqueli tempi che llei j’era amico. —
Disce: — Ma ccome! si mme venne a chiéde’
4
Du’ scudi un anno fa! Cquesta è ’na prova...
E llei (dico), sor Conte, je li diede?
Ma inzomma (disce), come va sta nôva? —
Dico: — Un zio morto l’ha lassato erede.—
Disce: — Ho ppiascere assai: lo verrò a ttròva.
5
1
Si può avere.
2
Ch’egli si muore.
3
È ricco maggiormente che ecc.
4
Se mi venne a chiedere.
5
Trovare.
CXXIV.
LA PERPETUELLA
1
DE LA GGIUVEN.
(19 giugno 1837)
È inutile. Una donna, inzin ch’è vviva,
Sibbè ss’aricordassi
2
de Maumetto,
Sibbè ffussi ppiú antica der brodetto,
Lei nun vô êsse’
3
mai vecchia o stantiva.
4
Tu gguarda una tardona,
5
quann’arriva
A la commedia
6
e appizza
7
in ner parchetto:
Subbito te s’affaccia ar parapetto;
E ppiú sso’
8
ll’anni ppiù ccressce l’abbriva.
9
Si
10
ppoi pe’ un schiribbizzo,
11
sta malanna,
Sta mossciarella
12
è ggravida a cquell’ora
Ch’era tempo de métte’ l’eslocanna;
13
Fin che ddura quer po’ de gravidanza,
Pe’ pprim’operazzione a l’usscì ffôra
Manna
14
avanti la fede de la panza.
1
La perpetuità.
2
Sebbene si ricordasse.
3
Ella non vuole essere.
4
Stantìa.
5
Di tarda età, attempata.
6
Al teatro.
7
Entra.
8
Sono.
9
L’abbrivo. —
10
Se.
11
Ghiribizzo, capriccio del caso.
12
Castagna
secca. —
13
Di mettere l’est-locanda. —
14
Manda.
CXXV.
LA PERPETUELLA DE LA GGIUVENTÙ.
(19 giugno 1837)
Tant’ è,
1
ppadron Girolimo: voi dite
Un pezzo de Vangelio spiccicato.
2
Pe’ le donne le fede der Curato
Dar ventiscinqu’ in zu sso’
3
attaccalite.
Lôro credeno,
4
quanno sso’ vvistite
5
E ttiéngheno
6
er pellame
7
inammidato
E ddu’ libbre de stoppa in zur costato,
Che vvoi la lôr’età nun la capite.
Vedi la mojje de quer pampaluco
Der zor Taddeo? Pe’ ffa’
8
da fresca-donna,
Se
9
porta sempre a spasso er fijjo sciuco.
10
E cchi nun cià
11
ccrature
12
piccinine,
Che jje sii
13
madre, o, a la ppiù peggio, nonna,
Va a ffàssele
14
imprestà dda le viscine.
1
Così è.
2
Identico.
3
Dai 25 anni in su sono ecc.
4
Esse credono.
5
Sono vestite.
6
Tengono.
7
La pelle. —
8
Per fare. —
9
Si. —
10
Ciuco: piccolo. —
11
Non ci ha: non ha. —
12
Creature. —
13
Alle quali sia. —
14
A farsele.
CXXVI.
LA VITE.
(28 ottobre 1837)
Che ddisce? pparlà cco’ Mmonziggnore?
Sor abbate mio caro, abbi
1
pascenza,
Monziggnore per oggi nun dà udienza
Manco venissi
2
ggiù Nostro Siggnore.
Lui ’ggni sàbbito sta in circonferenza
3
Co’ mmonzù Bbuzzarè
4
lo stampatore,
Pe’ ffa’ stampà le vite c’oggni utore
5
Se scrive
6
pe’ ddà’ ggusto a ssu’ Eccellenza.
Sto gusto lo sa llui cosa je costa;
Perché, mmo cche lo sanno, spesso spesso
Je spidischeno vite pe’ la posta.
7
Mo la massima è bbell’e stabbilita:
Abbasta che ssii nato, ar monno adesso
Chiunque more ha da lassà la vita.
1
Abbia. —
2
Nemmeno se venisse. —
3
In conferenza. —
4
Boulzaler.
5
Autore. —
6
Si scrive, da sè stesso. —
7
Ciò accade continuamente a monsignor Carlo Emanuele Muzzarelli, uditore della Santa Rota, il quale stimola
quasi ogni italiano che maneggi penna, a scrivere la propria biografia. Morendo poi gli autori istoriografi, egli ne
va pubblicando le vite su tutti i giornali d’Italia. Nuova specie di mecenatismo.
CXXVII.
LA CARAMAGGNOLA DARGENTINA.
