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Tra la perduta gente
Giovanni Rosadi
TITOLO: Tra la perduta gente
AUTORE: Rosadi, Giovanni
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE: Realizzato in collaborazione con il Project
Gutenberg (http://www.gutenberg.net/)
tramite Distributed Proofreaders Europe
(http://dp.rastko.net/)
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: "Tra la perduta gente"
di Giovanni Rosadi,
R. Bemporad & F.° Editori;
Firenze, 1923
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 6 marzo 2005
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Distributed proofreaders Europe, http://dp.rastko.net/
REVISIONE:
Claudio Paganelli, paganelli@mclink.it
Giovanni Rosadi
Tra la perduta gente
TERZA EDIZIONE
FIRENZE
R. BEMPORAD & F.° - EDITORI
MCMXXIII
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PROPRIETÀ LETTERARIA PER TUTTI I PAESI
R. BEMPORAD & FIGLIO EDITORI - FIRENZE
1923 Siena, coi tipi dell'Opificio Grafico Artistico (già Prem. Stab. Ditta Nava)
A LALAGE
CHE LA RUDE FATICA PATERNA
E LA DOLENTE ESPERIENZA
CONSOLA DI DOLCE POESIA
A CHI LEGGE
Candidi lettori, caste lettrici, che andate per le vie del mondo pensosi di tanti segni d'umanità
imbecille, chiedeste mai che gente è questa che un subisso di fortuna o una macchia di natura ha
separata da voi?
La sapete custodita in luogo sicuro e vi basta di sentirvi protetti. Non rivolgete uno sguardo di pietà al
cancello massiccio che la rinchiude, voi che vi inchinate gravi al passaggio del feretro ignoto, perchè
pensate che un giorno sfilerete anche voi alla testa d'un tale corteo, ma vi credete certi di non essere
mai rinchiusi oltre quel cancello massiccio.
Eppure tutta questa gente viveva fino all'ora del suo rovescio in stretto commercio con voi. Non è che
una breve riga di gente perduta, quella che ha vincoli e costumi e linguaggio a sè. Il più bel tipo di
delinquente ve lo trovate accanto tutti i giorni, nei salotti, nei ritrovi più eletti, all'inappuntabile Tè,
nei comitati, al mare, sui monti, nelle valli rigeneranti e lassative, dentro il letto nuziale, tra decorati
personaggi e muti servitori. Voi non vi accorgete di lui; tanto meno vi avvedete che la sua discesa nel
delitto e la stessa gioia di andare a ritrécine fino in fondo è tollerata, favorita, aiutata da voi.
Mormorate, sì, dei sùbiti guadagni e del fasto maraviglioso dell'uomo dalle grandi iniziative, ma la
maraviglia ripiega nell'adulazione e sale all'apoteosi. Siete voi che con questi atteggiamenti vili gli
rendete felice l'emergere sulle fatiche discrete e agevole il soverchiare. Siete voi che a' suoi trionfi nel
mondo dell'oro invisibile gli movete incontro come a vostro signore e padrone della terra e del mare;
voi che gli gettate ai piedi la più stolida fiducia; voi le lustre e gli onori.
Mormorate anche di quella casa dalle ampie sale che paiono basiliche, dalle suppellettili che sono
grandi emporii, con tanta profusione di luce, di fantasia, di lavoro. È del re dei filati. Mormorate,
mormorate come diamine costui abbia potuto inalzarsi una reggia degna del sire delle leggende; ma
quando ci siete dentro e assaggiate anche le zaccherose delizie sotterranee in calici smaltati, allora
inneggiate alla nuova maes del regno plutocratico e vi fate cortigiani. Se non fosse per voi, il re
dell'industria romanzesca imiterebbe le virtù di modestia del re d'Italia.
Quando il delinquente non è un trionfatore della vita, ma un misterioso esploratore del suo sottosuolo
viscido e promettente utili rifiuti, allora siete meno generosi, ma non più cauti. Il mistero vi invoglia a
vedere che cosa c'è sotto. Prima vi lavorate attorno con mille malignazioni pettegole, poi vi scoprite
amabili qualità, casi e aspetti commoventi, infine bastanti titoli alla vostra benevola amicizia senza
stima. Tra le bazze più discrete costui cercava una dote: l'ha trovata e non tanto discreta. Stretto il
nodo nuziale, si scopre che ne ha già stretti tre in terre lontane. Ma quella casa di cui ha levato l'unica
gioia d'una mamma bianca non gli sarebbe stata aperta, se prima non fosse passato per la vostra, dove
la fanciulla ingenua udì le lodi delle amabili qualità, dei casi e degli aspetti commoventi.
Succedono i rovesci. L'esploratore è smascherato per venturiere già trìgamo, truffatore, ladro, e torna
in prigione. Vi entra per la prima volta ma con maggiore infamia l'uomo dalle grandi iniziative, dopo
avere smantellato aziende miliardarie e banche e clientele. Gli va dietro il re dei filati col sacco della
bancarotta colossale, lasciando a piangere sotto la reggia un popolo di ciechi all'elemosina. Allora
ciascun di voi vuol essere stato profeta. Tutti avevan fatto i conti addosso al cantastorie dalle belle
idee e al volgarissimo re del filaticcio, benchè ciascuno si lasciasse trascinare nell'imbroglio
dall'esempio e dall'autorità dei borsaioli. Perfino le serve avevano capito il venturiere straccione, che
si lavava soltanto in casa degli altri e metteva in tasca il sapone. Ma in verità chi di voi non fu anche
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vittima meritevole, fu complice e fautore del delitto.
Or perchè non rivolgete uno sguardo al luogo sicuro, dove son riposti i vostri idoli spezzati? Non vi
punge un senso di curiosità alla trasfigurazione di tante immagini che vi furono familiari? E quelli di
voi che sono immuni dall'inganno non sperano vantaggio della conoscenza del delinquente rivelato?
Soffermatevi dunque, candidi lettori e caste lettrici, che andate pensosi per le vie del mondo, e
guardate di che carne e di che piaghe e di quante pene è fatto questo suo livido cerchio, che vi ostinate
a considerare tanto lontano da voi e quasi straniero.
Vedrete gli insani che vi entrano per volontaria scelta, come al chiostro, al rifugio degli eremiti, al
regno immortale dei suicidi, col solo voto di breve castità e di rinnovamento. In loro contrasto
scorgerete gli inconsolabili che si aprono vie sottili e invisibili con eroica fatica e divina fantasia, per
tentarne la fuga. Conoscerete l'amena delinquenza e i suoi ridicoli tipi, tartassati dalla socie che si
diverte alla loro miseria con la burla delle leggi inutili. Scoprirete i plagiari del delitto, aggirantisi
sull'orlo del suo abisso, privi del coraggio di gettarvisi, non forniti della coscienza di aborrirne,
aspiratori del fumo che esala di dentro. Nell'arsenale della Giustizia vedrete ravvivarsi e moversi sotto
i vostri occhi immagini inanimate, armi, scale, funi, chiavi, grimaldelli, scarpe, vesti, veicoli, ordigni
ambigui e oggetti comuni, Che raccontano storie e trame di profondi misteri. Imparerete a conoscere
il nome e il caratteristico linguaggio della gente perduta: sì, anche il nome, che rispecchia i gusti e le
tendenze della famiglia e per la legge dell'eredità la macchia gentilizia di chi lo porta. Prenderete a
distinguere la sua scrittura, giacchè tra la nostra infausta gente è anche questo contrasto, che parlando
il delinquente si vale della parola più spesso per nascondere e difendere il malefizio, scrivendo
l'adopera sempre col resultato di perdersi e tradirsi.
Poi, sceverando modelli e casi d'umanità delinquente, compiangerete i ribelli alla legge contrastante
con la natura, come fa quando finge il frutto del loro sangue per cosa altrui in grazia d'un diritto di
giuste nozze rinnegato dalla veri dell'amore. Ammirerete a opportuna distanza i ribelli alla società,
persuasi che convenga trasferirne il governo nella macchia per rompere le sue menzogne
convenzionali e meglio organizzare le sue spogliazioni fiscali e le legittime violenze. Imparerete a
rispettare e temere i tragici, pronti a travolgere nel sangue il ridicolo boccaccevole d'uno scorno
coniugale. Vedrete predoni e omicidi in ginocchio, nell'ascetica ossessione di raccomandarsi a
qualche santo per il buon resultato di una scellerata impresa. Con grande pietà ascolterete gli elegiaci,
che cantano in cupe note di gioia la perversa insania del loro fato. Mediterete sui soggetti oscuri,
dubitando se siano vittime o ribelli e misurando la profondità d'un'anima anche mediocre quando
affonda nell'ignoto. Forse dissentirete dagli esteti criminali, ma ne intenderete gli appassionati
entusiasmi nell'esaltarsi al fascino d'una grande nequizia, così grande da parere bellezza; e
perdonerete a un esteta convertito, che alla più raffinata aristocrazia del paradosso e dello snobismo
oppose la più semplice e schietta umiltà dell'Evangelio. Infine scorgerete lividi segni di martirio sui
corpi che escono dal carcere spogli di vita, e vi convincerete quanto sarebbe umano e civile che
penetrasse là dentro uno spirito vigile e senza superbia e proteggesse la vita che vi langue come in un
mondo a sè, chiuso al sindacato e alla solidarietà comune, un mondo per il quale Dio è troppo alto e la
Giustizia troppo lontana.
Al termine del vario cammino troverete raccolte e chiamate a rassegna queste pallide figure e
numerati i segni della natura maligna o dell'invincibile abitudine perversa, che portano sul viso e nelle
impronte dell'anima. Nella storia delle loro gesta leggerete il poema dei poemi: combattimenti di
giganti come in Omero, turbini di spire visionarie come in Dante, favole e lussurie quali non pensò il
Boccaccio, sogni e fantasmi e follìe che non furono mai scritte.
Ricercando l'origine di tanta fantasia del Male e il termine di confronto tra queste anime e voi, finirete
per riconoscere la giustizia di una sola separazione da proclamare fra tutti i fratelli della prole umana:
infelici e fortunati. Infelici i nati che non sortirono nel nascere la virtù di possedersi; infelici i non
morti nella predestinazione a mal vivere, che non ottennero mai il miracolo di rifarsi; infelicissimo il
delitto, che sorge dalle stesse radici che ne alimentano l'amaro frutto; fortunata la bontà e la vicenda
propizia a preservarla; fortunata la bellezza, la salute, la forza; fortunato l'ingegno e l'estro confidente
della gioia.
Ecco la tela su cui ho dipinto di scorcio ma su vivi e palpitanti modelli il quadro dell'umanità. - Uf!
ancora l'opera dell'avvocato che imbratta l'arte col suo mestiere! - sospireranno in silenzio e col voto
dell'ostracismo i genî immortali, così decretati di loro motuproprio. In veri conosco un'arte senza
mestiere, tutta sospesa nel vuoto, che spaccia vento per tempesta, nullaggini intronate di suoni,
nonsensi rivestiti d'arroganza, peti confettati. Alla delicatezza di chi fa quest'arte celeste l'uomo di vita
sa d'umo, come il contadino sa di sole. Ma l'umanità che io ho vissuto, sofferto e dipinto, non è una
specialità dell'arringo, ma tutta quanta l'umanità, una essendone l'origine, un solo il fondo: il delitto
non è che la tragedia o la mite caricatura dell'umanità. E di che altra materia si è mai fornita l'arte se
non di questa, unica, eterna? E di dove susciterà le passioni profonde e le anelanze sublimi, i sogni e
gli ideali più lontani, il piacere e il dolore che abitano il mondo, le follìe, i delirî, la morte, se non
dalla vita?
Lo so, la materia non è l'arte. Ma quando è còlta dalla potenza del vero e respirata nella mischia della
vita, non immaginata e finta nei romiti osservatorî dei senza-mestiere, allora è già in fermento d'arte
ed è pronta per il tocco privilegiato dell'artista. Chi l'ha plasmata ha lavorato per lui; non ha faticato
invano.
I DILETTANTI
....e quella gente
ch'eran con lui parevan sì contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.
Purg. II.
I.
Girava lo sguardo con una curiosità timida e smarrita intorno alla cella del carcere, fissandolo ora
sulla semplicità rozza del pagliericcio, ora sui palinsesti osceni e polemici dei quattro muri, ora sul
lordo naviglio galleggiante nel brocchetto, che avreste subito pensato che l'abitatore di quella cella
era nuovo e vi era stato rinchiuso per affare di poca importanza.
Tre ore prima aveva avuto alterco con un giannizzero gallonato della polizia municipale nel mezzo
della strada; a un certo punto si era acceso nella disputa a segno che aveva provato un'attrazione
nuova verso il pericolo e il repentaglio impersonato in quell'edile provocatore; e gli aveva rivolto la
sola parola che gli era venuta nella concitazione alla bocca e certo quella che meno aveva pensato: -
Mandrillo! - Il decoro dell'autorità era sfregiato; l'oltraggio sceso sul pennacchio d'un pubblico
ufficiale voleva una severa riparazione; e l'oltraggiatore dovette peregrinare per cinque ore di ufficio
in ufficio, tra cento mani e manette, fino alla prigione.
Invano, il giorno dopo, le sorde pareti e le simili orecchie dei giudici risonarono dell'unica
testimonianza di un pesantissimo cittadino, che solo si era ritrovato al fatto denunciato; invano la
sedia dov'ei sedette scricchiolò sotto gli sforzi pesanti della sua asma persuasiva, rivolti a riprodurre
certi gesti provocanti dell'oltraggiato su la faccia dell'oltraggiatore; invano, chè tutto ciò non bastava a
svestire il pubblico ufficiale delle sue prerogative sublimi. Una parola proferita nell'impeto dell'ira e
nella piena dei convincimenti meritava un mese di reclusione, perchè oggi si inorridisce al ricordo del
taglione e non si ammette più occhio per occhio dente per dente, ma si adotta ancora un'unità di
misura nella bilancia della giustizia e si equilibra un mese con una parola. In quanto al giannizzero
gallonato, quello si godette gli ozî di un giorno trascorso dolcemente fuori del suo ufficio e
nell'umana soddisfazione di far del male a qualcuno.
II.
Passò quel mese, contato di giorno in giorno e di desiderio in desiderio. E nella folla di tanti pensieri
uno nuovo e confuso sovrastava a tutti nell'animo del carcerato: quello della sua donna. Da tre anni
l'aveva fatta sua moglie non per amore nè per convenienza, ma per ricerca di novità e per interruzione
di monotonia, unica nota della sua vita agiata e tranquilla, già vòlta a virilità. Giana era una di quelle
donne che non paiono nate per amare per essere amate e nelle quali sentiamo l'assenza d'ogni
sensualità, anche se ci porgono con fiducia la mano ignuda o ci permettono con indifferenza una
conversazione licenziosa, a quello stesso modo che altre ci ricordano il sesso e ci richiamano alla
concupiscenza con la stessa modestia dello sguardo e alla stessa ritrosìa del portamento. Guai però a
chi si lascia trasportare dal capriccio di svegliare in quelle creature insensibili un sentimento! Diventa
un infelice in lotta con stesso e soffre e si agita e combatte senza posa. La curiosità del nuovo, il
desiderio del difficile, il bisogno della contradizione, l'ardore della lotta gli rendono allettevole la
contrarietà e voluttuosa la follìa.
Ora una tale passione stimolava e accendeva il nuovo carcerato, che prima ne stupì in stesso e poi
se ne compiacque come d'un sapore gustato alla fine d'una lenta deglutizione, a segno che si studiò di
acuirlo e di raffinarlo con l'artificiosità della più arguta lussuria.
- Se Giana - si sforzava a pensare - in questa prima occasione di libertà mi tradisse!... - E il pensiero
artificioso d'un tradimento per parte d'una donna incapace d'amare gli scoteva tutte le fibre del senso e
gli ritrovava tutti i ripostigli del sentimento. Intanto, pensando al tempo della sua liberazione, si fece
nella sua fantasia lasciva tutte le immaginazioni e tutti i calcoli delle più dolci primizie del nuovo
incontro. E come fu il giorno desiderato benedisse la triste occasione di questo maraviglioso risveglio,
che gli rendeva ora per la prima volta sensibile la carne e palpitante la vita.
III.
Passò, dopo il ritorno, un mese del nuovo stile. Giana, docile ma immutabile, rispose con stupore e
pazienza ai nuovi trasporti del marito. Questi di giorno in giorno si sentì affievolire il piacere del
nuovo; e se ne affisse e adirò come di un bene fuggente sotto i suoi occhi. Tor alle ipotesi
artificiose di gelosia; ripetè a stesso tutto lo svolgimento intimo dei desiderî nati e accumulati in
prigione; creò ad ogni momento dissidî e rabbuffi con la moglie per procurarsi pacificazioni e
tenerezze con lei; e intanto la maltrattava e la serviva, la disgustava e la seduceva, la disprezzava e
l'adorava. Era sua, legittimamente sua; ma questa per appunto era la ragione del tormento. Avrebbe
voluto una difficoltà alla quale contrastarla, un divieto e un ostacolo al quale contenderla, un rivale a
cui strapparla; ma amarla e possederla perc questo era il suo agio e il suo dovere gli pareva una
volgarità e un'umiliazione da arrossire.
Bisognava dunque che si creasse un'altra occasione per rendersi la sua donna ancora nuova,
desiderabile, contrastata. Ma fra tutte le occasioni non seppe che immaginarne una sola: tornare in
prigione.
E vi tornò e per poco e per solo diletto anche questa volta. Gli bastò dir brutto a un gabellotto che non
era bello, con quel naso di peperone vermiglio, e che alla barriera gli aveva ficcato per zelo d'ufficio
una mano in tasca, perc dovesse imparare ancora una volta dove consista tutta la dignità d'un
pubblico ufficiale e come operi l'inflessibile giustizia dei magistrati sentenzianti con la stessa tariffa
dei gabellieri.
In quarantacinque giorni, quanti compendiarono la nuova pena, si operò in lui un'altra volta il
prodigioso rinnovamento del suo spirito, e una folla p densa e agitata di desiderï e disegni lo
accompagnò novamente dalla cella del carcere alla stanza nuziale.
IV.
Il periodo del disinganno e dello svanimento, dopo il nuovo ritorno, questa volta fu lungo e
tempestoso. Sentendosi sfuggire il piacere conquistato ad arte e con sacrifizio, lo sconsigliato si
adoperò per tempo a trattenerlo come meglio potè. Allora Giana dovette provare tutte le folli molestie
d'un marito innamorato della moglie, dalle gite in carrozza chiusa per finzione di avventura fino alle
mostre della camicia di seta del color di rosa e altre simili civetterie da lui imparate nelle letture, sua
nuova occupazione e scuola di tardo iniziato. Ma non sempre la semplice donna ebbe la voglia o la
forza di corrispondere a queste e a altre stanchevoli pretese: di qui una vita di dissidî, di torture, di
violenze, specialmente nel consueto argomento della gelosia. Giana, credesse bene di accarezzare
quest'idea fissa del marito o veramente si proponesse di meritare per qualche titolo di colpa l'accusa di
infedeltà a opera del medico di famiglia o le nuove stravaganze del marito avessero svegliato i suoi
sensi tranquilli, incominciò ad accettare la discussione a fondo sopra lo scabro argomento,
spingendolo spesso a confessioni ostentate o forse mendaci ed a propositi di libertà in illeciti piaceri.
Fu come versare olio nel fuoco. Il forsennato, che aveva fatto ogni sforzo della fantasia per
immaginarsi verosimili queste disposizioni della moglie, vi si ribellava violentemente ora che le
temeva vere. Ma in realtà tutto ciò non era se non quello di cui aveva tanto bisogno e desiderio:
bisogno e desiderio di ardere, di consumare, di combattere, di soffrire, di accelerare a stratte e sbalzi il
moto lento e uniforme dell'esistenza, caro soltanto agli animali da ingrasso e agli uomini perfetti.
V.
Una scena violenta doveva metter fine al dramma reale di una passione nata dal bisogno e uccisa dalla
necessità. Ad un brusco rifiuto della donna stanca, l'eroe della follìa pun esattamente la canna della
sua rivoltella nell'orecchio dove aveva allora sfiorato le labbra sussurranti la vana domanda e fece
fuoco.
Fu proposito libero e cosciente? Fu impeto cieco di travolgente furore o atto meccanico della mano
familiarizzata con l'arme? Fu sola intenzione di sfregio d'una bellezza insensibile ad ogni altro fuoco
o strage deliberata d'una vita già schiava d'un'altra? A queste domande cercava a caso una risposta lo
sciagurato, intanto che per la terza volta rientrava in prigione e aspettava, insieme ad altri quattro
manigoldi, d'essere spogliato e frugato dai custodi del luogo già noto a lui ed a loro.
VI.
Era il sabato di pasqua. Di giù dalla porta triste, dove si affacciavano i parenti dei carcerati, salivano
confusamente voci in gran parte muliebri e infantili. Lo sbatter dei cancelli mandava un fragore più
animato; le proposte e le risposte da finestra a finestra si distinguevano più audaci; le diuturne
battiture delle inferriate a scopo di vigilanza rendevano un'armonia vaga e quasi gioconda. Anche il
calendario del carcerato ha i suoi giorni fasti e nefasti; e questo giorno preludente alla solenne dimane
somigliava per festività a quello del mondo che si chiama onesto. L'infelice si scosse a questi segni di
singolare vitalità dallo stupido e freddo intorpidimento, e, acquistata la coscienza del luogo lugubre,
ne proun senso di vergogna, che lo invogliava fortemente a confidare ai quattro compagni come sì
trovasse in prigione sol perchè l'aveva voluto: confidenza che l'avrebbe male esposto dinanzi a giudici
superficiali e grossolani, ma che a lui pareva lo distinguesse facilmente dagli altri infelici.
VII.
Ma s'ingannava. Non tutti sono trascinati al carcere nolenti e dolenti, come non tutti sono condotti
ignari o involontarî al martirio, alla guerra, alla morte. Il carcere ha i suoi dilettanti, i suoi volontarì,
come li ha la fede, la milizia, l'abisso. Quei quattro compagni erano alla pari di lui dilettanti della
pena. Infatti, come chiese perc si trovassero in quel luogo, quelli risposero con la più spontanea
giovialità e quasi tutti in un tempo: - abbiamo rotto i quattro vetri del lampione che è sulla porta della
questura e ne abbiamo rotto uno per uno perchè ci legassero tutt'e quattro e ci rinchiudessero qui
dentro a fare la pasqua con l'agnello, perchè domani tocca l'agnello.
Non chiese altro. Gli bas questa brasca risposta per convincersi che anche sotto l'aspetto delle
intenzioni c'è poco da distinguere tra la varietà della colpa e i gradi della miseria e si persuase che
neppure la volontà del sacrifizio era sua unica e consolante prerogativa.
VIII.
Allora la sua immagine sanguigna si confuse dentro la sua mente con le immagini pallide e diafane
dei compagni digiuni; e le vide disertare il loro desco, avaro fin della più discreta voglia, e invadere la
sua ricca imbandigione, dove non mancavano neppure i fiori apparecchiati dalle agili dita di Giana; e
gli parve di prendere il loro posto nel desco avaro e di non sentire altro desiderio attuale tranne quello
d'un indizio festivo, che facesse meno minacciosa la fame nel giorno stesso che risorgeva
dall'ignominia e dalla morte l'ammonitore santo della fratellanza e della giustizia tra gli uomini; e si
ritroin prigione per appagamento di questo solo desiderio e in segno di festa, come già quelli vi si
erano ritrovati, convinto al pari di loro quanto sia preferibile una lieve soddisfazione a una continua
renunzia.
E qui si incontrò novamente con loro, non più diafani ma pieni e rubizzi, a cui l'ebbrezza dei fiori
fragranti e dei vini vaporosi aveva reso insipido e nauseabondo il piacere della mensa e acuto e
irresistibile il bisogno del dolore. E intanto le loro immagini e la sua si incontravano, si barattavano, si
succedevano, si investivano per vie misteriose e ritorte, bagnate di fiele e di sudore, che provenivano
come da unica origine dalla fatalità, si confondevano come in punto di scambio nel bisogno e
nell'occasione, si ripartivano, come a schianto di fiume rigonfio, nei vizî, nelle passioni, nelle colpe,
nelle pure aspirazioni e nelle bieche cupidigie d'ogni natura, e terminavano tutte, come a meta
comune, in una valle di tenebre e di pianto. Ed ecco la mesta figura di Giana, con i segni della morte
nelle occhiaia, già macere le frutta del saldissimo seno, secche le bocche delle nere ferite, lacera e
cadente la sola camicia dal color di rosa, alte e protese le livide braccia, drizzarsi inanimata ed
esclamare solenne, senza schiudere le labbra contratte dall'ultimo dolore: - Che hai fatto di me? La tua
insania fu più forte della morte!
Il carceriere acciuf con turpe violenza, per richiamarlo alle sue inascoltate domande, il pensoso
uxoricida, che si era serrato il capo tra le cosce: unico rifugio d'una mente sconvolta dalla bufera della
passione.
I TRANSFUGHI
... gente che pensa a suo cammino,
che va col cuore e col corpo dimora.
Purg. II.
I.
Che violento contrasto d'ombre nel quadro di questa gente! Ai dilettanti della pena, che cercano il
carcere e vi trovano un espediente di vita, contraddicono profondamente i transfughi, che non sanno
pensare che alla fuga e vanno col cuore intanto che il corpo dimora.
Ma quali e quante difficoltà non ti conviene superare, pòvero transfuga dalla tua triste clausura! I
liberi scendono le scale, se vogliono venir giù in istrada; tu invece dovrai lacerare le lenzola e farne
una corda e poi lanciarti fuori dalla finestra e sospenderti sopra il vuoto. E se la corda sarà troppo
corta non ti rimarrà che un modo di scendere: cadere, abbandonarti sull'abisso, non misurare l'altezza.
Oppure dovrai calarti per la cappa d'un camino o trascinarti lungo il condotto d'una fogna senza curare
inciampi strazî della tua carne. Ma prima dovrai compiere uno spaventoso capolavoro: fare di una
molla d'acciaio una seghetta. Ma con quali arnesi? Eh, devi inventarli! E poi dovrai accingerti a
un'opera lunga, lenta, guardinga per tagliare l'inferriata o il chiavistello o il lucchetto. E poi!... E poi i
sassi che bisogna levare e rimettere al posto venti volte al giorno e poi i fori che conviene coprire e i
rovinacci che occorre nascondere.
Il più prodigo dei romantici toccò una volta questi espedienti dell'opera umana disperata(1). Ma lo
stile virtuoso non vince la rude evidenza del racconto d'un fuggitivo, che confessa gli adoperati segreti
della sua temeraria impresa. È un illetterato che detta al giudice la sua confessione; ma quella prosa
nuda, semplice, istintiva sa d'umana letteratura. L'evasore non è più giovine, lo chiama alla vita
libera alcuna carezza; epilettico, emottoico, ernioso, si direbbe negato all'odio del suo unico rifugio;
ma tutte queste tare volterà in altrettanti favori nell'eludere la vigilanza disarmata e nel mettere a più
cimentosa prova gli ultimi avanzi di vita.
Narri dunque la matricola 369(2).
II.
Lo scopo nel tentare di fuggire è stato quello di sottrarmi a lunga pena e specialmente al periodo di
segregazione, visto che non era più possibile il passaggio in una casa di cronici. Dichiaro di non
essere stato maltrattato; anzi ho un rimorso: di aver dato dispiacere a chi mi ha trattato sempre bene.
La mia malattia è inguaribile, e quindi tentavo di farla finita una volta per sempre con la pena. Dal
giorno che entrai in questo stabilimento e che vidi che non c'era più speranza di andare in comune,
feci il proposito di evadere. Per far ciò bisognava riacquistare un po' di forza. Pregai la guardia di
infermeria che mi mettesse in una cella più ariosa. La guardia disse di domandarlo al signor dottore. Il
dottore non avendo nulla in contrario, ebbi la fortuna d'essere messo in una cella del terzo piano.
Mia intenzione era di segare, appena acquistate le forze, un'inferriata. Il pezzetto di ferro con denti, a
forma di seghetta, che mi mostra, lo tagliai dal mio cinto erniario. Però, nel salire le scale per andare
alla nuova cella del terzo piano, vidi una chiave nell'uscio del sottoscala posto al pianterreno.
Accortomi che in generale una chiave apriva diverse porte e diversi cancelli, pensai di profittare di
quella. Mentre davano acqua ai malati, verso le sei di sera di lunedì 13 giugno, e precisamente mentre
facevano dei movimenti e aprivano altre celle, colsi il momento per impadronirmi della chiave
discendendo al pianterreno. E questo fu mentre la guardia trovavasi in altra cella per somministrare
ghiaccio e altro. Presa la chiave, ritornai nella mia cella. Ieri mattina poi, all'ora della prima
distribuzione del vitto, cioè verso le dieci, quando tutte le celle del terzo piano erano aperte, uscii
dalla mia che trovavasi precisamente vicina al cancello di ferro che mette al soffitto, e provai la
chiave. In quel momento la guardia di servizio era intenta ad aprire altre celle e gli infermieri
recavano il vitto a diversi malati. Dichiaro pure che nella prova fatta della chiave, essendo la
medesima stretta, ne allungai la canna e questo lavoro lo feci durante la giornata.
La sera, poco prima della visita, verso le ore sei, quando tutte le porte erano aperte per la distribuzione
dell'acqua, del ghiaccio e altro, aprii il cancello; e siccome oltre questo c'è la porta di legno, che nei
giorni precedenti avevo osservato esser chiusa a chiave, mi fu provveduta una piccola chiave da
persona che non voglio nominare: chiave che pure allargai rompendone la canna perc potesse
funzionare. In quel momento la guardia disimpegnava il suo servizio per le celle, e gli infermieri
erano anche loro intenti a fare il proprio servizio. In previsione che le due chiavi andassero bene,
come infatti andavano, ho disposto nel mio letto prima di lasciare la cella, servendomi dei guanciali,
del fazzoletto, dell'asciugatoio, della coperta e di un po' di paglia del pagliericcio, un fantoccio in
guisa da sembrare un uomo che dormiva, da non potersi però vedere in faccia. Portai meco tutto
l'abito da recluso di cui ero vestito e le due lenzuola coll'intenzione di farmene una corda per
discendere dal tetto. Portai meco altri oggetti che non ricordo e non so precisare. Con la chiave grande
potei aprire il cancello e la porta anzidetta: e passai oltre. Entrai nella porta a sinistra e poi nella
soffitta, quindi, formato uno sgabello a mezzo di un recipiente, smossi le tegole e fui sopra il tetto.
Girando lo sguardo sopra il tetto stesso, mi accòrsi che dal lato ove sono poi disceso, vi era gente alle
finestre, e quindi, orizzontandomi meglio, pensai di scendere dalla parte del tetto dell'alloggio del
signor direttore, che trovasi dalla parte opposta. Arrivato sopra quel tetto, smossi diverse tegole, ma
visto che non potevo riuscirci tornai indietro e smisi l'idea di scendere da quella parte. Aspettai il
sorgere della luna onde poter meglio vedere il punto da cui avrei potuto con più facilità compiere
l'evasione. Girai le diverse parti del tetto e vidi che oltre a quella della lavanderia del penitenziario vi
era una mezza finestra che presentava modo facile per potervi penetrare. Approssimandomi a detta
finestra appartenente ad abitazione privata, la trovai munita di inferriata leggera ed anche guasta, per
cui mi riuscì facile toglierne la sbarra che ora mi si presenta e rimuovere eziandio una reticella di
ferro pure guasta e di cui era munita quella finestra. Col mezzo di un fiammifero osservai che il piano
dove metteva questa finestra trovavasi disabitato; mi feci quindi coraggio e penetrai dentro.
Ebbi allora a cadere per uno sbocco di sangue, che mi fece sostare qualche minuto; ed il rumore da
me fatto attirò l'attenzione dell'inquilino abitante al piano sottostante, il quale dalla finestra avvi i
carabinieri, che a caso passavano in quel momento per via Ghibellina. Riavutomi dalla caduta,
raccolsi tutte le mie forze e con quanto meco avevo asportato mi feci a scendere le scale; ma giunto a
metà delle stesse mi trovai fermato dai carabinieri e ricondotto nello stabilimento. Allora ricaddi e
dissi: povere mie fatiche!
Così narrò la matricola 369.
III.
Togliergli il suo posto al sole: ecco l'onta che si fa al carcerato. E negare all'uomo il suo posto al sole
val quanto prendergli quello che non gli si può dare. Così diceva anche Diogene a chi gli faceva
ombra davanti alla botte. I nostri penitenzieri non sono intelligenti, non mostrano molta fantasia col
circoscrivere il sistema di punire ai soli mezzi carcerari. Non erano peggiori a Roma le pene ad
metalla, perchè all'aperto. Sarebbero mille volte migliori da noi quelle del proficuo lavoro in colonie
agricole e sopra terre incolte.
Sentirsi stringere i polsi tra i ferri è tale affronto a un animo educato alla dignità della vita, che il
torpore del sangue e il marchio nelle carni non dileguano più dalla fantasia umiliata. Un gentiluomo
arrestato per delitto d'impeto e non disonorevole, non seppe mai vincere l'abitudine contratta di
stropicciarsi i polsi per l'ostinata illusione. Fortunatamente l'affronto è breve e si svolge nel ciclo dei
dolori estremi. Ma vedersi chiuso fra strette e sordide pareti, su cui non riposano ma rimbalzano i
lamenti e gli sguardi attoniti, con l'inciampo in terra di quella suppellettile che irride alle intimi
domestiche lasciate alla balìa degli indiscreti, col solo esercizio di misurare a passi brevi e mille volte
ripiegati su stessi l'immensità della rovina, sibillante nell'orecchio il rumore dell'urbe che diffonde
il malefizio condannandolo, chiuso ogni adito a mandar fuori una discolpa ed a riceverne un segno di
rimpianto, è agonia incomparabile che nessuna giustizia di pena, nessuna ragione d'accusa basterebbe
ad agguagliare. E però l'orrore al carcere è istintivo, e istintiva la fuga.
Lo stesso delinquente nato non può intendere tollerare, per la sua natura prettamente insocevole,
questo massimo sacrifizio di sè a favore della bella e felice famiglia sociale. Non s'adatta a renunziare
alla libertà chi ne ha fatto sempre uso così sfrenato da dimostrare di non volerne deporre mai la sua
parte nel fondo comune. E però l'istinto della fuga è universale e ugualmente irresistibile nel
carcerato. Tanto è vero che le leggi dell'ultimo secolo gli hanno concesso l'impunità se evade senza
far violenza o rottura.
IV.
Punirlo sarebbe pretendere da lui troppa virtù: la renunzia alla fortuna di potere aprire il petto
all'affanno oppresso dalla prigione. D'altronde la placida filosofia che ispira ancora la norma delle
pene suppone per fondamento delle responsabilità il libero arbitrio. Ma il carcerato non è più libero; è
spogliato di qualunque facoltà d'iniziativa e d'elezione; è in stato di inerzia e di soggezione passiva.
Destituito della libertà, che si considera il giuoco del suo merito e della sua colpa, è sciolto da quel
patto di compatibilità civile da cui derivano il dovere e il rischio della propria condotta. Ora è un
corpo inanimato nelle mani di chi lo ha avulso dal grembo civile; la responsabilità di condotta non è
affidata a lui ma a chi lo tiene nella sua custodia. Se evade, la coscienza pubblica non grida alla
temerità della sua fuga, ma alla negligenza dei suoi custodi, e si domanda sgomenta: quis custodiet
ipsos custodes?
Altra cosa è se rompe porte, inferriate, muraglie, o vìola custodi e sentinelle. Allora esce dalla sua
inerzia, compie uno sforzo straordinario alla sua soggezione passiva, mette in opera un mezzo che
supera il fine, suscita il ragionevole sgomento dei cittadini e apre il passo ad altri evasori.
V.
Non vi provate a definire le particolari disposizioni alla fuga. Come non mancano i volontari della
pena, così appaiono con altrettanta rarità i rassegnati, che si adattano al carcere e quasi vi si
acclimatano come a luogo d'ignorata vocazione. Sono i temperamenti inerti, che ritrovano il riposo e
perfino la gioia in ogni renunzia, che si buttano in terra per non far lo sforzo di non cadere e caduti
non si rialzano più. Al contrario le nature attive e irrequiete non conoscono un bisogno una
speranza maggiore. E non le infrena nè sgomenta la fragilità della persona la dissuetudine ai
cimenti acrobatici. Il narratore della sua evasione, non più giovane e tre volte debilitato, ce ne fa fede.
Allora è inutile battere i ferri delle grate due o tre volte al giorno, inutile visitare anche di notte le
celle. Le meno sospettate scaltrezze, le più sottili divinazioni sono osate dal sapiente evasore.
Se poi lo stimola un bisogno strapotente di libertà, o gli occorra di assestare le conseguenze del
delitto, o sappia in pericolo persona che gli è cara, o supponga ostinata nel tradimento la donna della
passione che l'ha travolto, allora l'urto contro gli ostacoli non ha più freni, salvo essere meno paziente
e fortunato. La stessa ansia nell'aspettare il giudizio, spesso dilungata fino alla misura d'una grave
pena, gli fa credere che sia adattabile al suo caso, con un piccolo sforzo d'interpretazione, il proverbio
ammonitore: "Chi non ha giudizio abbia gambe".
Ma come si può fare l'esame dei fremiti e degli sbattimenti delle anime in pena? Anche qui la natura è
regina. Si nasce con la tendenza a evadere dal carcere come si nasce con l'inclinazione ad entrarci.
AMENA DELINQUENZA
....questa festinata gente
a vera vita non è sine causa.
Par. XXXII.
I.
Come la famiglia, la scuola, la città, così anche la giustizia ha il suo carattere e il suo costume. Paese
che vai, giustizia che trovi; tranne il paese dove non ne trovi nessuna. In corte d'assise, dove si
giudicano le passioni e le gravi iatture, prevalgono più spesso le ragioni di un popolo e spessissimo
quelle di tutta l'umanità al carattere particolare d'una città o d'una regione. In tribunale, dove s'insegue
il furto, la frode, l'offesa all'autorità, al pudore, alla fede pubblica, il carattere e il costume del luogo si
accentuano già di più. In pretura, dove si ministra una giustizia minuta, casalinga, ciarliera, si palesa a
nudo l'indole familiare e si accentua al vivo l'idioma particolarissimo d'un paese giocondamente
delinquente. Con la gente gioconda, con l'amena delinquenza, che rallegra i rostri e le prigioni, giova
pertanto continuare il nostro abbrivo leggiero verso acque più profonde. L'argomento è men grave, ma
altrettanto reale e umano.
II.
E se l'argomento si rivolge di preferenza alla vita fiorentina, allora si sente frizzare in tutta la sua
verità la favella toscana e lo spirito bizzarro che la intona, prima che ne facciano parole e musica da
burattini i pedanti seccatori di cervelli e d'ogni materia di vita.
Ora è l'inquilina del quinto piano nel Chiasso del Buco, che ingiuria da un anno l'inquilina del
pianterreno. Un giorno è la secchia che urta la secchia calando nel pozzo; un giorno è la polvere
scossa dalle sottane sulla corte comune; un altro giorno sono i ragazzi del piano di sopra, impegnati in
un'aspra battaglia con quelli del piano di sotto. Quando è una, quando un'altra l'occasione del dissidio,
ma la nota che domina sempre è quella della contumelia più pungente e dettata dall'orecchio più che
dall'intenzione, e non solo contro chi è a ritorcere l'ingiuria, ma anche verso quella cirimbraccola
che è la madre assente, quella vecchiaccia squarcoia che è la nonna ammalata, e su su fino alla quarta
generazione ascendente. Poi l'ingiuria discende a due almeno delle generazioni successive; e allora ne
tocca la sua parte a quella stemperona della figliuola, a quel mostriciattolo del nipotino, e giù giù fino
all'aborto di cui è incinta la figliola.
Cento lire di multa inflitte alle due donne dal pretore sono l'epilogo della lunga e triviale storia.
Ora invece è la Crezia che ha incontrato nel Gomitolo dell'Oro la Gegia, sua rivale in poco puro e
fortunato amore. Due insolenze, l'una più mordace dell'altra, sono state il pronto e scambievole saluto;
quindi le disturne, i rinfacci, i ripicchi. L'una ha avuto tre amanti, l'altra sette; questa li ha avuti brutti,
quella anche ladri; Crezia li ha avuti vecchi, Gegia di tutte le età.
Indi querela e controquerela: quindi doppia condanna delle due rivali a poche lire.
Ora è un pescatore ignobile che ha intorbidato per cinquant'anni con la sua rete le chiare e dolci acque
dell'Arno e che si vede per la prima volta implicato in una contravvenzione alla legge sulla pesca. Chi
direbbe mai che vigesse un'apposita legge sulla pesca? Eppure ne vige più d'una e impera tra le altre
una disposizione a cui ha contravvenuto per appunto il nostro pescatore, la quale, invece di proibire
utilmente la pesca in un dato periodo dell'anno, vieta quella del pesce novello e degli altri animali
acquatici non pervenuti alle dimensioni che "saranno indicate dai regolamenti". E l'immancabile
regolamento dispone che "le lunghezze minime che i pesci devono avere raggiunte, perchè la loro
pesca e il loro commercio non siano vietati a senso dell'articolo 3 della legge, sono qui appresso
determinate:
Anguilla (anguilla vulgaris) 40 centimetri.
Tinca (tinca vulgaris) 15 centimetri" ecc.
- Voi avete pescato una tinca che misurava soltanto la lunghezza di quattordici centimetri - contesta il
pretore al vecchio imputato, rimasto ancora stordito della propria imputazione.
- A me è parso di no; ma poi, che vuol'ella, il metro sott'acqua non ce l'avevo. Vuol dire che d'ora in
avanti, quando un pesce tocca, prima lo misuro e poi tiro su.
- Cento lire - chiede il rappresentante della legge.
- Ottantasei - sentenzia il pretore.
Il condannato esce scotendo la testa, come per farne cadere qualche cosa che ci si sia posata sopra, e
brontola tra sè: - Tocca a noi a pescare i pesci grossi; ma qui si fa la pesca dei poveri pesciolini.
Ora è una giovane e paffuta servetta di Scarperia, incolpata di contravvenzione per aver portato il
fucile del suo padrone all'armaiolo con l'ordine di farlo riguardare. La bella innocente si difende con
una modestia più civettuola della stessa civetteria e risponde al pretore a quella stessa maniera
confidenziale e scontrosa ond'è abituata a trattare con i garzoni maneschi delle botteghe.