1
(20 gennaio 1838)
— Zio, prima che ppijjate li bbijjetti
Dite un po’: cche vvô ddì’ ccaramaggnòla? —
Quanto sei sscemo! vô ddì’ ccamisciòla,
Corpetto-co’-le-maniche a ddu’ petti.
E ccome se pô ffa’,
2
cco’ li corpetti
A ffàcce
3
le commedie, eh zio? — Bbestiola!
Se fa ccome se fa co’ ’na parola
A fàcce le canzone e li sonetti.
Ma ddunque sta commedia sarà bbella?
Sarà bbella sicuro, fijjo mio. —
E cce rèscita puro
4
Purcinella?
No, credo che cce rèsciti Arlecchino.
Arméno Nicolò cce l’ho llett’io,
E cce disceva puro
4
piccinino.
5
1
Il Conte di Carmagnola di Alessandro Manzoni, dato nel teatro di Torre Argentina da Luigi Domeniconi.
2
Si può fare.
3
Farci.
4
Pure.
5
Il condottiere Nicolò Piccinino. E il figlio di Arlecchino chiamasi Nicolò
piccinino, benchè talvolta Nicolò mezza-camisa.
CXXVIII.
LA COMMEDIA DER TROCQUATO.
1
(5 maggio 1843)
Dunqu’io jerzera, dopp’avé sserrato,
2
Cenai, me prese sott’ar braccio Nina,
Fesce un giretto, eppoi drent’a Argentina
A vvéde’ sta commedia der Trocquato.
Ma vva’!
3
un parmo d’ometto, un disperato,
Protenne de sgrinfià cco’ la reggina!
4
E ssi er re lo mannò a la palazzina,
Io s’una forca l’averìa mannato.
Ma llui ch’er tibbi
5
nun j’annò a ffasciolo,
6
S’appoggiò un par de sventoloni in fronte
7
E sse fesce, perdio, com’un cetrolo.
8
E cquanno aggnéde a lliticà ccor Conte?
9
A penzà come mai quer futticchiolo
10
Ciaveva
11
sempre le risposte pronte!
1
Torquato Tasso.
2
Sottintende: la bottega.
3
Ma guarda! Ma vedi!
4
«Pretendere di amorazzare con la
regina!» Duchessa o regina, è tutt’una cosa pel romanesco. —
5
Qui, tibbi vale punizione, condanna. Il Belli nota
in altro. luogo: «Tuttociò che sommamente nuoce e colpisce, può essere un tibbi
6
Non gli garbò.
7
«Si
dette un paio di pugni sulla fronte.» —
8
Cetriuolo.
9
Uno dei cortigiani che nel dramma figura come nemico
del Tasso.
10
Omiciattolo; perchè tale era forse l’attore che rappresentava il personaggio di Torquato.
11
Ci
aveva: aveva.
CXXIX.
CE SO BBARUFFE.
1
(14 maggio 1843)
Quest’è un fatto: da sì cche sse sposònno,
2
Sce passò ssempre inzin’all’ann’appresso
Una pasce, una cosa, una..., ma adesso?!
Nun ze pônno ppiù vvéde’,
3
nun ze pônno.
Lui ’ggni ggiorno se fa ppiù vvagabbonno,
Più scontento, più bbirbo, ppiù..., e ll’istesso
Pôi dì’
4
de lei, perché... ggià, spesso spesso
Se ne dànno, Iddio sa, ffin che nne vônno.
5
Inzomma, via, lo scànnolo è arrivato
A un punto, a un punto, che... ppuro vorrìa
Trovamm’io ne li piedi der Curato.
6
Un Curato, capite?... A llui je tocca
D’abbadà ssi...; pperantro, fijja mia,
Fàccino
7
loro: io nun ce metto bbocca.
1
Chi parla in questo sonetto è un narratore pettegolo e sconclusionato.
2
Dal momento che si sposarono.
3
Non si possono più vedere.
4
Puoi dire.
5
Vogliono.
6
È noto che tra gli uffici del Curato, c’è anche
quello di farla da paciere nelle dissensioni domestiche delle famiglie della sua cura. —
7
Facciano.
CXXX.
LI FIJJI A PPOSTICCIO.
1
(14 maggio 1843)
— E ffarai bbene: l’accattà, ssorella,
È er piú mmejjo mistiere che sse dii.
2
Nun ciò
3
fijji però, ssora Sabbella. —
Bbè, tte n’affitto un paro de li mii. —
E ccosa protennete
4
che vve dii? —
Un gross’a ttest’er giorno.
5
— Cacarella!
6
Me pare de trattà cco’ li ggiudii! —
Maa, cco’ cquelli nun zei piú ppoverella!
C’è er maschio poi che ttanto curre e incoccia,
E ppiaggne, e ffiotta, e pivola cor naso,
7
Che jje li strappa fôr de la saccoccia.—
E a cche ora li lasso? — A un’or’ de notte.