- Oh quante ne vuol sapere lei! - fa al pretore. - Io dico che sono stata comandata dal padrone e basta.
- E io vi dico - la rimbecca il giudice - che nè per ordine di altri, nè per lo scopo di farlo accomodare
si pportare un fucile, quando non si ha la licenza di caccia o almeno di porto d'arme.
- Buffa! Sta' a vedi che sarò andata a caccia per via Calzaioli!
- Silenzio! Così ha più volte deciso la Corte Suprema.
- Chi la conosce quella signora?
- Cinquanta lire - dice quel del pubblico ministero.
Lo stesso il pretore.
Ora è la volta di un povero prete di Quaracchi, così povero che per fare la sua buona figura davanti al
pretore si è scarabocchiati d'inchiostro i polpacci nascondendo i cento buchi delle sue calze. La
giustizia lo incolpa di contravvenzione al regolamento municipale sui cani per aver tenuto un cane
senza farne denunzia nè pagarne tassa.
- Questo cane non è mio - dice il prete. - Tutto Caracchi lo sa. Non l'ho mai tenuto, com'è vero Iddio.
Che gli avrei a dar da mangiare?
- Le guardie - dice il pretore - riferiscono nel loro rapporto che il cane è vostro. - E fa venire avanti a
a farne testimonianza cinque guardie municipali, ozieggianti da cinque ore per la pretura, intanto
che per la città scorrono cani e ladri di tutte le parrocchie.
- Venti lire - conclude il pubblico ministero.
- Venti lire - sentenzia il pretore.
Il prete si fa il segno della croce ed esce brontolando: - Si iniquitates observaveris, Domine, Domine,
quis sustinebit?
Ora è l'immensa ostessa dello Sdrucciolo dei Pitti, a cui si contesta di aver tenuto spento il lume
prescritto dalla legge sulla porta dell'osteria.
- Me lo spense il vento - si prova a sostenere dolcemente l'ostessa.
Ma il pubblico ministero:
- Dieci lire.
E il pretore: - Dieci lire.
Ora è il garzone del carbonaio della Nave a Rovezzano, che deve rispondere di essersi bagnato nudo
in Arno.
- Era buio e non si vedeva nulla - comincia a dire il giovine carbonaio, tutto pulito in faccia e nelle
mani.
- Non importa; la legge non distingue il giorno dalla notte.
- Bellino! O la chiami la moglie del navalestro e la senta se ha visto nulla.
- Dieci lire.
III.
Intanto un galantuomo che assista la prima volta a questa lunga serie di dieci, venti, cinquanta, cento
lire, chieste e distribuite a quel modo, crede di assistere a un'asta pubblica piuttosto che a un seggio di
magistrato e scambia la legge penale con una tariffa da bandi o da mercati e n'esce stupefatto,
sconfortato, avvilito. E ripensa con allegro ma scettico umore alla multa inflitta con uguale ma
sproporzionata misura all'inquilina del quinto piano ed a quella del pianterreno; ripensa al pescatore
inconsapevole della sua colpa; ripensa alla giovine e scontrosa servetta, percossa con la stessa fiscali
cieca nel còmpito obbediente de' suoi doveri ancillari; ripensa al prete povero, calunniato di troppo
riguardo verso un cane, a cui il pretore potrebbe invidiare il naso finissimo e l'intelligenza acuta;
ripensa all'ingente ostessa, obbligata a scontare i capricci e le colpe del vento; ripensa al carbonaio
punito della sua pulizia per essersi bagnato nel fiume con la sola benda della notte.
Senza dubbio la multa e l'ammenda sono una pena che rispetto a certe lievi infrazioni non può essere
cancellata dalla legge; ma è anche certo ch'è la più aperta contradizione della legge uguale per tutti. Il
povero che non può pagare la multa e l'ammenda va a scontarle in prigione; al contrario il ricco con
una mano vìola la legge e con l'altra la placa. Roma, grande ma ingiusta, elevò la multa fino alla
bonorum publicatio, che era la confisca di tutto il patrimonio del reo; ma poi, di mano in mano che il
principio dell'uguaglianza s'affacc anche nelle legislazioni, l'inconvenientissima pena pecunaria fu
circoscritta ai casi p lievi e ai delitti derivanti dall'ingorda cupidigia dei guadagni, come lo
scrocchio, l'usura, la corruzione.
La legge che vige tra noi ha adottato la pena pecuniaria nel modo più ingiusto e sconveniente insieme,
perchè l'ha resa compagna inseparabile della pena corporale in gran parte dei delitti. Il fatto si è che
della folla multata dal pretore urbano la massima parte sconta la multa in prigione; e anche in questo
luogo di sventura porta la nota comica che è la più acuta ironia della giustizia piccina. Bisogna udirli,
questi comici del carcere, quando ne escono sconcertati, sgomenti, narranti mille storie di paurose
compagnie in cui sono stati mescolati, di servigî vili a cui sono stati adibiti, di pane d'argilla del quale
han dovuto cibarsi, di animali irragionevoli coi quali han dovuto familiarizzarsi, di repugnanti
iscrizioni che han dovuto leggere sulle pareti delle celle rischiarate dal sole a scacchi.
IV.
Ma ecco che sfilano davanti al pretore lunghe serie di gente nuova tra l'indifferenza e l'ironia della
giustizia.
Prima è una cenciosa tregenda di vecchi, donne, fanciulli, tutti laceri, pallidi, maliscenti, che sono
spinti più che condotti innanzi sotto l'accusa di aver chiesto l'elemosina. La simulazione della pover
da una parte e l'egoismo della ricchezza dall'altra han creato questa legge, per cui anche la miseria è
un delitto. Il pretore li condanna; ma per lo più dichiara espiata la pena con due o tre giorni di arresto
già sofferti e ordina la loro scarcerazione. Allora accade che quella terribile gente si raccomandi al
pretore perchè non la metta in libertà ma la rimandi al carcere, giacchè non ha dove andare a dormire
a mangiare. Però il pretore, non solo è inesorabile per legge a cosiffatte preghiere, ma è sempre
benigno per temperamento, nemmeno a farlo apposta!
V.
Poi è la scena semiseria di altre figure quotidiane. Sono uomini di ogni età, dall'aspetto stupido, dal
passo stanco e vacillante, dalla faccia livida e deforme, dagli occhi smorti, dal naso rosso e macolato.
È la miserabile serie degli ubriachi, che generalmente contano cento, duecento, trecento condanne in
virtù di una legge che si confessa fallace col renderle possibili. È un piacere dei più rari nella vita
giudiziaria vederli alzarsi in tre tempi per rispondere alle contestazioni del pretore; ma la risposta è
per lo più un semplice sorriso di confessione, accompagnato qualche volta da poche parole fioche e
insensate. Quindi un sonno leggiero e una leggiera condanna.
VI.
Uno spettacolo singolarmente ameno è dato per lo più la mattina del malinconico e sonnacchioso
lunedì. Branchi di giovinetti vengono ripetendo davanti al pretore, a sua richiesta, certe canzonette
purgate per uso di difesa, che le guardie denunziatrici si ostinano a restituire alla loro prima lezione
oscena. È la serie degli schiamazzatori notturni, che non sono mai più di tre o quattro, giacchè gli altri
sono tutti fuggiti, laddove otto o dieci sono i tutori dell'ordine che vengono in pretura a divagarsi per
molte ore a scopo di testimonianza, intanto che gli schiamazzi e i disordini ricominciano fuori.
VII.
Una vista che tiene ancora del comico ne' suoi aspetti di disgusto e di pietà è quella che ci appresta
una singolare schiera di gente perduta, composta di dieci, quindici, trenta, cinquanta donne di età
diversa, di condizione signorile artigiana, svariatissime negli abbigliamenti disordinati, alcune
in cappello e altre scarmigliate, sorridenti tutte, ma di quel sorriso a cui s'atteggia un'anima che non
ritrova le vie del pianto.
Le direste sùbito, nonostante la loro varietà di aspetto, appartenenti tutte ad una sola classe. Il pretore
le chiama con i loro cognomi che denotano origini sparse e talvolta straniere; ma il nome che quelle si
ostinano a dire con voce chioccia non corrisponde quasi mai all'atto di nascita che il pretore ha
sott'occhio. Ines, Olga, Fosca, Annita, Irene, Dolores, Carmen, Amelia sono tra i più comuni; e sono
nomi di guerra presi più per ragione di suono che di dissimulazione e talvolta per ambita eredi di
mestiere.
- Che mestiere fate? - domanda a loro il giudice.
- L'amore.
Anche il più assiduo spettatore ride quando sente contestare a quelle donne e anche alle più vecchie e
deformi l'accusa di avere nella sera precedente, 'adescato per via i passanti.' Adescato? e con quali
vezzi? Ma che luce spande per le vie e i vicoli della città? Di quali false immagini si riveste, quando
s'aggira per la notte e sfiora la pelle sensibile del passeggiero solitario, l'ombra lasciva di Saffo?
Tutte quelle figure, svelate alla luce mattinale di una pretura, non sbiadiscono, non s'alterano, come
fanno i sogni della notte ripensati alla prima luce del mattino, ma si corrompono, si disfanno. Vi par
di trovarvi in pieno giorno e per la prima volta sulle tavole d'un palcoscenico, dove l'illusione delle
scene e il fasto delle suppellettili vedute alla luce artificiale e di lontano vi avevano fatto respirare la
sera innanzi un'aria di eleganza e di mollezza nel salotto della signora del dramma, laddove ora
scoprite da vicino i goffi disegni degli scenari, la falsa ricchezza delle masserizie, le pareti e i cieli di
tela, gli usci e gli specchi di cartone, e persino i fagiani e i timballi di cartapesta. Strati densi di
magnesia e di minio, che ieri sera velavano su quei visi disfatti tante cicatrici e tante magagne,
stamani son ridotti a poche cenciate; cappellini ieri sorretti da una disperata intenzione di moda non
hanno oggi più forma equilibrio; capigliature già intessute a fil di pazienza e sostenute a fatica di
pettini e di forcelle per effigiare torri davidiche, cocce di sciabola, caschi di pompiere, sono ora
disfatte come pagliai schiantati dalla bufera.
Con una condanna di pochi giorni di arresto e di poche lire di multa cala la tela sopra il triste
spettacolo.
VIII.
Ma lasciate la pretura, questo teatrino della miseria che ride, questo sportello della giustizia che tassa,
dove l'amenità del costume cade nel ridicolo
per la fatui della legge; uscite e levate lo sguardo alla più modesta casetta che vi vedete davanti(3).
Qui nacque chi pen e scrisse che sarebbe minor vergogna d'Italia s'ella non possedesse le leggi
dettate da Giustiniano ma vantasse una guida di senno e di giustizia, che le manca.
Che val perchè ti racconciasse il freno
Iustiniano, se la sella è vota?
Sanz'esso fora la vergogna meno(4).
I PLAGIARI
Gente dispetta.
Inf. IX.
I.
L'abisso della colpa è così profondo e attraente, che in giro al suo orlo vasto traccheggiano figure
neghittose, prive del coraggio di gettarvisi dentro più che fornite della coscienza di trattenersene, le
quali respirano per proprio vitale alimento l'afrore di forte mosto che esala dal fondo, se ne ubriacano
e vanno pel mondo col vanto di aver vigne al sole e grotte sotto terra, provviste di tanta abbondanza
da poterne dare generosamente a bere. Sono sfruttatori del delitto, del quale suppongono la verità o
fingono le aderenze, spandendo nell'aria già densa di sospetti un fumo di malizia e di discredito
immeritato.
Come l'artista e il letterato che usano il plagio si appropriano pensieri e forme altrui, così questi
messeri si attribuiscono facol e operazioni che a loro non appartengono nell'ordine del mal fare, pur
riuscendo a coglierne i frutti. E però li chiamo plagiarî.
Vedete i venditori di fumo, così classificati anche dalla dottrina.
Per allargare la vostra borsa vi dànno a credere non solo di poter commovere in vostro favore
magistrati, ministri, funzionari di ogni grado, ma di potere anche "lavorarli." E per abusare della
vostra credulità vantano amicizie, parentele, oscuri poteri, relazioni d'ogni specie. La truffa è colma,
siano vere le relazioni o siano false, ed è piena l'infamia che sotto forma di diffamazione si riversa sul
capo di uomini innocenti e inconsapevoli dell'insidia, quando questi plagiarî, che non corrompono,
non operano, ma fingono di corrompere e di operare, vi inducono a sborsar denaro dicendolo
necessario alla corruzione.
Sotto il regno di Alessandro Severo un Vetronio Turino, abusando delle relazioni che aveva con la
reggia, vendeva per denaro il favore del principe: questi lo riseppe e condannò Vetronio a esser arso
vivo su una pira di legna verdi, ordinando che durante il supplizio il Precone gridasse: fumo punitur
qui fumum vendidit. Fin d'allora era conosciuto con questa immagine del fumo il vizio spregevole.
Oggi si estende necessariamente a maggiore varietà di appigli per la maggiore complicazione dei
congegni, i quali si prestano tanto più alla corruzione mentita o vera quanto meno rilasciano ai
funzionari liber e fiducia personale. E più sono macchinosi e pesanti i congegni e più ispirano e
quasi impongono la convenienza di "ungere", secondo l'opinione non sempre arbitraria che altrimenti
la gran macchina non si muove.
Un vecchio misterioso, di nessun confessabile mestiere, non congiunto amico di medici militari,
che non ne sapeva neppure un nome, esercitava a Firenze questa nobile e abituale professione: far
riformare con la sua arcana potenza i giovani di leva nella visita medica. Generalmente si rivolgevano
a lui coloro che avevano già una ragionevole ma trepida speranza di essere riformati per causa di
salute; ma il vecchio misterioso non faceva restrizioni e poneva un unico patto: che gli fosse pagata
una cospicua somma, ordinariamente mille lire, a liberazione compiuta. Pretendeva qualche volta che
la somma fosse depositata sotto titolo mentito, raccomandava sempre la massima segretezza perchè
altrimenti si sarebbe compromesso qualche onesto e bisognoso padre di famiglia, e stava di piè fermo
e senza prendersi alcuna briga ad aspettare gli eventi, che spesso erano di necessità e per giustizia
fortunati. E quando non guadagnava non perdeva.
Il vizio è più comune e doloroso tra i parenti del pubblico ufficiale. Allora il calunniato è tanto più
esposto al sospetto quanto meno è inverosimile l'opera del millantatore.
Era comune a Roma l'opera delle mogli. Le belle matrone non avevano meno da sfoggiare nelle
acconciature che le nostre signore; e i mariti non eran sempre disposti a spendere più di noi. Sicchè di
regola si vietava al proconsole di condursi dietro la moglie o gli si permetteva a patto di ricordarsi che
il Senato, sotto i consoli Cotta e Messala, aveva decretato che quando le mogli di coloro che partono
per l'esercizio del loro ufficio facciano malefizio, se ne prenda ragione e vendetta contro di loro(5).
Era una legge d'eccezione, fatta per salvare il decoro del dominio nelle colonie, giacchè non sarebbe
stato giusto che il marito, dopo tutti i malanni che la moglie poteva giocargli alle spalle, dovesse
scontare anche quello della vendita di fumo.
Ma pare che un tale sacrifizio scontasse veramente il filosofo Bacone. Le sue speculazioni filosofiche
a lunga distanza non gli lasciarono scorgere come intorno al suo ufficio di lord cancelliere la moglie
abusasse bassamente della propria influenza presso di lui, anche se proprio non volgeva le chiavi del
suo cuore. Fu accusato di corruzione da Aubery e Egerton, condannato al carcere e deposto. Ma
scontava anche la Nemesi del proprio errore. Dal suo antico posto di procurator generale aveva
arringato contro il conte d'Essez, già suo grande benefattore, che cadde sul palco come reo d'alto
tradimento. Aveva dunque perseguitato un traditore, ma l'aveva tradito.
Recentemente in Italia si trascinò in giudizio un alto e abile magistrato sotto l'accusa di barattare la
giustizia. Il processo, fattosi a Firenze, fu un avido scandalo in tutto il paese, dove la rottura dei
tabernacoli è una maniera prediletta di bestemmiare le cose a cui dovremmo maggior devozione:
l'onore nazionale, il nostro decoro oltre gli invidiati confini, la religione dell'intatta pover dei
magistrati. L'innata sfiducia nella giustizia e il solito sospetto che basti ungere anche la sua macchina
per volgerla a proprio profitto avvelenarono l'aria già densa di umori maligni.
Patroni di ricche liti perdute presso il giudice diventato giudicabile, insoddisfatti del licet iudicem
triduo maledire, si fecero del podio dei testimoni il vomitatorio delle loro bili. Magistrati di prima
sede, che si eran visti riformare i sapienti responsi in grado d'appello con l'intervento del giudice
superiore caduto in disgrazia, si presero la rivincita col venire a sostenere i propri errori. Colleghi
partecipanti alle giudicature sospette di venalità vennero a difendersi, violando il segreto del voto o
per adonestarlo o per vantarlo diverso da quello del sospettato. Perfino un umile usciere, abituato a
origliare al buco dell'Areopago per correre a venderne le primizie, essendosi pubblicata una decisione
diversa da quella illecitamente rivelata, fu chiamato a far fede che si era mutata la sentenza.
L'epilogo del processo fu la solenne proclamazione della piena innocenza dell'accusato e l'inesorabile
condanna dei maligni accusatori e degli incauti. Nella luce tersa e viva della verità emerse una sola
macchia, che non adombrava la candida figura del magistrato: la sua donna, infelice per anima
inferma e bisognosa di ardere per consumarsi, vendeva fumo dietro le sue spalle. Sarebbe bastata la
dolorosa accusa di questa colpa, che non sfug a condanna; ma il dispettoso gusto di fare qualche
cosa di più, che bisogna poi disfare, imponeva una grande iniquità per dimostrare una maggior
giustizia. Che vispi fanciulli e amabili mattacchioni siamo noi italiani, che sentiamo il bisogno di aver
sempre nelle mani qualche balocco e di disfarlo per vedere com'è fatto!
II.
Dio vi salvi dai frecciatori!
Di perfetta salute, di bel portamento, di onestissimi modi, comodamente vivono ma non lasciano
vivere, almeno fin che non vi hanno stillato qualche goccia di sangue dalla parte destra del costato,
dove appuntano le loro frecce. Sono tutti gentiluomini, non pretendono di essere galantuomini;
declinano spesso illustri lignaggi, raccontano mille contrarietà sofferte e altrettante occasioni propizie
ricusate, e scrivono dignitosissime lettere, aggirantisi intorno a un lungo racconto falso: una mancata
parola, una riscossione differita, una cura necessaria alla moglie, il seppellimento d'un figliolo,
l'urgenza di partire per assumere un invidiabile impiego oltre l'Oceano Pacifico e non tornar più. E
quest'ultimo argomento sarebbe d'una seduzione irresistibile se non fosse stato addotto già tre o
quattro volte nell'anno.
Forse credete ch'io parli d'una classe di miserabili, infelici per destino e impotenti per salute, umili e
discreti nel dar forma dignitosa alla necessità di accattare. Vi ingannate: si tratta d'una classe di gente
florida, ben nutrita, ilare, elegante, che vi siede accanto in teatro, alla trattoria, ai bagni, nei migliori
ritrovi, e vi saluta da pari a pari e con benevolenza ma non senza qualche riservatezza. È gente che si
fa una professione regolare e stabile de' suoi comodi espedienti che non valgono maggior fatica d'una
lettera o d'un appostamento; ma son vere truffe, le loro, che ritrovano l'impuni nella propria
trasparenza e disinvoltura. Il mondo li conosce; eppure li mantiene. Se poi un infelice e digiuno
pezzente si siede al desco della bettola più umile e affumicata e non paga lo scotto, lo colpisce come
reo di frode.
Le vittime preferite della freccia sono i detentori di uffici gratuiti o no, i candidati agli onori pubblici
e gli affezionati alla propria nobiltà. Gli uomini politici sono bersagli fissi con differenza di punti in
ragione inversa della fortuna elettorale.
Bisogna vedere questa gente all'assalto di Montecitorio, nella stanza destinata alle richieste di colloqui
con gli onorevoli e infelici deputati. Vi si mescola, è vero, molta altra gente di differente abito e
intendimento; ma nessuna è così dispetta. Una bolgia dantesca è un'immagine sbiadita di quel girone
di ignavi e di incontinenti. Se vi ci affacciate, vi ributta un'afa di tedio e di sgomento. Uomini e donne
dal costume e dall'atteggiamento svariatissimo, regionali di origine e di lingue diverse, nobili e plebei,
impiegati, professionisti, aspiranti, disoccupati, soldati di terra e di mare, preti d'ogni rito aspettano
due e tre e quattro ore il deputato che han fatto chiamare per mezzo di cedole apposite. Per fortuna i
portatori di queste cedole debbono misurare per largo e per lungo e dall'alto al basso l'immenso
baraccone, salendo alle sale di lettura del primo piano e alla biblioteca del secondo e ridiscendendo
per i lunghi e tortuosi laberinti degli uffici e delle giunte e delle commissioni, fin giù nell'aula
parlamentare e nelle sale di scrittura e alla posta e negli ambulatori, cercando interrogando spiando e
non sempre scoprendo. In tutte queste faccende passa un'ora, ne passano due, dopo le quali il ricercato
va per trar fuori dalla bolgia il ricercatore e introdurlo nella sala dei colloqui e apprende che se n'è
andato.
Vuol dire che non era un frecciatore. Non durando una gran fatica a star seduto senza far nulla, il
frecciatore aspetta aspetta aspetta e non se ne va. E però non giova che un espediente preventivo
contro di lui: letto nella cedola il suo nome, dire all'usciere:
- Non ci sono.
E il nunzio paziente va, si affaccia alla bolgia e con accento meridiano grida:
- Non ci sta.
Se poi parla in linguaggio toscano, preferisce dire qualche volta:
- Ha detto che non c'è.
Allora il frecciatore ha sempre pronta qualche sdegnosa protesta:
- Non c'è mai, questo poco onorevole! A quest'altre elezioni! a quest'altre elezioni!
Oppure è un'altra la risposta liberatrice:
- L'onorevole parla.
Allora il frecciatore:
- Ma se non parla mai, quel bue dorato! - E pensa con appetito vorace, allupato dalla lunga attesa, alla
ricca doratura che questa volta non ha potuto graffiare.
Ma non crediate ch'ei venga da Roma e che sia un Quirite: viene da ogni costa d'Italia e non cerca del
suo deputato soltanto ma di cento. Ed a cento confida l'invenia d'un gran giornale da fondare, d'un
largo circolo politico da istituire, d'uno scelto medagliere parlamentare da scrivere con grande fortuna
ma anche con grande spesa. Ma perchè son tutti pazienti i nunzi di Montecitorio? perchè non li
capeggia la fiera crudele dall'enfiata labbia e dalla voce chioccia o il gran vermo che latra con tre gole
e graffia e squarta e scuoia? e perchè non si chiamano tutti Malebranche, Malacoda, Barbariccia,
Scarmiglione, Libicocco, Draghignazzo, Graffiacane?
III.
Chi ignora i dedicatori?
Sono le spie della felicità e d'ogni avvenimento di apparente allegrezza, al quale vogliono dedicare un
canto, un fiore, un omaggio a buon prezzo.
Sei stato finalmente nominato cavaliere? Eccoti l'epigrafe scritta in pergamena o sul vetro, che esalta
il raro e straordinario avvenimento. E ben ti sta!
Hai strappato la laurea di dottore? Tuo padre pagherà anche il sonetto.
Ti chiami Pier Francesco? Nel giorno di San Pietro e in quello di San Francesco sarai puntualmente
salutato da un poeta dimenticato a torto nella miseria.
T'è nato il dodicesimo figliolo? Ecco la Musa gioconda che canta la tua invidiabile fecondità e
riempie la tua casa di auguri per il più prossimo principio d'una nuova serie.
Vai a nozze? La strofa più scellerata ti anticipa le amarezze del nuovo stato. E se anche hai
settant'anni, sei sempre
giovine sposo e nell'amor valente;
come la tua donna, anche se vedova di quattro letti, è ancora
vergine pura e per candor tremante,
perchè l'epitalamio è uno solo nelle dedicazioni circolanti. Infatti, avendo un dedicato, che condusse
moglie nella casa paterna, posto il suo sonetto nuziale in cornice accanto a quello del padre, si
riscont che i sonetti erano un solo e dello stesso poeta offerente. Solamente le date erano diverse e
distanti di trent'anni. Tanto è resistente e ostinata la vita di questi plagiarî!
Un dedicatore, sol perchè si chiamava Girolamo Parini, si credeva in diritto di offrire all'infinito
queste strofe, dichiarando ogni volta, in una supplichevole prefazione, di averle improvvisate per il
fàscino della bellissima sposa e sottoscrivendo "G. Parini":
Bel vederla in su le piume
riposarsi al nostro fianco,
l'un dei bracci nudo e bianco
distendendo in sul guancial;
e il bel crine oltre il costume
scorrer libero e negletto
e velarle il giovin petto,
che va e viene all'onda egual.
Bel vederla all'improvviso
i bei lumi aprire al giorno
e cercar lo sposo intorno,
di trovarlo incerta ancor;
e poi schiudere il sorriso
e le molli parolette,
fra le grazie ingenue e schiette
della brama e del pudor.
Tutte queste son truffe, che la singolarità dell'occasione può perdonare ma non giustificare. Eppure
possono liberamente sussistere e perdurare come elementi di consuetudine, anzi di professione!
IV.
E dove metterete certi grandi elettori?
Non dico di quelli che escono dalla lotta infarinati del denaro del candidato come il mugnaio della
farina del mulino, ma di quelli che il giorno della lotta disertano le urne o per sommo scrupolo vi
gettano una scheda bianca. Uno di costoro suol presentarsi sempre a uno dei candidati in lizza e fargli
questo discorso:
- Signor mio, sono il maestro della banda musicale del paese e dispongo dei voti di tutti i sonatori;
anzi qualcuno ha più d'un voto; il corno, per esempio, ne ha quattro, perchè tre amici votan sempre
come lui; il sistro ne ha due, perc un fratello gemello, che lo somiglia tutto e che s'astiene come
anarchico, lo lascia votare due volte. Ora io non vengo per vendere la mia influenza a contanti. Lei
non deve darmi un centesimo, se non è eletto; se invece è eletto, pagherà a me e alla banda un premio
di cinquecento lire.
Lasciato questo candidato, si presenta a quello avversario(6) e gli fa questo discorso:
- Signor mio, sono il maestro della banda musicale del paese e dispongo dei voti di tutti i sonatori;
anzi qualcuno ha più d'un voto; il corno, per esempio, ne ha quattro, perchè tre amici votan sempre
come lui; il sistro ne ha due, perc un fratello gemello, che lo somiglia tutto e che s'astiene come
anarchico, lo lascia votare due volte. Ora io non vengo per vendere la mia influenza a contanti. Lei
non deve darmi un centesimo, se non è eletto; se invece è eletto, pagherà a me e alla banda un premio
di cinquecento lire.
Il resultato del patto è che l'uno o l'altro dei candidati è eletto e che il maestro intasca il premio ad
ogni costo.
Quanti altri grandi elettori sono simili al maestro! e tutti imparziali e incorruttibili come lui! e tutti
come lui plagiarî! Infatti non parteggiano, non brigano, spesso non vanno nemmeno a votare; ma il
più delle volte usano un semplicissimo plagio: farsi rimborsare delle spese che non hanno sostenuto.
V.
Quanti altri plagiarî inerti!
Guardate quelli che nelle faccende d'amore non muovono un passo, non aprono un uscio, non portano
un messaggio, ma vi dicono all'orecchio un nome o vi scrivono su la carta un indirizzo.
Della stessa carne son certe pessime comparse che vi trovate di traverso negli affari, nelle liti, nelle
relazioni d'ogni specie, senza che promovano una conclusione, senza che portino un aiuto. Parlano
poco, bevono molto, anzi generalmente non parlano fin che non è il momento di presentarsi a
ciascuna delle parti per dire:
- Sono stato io che ho accompagnato il signor....
- Ma se è mio stretto parente!...
- Sì, ma voleva rivolgersi a un altro. Sa come sono i parenti!
Oppure:
- Il suo matrimonio è stato ideato da me, che dissi per primo il suo nome....
- O se abbiamo fatto all'amore di nascosto quindici anni!...
Queste dimostrazioni e queste repulse sono inutili: dovete levarvi le mani di tasca come se la vespa
più ostinata si sia posata su una vostra palpebra.
Aggiungete alla serie degli inerti una lunga riga di supplicanti d'ogni specie. Chi a Firenze non ha
avuto la gioia di conoscere una macchietta da strada, che il dizionario della Crusca non ha ancora
registrato: il bacalaro? Costui è un guardiano neghittoso dei vetturini di piazza, ai quali appartiene, ma
rispetto a voi che non potete partire in carrozza senza aver pagato a lui una specie di imposta su la
rota, è un seccantissimo plagiario. Non vi apre lo sportello, non vi dà un aiuto, si pianta di fianco alla
carrozza aperta su cui siete saltati e non si muove e non lascia muovere il cavallo, che è d'intesa con
lui nell'inerzia, fin che non avete fatto il vostro dovere di buon cittadino di Firenze, che è quanto dire
della città in cui gli usi e le tradizioni men giuste sono altrettanti monumenti immortali.
Appartengono a questa riga i mendicanti professionisti, sani e validi a dispetto delle leggi che fin dai
secoli di Roma perseguitarono l'incerta mendicitas, tradotta da noi in ìmproba mendicità. Le permute,
i noli, gli imprestiti dei bambini lattanti e delle giovinette rincorrenti, le storpiature e le cecità
simulate sono il solo congegno e la sola fatica di questi plagiarî della maternità infelice e della
miseria. Ma guardatevi bene da smettere la contratta abitudine di contentarli, quando vi siete accorti
del plagio! Dovreste persuadervi a sacrificio della vostra quiete che voi fin qui non avete compiuto se
non un dovere; e d'ora in avanti non vi resta se non a riconoscere e soddisfare un diritto. Oppure
dovete mutare abitudini di diporto, indirizzo d'affari, consuetudine di ritrovi e di qualunque intimità,
se non volete essere insultati o denunziati al tribunale della famiglia.
VI.
In riga in riga, tra questa gente dispetta, i finti protettori di celebrità.
Alcuni non si scomodano di più che offrendosi alle celebrità artistiche e stipulando con loro
l'applauso su certi punti convenuti d'uno spettacolo teatrale, ma in real non si scaldano in
applaudire, non turbano la sinceri dello spettacolo, anzi non vanno nemmeno al teatro. Ma vi
andrebbero o lascian credere che potrebbero andarci: e questo è il plagio e il titolo del guadagno.
Altri si presentano alle celebrità politiche e non fanno di più che un discorso di questa misura:
- Ieri mi trovai all'osteria mentre, si diceva male di lei. Naturalmente presi le sue difese, e due o tre
rimasero presto persuasi. Pagai da bere a loro e agli altri e da ultimo mi tirai dalla mia parte anche
quelli. Ma bisognò leticare e bere fino a mezzanotte....
È certo che all'osteria tutti dissero male dell'uomo politico, a cominciare dal plagiario che poi andò a
vantargli le sue difese; ma dell'uomo politico si poteva e si potrebbe dire anche di peggio; e però il
largo rimborso delle libazioni durate fino a mezzanotte è meritato.
Alcuni plagiainvece esercitano il plagio con una attività non più faticosa ma almeno ideativa: come
quelli che fanno professione di riportarvi le cose che non avete smarrite: o di ripetere la testimonianza
che avete loro dettata: o di far la guardia in qualche luogo in cui volete dar l'assalto oppure sperate
pararlo: o di simular furti: o di sfruttare con bei modi colpe segrete: o di usurpare i segreti dell'altrui
ingegno.
In una città di Toscana è stata istituita un'agenzia che traffica giocondamente sul capo della gente
ammalata. L'agenzia si sceglie un soggetto uremico o tubercoloso in stato non appariscente e gli
promette una somma se sottoscrive una proposta di assicurazione su la vita, conchiusa la quale gli
sarà pagata la somma. Il compare, istruito dall'agenzia, risponde maliziosamente al medico visitatore,
se già l'agenzia non s'è accordata anche con lui, occultando alcuni fatti e altri simulando intorno alla
sua salute; e l'assicurazione è conclusa. Allora l'agenzia, col titolo di un'impresa di mutui o sotto il
nome di uno de' soci, si rende cessionaria della polizza e aspetta la morte dell'assicurato per riscotere
il premio d'assicurazione.
Plagiarî più lugubri ma degni di pie e di rispetto son altri candidati della morte: son quelli che
vendono la propria salma alle società per la cremazione dei cadaveri. Meritano il più amaro rispetto e
la più stringente pie quando si vendono per porgere l'ultimo aiuto e l'unica eredità ai loro poveri
superstiti; ma non pochi stringono il triste affare per procurarsi il mezzo di ben altra soddisfazione,
con la quale possano chiudere degnamente la vita, come la meretrice che vende l'ultima volta e anche
fatto esanime il suo corpo, per dare ancora un sacrifizio di sè al suo spregevole sfruttatore.
VII.
Ecco plagiarî maggiori e più avventurosi.
Nel pieno meriggio d'un recente autunno entrava nel paese di San Casciano nel Fiorentino un uomo
d'e matura, d'abito decente, d'aspetto comune. Presentatosi alla famiglia Bandini e incontratosi col
suo capo, allargava le braccia e rimaneva in questa attitudine lungamente, finchè non esclamava:
- Egisto!
L'altro, raccoltosi un poco, come se misurasse un salto pericoloso da spiccare, si gettò in quelle
braccia, che finalmente si richiusero intorno al petto di quell'uomo, gridando:
- Enrico.
Egisto ed Enrico erano fratelli. Ma non si rivedevano da trent'anni. Enrico era partito nel '77 per la
Russia e da quell'anno non aveva dato più notizie di sè. Naturalmente erano state vane le ricerche fatte
su di lui a mezzo degli unici diplomatici e consolari. Poco prima della presenza di Enrico in quella
casa, la famiglia Bandini aveva saputo che gli anziani del paese stavano parlando con Enrico e aveva
stentato a crederlo; ma ora che quell'uomo aveva aperto le braccia ed Egisto vi era entrato dentro
come attratto da un istinto irresistibile, levava un coro di voci festive e commosse, tra le quali erano
queste:
- È proprio lui! come si somigliano! Ma si vede ch'è stato fuori!
Enrico raccontò le più strane avventure: persecuzioni politiche in Russia: detenzione e fuga dalle
carceri di Pietrogrado in conseguenza dell'eccidio di Alessandro II: divagazioni travagliose per
l'Europa: imprese e peripezie in America: commercio e fortuna toccatagli finalmente nel nuovo
mondo. I ragazzi di quella casa non avevano mai udito nulla di più lungo e favoloso dalla bocca della
nonna; gli uomini e le donne si appassionavano singolarmente all'ultimo capitolo, e questo era
documentato da certe carte che Enrico illustrava come titoli di banche estere; ed era chiuso da lui con
l'affermazione che erano per giungere a Genova varie casse di valori.
La fama delle sue ricchezze gli circondò il capo di un'aureola di santità tra i villici di San Casciano.
La musica del paese lo salutò con alti concenti, i vecchi patrioti gli ammannirono un lauto banchetto,
le più antiche famiglie lo vollero seduto alle loro cene, qualche padre novello l'ottenne compare del
neonato "Enrico". E non gli mancò neanche l'incontro della donna della sua lontana giovinezza, la
quale aveva conservato le lettere ricevute da lui nei primi giorni della sua peregrinazione in Russia.
Egli le rilesse e most una singolare curiosità in quella lettura, guardando spesso la sua Calliroe e
dicendole con serena malizia:
- Te ne ricordi, eh?
Bisognava andare a ricevere le casse a Genova; ma i titoli esteri non erano spendibili in Val di Pesa; e
però Enrico ricorse alla facile fiducia de' più ricchi paesani, ottenendone prestiti di alcune centinaia di
lire e anche di un cavallo con carrozza. Intanto Egisto, che teneva il fratello in casa con amabile
ospitalità, lo persuadeva a renunziare all'eredità paterna (giacc il padre era morto durante la sua
assenza) in favore dei nipoti: ciò ch'ei fece con un bel gesto di liberalità nella pretura di San Casciano.
Poi andò a Genova e dopo qualche tempo ne annunziò il ritorno. La famiglia gli mosse incontro e
qualche giovane si sbracciò per disporsi al carico delle casse. Ma a Genova non erano arrivate,
Questa notizia fiaccò un po' gli entusiasmi di quei giovani e degli altri familiari, ma non della stampa,
che da più d'un mese pubblicava un gustosissimo diario del "Redivivo di San Casciano" comunicando
ogni particolare della sua giornata. L'eco del diario fiorentino ripercosso nella stampa del resto d'Italia
giunse all'orecchio d'un commissario di pubblica sicurezza a Mondovì, il quale aveva conosciuto e
catturato a Udine un Giambattista Vendramini di Savilla in quel di Treviso, il quale sfruttava alcune
famiglie fingendosi parente. Una sera che Enrico era in una casa ospitale di San Casciano trovò fra gli
ospiti quel commissario, il quale gli usò la villania di mettergli le mani addosso e condurlo a forza a
Firenze.
VIII.
Qui fu sottoposto all'accusa di truffa per l'abuso della credulità degli ospiti e dei creditori ed a quella
di falsiin atti pubblici per l'uso di nome non suo nella renunzia all'eredità paterna e nell'attestazione
di nascita dei figliocci. E da una parte il commissario affermava che l'accusato era Giambattista
Vendramini e dall'altra le vittime negavano che fosse Enrico Bandini. Allora, invertendosi la
disposizione degli spiriti, come avviene nella fortuna dei volghi, si ritrovarono cento ragioni di
dissomiglianza delle quali prima non si era notata pur una: la favella troppo diversa da quella
toscanissima di Enrico, quasi non fossero passati trent'anni: la corporatura più magra e snella, come se
per me di vita non possano mutarsi i particolari fisici dell'uomo: più alta la statura, meno grandi e
piatti i piedi: e non so quali altre differenze minute scoperte dalla pia Calliroe nel segreto delle sue
memorie. Solo il confronto della statura ebbe una certa saldezza nelle indagini del processo, perc
Enrico Bandini era alto un metro e sessantanove centimetri quando subì la visita per la leva; invece il
redivivo era alto un metro e ottantatrè centimetri; e non parrebbe facile ammettere che un uomo oltre i
vent'anni possa crescere e di tanto. Meno serio confronto, come sempre, doveva porgere la perizia
grafica esercitatasi nella comparazione della scrittura fatta eseguire al redivivo con quella scelta tra le
reliquie di Calliroe.
Ammesso che costui era Giambattista Vendramini, gli si addossò una lunga odissea di truffe del
medesimo stile, che si connettevano a questo nome. Infatti il Vendramini fin dall'85 aveva svolto la
sua attività nello sfruttar parentele, ora dicendosi figliolo d'uno, ora zio d'un altro, ora genero di
questa, ora marito di quella; anche marito, e senza timore imbarazzo di confronti! A Udine,
centro delle sue gesta, è arrestato e inquisito per truffa; ma il tribunale gli rimette questa accusa per
infermità di mente a causa della sua condizione di "istero-epilettico e pazzo morale". Passato dal
carcere al manicomio e di qui rimesso in libertà, riprende le sue diligenti e operose abitudini, fin che
non è arrestato dal commissario che verrà poi a ritrovarlo a San Casciano. Ma il tribunale di Belluno
conferma la sua irresponsabilità su lo stesso fondamento della pazzia. Finalmente nell'estate del '905,
essendo rinchiuso nel manicomio di Crespano Veneto, riesce a fuggirne; e un mese dopo è a San
Casciano nelle braccia fraterne di Egisto Bandini e quindi in quelle amicali del commissario. Ma il
tribunale di Firenze riafferma per la terza volta la sua irresponsabilità e lo assegna al manicomio:
giudizio assai notevole, anche per la sua persistenza, se si confronta con la tendenza volgare dei
tribunali a escludere ogni follìa nei fatti umani che abbiano, come questo, l'apparenza della
complicazione e della malizia.
IX.
Ma l'uomo così giudicato tre volte era Giovanni Vendramini? Le sentenze lo ritennero per certo. Ma
un giorno d'aprile del '906 il Vendramini, intanto che dalla prigione aspettava di essere inviato al
manicomio, chiese di parlare. Secondato nella sua richiesta dal direttore del carcere, disse:
- Debbo dichiarare che io non mi chiamo e non sono Enrico Bandini.
- Fate bene a dire la verità; vi può sempre giovare.
- Ma non sono e non mi chiamo neppure Giovanni Vendramini.
- E come vi chiamate?
- Giovanni Ducati.
- Per appunto Giovanni Ducati!
- D'altronde non ci ho colpa!... Mio padre si chiamava Michele Ducati e mi mise nome Giovanni.
- Proprio Giovanni Ducati!
- Proprio!
- E come lo provate!
- Ah, le prove! Per le prove raccolte dai tribunali sono Giambattista Vendramini; ma per quelle che
posso dar io sulla mia parola son Giovanni Ducati.
- E chi era vostro padre?
- L'ho detto; e era di Vignolo Vatara, dove son nato nel '51.
- Sicchè siete austriaco.
- Questo riguarda la storia.
- E vostra madre?
- Teresa Ravagna.
- Tutti morti?
- E seppelliti a Vignolo.
- Ma com'è che siete stato chiamato Vendramini?
- Anche di questo non ho colpa.
- E che mestiere avete fatto?
- Mi son dato sempre per parente di qualcuno.
- Che non era.
- È naturale! Non potevo mica presentarmi a mio fratello e dirgli che ero suo fratello, perc lui è
stato il solo a non volermi riconoscere!...
- Dunque avete un fratello?
- A Levice; e si chiama Leopoldo. Un altro fratello morì di mal caduco come mia madre. Ci ho anche
una sorella, che si chiama Eugenia. Un'altra morì di non so quale malattia.
- E la vostra vita?
- Dallo spedale al manicomio.
- Le vostre condanne?