E ssi ppoi nun lavoreno? — In sto caso,
Te l’imbriaco tutt’e ddua de bbôtte.
8
1
Quel che si discorre in questo sonetto, accade, pur troppo, in Roma e in altri luoghi.
2
È il miglior mestiere
che si dia.
3
Non ci ho: non ho.
4
Pretendete.
5
Un grosso a testa al giorno: «cinque soldi per cadauno.»
6
Volgare esclamazione di maraviglia.
7
«Pivolare (annota il Belli in altro luogo) è quel continuo insistere
chiedendo, che non dà altrui riposo.»
8
Di busse. Cara questa mamma!
SONETTI
IN LINGUA ITALIANA
I.
IL CAVALIERE ENCICLOPEDICO.
1
Avviluppato nella sua guarnacca
Stavasi il cavalier sulla poltrona
A ricercar nel Calepin se Ancona
Si scrivesse coll’acca, o senza l’acca;
Ciò fatto, prende in man la ceralacca,
Stampa il suggel con l’arma e la corona,
Manda il servo alla posta, e s’abbandona,
Sbuffando, a riposar la mente stracca.
Prende poscia a parlar di pipe e d’armi,
Del modo di ben cuocer la frittata,
Del Turco e della cassa di risparmî;
Poi guarda la finestra spalancata,
E conclude: «Non faccio per vantarmi,
Ma oggi è una bellissima giornata.»
1
Questo sonetto benchè innocentissimo, non è compreso nell’edizione Salviucci; ma corre per le bocche sotto il
nome del Belli.
II.
PARAGRAFO DI VECCHIA LETTERA DUFFICIO.
Ed avendo il medemo barigello
Conforme dal Marchese sullodato
Gli era stato ordinato, diramato
Detta squadra alle fosse del castello,
Per cui, qualora il ladro precitato
Non era già sortito dal cancello,
Non poteva più evadere da quello,
Mediante ch’era chiuso e ben guardato;
Potè poi come sopra aver la sorte
Far sì che il ripetuto malfattore
Venisse a rimaner dentro le porte;
E perciò lo trovò, gli levò il quadro,
Lo legò, lo portò dal superiore,
E andò in galera (vale a dire il ladro).
III.
DICIOTTO INSCRIZIONI.
(20 dicembre 1842)
Ventaliaro, è si acommoda l’ombrelli.
Calsoni scudi tre colla casacca.
Gniochi famosi. Polvere da cacca.
Rete, speccietti, è gabbie per l’ucielli.
Oglio di Luca. Uino de chastelli.
Latte a tutt’ora di somara, è vacca.
Cholla, che la terraglia non si staccha.
Fabrica, è spacco di solami, è pelli.
Calcia smorsata. Ostaria di cocìna.
Letti con stalla. Schola per fanculli.
Sguaglio di coccolata soprafina.
Negozzio di miniatte, e granci teneri.
Si fa ualigge inglese, è li bavulli.
Caffè della Speranza ed altri generi.
IV.
BIGLIETTO DI GENTIL DONNA.
(5 luglio 1845)
Carro Signior Guseppe Goacino
Cassa adì 26. Mi facco arrdita
Man dargli la mia dona Margerita
La trice dell’presente bigletino.
Per dirgli che mio sociero linvita
Sè per domani all’gorno all’suo gardino
Che s’apre il gocolissco
1
onde un pocino
Dì vertirsi gocare una parrtita.
Doppo si gofierano due paloni
Eppoi si ciuderà con un fiasceto
Quatro fici é un arosto di picconi.
Voglo sperare vederla. Intato
Cuesta sera hà Argientina
2
non laspeto
Perche so che devesere impiccato.
1
Gioco-liscio: il gioco delle bocce o palle di legno. —
2
Argentina: teatro di Roma.
V.
IL SAGGIO DEL MARCHESINO EUFEMIO.
1
(22 luglio 1843)
A dì trenta settembre il marchesino,
D’alto ingegno perché d’alto lignaggio,
Diè nel castello avito il suo gran saggio
Di toscan, di francese e di latino.
Ritto all’ombra feudal d’un baldacchino,
Con ferma voce e signoril coraggio,
Senza libri provò che paggio e maggio
Scrivonsi con due g come cugino.
Quinci, passando al gallico idïoma,
Fe’ noto che jambon vuol dir prosciutto,
E Rome è una città simile a Roma.
E finalmente il marchesino Eufemio,
Latinizzando esercito distrutto,
Disse exercitus lardi, ed ebbe il premio.
1
Questo sonetto si ricorda comunemente col titolo: Il saggio del baroncino G….; ma nell’edizione romana è
stampato in questo modo. Forse il Poeta lo mutò, per non offendere la persona contro la quale fu scritto.
FINE
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