- Tutte quelle di Giambattista Vendramini e qualcheduna anche a nome mio. A dodici anni fui
condannato a tredici mesi di carcere duro in Trento per aver rotto la vetrina della Madonna del
suffragio rubandone gli oggetti preziosi. Un'altra volta fui condannato dal pretore di Levice per truffa,
essendo andato in un'osteria a mangiare e bere senza pagare. Poi fui novamente condannato in Trento
a cinque anni di carcere duro per esser penetrato in una casa aperta nel paese di Mezzo Tedesco (per
una semplice indiscrezione.... non c'è male!). Dopo questa condanna emigrai a Vienna e quindi
peregrinai per varie parti d'America e poi fui in Russia. A Pietroburgo conobbi Enrico Bandini, che
faceva il venditore di figurine.
- E per questo pensaste a usurpare il suo nome a San Casciano?
- Non per questo.
- E come poteste esser condannato per Giambattista Vendramini?
- Quando nel tornare di Russia, dieci anni or sono, fui arrestato, mi fu trovato in tasca un passaporto al
nome di Giambattista Vendramini. Me lo aveva dato, al solo scopo di poter viaggiare, il vero
Vendramini, che lavorava insieme a me nei Carpazi; e quando nell'occasione del mio arresto mi fu
preso, dissi subito che non era mio. Ma non fui creduto. Fui rinchiuso con questo nome nelle carceri e
nei manicomî, fin che non potei fuggire da quello di Crespano Veneto e venire a Firenze.
- E qui come poteste ricordarvi di Enrico Bandini e sapere della sua famiglia?
- Non fu qui; fu a Crespano. In quel manicomio conobbi un venditore di figurine del quale non voglio
dire il nome; costui mi disse che ero Enrico Bandini; io confermai; allora il venditore dette cinquanta
lire a un infermiere perchè mi lasciasse fuggire; fuggito, andai a San Casciano e mi presentai a Egisto
come suo fratello Enrico.
Dopo queste dichiarazioni si cercò del fratello Leopoldo e della sorella Eugenia, si interrogarono i
Capocomuni successivi nella rappresentanza comunale austriaca di Vignolo Vatara, si interrogarono
altri concittadini del Ducati, e ne risultò la sua personali confessata. Ma quello che più importava
sapere rimase un mistero. Come e dove potè il redivivo di San Casciano raccogliere gli elementi
necessari a sostenere la sua parte? Fu forse suo complice il figurinaio del manicomio di Crespano, che
sborsò cinquanta lire? E chi fu?
Mistero!
X.
Il plagio della persona è assai meno raro di quel che si pensi: rara n'è soltanto la scoperta. Quanti non
esercitano il diritto elettorale degli altri o assenti o astenuti o morti! Quanti non spendono titoli o non
usano tessere rigorosamente personali che non appartengono alla loro persona! Quante testimonianze
e sottoscrizioni d'atti e stipulazioni di affari nel nome d'altri! Quante finte parentele per inconfessabili
relazioni d'intimità! Quanti falsi nomi di esuli e di contumaci e di proscritti e di assenti! E credete voi
che nelle celle del carcere espiino la pena i soli condannati? che tra le file della milizia marcino tutti i
coscritti? che ai banchi degli esami per studi e per concorsi seggano sempre i candidati?
Raramente il plagiario è un sosia. Generalmente non è se non un mentitore disinvolto, che non si
prende la fatica d'un artifizio e d'un trucco particolare. Il sosia è una singolarità che doveva spesso
prestarsi e si prestò all'arte dei commediografi, da Aristofane al Molière, da Plauto al Dumas; ma è
assai raro nella realtà, se non è un fratello gemello, come nei Menecmi di Plauto, ma un uomo che per
caso somigli a un altro di cui non è pur lontano parente. Tale fu il sosia di Augusto, il quale, nel
vederselo davanti in Damasco, non potè fare a meno di domandargli senza malizia:
- Tua madre è forse stata a Roma?
- No - ribattè il sosia - c'è stato mio padre.
E tale fu il sosia di Luigi XVII, co somigliante a lui, che lo scambiarono per il Delfino anche coloro
che ne ebbero cura fino alla morte. Ma nella commedia reale e facinorosa della vita non è un sosia ma
una semplice faccia di bronzo il plagiario della persona. Infatti il Ducati era più alto quattordici
centimetri del Bandini.
Plagiarî della maniera e della fortuna di lui non sono comuni. Eppure Dante pensò a darcene un
esempio in Gianni Schicchi, che seppe
per guadagnar la donna de la torma
falsificare in sè Buoso Donati,
testando e dando al testamento norma(7).
Era morto o presso a morire Buoso Donati, che con inganni e ruberie s'era fatto ricco. Per comprarsi il
perdono di Dio, come allora si credeva e si praticava dagli usurai e dagli usurpatori, larghegg in
lasciti agli ospedali, alle chiese, ai conventi. Ciò non garbava al figliuol Taddeo, il quale ricorse a
Gianni Schicchi dei Cavalcanti e gli promise una cavalla (la donna della torma, che guidava le altre
della mandra) se lo avesse tirato dall'imbarazzo. E Gianni, abilissimo in contraffar persone, si
camuffò come fosse stato il vecchio Buoso e si pose a letto e fece testamento secondo il piacere
dell'erede, forse dettandolo e vigilandone l'esatta scrittura (dando al testamento norma). È notevole
che come giunse anche per messer Taddeo la volta di fare i conti con Dio, dispose che fossero eseguiti
"tutti i legati già fatti e lasciati dal signor Buoso suo padre" e da uomo avveduto per intima esperienza
volle che il figliolo fosse presente e promettesse al confessore di rispettare la volontà paterna. Ecco
che nel secolo decimoquarto uno Schicchi simula la persona d'un Donati: nel ventesimo un Ducati
simula la persona d'un Bandini.
Il poeta che tutto vedeva, secondo la felice espressione di Franco Sacchetti, vide lucidamente tutta una
serie distinta di plagiarî che peccano
falsificando sè in altrui forma,
e vide tra le biche di tali falsatori
l'anima antica
di Mirra scellerata, che divenne
al padre fuor del dritto amore amica,
simulando la persona d'altra donna; e vide
il falso Sinòn greco da Troia;
e vide tra questi malnati lo Schicchi, che
sostenne
falsificare in sè Buoso Donati.
XI.
È nell'uomo una certa tendenza istintiva e fatale a trasmutarsi; e in una postuma trasformazione di se
stesso ha persino cercato la soluzione del mistero finale. La mitologia greca, con una insistenza che ha
del singolare, si compiacque di trasformare divinità e uomini e animali e cose in una diversa natura.
Nei tempi più fertili di poesia erudita, specialmente negli alessandrini, i poeti ne secondarono
l'esempio. Nicandro del secondo secolo avanti l'era volgare e Partenio del primo poetarono intorno
alle metamorfosi più favolose. Antonio Liberale, sotto gli Antonini, formò d'una cosiffatta materia
una vasta collezione dai vari autori. Ovidio ne intes il suo capolavoro, che si apre con la
metamorfosi del caos in universo ordinato e si chiude con la trasfigurazione leggendaria di Giulio
Cesare in cometa.
Ma solo il poeta che, procedendo per gli empî giri d'un regno popolato di ombre, ebbe sempre dinanzi
a sè viva e reale la visione dell'uomo rifatto carne e attraverso alla carne tutto lo scrutò e lo intese e lo
vide infino al cuore, seppe discernere nella colpa dei falsatori di se stessi una metamorfosi criminale.
GENTE INANIMATA
.... gente stata sotto larve,
che pare altro che prima se si aveste
la sembianza non sua in che disparve.
Par. XXX.
I.
Se desiderio di imparare o soltanto di vedere vi lascia condurre qualche volta per musei, gallerie,
anfiteatri, scavi, consentite che io vi conduca in un museo moderno, dove ritroverete in gran parte gli
stessi oggetti (armi, indumenti, vasi, arredi d'uso) ma dove tutti questi oggetti non indicano gente
morta costumi perduti ma uomini viventi e fatti attuali e non occupano l'archeologia e la
numismatica ma la coscienza e la vita.
Venite dunque con me, salite queste scale, seguitemi per questo corridoio. Ma badate a' mali passi,
che il terreno è sconnesso e la via scura. Ora voltate di qua, per queste stanze. Son tetre, son sudice;
abbiate pazienza. Che volete? il luogo è vecchio, ha già servito a molti usi e ora è considerato di poca
importanza.
Voi ve ne siete accorti: siamo nel laberinto della giustizia. Parrebbe che tanti sciagurati lasciassero qui
ogni giorno tracce profonde del loro pianto, della loro colpa, della loro miseria: ma in verità il luogo è
tenuto in poco conto perchè tenuta in poco conto la giustizia.
Ma non temete che io voglia condurvi per quegli antri ciechi dove si dispensa il torto o la ragione e si
sorteggia l'impunità o l'ignominia. Per questa via vi rattristerei anche di più. Fermatevi dunque a
questa porta, intanto che io la faccia aprire; leggete che vi è scritto sopra: - Stanza dei corpi di reato.
Ecco il museo che dobbiamo visitare.
II.
Son cinque ampî stanzoni pieni di oggetti usuali, familiari, comuni, mal collocati, come vedete. Ma
non crediate che tutti siano o lo strumento o l'oggetto di un delitto; ne sono bensì altrettante larve
riflesse, altrettante figure inanimate.
Osservate questo gran numero di chiavi. Credete voi che tutte abbiano servito al furto? Forse una su
cento: non più. Le chiavi che la polizia confisca non corrispondono quasi mai al congegno della porta
per cui son passati i ladri. Nondimeno si requisiscono per prova del possesso ingiustificato di questi
arnesi.
Guardate questa grande raccolta di cicli, bicicli, tricicli, motocicli: v'ingannereste se credeste che
siano stati tutti rubati. Questi arnesi, come l'automobile e ogni altro perfezionamento della vita,
segnano una quota altissima nella delinquenza. Di questi centocinquanta trespoli soltanto venti o
trenta sono stati rubati. Medici, negozianti, artigiani, appoggiano il loro arnese fuori della casa o della
bottega mentre entrano a fare il loro interesse; e intanto il ladro fa il suo. Invece una parte di questi
medesimi trespoli è il frutto proibito di indebite appropriazioni commesse da depositarî, riparatori,
verniciatori. Un'altra parte è l'epilogo di tristi casi di ferite e di morti cagionate con la corsa e l'urto
delle macchine veloci. Un'altra è l'oggetto di facili trasgressioni ai regolamenti. Vedete questa bella
Isotta tutta coperta di fango? Fu il veicolo ma non lo strumento di un omicidio; perchè, com'è oramai
un fatto comune il battesimo, il matrimonio, il funerale, la pattuglia in bicicletta, è anche un fatto non
strano l'omicidio in bicicletta. Un giovine mercante fiorentino era stato slealmente trattato da un
astuto mezzano pratese: per vendicarsi di lui il giovine fiorentino s'arma di rivoltella, salta in
bicicletta, scambia quattro parole, scarica cinque colpi, rimonta il veicolo e torna a Firenze. Ecco la
storia che sta qui a raccontare questo trespolo fangoso. E sapete qual'era l'indizio più grave che si
adduceva dell'intenzione omicida del feritore? quello di avere appoggiato a un muro della strada la
bicicletta voltandola verso la via di Firenze.
Guardate giù nel cortile quelle tre automobili. Quella sconquassata ha fatto strage per imprudenza.
L'altra, che non ha segni notevoli, è stata rubata. Quella insanguinata presso il volano era posseduta e
condotta da un meccanico di piazza: un giovane signore, elegantemente vestito, l'ha presa a nolo per il
Mugello: a un certo tratto di strada ha sparato sulla nuca del meccanico, l'ha lasciato morente sulla via
e ha preso il suo posto correndo più di lui.
Naturalmente non sono tutte laggiù le automobili confiscate in questa giurisdizione; le più, in grazia
della mole, sono tenute a pensione in vari magazzini. E se vi dicessero la propria storia, vi
racconterebbero fughe di colpevoli e ratti di fanciulle e audaci contrabbandi e sanguinarie estorsioni e
attentati politici e imprese faziose.
Guardate ora da questa parte. Di queste cinque scale a pioli che vedete, una ha servito al furto, una
all'incendio, una all'omicidio, una alla sedizione, l'altra all'adulterio. Il ladro c'è salito su fino ad
un'alta terrazza. L'incendiario l'ha appoggiata fino alla finestra del fienile. L'omicida l'ha addossata al
muro della strada, dalla parte dei campi, per far fuoco sul viandante che aspettava. Il sedizioso se n'è
valso per scrivere i suoi viva e i suoi morte su i muri, unica stampa libera sotto i governi liberali
d'ogni tempo e d'ogni paese. L'adultero, eterno Romeo, l'ha divorata coi piedi per penetrare dalla
finestra nella casa di cui era stata chiusa rigorosamente la porta.
III.
E ora fermatevi qui, a questo lungo banco, che par quello di un fortunato rigattiere. Ecco qui il piè di
porco, che si potrebbe piuttosto chiamare, con più decenza e col riguardo dovuto a chi l'adopra, la
man del ladro: tanto è comune e terribile strumento per forza di leva nel far saltare usci, finestre,
sporti, come la scarica di una mina. Ecco il grimaldello, la chiave dell'ospite non invitato. Ecco la
sgorbia, l'aratro del malandrino, che solca e scalza con la forza d'un bue. Ecco il triangolo, l'elice
dell'"affondatore", che avvia e lima ogni più difficile forame. Ecco la sega circolare, che rappresenta
la meccanica progredita contro la difesa antiquata.
Ma non crediate che tutti questi arnesi siano stati rinvenuti addosso ai ladri sorpresi nel colmo di
un'impresa furtiva: questo è il sogno ma non la fortuna della polizia. La massima parte è stata
confiscata nelle case e nelle officine dei soggetti sospettati, dei soliti responsabili di tutti i delitti
d'autore ignoto, i quali se ne possono esser valsi in altre occasioni ma non in quella per cui si indaga.
Quel mucchio di fucili riepiloga altrettante trasgressioni alla legge che sancisce il privilegio
dell'uccisione dei più innocenti e benefici animali mediante la licenza di armarsi e di cacciare. Un
altro mucchio invece si riferisce a pochi tentati omicidî. Un solo fucile ha servito a consumare la
strage d'un uomo.
IV.
Ahimè! così non posso dirvi di tutti questi coltelli che vedete stesi e numerati su quest'asse, come
armi rare in un museo moderno di etnografia. Sono piccoli, corti, usuali, è vero; ma sono terribili e
funesti per l'uso facile, frequente, dissennato, che se ne fa.
Bravacci di poca età ma di molta audacia non si ritengono dal metter mano al coltello dove appena
sarebbe scusabile stringere il pugno per rifinire una lite (come si direbbe da loro) a cazzotti. La
familiarità dell'arma li incoraggia, la liber di portarla li rinfranca, l'esempio degli accoltellatori li
seduce; e così acquistano da ragazzi un'abitudine e un'arte squisita di aprire, nascondere, stringere e
trattare il coltello, che li consegna poi alla società esperti e temuti maestri a quindici anni.
Generalmente il bersaglio preferito dei loro colpi è l'addome, centro scoperto e gracile di vita; e l'esito
e forse il calcolo della mira è spesso la morte. Il piombo d'una scarica di fuoco si spenge talvolta nel
soffice usbergo dei tessuti della veste o di quelli del corpo; ma la ghiaccia, la sottile, la ingenua lama
del coltello squarcia i panni, taglia le carni, recide i tessuti, spacca i vasi, rompe le ossa e con la punta
infetta dal sudore dell'assassino fruga e avvelena i più riposti meandri della salute e della vita. Una
breve canna colpisce di rado nel segno della vittima instabile e agitata: una lama, ancorchè breve, anzi
perchè breve, coglie e strazia nel punto designato, perchè la dirige e l'accompagna l'esatta, la
cosciente mano dell'uomo. E come ha una familiarità e una confidenza col coltello l'accoltellatore così
l'ha anche, per la consuetudine quotidiana della vita, l'accoltellato; onde accade che uomini esuberanti
di forza e di coraggio si vedono cadere inconsapevoli nel mezzo d'una rissa dove dianzi sovrastavano
sicuri e parchi della loro vigorìa, colpiti dalla punta insidiosa del coltello, come cadrebbe l'aeròstato
bucato dalla punta d'uno spillo. La legge che è unitaria, nonostante che sia dedicata alla più varia
real del temperamento, del carattere, delle abitudini del popolo d'Italia, il quale nella massima parte
è un popolo di sangue caldo e di riflessione tepida, mentre vieta e tassa l'uso dell'arma da fuoco, ha
tollerato fino a ieri una specie di nazione armata, laddove per questo riguardo poteva proclamare il
disarmo. Oggi è tardi.
Ah! voi non mi badate e guardate invece con occhi di sgomento quelle rivoltelle. Lo so: a voi fanno
maggior ripugnanza quelle bocche nere che paiono gridar morte a gran voce. Ma invece, vedete,
accade generalmente così, che se trattate quegli strumenti per osservarli, pulirli, provarli, sono spesso
terribili e micidiali per voi e per le creature più care che vi stanno dintorno, ma se poi dovete usarli
per estremo bisogno di difesa, allora o non sparano o non colpiscono o non uccidono. Somigliano un
po' alle antiche corazzate della marina, magnifiche e perfette nel porto, infelici e fallaci in mezzo al
conflitto e nell'ora della prova.
V.
Vedete questi due barili? Non contengono vino rubato nè adulterato; ma acqua, pura acqua di mare, la
quale è il corpo di un delitto di contrabbando. Il contrabbandiere è un provvido padre di famiglia, che
non ha fatto altro male se non quello di continuare di pieno inverno in casa i bagni marini alla sua
prole rachitica e scrofolosa. La maestosa immensitudine del mare non gli ha destato un solo sospetto
della meschina fiscalità della legge e gli ha fatto credere che cento litri sottratti ogni giorno dall'onde
immense dell'oceano non l'avrebbero seccato. Ma dal mare si sottrae il sale e il sale è monopolio del
governo d'Italia, il quale, nonostante la sua proprietà d'una sterminata salsedine, è così sciocco che
non distingue un contrabbando da un semicupio e un padre amoroso da un audace contrabbandiere.
E questo tabacco? Ha un'origine simile. Il biondo figliolo d'Albione ha pensato di fornire per un mese
la sua pipa, che fuma superbamente sotto la cappa d'un cappello a larghe falde durante il suo sospirato
viaggio in Italia; ma alle porte della prima città ha dovuto lasciare l'unico bagaglio che aveva, il
sacchetto del tabacco londinese, e ora vaga solo e sconsolato per le inospiti vie, come già incomincia
a chiamarle per l'unica ragione della sua pipa.
Queste scarpe che vedete, quasi tutte con le suola di legno e guarnite di chiodi come porte del
cinquecento, han servito a ritrarre le impronte di chi ha mosso al delitto. Nulla di più fallace e di più
temerario di un tal mezzo di indagine. Chi imprime sulla via del maleficio le orme della sua calzatura
è quasi sempre un abitatore dei campi e della montagna, il quale acquista le sue scarpe ai mercati, alle
fiere, alle botteghe di robevecchie, oppure le commette al ciabattino del suo villaggio, che tira il cuoio
più grossolano sopra quel solo paio di forme con cui contenta uomini, donne e ragazzi e tutta la sua
rustica clientela. D'altra parte il suolo calpestato, anche se umido e piano, non serba a lungo le orme
che vi sono state impresse, sia che nuova pioggia le cancelli, sia che il sole o il vento o l'ardenza le
dilati. Se poi il terreno è mosso e lavorato o di sua natura fragile e bricioloso, allora l'indagine si fa
sempre più difficile e temeraria. Eppure nelle processure giudiziarie più delicate il carabiniere e il
magistrato con lui seguono volentieri "l'orme dei passi spietati" che debbono ad ogni costo guidare
all'agguato, al furto, all'incendio, credendo di battere una via soda e sicura e non riflettendo che il
tenue piede di Teti e il poderoso tallone d'Achille non gli porgerebbero maggior sicurezza di indizio
che fosse degno della fantasia d'un poeta, non che della prudenza d'un areopagita.
Codeste stampiglie sono le "impronte digitali" lasciate sui muri, nelle carte, sui cadaveri stessi.
Rappresentano un progresso della polizia scientifica, ma in realtà rispondono alle stesse ragioni di
indeterminatezza. Varranno a distinguere la mano di una donna da quella di un uomo o quella di un
fanciullo da quella di un adulto, oppure varranno a identificare la sinistra insanguinata di un mancino,
oppure una mano anormale per forma e misura, ma non basteranno a creare un indizio se non di
confronto e di riaffermazione.
Ecco qua, su questo polveroso scaffale, tutta l'arte e la letteratura del delitto.
Sono incisioni, fotografie, libri, che si vendono col titolo attraente e spesso mistificatore di eleganti,
curiosi, proibiti. Voi sapete che ormai la fotografia non ha conquistato soltanto i più sublimi e
luminosi spazî del cielo ma ha ritrovato anche i più profondi e oscuri meandri della natura; e vi
immaginate facilmente quale arte e quale commercio siano colpiti con la confisca di questi oggetti.
Ma forse volete conoscere quale inverecondia si denudi in queste figure e su queste pagine, da
meritare una sanzione della legge che concede all'arte e alla letteratura di professare impunemente in
ogni tempo e in ogni paese e nel marmo e su la tela e nella carta la gloria del nudo e il trionfo della
carne.
Guardate, leggete.
Ah! voi stupite perchè, se togliete alcuni di questi libri che non avete visti in tutte le case e in tutte le
librerie, se togliete alcune di queste immagini che sono fra le meno concupiscienti e più triviali, avete
veduto e letto di più e di peggio nella libera e impunita produzione artistica e letteraria di tutti i giorni.
Il vostro stupore è giusto e tocca una scabrosa quistione intorno ai confini del lecito con l'osceno, la
quale io non posso discutere qui su due piedi, con vostro terrore.
Passiamo oltre e disponiamoci a uscire.
VI.
Queste vesti, questi cappelli, questi bastoni, questi lenzoli, questi guanciali sono altre figure inanimate
del delitto e possono appartenere tanto alle vittime quanto ai ribelli. Le une e gli altri se ne spogliano
e le lasciano spesso sul luogo del delitto; ma sovente non sono che una traccia equivoca de' due
opposti soggetti. Tutto il segreto e anche tutto il pericolo dell'indagine sta nella ragione e nel nesso di
appartenenza. Ne fa fede l'esempio più vieto degli errori giudiziari.
Una delle prime mattine del 1507 fu assassinato un uomo in una strada di Venezia. Un garzone
fornaio, che poco dopo passò per il luogo del delitto, vide un cadavere e accanto un pugnale. La
ricchezza del manico cesellato lo invogliò a raccoglierlo; ma gli sgherri che a qualche distanza lo
avevano scorto chinato a terra lo rincorsero e lo disarmarono. Quell'illecito possesso era un fatto
criminosamente distinto dall'omicidio, avrebbe detto nella sua dialettica classica il penalista lucchese,
ma i giudici della repubblica veneta non seppero concepire una così ragionevole distinzione, la quale
circoscriveva la consumazione d'un solo delitto, il furto del ricco pugnale, ma non l'omicidio; e il
povero fornaio non pensò a dedurla a sua discolpa. Al tramonto del 20 marzo il suo corpo penzolò tra
Marco e Teodoro, sulla corda che si legava alle colonne della Piazzetta quando si impiccavano i
condannati; ma poco più tardi si scoprì il vero assassino. Allora la Quarentìa, che aveva confuso un
uomo incolpevole con uno strumento di colpa, che è quanto dire un reo con un innocente, ordinò che
una voce ammonisse d'allora in poi i magistrati prima di giudicare: "recordéve del povero fornèr".
- Cose vecchie! - voi mi dite subito. Ma l'errore è sempre nuovo, se in ogni tempo si ripete. Non lo
credete? Ebbene, nel licenziarmi da voi, non voglio farvi un triste augurio: quello di doverne fare una
volta la prova sopra di voi. Ma se, giudici e non giudicabili, sarete chiamati un giorno a sillabare la
giustizia del e del no, rievocate alla vostra memoria, nonostante l'uggia che per mia colpa ne avete
oggi provato, queste languide figure inanimate, e prima di imprimere anima e corpo a un chiodo o ad
una canna, a un laccio o ad un coltello, ricordatevi del povero fornaretto.
I DELINQUENTI PARLANTI
Diverse lingue, orribili favelle,
.................
........ e suon di man....
Inf. III.
I.
Si nasce e si muore mentendo.
Nell'ultima menzogna si suggella la pietra del nostro epitaffio; della prima contradizione risuona il
fonte del nostro battesimo. Infatti il nome che riceviamo dalla nascita non deriva dalle nostre qualità
rivelate dalla prova da noi compiuta di virtù e di difetti, ma da un capriccio di suono, vanità,
memoria, auspicio, e persino di contrasto. Nondimeno quel capriccio rivela qualche volta le tendenze,
le opinioni, i gusti di una famiglia, e quindi, per la gran legge dall'eredità, l'impronta gentilizia di chi è
condannato a portarlo per tutta la vita.
Tra la stessa gente che si dice onesta si suole adattare il nome della prole a un'idea, a un avvenimento,
a un voto. O si pensa all'ordine del nascere, e il nato si chiame Primo, Secondo, Quintino, Sesto,
Settimio, Ottavio; o si allude alla data della nascita, ed ecco Natale, Pasquale, Agosto, Santi, Giunio;
o si saluta il desiderio soddisfatto di pigra fecondità, e il desiderato si chiamerà Benvenuto,
Benedetto, Desiderio; o si esprime un allegro auspicio o un mesto contrasto, e allora il frutto dei tristi
amori della miseria col delitto o della scrofola col cicchetto soster per tutta la vita la crudele ironia
di Fortunato, Affortunata, Felice, Gioconda, Ercole, Bellezza, Vincitore, Regina.
Questo adattamento dei nomi è così antico che qualche popolo lo volle per legge. Quella di Manù, per
esempio, prescriveva che il nome di donna fosse facile e dolce e terminasse in vocali lunghe e
somigliasse a parole di benedizione. Gli Ebrei, con gli Elia, i Gioele, le Rachele, le Sara, ci dicono
come adattassero i nomi a concetti di virtù e di divinità. Gli Epidi, i Draconi, i Diogeni, gli Areti dei
Greci ci dicono qualche cosa di analogo nell'imporre il cognome. I Romani, che pure ripetevano da
cittadino a cittadino pochi nomi della stessa famiglia, ora lo presero dalle qualità morali da lei
preferite, e chiamarono Massimo, Bruto, Catone chi sapevano sommo, brutale, cauto; ora si riferirono
ai segni fisici, e chiamarono Crasso, Macro, Calvo chi si distingueva per questi attributi; ora allusero
alla sola particolarità di coltivare i campi a un seme piuttosto che a un altro, e chiamarono Lentulo,
Cicerone, Pisone chi raccoglieva notevole mèsse di lenti, di ceci, di piselli.
Oggi non è raro che si riveli nel nome un pensiero predominante della famiglia. Sfogliate i registri
dello stato civile d'Italia e vi leggerete il sommario della storia del nostro risorgimento politico nei
nomi di Carlo Alberto, Filiberto, Pio, Vittorio Emanuele, Napoleone, Garibaldo, Mameli, Umberto,
Amedeo. Entrate tra le pareti di una famiglia religiosissima e incontrerete le Geltrudi, le Immacolate,
le Dorotee, le Concette, i Carmini, i Pii, gli Angeli e i Santi. Frequentate le case degli artisti del
marmo e della tela e vi troverete tra i piedi tanti piccoli Giotti, Donatelli, Raffaelli, Leonardi,
Michelangeli, Masacci, che scontano col nome la più innocente delle vanità paterne. Interrogate la
prole d'un politicante fanatico e vi risponderanno gli Oberdan, i Cipriani, i Ravachol, i Caserio, i
Marx, i Lassalle(8).
E dubitereste voi che il padre del piccolo Oberdan non fosse un ardente irredentista e quello
dell'adolescente Cipriani un caldo repubblicano? neghereste che fosse un anarchico il padre degli
innocenti Ravachol e Caserio e che quello dei battezzati Marx e Lassalle fosse fanatico de' due grandi
socialisti ebrei? Neghereste che il padre di Goffredo e di Garibaldo fosse un ammiratore di Goffredo
Mameli e di Giuseppe Garibaldi? e che il Garibaldi stesso meditasse su l'esempio del Menotti e del
Ricciotti quando impose questi cognomi per nomi ai due figlioli nati dalla sua Anita?
II.
Tanto vale per la gente perduta. Nei registri dei luoghi di pena si leggono tali nomi da poterne indurre
consuetudini e disposizioni familiari alla violenza e alla frode. Tali sono Caino, Giuda, Eoloferne,
Cordileone, Maramaldo, lago, Nibbio, Ludro; tali Iena, Gazza, Azzolino, Lupo, Passatore, Nerone,
Borgia, Crudele, Lima, Dinamite. È vero che non è sempre il padre o la famiglia dell'innocente, che
sceglie il nome; ma è vero in quanto ai nomi comuni, non già rispetto a quelli che racchiudono uno
strano e triste significato. Quale buon padre permetterebbe mai che al figliol suo si imponesse il nome
di Henry, Ravachol, Caserio, o quello di Lima o Dinamite alla sua figliola? E quale galantuomo
permetterebbe che i suoi nati si chiamassero Ludro, Nibbio, Passatore, Gazza, Jena? Al contrario si sa
come la scelta di questi nomi malaugurati è fatta dai genitori con una protervia singolare. Un
tenerissimo padre presentava al fonte del bel San Giovanni, essendo pontefice Leone XIII, una
vezzeggiente creatura per battezzarla con questo nome: Topo. Il battezziere si rifiutava, ma il
tenerissimo padre insisteva; il prete osservava che quello non era nome da cristiano ma da bestia; e il
tenerissimo rimbeccava: - La scusi, o il Papa non si chiama Leone? più bestia di lui (voleva dire del
leone) dove la vuol trovare?
I portatori dei nomi male auspicati li ostentano generalmente con altrettanta alterigia tendenziosa, che
dimostra come rare volte discende per i rami l'umana probi ma non la perfidia. Un malvivente
sapeva far tremare le porte dei casolari alpestri dicendo soltanto: - Son Lupo! - Un accoltellatore non
apriva mai il coltello senza urlare prima alla vittima atterrita: - Mi chiamo Caino!
Era dunque giusto notare come qualche volta, prima che i delinquenti parlino, parlano in loro i nomi
che portano. Se poi tendiamo l'orecchio al linguaggio che la nostra gente si crea e si adatta da sè,
udiamo diverse lingue, orribili favelle, voci fioche e segni parlanti di mano con quelle: un linguaggio
nuovo e strano e oscuro, che dimostra come questa gente vuol vivere e comunicare in un mondo tutto
a sè. Di lei, più che d'ogni uomo, si pdire con un antico: - Parla, ch'io ti veda.
Il linguaggio proprio delle sue relazioni facinorose è il gergo. Quello usato nelle sue lotte giudiziarie è
l'artifizio, ossia uno stile e un vocabolario dettato dal bisogno estremo di colorire o adattare il
discorso. La nota caratteristica che accompagna l'uno e l'altro linguaggio è il gesto, come sua mimica
particolare.
IV.
Il gergo ha una letteratura propria, certo più vasta di quella che si è formata sulle lingue del Volak e
dell'Esperanto. Nella maggiore opera del Hugo è un capitolo su questa eloquenza dei miserabili, il
quale è assai più fecondo di molti libri scritti di proposito in questi anni. Tra le opere nuove di
antropologia criminale sono volumi particolari intorno ai palinsesti, ai geroglifici, ai gesti, agli
sguardi dei delinquenti. E già nel 1610 era pubblicato in Firenze "alle Scalee di Badìa con licenza
delli superiori" un "nuovo modo di intendere la lingua zerga, cioè parlar furbesco" che basta a
dimostrare come il gergo, anche nell'uso di alcune voci, sia assai antico.
Creato certamente da un bisogno di difesa, dovette nascere tra quella triste gente del secolo XV che si
chia dei Mercèlots e andò a ingrossare le file della tenebrosa associazione dei Pezzenti, i quali
chiamavano jargon il loro linguaggio. Ma l'uso d'un linguaggio segreto e convenzionale al di fuori
della cerchia dei facinorosi è forse antico quanto la lingua. Noi lo sappiamo adottato da antichissime
associazioni probe e fondate in nome di un nobile principio, quale fu la scuola dei discepoli di
Pitagora. Le parole sordide della prima plebe romana (sordida verba) che ci hanno tramandato i
grammatici nel distinguerle dalle regolari o comuni (regularia o communia) non erano che forme
simili a quelle del gergo pitagorico. E un gergo vero e proprio adottarono quasi sempre le congiure e
le sètte politiche. Pietro Marucelli, per dire dei moderni, ne immaginò uno per la sua associazione,
che gerghescamente si chiamava filedonica; Luigi Settembrini ne penun altro per i suoi compagni
delle carceri borboniche. Tutto ciò conferma la ragion d'essere di questo linguaggio particolare, la
quale ragione è sempre quella di uno stato di lotta e di un bisogno di difesa: stato e bisogno che
insegnano un gergo anche agli operai d'una stessa officina e persino agli amanti di difficile e rischiosa
ventura, che corrispondono su l'ottava pagina dei giornali.
Tra la gente perduta il gergo consiste per lo più in una locuzione figurata con la quale si sostituisce al
nome della cosa il suo attributo o il suo equivalente. È questa una figura retorica che la letteratura
conosce sotto il nome di sineddoche.
Si sostituisce al nome l'attributo quando l'anima si chiama la falsa; la vergogna, la rubiconda; la carta,
la bianca; il giudice, il curioso; il medico, il toccatore; l'avvocato, il salvatore; la prigione, la
travagliosa; il fanale, l'incomodo; la lingua, la serpentina; la nave, la bruna; il gennaio, il nevoso;
l'aprile, il verde; il maggio, l'odoroso; la pipa, la fumosa; la minestra del carcere, la cattiva.
Si sostituisce al nome l'equivalente quando il viso si chiama il berleffo; la fame, la morsa; l'orologio,
il tintinnìo; i ladri, i pescatori; il carabiniere, l'incudine; i parenti, gli attaccaticci; la spazzatura, la
coda di veste; il mazzo di carte da giuoco, il libro di quaranta pagine; il bambino, il cuor della
mamma; il biglietto clandestino, la farfalla; il desinare della famiglia al carcerato, il globo; la stanza
di sicurezza nei tribunali, la carbonaia. E la stessa maniera degli equivalenti si applica alle parole che
han significato e forma d'azione, come quando si traduce ferire in tagliare, fuggire in sgambare,
confessare in svesciare, denunziare in soffiare, tacere in nicchiare, impiccare in allungar la vita,
tagliar la borsa in far la scarpa, rubare in gramignare o alzare o truccare o sgraffignare o alleggerire,...
fino all'infinito, giacchè intorno a questo significato è ricchissimo nell'uso il dizionario della lingua
italiana!
V.
Il semplice artifizio della locuzione è un fenomeno dovuto alle varie condizioni del delinquente che
combatte in campo aperto ed a corpo a corpo con la Giustizia.
- Accusato, è questo il coltellaccio che avete adoperato?
- Sarei intermittente nel riconoscerlo.
Ecco una parola impropria che in condizioni normali non si sarebbe mai adoperata e che nella
condizione d'un giudicabile è dettata dal bisogno di mitigare una dura risposta. Se l'accusato avesse
negato che quello era lo strumento della strage avrebbe dato prova di troppa impudenza; se ne avesse
convenuto risolutamente avrebbe prodotto una sinistra impressione; se avesse detto semplicemente
che era incerto nel riconoscerlo avrebbe simulato una perplessità incredibile: ci voleva dunque una
parola poco in uso e di significato incerto, che mitigasse lo stesso concetto dell'incertezza.
Qualche volta il bisogno di acquistar tempo a rispondere o di allungare la risposta per diluirne l'effetto
inevitabile conduce il reo in un labirinto cieco di pensiero e di sintassi; e più l'interrogante lo esorta e
lo punge per la via della verità e più costui si butta per terra e si avvolge e si rotola in argomenti
limacciosi di oscura filosofia. Se poi è interrogato su qualche circostanza indifferente e accidentale,
allora non si ferma più, e vi dice con grande scupolo e prolissità come nella via per cui è passato si
legge una lapide che ricorda fin dove arri l'acqua d'Arno nell'alluvione del 1842, e vi vuol dire
anche che è maschio e non femmina l'ingegno della chiave con cui è rientrato in casa, e si dispone
persino a spiegarvi, se non lo fermate a tempo, come mai la moglie in quel giorno, che pure non era
lunedì, si era mutata la camicia. Sono questi i momenti di tregua e di sollievo in un uomo che si
difende, i riposi della sua mente torturata, i respiri della sua coscienza compressa, i rallentamenti de'
suoi nervi estremamente tesi.
Qualche altra volta, per cercarsi un livello normale e sicuro alla sua posizione d'innocenza, sente il
bisogno di scambiare il posto col giudice che lo interroga e di creare su di lui un termine di confronto.
Allora, nel colmo della confessione e sul punto di ammettere di aver tirato una tremenda coltellata,
dirà al giudice:
- Che avrebbe fatto lei?
Oppure, se il giudice lo stringe nel chiedergli se era a rubare:
- C'era lei?
Ora è il semplice smarrimento della coscienza, che gli fa ingarbugliare la risposta.
- Vostra moglie come si chiama?
- Corinna.
- E da ragazza come si chiamava?
- Sempre Corinna.
Oppure:
- Avete sentito di che siete accusato? che dite a vostra difesa?
- Faccia lei.
Ora è un'involontaria precisione di linguaggio, che svela le sue abitudini viziose:
- Sentite questo testimone che vi identifica? Lo conoscete?
- Non ci ho mai bevuto insieme.
Ora è il bisogno di dare al racconto del delitto un abbellimento che lo faccia men fosco e repugnante;
e l'abbellimento consiste nell'uso di parole deformate o scambiate per unico effetto di suono. Allora ci
narra di avere incontrato indisgraziatamente il suo nemico, un capitale condannato per residenza alla
leva e devorziato con una postribola, il quale lo appostava di giorno in giorno, d'ora in ora, oralmente,
per dove gli occorreva passare, cioè in via Vieni Vieni (Benivieni). Ma deve dire finalmente come
avvenne l'urto sanguinoso in via Cimarosa. Il nome del musicista è già abbastanza dolce, ma il
delinquente che parla sente il bisogno di addolcirlo dell'altro, di renderlo più poetico, secondo il suo
orecchio. Allora l'epilogo del brutto caso, assai brutto perchè finito in sei colpi di pugnale, è fissato in
via Cimabellarosa. Importunato perchè ci dica se per caso si avvide di averlo ammazzato, il suo
nemico, ci giura che in quanto a questo fu timidoso (esitante) fra Scilla e Careggi (Careggi è un
sobborgo di Firenze). E generalmente uno squarcio oratorio come questo è accompagnato da uno
sputo, effetto irresistibile di una secrezione prodotta dal rigurgito amaro della loquela stentata.
Ora è lo svesciamento del sermone imparato a memoria nelle lunghe vigilie del carcere; e allora il
Toscano non parla più in lingua italiana; il non Toscano traduce alla peggio da un'altra!
VI.
Ma dove ci menerebbe l'osservazione quotidiana? Convien piuttosto toccare l'ultima nota dei
delinquenti parlanti: la loro mimica particolare.
Dopo le acute osservazioni del Darwin intorno alla mimica umana, si può dire che questa irresistibile
energia, derivante da quei massimi trasformatori di forze che sono i centri nervosi, si compone di due
fenomeni: utili e simpatici. Il delinquente, che è scosso dalla massima energia nel preparare o
nell'eseguire il delitto, oppure è agitato dallo sforzo estremo di nasconderlo o di giustificarlo, ha una
mimica propria, notevole per la somma accentuazione de' suoi termini di utilità e di simpatia. Il
digrignare dei denti, che fa l'omicida; il traguardare del ladro in azione; l'inclinazione obliqua
dell'assassino in agguato; la dilatazione degli occhi dell'avvelenatore spiante gli effetti della sua opera
lenta; il sorriso beffardo del diffamatore e dell'ingiuriante; l'accomodamento delle labbra del
truffatore; lo scatto bestiale del devastatore vandalico; il tremito convulso del seduttore; l'immobilità
contratta del complice sono tutti fenomeni utili della mimica criminale. Il chiuder gli occhi alla vista
del sangue inaspettato della vittima percossa, il mordersi le labbra al fallire del colpo, il torcere a un
tratto il collo e l'alzare bruscamente le spalle per distogliersi da una facinorosa ispirazione, il grattarsi
il capo nel dire una difesa difficile, il battere le palpebre ad una contestazione schiacciante sono
altrettanti fenomeni simpatici della mimica del delinquente.
In analoghe occasioni gli stessi fenomeni sono comuni alla gente onesta, ma nei delinquenti sono
assai più esagerati, perc più esagerata è l'energia che li spinge attraverso a condizioni e azioni
contrarie al consenso generale degli uomini, che percle perseguitano. E qui si allude ai delinquenti
normali, perchè la massima freddezza di chi consuma o racconta il suo malefizio, l'assoluta
indifferenza, anzi la gioia crudele, che volgarmente si rinfaccia a un accusato che non si sa conoscere,
son fatti che contraddicono per l'appunto alle regole di utilità e di simpatia della mimica comune e che
per questa contradizione attestano della natura anormale del delinquente.
Ma la mimica è anche un linguaggio a sè, un gergo muto, che il delinquente, a cui non sempre
conviene di parlare, adotta spesso per nuovo bisogno di difesa contro la società da cui non vuol farsi
intendere; ed è un gergo simbolico che muta secondo le varie convenzioni.
E, secondo le convenzioni più comuni, abbassare il braccio con l'indice teso significa aver confessato;
agitare il pollice e il mignolo con la mano chiusa, andare a rubare; chiudere l'indice e il pollice a
forma d'anello, non aver paura; mettere l'indice in croce sulle labbra, non confessare; mettere l'indice
e il medio nella stessa posizione, aver gli strumenti per lo scasso e voler esser seguito dal compagno;
puntare l'indice sotto l'occhio sinistro, stare attento; stringere il fazzoletto, armarsi e star pronto;
sovrapporre le dita a cavallo del naso, fare il lenone (vizio che nel medio evo si punì col taglio del
naso); strisciarsi il pollice dal naso al labbro, essere un ladro; battere il palmo della mano sul pugno
stretto dell'altra, disprezzare un pericolo o spregiare una persona molesta.
Qui, se mi indugiassi in questi esempî, qualche inquieto lettore sarebbe tentato di provare sulla mia
faccia questo gesto del palmo d'una mano sul pugno dell'altra. Ma costui, a un tale indizio, sarebbe un
delinquente.
I DELINQUENTI CHE SCRIVONO
Ma questo vero è scritto in molti lati
da li scrittor.......
Par. XXIX.
I.
Ai delinquenti parlanti, che si difendono e si nascondono con la parola, contrastano gli scrittori, che
alla parola affidano il repentaglio e la confessione.
Può darsi che lo stile sia l'uomo, ma a un patto: che questo mal definito animale abbia una tale
signoria e confidenza di stile che gli consenta di ritrarre nella forma le linee più frastagliate e le
pieghe più sottili del suo pensiero. Altrimenti il brusco aforisma del signor Buffon non ha senso,
perchè non solo il disagio dell'ignorante ma la stessa preziosità dell'erudito altera e devia la
spontaneità dello stile a segno che quello del delinquente tipico può confondersi con quello del
galantuomo perfetto.
Infatti nessuno somiglia tanto a un gran furfante quanto un grande imbecille. L'ira, la gelosia, la
violenza, si dovrebbero distinguere allo stile secco, vibrato, conciso; l'ipocrisia, la simulazione, la
frode, alla forma prolissa, lenta, involuta. Un'epistola minacciosa che fosse lunga e ornata non sarebbe
verosimile e per questo non temibile. Al contrario, una frase di tre parole può valere un epitaffio.
Un'epistola fraudolenta non è mai semplicebreve, nonostante il desiderio che sia letta.
Ah, se almeno sapessero secondare questo desiderio gli innocenti seccatori! Ma è più facile che si
somiglino, nell'estrinsecarsi, le stesse passioni in uomini diversi, che lo stile e l'uomo tra loro. Mi
confessava una grande intelligentissima peccatrice che de' suoi amatori non uno somigliò all'altro nel
modo di amare, ma nella maniera di mentire parevano tutti d'uno stesso ingegno e d'una stessa scuola.
Sicchè lo stile non ci può fornire il disegno di una figura di delinquente, ma soltanto il colore.
II
Piuttosto possono bastare a identificarlo certi modi strani di grammatica o di ortografia, cari a lui solo.
Un livornese che, parlando, soleva dire amio per amico, cieo per cieco, fio per fico, aborriva tanto da
questi idiotismi nello scrivere che metteva il c anche nelle parole che non lo volevano. Lo scrupolo
scempio era risaputo per varie lettere da lui scritte con questa medesima cura. Quando ne manuna
gravemente minatoria e perfettamente contraffatta al suo odiato nemico, dove gli annunziava che
aveva deciso di fargli pagare il fio delle sue scelleratezze, scrisse: - ti farò pagare il fico delle tue
scelleratezze. - E fu scoperto.
Un agente "postelegrafonico" aveva fatto ridere anche i pedoni rurali quando in un comizio aveva
proposto un ultimatutum da mandare al Ministero. La vera parola latina l'oratore del comizio aveva
spesso letto nei giornali, ma non l'aveva mai sentita pronunziare; però gli faceva l'impressione di un
concetto catastrofico e travolgente, come di capitombolo o di schianto, sicchè gli sonava nell'orecchio
più lunga e accentata e non piana. Risolvendosi a indirizzare una lettera anonima al direttore del
proprio ufficio per diffidarlo che sarebbe stato sgozzato sulla porta di casa dentro due giorni, se non
avesse comunicato al Ministero l'ultimatum, non seppe fare a meno di trasfondere nella parola la sua
illusione fonica e scrisse: - ultimatutùm. - Non fu punito perchè era dotto orator di comizi, ma fu
identificato.
III.
Il contenuto, non la forma dello scritto, ci fornisce la linea della figura criminale. L'infanticida, che fin
dai primi giorni del suo nuovo stato descrive le profonde repugnanze al tedio e al disonore della
maternità illegittima, ci dimostrerà facilmente se è innocente il fatto di dubbio aspetto. L'adultera che
scrive allo stesso amante di non poter serbare a lui solo i suoi tesori e di volerli largire a quanti
valgano a farle provare i brividi del nuovo, ci mostrerà quanto immeritata accusa di freddezza si possa
fare al povero marito. L'omicida che spiega minuziosamente la gioia crudele della vendetta e i
tormenti squisiti della vittima imprime sulla carta lo stampo della sua natura sanguinaria.
L'adolescente che espone i suoi primi dube li traduce in desiderî estremi di lussuria rivela il fondo
della sua delinquenza precoce. Il condannato per qualunque delitto, che dal carcere comunica a' suoi
compari di fuori il disegno di una nuova impresa delittuosa, dimostra quanto sia per lui efficace ed
emendatrice la pena.
IV.
Di per se stesso, l'uso della scrittura, per occasione del delitto, ora è l'indizio d'uno spirito povero,
quale si rivela sempre chiunque scriva volentieri e su argomenti e in occasioni scabrose, ora è il
fenomeno d'una di quelle varietà morbose che contano tra le loro manifestazioni quella della
grafomanìa, ora è la riprova del profondo disprezzo e della sintomatica insensibilità che uomini sani e
non sani nutrono della sanzione penale, tutte le volte che il talento li stimoli al delitto.
Pensate all'ingiuria e alla diffamazione. Parrebbe che chi si induce a queste colpe dovesse riflettere
alle loro conseguenze di fronte alla legge, giacc il tempo di formare e inviare uno scritto agio
alla riflessione. Al contrario, pochi consumano lentamente e freddamente come gli scrittori i loro
malefizi. E questa verità val bene a dimostrare come negli stessi delitti di minore impeto e quasi di
libera elezione la pena non basta a stringere i freni nella corsa al delitto. E come scrivono e
sottoscrivono chiaro, questi freddi dispregiatori della pena! E come ingrandiscono il proprio nome e le
parole più oltraggiose, quasi che la mano secondi il respiro più largo del cuore gonfio per la cupa
passione!
La sfida alla persona oltraggiata perc reagisca, perc si quereli, perchè divulghi da ed a tutto
suo danno l'ignominia, è la ragione evidente di tutto ciò; ma è pure evidente la sfida alla legge e alle
sue minacce inutili.
V.
La scrittura falsa è delitto a molto comune, che nell'essere perseguitato è spesso raggiunto da un
malefizio più grave dello stesso delitto: e questo è lo spergiuro di impostori atteggiati a periti.
In ogni parte del mondo dove si scrive sono usi, metodi, regole, modelli, che insegnano il modo di
costruire le lettere dell'alfabeto, che abituano a dare a queste una particolare inclinazione e una
graduale pressione, a osservare certe distanze e proporzioni, che insegnano insomma a scrivere in una
maniera piuttosto che in un'altra. Lo sappiamo; ma bisogna anche sapere che con l'abitudine della
mano hanno immediata relazione la stessa scuola, la stessa famiglia, lo stesso maestro, che hanno
retto e condotto la mano di innumerevoli alunni sparsi nel mondo. Sicchè una scrittura che si crede di
potere attribuire a una mano sarebbe attribuita a non poche altre se ne fossero presenti i saggi di
confronto. Chi poi scrive a scopo di delitto altera la propria scrittura oppure imita quella d'altri:
nell'un caso l'abito caratteristico è deviato dalla cura di allontanarsene, nell'altro è costretto tra le
tracce dell'esempio da imitare. Il più accorto criminale che abbia bisogno di nascondere la sua mano
scrive con la sinistra: allora non è barba di perito zazzera di indovino che valgano a scoprirlo. La
costruzione delle lettere e il loro collegamento si rovesciano, la pressione si materializza, tutti i segni
abituali scompaiono per cedere a forme nuove e ignote allo stesso scrittore.
Dinanzi a queste realtà che può valere la scienza dei periti grafici? E da quale Minerva oscura deriva
la loro scienza? Da quali misteri rilevati e da quali segreti scoperti? O non è piuttosto un nuovo gergo
furbesco consistente nell'intrudere bisticci tecnici in concezioni volgari?
Tutt'al più si potrebbe riconoscere in questi periti un'abitudine esercitata nell'osservare e confrontare
scritture, se l'amore o l'interesse di una tesi di accusa o di difesa li lasciasse in buona fede. A ogni
modo la loro opera può essere richiesta per consiglio ed a fine di semplice indicazione, non per
giudizio e col valore di prova.
VI.
Chi si affaccia alla vita giudiziaria e vede costoro inforcar gli occhiali e sedere nel pretorio in posa di
arbitri, per decidere della rovina o della fortuna di un cittadino, inorridisce e pensa che un nuovo
giudizio di Dio si instaura nel nostro costume giudiziario ed a Dio si raccomanda perchè la verità
passi inoffesa sulla sbarra rovente.
Invece il falsario ride quando sente infrancescare di Cinematica e di Doronomia e di trapezi e di ilosse
e di volteggi e di rivolte a destra ed a sinistra, di graduazione degli oscuri, di giacitura dei livelli di
base, di aria fisionomica, di modi tipici, di lettere provviste di debiti, come uno Stato dopo la guerra.
Il falsario ride quando apprende che si è scoperta una rappresentazione geometrica de' suoi
movimenti, mercè la quale si stabilisce che la proporzione di una lettera con l'altra è unico effetto del
moto di roteazione dell'antibraccio a tronco di cono: movimento doppio in cui han luogo al tempo
stesso uno scorrimento e una roteazione intorno alla retta che passa pel centro dell'avambraccio alla
estremi superiore omerale, al di dell'estremità inferiore carpiena: ragion per cui le proporzioni
della scrittura hanno la loro causa e la loro spiegazione nella conicità individuale dell'avambraccio.
Il falsario ride quando vede quegli insigni scienziati scendere dalla bigoncia e avvicinarsi a lui per
notomizzargli le apofisi e le cavità articolari del suo omero, il radio del suo avambraccio, il carpo e il
metacarpo della sua mano, le falangi e le falangette delle sue dita.
Il falsario ride quando sente attribuirsi "pentimenti" che non ebbe, perc sa che al contrario formò
tutta di getto la scrittura e la riguardò con la più profonda soddisfazione dell'opera propria con
quell'obliqua inclinazione del capo con cui l'artista rivede l'ultimo tocco del pennello o dello stecco.
Il falsario ride quando sente farsi il torto d'una grande commozione che gli fece tremare la mano e
dare allo scritto una pressione e una pendenza ineguale, ricordandosi bene che causa di queste
particolarità fu la penna arrugginita e guasta che gli cioncò tra le unghie o il piano scabroso su cui fu
costretto a scorrere balzellante la mano.
Ma non ride l'innocente che ascolta la sua sentenza e apprende che quelle mirabili invenie, non
accreditate se non dall'abitudine macchinale del congetturare, hanno valso di prova e di convinzione a
suo danno.
Non rise il litigante Armeno ricordato nella Novella di Giustiniano, che vide affermare sull'esame
delle scritture quello che era smentito sulla fede delle testimonianze; che l'imperatore dovette
decretare la regola opposta - meritare maggior fede le testimonianze che non le scritture - e
raccomandare per queste occasioni - la prudenza e la religione del giudicare(9).
Non rise il curato di Jouarre, accusato da sette calligrafi parigini di essere lo scrittore di lettere
diffamatorie dirette alla badessa di Jouarre, fino al giorno lontano in cui il colpevole confessò il suo
delitto e quello più scellerato dei sette periti che avevano sollecitato la condanna; nè risero i canonici
di Beauvais, accusati dal luogotenente Reynié di avere scritto lettere destinate a turbare la tranquillità
pubblica, fin che non prese il loro posto nel carcere il colpevole che aveva imitato la loro maniera di
scrittura(10).
Non rise il capitano Dreyfus davanti alle giberne giudicanti di Rennes, quando il perito Bertillon, alla
testa di quattordici soldati recanti sette casse cariche di schizzi grafici, di disegni colorati, di immagini
fotografiche, comparve al dibattimento con la rosetta della legion d'onore all'occhiello di una grande
zimarra azzurra e imprese a dire che l'accusato era l'autore della cedola su cui era scritto il suo
tradimento.
Era il perito calligrafo dell'ultima maniera. Ma un alchimista del medio evo lo aveva già preceduto
nella storia delle follie e delle mistificazioni. Dopo una lunga udienza, nella quale i quadrigliati, i
trasparenti, i punteggiati, gli ingrandimenti ballavano una ridda furiosa, il perito infila il pollice
sinistro nello sparato della zimarra azzurra e punta l'indice destro sopra un castello di carte costruito
dalla sua fantasia malsana. Pare Napoleone che spiega a' suoi generali il campo d'Austerlitz. Ma non è
ancora soddisfatto: chiede una seduta notturna, come farebbe uno spiritista, per compiere la
dimostrazione della colpa dell'accusato col sussidio di proiezioni luminose. Finalmente conclude che
la scrittura rivelatrice obbedisce a un ritmo geometrico, del quale è accertata l'equazione nella carta
sugante dell'accusato. I giudici non possono credergli, ma vogliono condannare. Ed ecco che in queste
e altre occasioni cosiffatte il perito è la mosca che ara, sol percs'è posata su l'aratro tirato da' buoi.
E i buoi sono i giudici, forniti di tutta la forza di cui li fanno capaci l'urlo e la sferza di quel rozzo
bifolco che è il volgo col suo partito preso.
Tra l'innocente che piange e il reo che ride non può frapporsi che la prudenza e la religione
raccomandate ai giudici dall'imperatore romano. La prudenza del giudice vuole che alle scritture non
sia riconosciuta altra virtù tranne quella di una prova complementare, indiziaria, di per se stessa
insufficiente e pericolosa; la religione del giudicare impone che nell'apprezzare un tal contributo di
prova il giudice non deleghi mai la coscienza e la responsabilità del giudizio ad alcuno e tanto meno a
chi ostenta i segreti d'una tecnica che per essere accettata non dovrebbe essere allegra e fantastica ma
razionale e persuasiva.
VII.
Ma se non è la necessi di formare un documento falso, chi oggi affida alla scrittura manuale il suo
delitto è un passatista della delinquenza. È lo scrivano che si serve ancora della penna d'oca. Se è un
delinquente civile deve profittare dei mezzi oggi più diffusi della stampa o di quelli ancor più facili
della dattilografia. Le particolari sicure o indiziarie di concetto di stile, di ortografia rimangono
scoperte anche sotto questi mezzi, ed essi stessi non sfuggono alla paziente indagine d'un accorto
scopritore. Nella stampa è facile identificare lo stampatore se i tipi adoperati non sono posseduti che
da lui, ma un caso cosiffatto è assai raro quando lo stampato è messo fuori in un centro di attività
tipografica o se non è conosciuto il luogo donde è licenziato. Allora non restano che gli espedienti di
indagine estranei alla materialità del libello e comuni ad ogni ricerca. Al contrario nella dattilografia è
meno difficile la scoperta se è circoscritta in un ordine hreve di persone sospettabili, in un solo
ufficio, in una sola azienda. Allora si potranno notare alcune particolarità della macchina adoperata,
quali il difetto di impressione, di qualche lettera o di qualche segno o l'irregolarità di livello e di
disposizione della scrittura.
Ma sono tutte indagini faticose. La gelosia stimola alla fatica più di ogni altra passione e non si
accorge di esser cieca. Infatti impreca alle invenie antiche e nuove del progresso, da quelle del
rtemberg a quelle del Remington e dell'Underwood, come se la colpa non abbia bisogno e stimolo
di profittare del progresso più presto che la virtù.
I FILOSOFI DELLA MACCHIA
O dolcissimi e ineffabili sembianti, e rubatori subitani della mente umana, che ne le mostrazioni de li
occhi de la filosofia apparite, quando essa son li suoi drudi ragiona!
Conv. II. XV, 4.
I.
Non è vero che vada povera e nuda la filosofia. Ella si riveste di forme regali, di giornee dorate, di
armamenti miliardarî, di burocrazie poderosissime, quando regge con i suoi princi accettati come
caposaldi utili del diritto le magnifìche sorti del mondo. Quando però non a tutti par così giusta e
accettabile come ai detentori della potestà legittima, ecco che muta veste e fortuna, si arma di
doppietta e di pugnale, si arricchisce di stragi e di rapine.
Nella grande varietà degli uomini ribelli, alcuni non son punto persuasi della verità della
perfezione della filosofia trionfante; ci sono degli uomini civili che non cercano di meglio che
renunziare alla civiltà; ci sono dei contemporanei che si ricacciano volentieri nel fondo delle età
selvagge del ferro e della pietra senza renunziare ben ai sussidi della civiltà nel combatterla, quali
sono i congegni di offesa e di difesa più perfetti, dalla rivoltella a sei colpi alla carabina a mitraglia, e
persino le fiscalità più ordinate, quali sono i tributi periodici e in forma di tassa progressiva.
Un inconciliabile dissenso e un profondo inadattamento alla vita sociale, un modo particolare di
vedere e di sentire le menzogne convenzionali del mondo civile, un istinto di natura primitiva dettano
a costoro una spontanea e originalissima filosofia, che non pretende ad alcuna scuola, che non
professa un ordine sistematico di diritti e di principi, che non scrive programmi leggi, ma che
battaglia alla socie accusandola di ogni codardìa e combattendola con la più aperta rivolta: una
filosofia armata che si svolge tra i faggi e i frassini delle macchie del Lazio, come quella peripatetica
di Aristotele si svolgeva tra le colonne del Liceo d'Atene.
II.
L'arte ha rappresentato questi dissidenti della filosofia del diritto costituito quali vittime ribelli ai
soprusi della tirannide, vendicatori dei torti della società, protettori della debolezza e dell'oppressione
a furia di violenze e di soverchierie, filosofi che professano per loro uso e bisogno un'amabile e
disinteressata filosofia d'azione. Il genio giovanile di Federigo Schiller intuì profondamente una di
queste figure in Carlo Moor, il protagonista de' suoi "Masnadieri".
Costui, invasato da un falso concetto del potere e dell'azione, dotato d'una sovrabbondanza di forze
superiori alle leggi costituite, doveva romperla con tutte le relazioni sociali. E quando l'autore diè
fuori il dramma scritto con l'intuito spontaneo del genio non mancarono giovini di ogni parte della
Germania e persino delle p rispettabili famiglie i quali formarono sodalizi che ad imitazione
dell'eroe del dramma intendevano di ridursi a vivere nelle foreste per erigersi giudici e condannatori
d'una società colpevole e aborrita.
Dice di stesso il Moor: - Non sono un ladrone che congiuri di notte, quando tutti dormono, o si
vanti di salire una scala a pioli; io soltanto so rendere il contraccambio; e la vendetta è la mia
professione. - E dice al bandito Schuffert, che si vanta di aver gettato nelle fiamme un bambino: - Via
di qua, scellerato! Guai all'uccisore dei bambini, delle femmine e degli invalidi! Oh! come un tale
misfatto mi avvilisce! Avvelena la più bella delle opere mie. - E del Moor può dire il bandito
Ratzmann: - E' non ammazza per amor della preda, come facciamo noi, troppo si cura del denaro,
ora che potrebbe averne in abbondanza; e quella stessa parte del bottino che spetta a lui di diritto lo
dona agli orfanelli e fa studiare giovini di buone speranze. Ma trattasi di spellare un feudatario che
tosi i villani come le pecore? o di mettere in croce qualche bruto gallonato che dia l'orpello alla legge
e abbagli la giustizia? oppure un signorotto di simil conio? ah, ti so dire io che allora nuota nel suo
elemento e s'indemonia come se avesse in ogni vena una furia.
III.
Le stesse idee e gli stessi sentimenti non sono mancati spesso nei masnadieri d'ogni tempo: ne sono
facile esempio gli ultimi due tra i più celebri dei nostri.
Domenico Tiburzi da più di vent'anni era a capo del suo regno, retto con invidiabile senno di principe,
a sfida e sgomento di uno dei vecchi regni d'Europa; e soltanto dopo più di vent'anni dovette lasciare
per sempre il potere e la fortuna, gemelle ahimè! inseparabili della gloria, ucciso, non vinto.
L'uccisero cinque carabinieri in una notte d'autunno, su l'uscio della romita casetta del capraio, dove
s'era intanato col suo discepolo favorito, quando il vento e le piogge li avevano costretti a lasciare le
grotte e le cantine di Castro, le macchie e le forre di Capalbio e le altre cupe e coperte vie che
attraversano e intrecciano i vasti domini del regno inespugnato, circoscritto tra il Lazio e la Toscana.
Davanti al fuoco di quella casetta e al fianco della capraia giovine e procace, il maestro aveva contato
le vittime del suo rigore ma non i bicchieri di vino che aveva alternato quella sera tra le bestemmie e
le sconcezze. Nel colmo della notte, mentre fuori urla il vento e scroscia la pioggia, ecco latrano i
cani; il maestro e il discepolo balzano su l'uscio con l'arme in braccio e fanno fuoco; si risponde con
la mitraglia; il discepolo fugge; il maestro, accoccolatosi per terra come un umile e comandato
tiratore, prende di mira un mucchio di ciottoli, che tra le ombre della notte gli paiono i carabinieri
appiattati, e spara spara spara contro quella breccia immortale finchè non è mortalmente colpito.
Allora, rantolando nella breve agonia, mormora: - Non mi cercate più, son Domenico Tiburzi. - In
quel cervello crivellato dalla mitraglia passa l'ultimo orgoglio della sua trista celebrità.
IV.
La storia del Tiburzi è quella di un condannato che evadendo un giorno dalla casa di pena, dove
scontava una condanna a diciotto anni di lavori forzati per omicidio, si getta alla macchia, e nella
macchia della sua terra nativa, dirupata, boscosa, impenetrabile, scorge il terreno adatto alla nuova
vita di masnadiere. Se il Tiburzi fosse nato in altra terra più brulla e meno selvatica, non sarebbe stato
il re della macchia, ma il suddito d'uno stabilimento penitenziario; non avrebbe sfidato per un quarto
di secolo l'impotenza grottesca del potere esecutivo d'Italia; non avrebbe potuto fondare il suo
mirabile regno sostenerlo con leale alleanza verso principi dal nome riverito e temuto di Ansuini,
Biagini, Ranucci, Menichetti, Pastorini, Fioravanti. Ecco la causa dell'ambiente fisico in una
delinquenza straordinaria qual'è il brigantaggio.
Forse non ne fu estranea la causa di razza. Gli stranieri credono di avere scoperto le nostre tradizioni
brigantesche nella natura venturiera dei Latini o nelle incursioni saccheggiatrici dei Brigantii, gente
antichissima della Vindelicia, di cui parla Strabone. In verità Paniano, borgo della terra di Cellere, che
si gloriò di essere la patria del Tiburzi, fu sempre rinomato per un covo di briganti. Il curato di Cellere
ne uccise freddamente uno, chiamato Veleno, che s'era fatto bendare dall'accorto prete per capriccio
di cieca fiducia. Forse non ne fu estranea la natura dell'uomo, che possedeva acume d'intelligenza,
energia di carattere, prontezza d'azione, senza di che non avrebbe conseguito e meritato l'autorità
triste e il fàscino truce per cui appariva agli occhi terrorizzati del volgo un semidio. Ma certo non ne
fu estranea quella singolare concezione di filosofia che s'è detta comune ai maestri della medesima
scuola.
Egli pensava come il Governo d'Italia riscotesse pingui tributi rendendo inetti servigi; e allora impose
per suo conto ai proprietarì compresi nel suo regno una tassa proporzionata e progressiva, quella
stessa tassa che ha formato articolo di programma politico da tanto tempo; e in cambio si obbligò a
tutelare lealmente i loro interessi contro le molestie d'ogni ladro minore e d'ogni malfattore suo
emulo. Infatti il procuratore del re di Viterbo doveva convenire pubblicamente che da quando regnava
nella sua giurisdizione il re della macchia erano scemati i delitti comuni.
Un giorno trecento mietitori raccolti nella tenuta di Montauto si eran messi minacciosamente in
sciopero; il fattore saltava sgomento a cavallo correndo verso Civitavecchia per chiamare i
carabinieri; ma per istrada s'incontra in due uomini armati che gli chiedono la ragione della sua corsa
e lo consigliano a tornare indietro ed a rimettersi a loro. Infatti i due uomini si presentano ai mietitori
che avevano incrociato le braccia e - ragazzi - fa uno dei due - io sono Tiburzi e il mio compagno è
Biagini; o voi vi mettete a mietere o noi vi tiriamo tante schioppettate quante cartucce abbiamo nelle
ventraie. - E i mietitori abbassarono le braccia e si dettero al lavoro.
V.
È certo e notevole che il Tiburzi non assal mai un viandante. Per procacciarsi i mezzi per vivere e
per mantenere parenti e alleati trattò sempre, come da potenza a potenza, con i signorotti del suo
regno, esigendo da loro la taglia come una tassa. Gli efferati delitti consumati da lui non sono che
esecuzioni capitali di spie o di traditori o di insubordinati o di neobanditi che pretendono invadere il
suo territorio. Cosicchè poteva dire col Moor: - Non sono un ladrone che congiuri di notte quando
tutti dormono; io soltanto so rendere il contraccambio; e la vendetta è la mia professione. - Il brigante
Pastorini lo insulta: ei lo sfida ad un duello della più feroce cavalleria brigantesca e lo uccide a parità
di condizioni. Il compare Becchinelli compie eccessi di audacia e di crudeltà, che compromettono il
suo regno liberale: ei l'uccide per metter fine a' suoi eccessi. Sospetta che il fattore Gabrielli, il quale
s'era mantenuto in continue relazioni con lui, gli abbia reso qualche sgradito servigio; per un tal
sospetto affronta il fattore nel latifondo del Pian di Maggio mentre è nel mezzo a ottanta falciatori, lo
chiama in disparte, gli dice: - ti ricordi del 6 agosto? - e gli scarica addosso la sua doppietta,
atterrandolo morto in presenza di tanti testimoni.
Chi ha visto il Tiburzi ne ha notato l'aspetto nobile e la fisonomia serena, sì da somigliare assai assai
al mite statista Cesare Correnti. Chi ha avuto tra mano e ha notomizzato il suo cervello lo ha
riscontrato normale. Non furono dunque anomalìe organiche le cause della sua personalità criminale
perspicua: furono occasioni di fuga, favor di ambiente, tradizioni di razza, ingegno pronto e
suggestivo, antinomia di giustizia sociale. La sua figura non appartiene all'antropologia; spetta alla
filosofia.
VI.
Tant'è di Giuseppe Musolino. La sua terra calabra, bella per i suoi due mari e per le sue immense
spalliere di monti e di colli discendenti alle spiagge e per il suolo ferace di aranci e di gelsi e di pini e
di ulivi, è attraversata da macchie boschive vastissime e rupestri. Un tale ambiente, simile a quello
battuto dal Tiburzi, è il più propizio per il malandrinaggio; anche qui è antica e profonda la tradizione
malandrina; anche nel Musolino l'occasione compie il resto.
Per uno di quegli odî che nel mezzogiorno esprimono la nobil e il destino di alcune famiglie, due
contadini di Santo Stefano in Aspromonte un giorno si lacerano di insulti e vengono alle mani. La
notte successiva uno de' due è fatto segno a un colpo di fuoco esploso da un'erta e ne incolpa l'altro
contendente: Musolino. Questi è condannato a venti anni di reclusione; ma subito dopo la condanna
dice al suo competitore che l'ha incolpato ad onta de' suoi dinieghi:
- Prega Iddio che mi manchi la vita per scontar la pena o per fuggire, perchè, se uscirò, ucciderò te e
chiunque ti sopravviva de' tuoi. È di parola. Evaso dal carcere di Santo Stefano, va subito a Gerocarne
in cerca di Vincenzo Zoccali, ma invece s'incontra col fratello Stefano e lo uccide. D'allora la sua
vendetta è inesauribile e spesso trasversa. Uccide la moglie d'un testimone, un carabiniere, un
candidato carabiniere, un guardia, un compare fedifrago; e tenta d'uccidere altre persone che avevano
in qualche modo influito nella sua condanna.
VII.
La riteneva ingiusta, ma non già dinanzi al vero assoluto, bensì rispetto al valore di alcune prove e
all'esagerazione di alcuni testimoni: concetto di giustizia assai relativo ma non meno forte men
popolare di quello assoluto. Chi ha consuetudine di osservazione con i rei sa che s'affliggono e
s'adirano contro i rivelatori gratuiti d'un fatto vero più che se fosse falso. Il difensore che ha ricevuto
la confessione della colpa, nell'udire le invettive del colpevole contro il testimone, non può fare a
meno di osservargli:
- Ma è tutto vero; me l'hai detto tu!
- Sì, ma non m'ha veduto nessuno.
Il fondo d'una tale arroganza è l'inadattamento alla sfortuna d'un fatto che a regola delle sue proprie
vicende dovrebbe andare impunito, e più ancora la suggestione della giustizia delle forme, che è
quella che crea la buona fede e la passione accalorata del difensore perorante l'innocenza d'un reo
conosciuto per tale ma non svelato dalle prove.
Posto così a se stesso il fondamento della giustizia, il Musolino crede di adempiere ad una giusta
missione lavando questa macchia delle prove artificiali col sangue. Accusato di avere ucciso un
carabiniere che compiva il suo dovere, risponde:
- Anch'io avevo un dovere da compiere.
Incolpato di aver commesso ricatti e rapine, protesta:
- Mi sarei ucciso se avessi commesso ricatti e rapine.
Interrogato se avesse mai chiesto amore alle donne incontrate nei boschi durante il suo
malandrinaggio, risponde:
- Mai; se l'avessi chiesto l'avrei ottenuto; ma sarebbe stata una violenza morale.
Tentato a scriver versi, canta dal carcere di Gerace:
E se pe sorte a lui paise tuorno,
li occhi ca ridìano ciangiranno.
E cu li modi mei e cui li me arti
Scasso li muri e spalancu li porte.
E ora che mi truvo a chiste parti,
pe mia la libertà, pe autrui la morte.
VIII.
Risoluto a svolgere questa sua opera di giustizia barbara e vendicatrice, per la quale gli occhi che
ridono muteranno espressione, la proporziona ad una misura di pena, e perciò ferisce nelle gambe
invece di uccidere coloro che giudica meno colpevoli. Costretto a difenderei, risparmia qualche
carabiniere invece di colpirlo in agguato. Eccitato ad affermare la sua personalità, grida sul serio e
con accento di commozione:
- Sono un galantuomo.
E tutta la sua personalità è fondata sulla convinzione di un'onesta e doverosa reintegrazione di
giustizia. Infatti s'atteggia a uomo di grande importanza; si paragona al conte di Montecristo; vuole
che lo giudichi l'Universo; vorrebbe anch'essere - e perchè no? - deputato; chiede di parlare al re;
saluta la folla con fare da principe dicendo: addio popolo; ricusa di scendere nella carrozza cellulare a
causa del cappello che gli s'è sciupato in viaggio; ricompensa di denaro una povera ragazza che ha
parlato bene di lui con lui stesso senza conoscerlo nel bosco di Paracopio; si smania di sapere se la
stampa s'occupa dei fatti suoi; grida qualche volta con lo stesso orgoglio del Tiburzi: - son Musolino!
E anche per la sua opera di giustizia selvaggia, ma grande e forte, scemano i piccoli delitti abituali.
Informato e agguerrito meglio che la polizia, protegge dai ladri i proprietari che alla loro volta
proteggono lui dai persecutori. Tant'è vero che i buoni discendenti dei Fenici e dei Greci pensano di
indirizzare una supplica al parlamento per l'impunità del loro buon corregionale.
IX.
Agli occhi dei fratelli della sua terra il Musolino era l'eroe vendicatore; e la vendetta a loro pareva e
pare per lunga tradizione una giusta e bella cosa, perchè antitesi e reazione all'ingiustizia. E assai più
bella, anche se meno giusta, pareva la forza e la fortuna di un uomo che solo e da un estremo lembo
d'Italia resisteva a tutta una nazione armata. In questa resistenza consentita o ben veduta dai
corregionali dell'eroe è tutta una filosofia recondita ma lucidissima che insegna la ribellione a quella
morale vittoriosa ma contestabile, che vige negli ordini civili non accettati da chi sa i sacrificî e non i
vantaggi della civiltà, come forse p dire ogni umile calabrese.
L'intelligenza agile e industre del Musolino è il complemento necessario della figura del filosofo che
ha potuto suscitare consentimenti e favori e meritare il suo posto d'onore nella scuola. Se non era la
contrarietà d'un fil di ferro che legava alcune viti in quel d'Urbino, se non era chillu filu, che doveva
diventare il motto della sua fatalità avversa, non sarebbe stato arrestato da due carabinieri che con la
loro presenza lo indussero a fuggire per farsi raggiungere. Sino allora era stato abile e geniale nel
sottrarsi alle disperate ricerche della polizia; soleva dormire nelle capanne dove otteneva ospitalità a
forza, sdraiandosi con le spalle all'uscio e il fucile tra le gambe; oppure, se gli conveniva dormire
all'aperto, si adagiava coi piedi appoggiati a un albero affinchè gli trasmettesse i più tenui rumori di
chi s'avvicinava.
Ma l'intelligenza la ragione sono la fortuna della filosofia. La sua virtù è tutta nella sua
sanzione. E però i Tiburzi, i Musolino, i varî filosofi della macchia, finchè uccidono e resistono, fan
degli adepti e degli ammiratori; uccisi o vinti non hanno più fortuna.
I SEMPLICISTI DEL SANGUE
E se 'l mondo là giù ponesse mente
al fondamento che natura pone,
seguendo lui, avrìa buona la gente.
Par. VIII.
I.
I macchiaioli fan della filosofia arrogante come qualunque filosofia, inesorabile nelle illazioni se
conseguente alle premesse; i semplicisti fanno del sentimento che giunge fino al delitto, come avviene
d'ogni sentimento che si sistema in se stesso e si scioglie interamente dalla ragione.
Se voi piantate alberi o inalzate edificon fusti o sassi vostri nel fondo di un altro, questi ha il diritto
di abbattere gli alberi e gli edifici o di ritenerli per suoi. Per lo stesso principio dominante il marito
della donna del vostro amore può secondo la legge far proprio il frutto non del suo ma del vostro
sangue o rifiutarlo a suo talento.
È un diritto di accessione anche questo, per cui la donna è una proprietà rustica e il sangue e la vita
sassi e calcinacci da costruzione. Ma la natura ha i suoi diritti e le sue ribellioni; e quando la legge
scritta si incontra a faccia a faccia con lei, l'una o l'altra deve cedere, e l'uomo che per sua somma
sventura si trova nel mezzo non è più arbitro tra loro, ma vittima di questa o di quella.
Da una tale tenaglia si sentiva stretto un giovine poco più che ventenne, Dante Sodini, che il frutto di
furtivi amori aveva reso padre. Ma la donna non era sua. Un altro uomo, che pure non l'aveva
comprata sui mercati della Marilandia o del Zanzibar, che non l'aveva formata del suo sangue ne
allevata con le sue cure, che soltanto l'aveva voluta consorte di una socie domestica ormai fallita,
aveva il diritto di gridare e infatti gridava in faccia al nuovo possessore: - questa donna è mia, e il
frutto del suo seno, benchè non fecondato da me, è mio.
Il marito aveva da tempo trasferito i suoi lari altrove; la moglie doveva seguirlo nella nuova dimora
insieme alla bellissima Bianca, nata da otto mesi. Alla vigilia di questo avvenimento il padre naturale,
ottenuta con sè la bambinetta, la conduce alle Rampe di San Niccolò, su per uno di quei limpidissimi
colli che fecero dire beata Firenze all'estro contento del poeta. E quando è in luogo nascosto tra le
piante più alte, si siede in terra, si adagia sulle ginocchia l'innocente, la circonfonde di carezze, e
come se voglia in quell'attitudine quasi materna porgerle le cure d'una nutrice, si toglie di seno e le fa
balenare sugli occhi dilatati un ordigno luccicante.
Bianca sorride a quella vista, come davanti al più seducente trastullo della sua coscienza infantile; ma
da quell'ordigno erompe una vampa tonante, che tinge di fumo e di sangue le gote candide e vellutate.
Chi aveva così vituperato la più pura e mite grazia della terra, si ficca subito la canna ancor calda
nella bocca e ne scarica un nuovo colpo. Ei vive; Bianca si attorciglia. Un altro colpo la rende ferma e
intirizzita. Non rimane che l'ultimo colpo di cui l'arma è capace: il superstite se lo scarica dentro un
orecchio. Ma nemmeno questo colpo è mortale; e l'autore della lugubre tragedia è veduto in piedi
versar sangue dalle ferite e brancolare tra le piante insanguinate in cerca di un precipizio dove possa
trovar morte sicura. Ma è arrestato, guarito, giudicato.
II.
Salomone giudice lo avrebbe condannato. - Tu non potevi essere certo della tua paternità - gli avrebbe
detto - anzi, se hai distrutto la creatura di un uomo, non sei tu quello che l'ha generata. Così infatti il
sapiente aveva giudicato dinanzi alle due donne che si disputavano la maternità di un neonato. Aveva
minacciato di tagliarlo in due pezzi per darne uno a ciascuna, e, avendogli una delle donne trattenuta
la mano, aveva detto: - date huic infantem, haec enim est mater ejus.
Ma i giurati, che non possedevano la sapienza del figliol di David, furono propizî all'accusato e lo
assolsero.
Una verità sola commosse i giudici popolari: la passione disperata dell'uomo che si sentiva padre,
suggellata dall'attentato alla propria vita, indizio non sempre dubitabile del disinteresse del
delinquente rispetto ai vantaggi più bassi e comuni del delitto. In una delle quattro lettere lasciate in
casa la mattina del delitto scriveva alla sorella, raccomandandole la madre: - Voglile bene, perc
niente è uguale all'amore dei genitori pei figli. - E alla madre: - Lontano dalla mia bambina io non
potrei stare; e tu te lo figurerai, che m'hai voluto tanto bene. - E a un amico: - L'ora dello sconforto è
venuta; io mi tolgo la vita, porto con me il mio angiolino che amo tanto; uno strazio atroce mi dilania
l'anima, mi sarebbe impossibile vivere.
Ora a queste due verità, passione e suicidio, più o meno nobili e più o meno veementi, non fu mai
serbata, a torto o a ragione, l'impunità. Lo stesso attentato alla propria vita può non essere sempre il
segno d'una degradazione della responsabilità. Infatti non è raro il suicidio che succede all'omicidio, e
spesso non fa che rivelare l'istinto dell'omicida, che, non soddisfatto del sangue della vittima, tende a
consumare una violenza sanguinosa contro se stesso, quasi sia tratto da una forza che per consumarsi
ha bisogno di una successiva espansione, e, una volta mossa, non si contiene più. Cosicchè il suicidio
talvolta non è se non una violenza che vale di complemento ad un'altra.
Ma i giurati non assolsero Dante Sodini per un calcolo giuridico e psicologico, ma bensì per un
principio sociale: il principio che quando un uomo è in aperto e inconciliabile contrasto tra la legge
ingiusta e la natura tiranna non è più responsabile delle sue azioni rivolte a ribellarsi o all'una o
all'altra oppure a tutt'e due.
Giudicarono al disopra della legge, anzi ne condannarono l'errore e ne additarono la correzione; e in
ciò si ripone talvolta il principale segreto del giudizio popolare.
III.
Resultato diverso doveva sortire varî anni prima il caso di Achille Agnoletti, che pure si svolgeva
intorno a un tema assai simile.
Una sera entra in un'osteria, fuori di Porta Nuova, a Milano, un uomo dagli abiti signorili scomposti e
bagnati, il quale dice di esser poco prima caduto nel Naviglio e chiede lo si lasci asciugare. Gli sono
apprestate pietose cure e gli è anche offerto un letto per quella notte; ma lo sconosciuto lo ricusa e
poco dopo esce. Nelle ore passate nell'osteria quell'uomo par pochissimo, si mostrò timido e
tremante, e, quando gli fu domandato se nell'acqua fosse caduto in piedi giacchè non aveva bagnati i
capelli, fece soltanto un segno affermativo, e non diede altra notizia di sè.
La mattina seguente gli operai della zecca scorsero nella Roggia Balossa il cadavere di un biondo e
ricciuto bambino, che fu poi riconosciuto per Carlo Agnoletti, di tre anni, figliuolo dei coniugi Achille
Agnoletti e Teresa De Capitani. Il cadavere non presentava segni di violenza e ai necroscopi rivelava
unica causa della morte l'annegamento.
Intanto che accadeva il fatto dell'osteria di Porta Nuova, la signora Teresa De Capitani riceveva per
mano di un fattorino di piazza questa lettera:
- Teresa. La lotta è stata tremenda, crudele, ma la prepotenza del dolore ed il tracollo che tu stessa
m'hai dato coll'ultimo nostro colloquio, mi ha deciso a lasciarti la libertà a cui tanto agognavi. Non è
egoismo; ma per un giusto principio filosofico il nostro bambino divide la mia sorte! Perchè cosa
sarebbe di lui un giorno, influenzato dai tuoi sentimenti che son così contrarî ai miei? Uomo senza
cuore è uomo perduto! e tu ne sei la prova più evidente. Vorrei pur dilungarmi.... ma un senso
d'affetto e di disprezzo mi rende superiore alla mia volontà. Ti accludo la chiave del comò della
camera in cui abitavo, n. 17. Nel cassetto superiore, oltre vari oggetti che vi ho riposto, trovasi parte
del denaro, col quale credevi liberarti della mia persona. Possa la tua vita avvenire sorriderti! Ma lo
temo assai! - Achille.
L'autore di questo scritto era l'uomo dagli abiti bagnati e dai capelli asciutti, comparso nell'osteria di
Porta Nuova: la truce fine di Carlo Agnoletti era dunque dovuta a lui. Ma aveva pur tentato di
mantenere la promessa in quanto a se stesso? Se ne dubitò per qualche giorno, nonostante la sua
strana comparsa nell'osteria; ma il 18 di quel mese un agente di polizia visitava nel porto di Genova
un piroscafo in partenza per l'America e adocchiava un passeggiero avvolto fino agli occhi nel suo
mantello e per varie apparenze assai sospetto: invitatolo a seguirlo lo riconosceva per Achille
Agnoletti, nonostante ch'ei s'ostinasse a chiamarsi Alberto Armaelli.
Dunque il bagno fino al collo nella Roggia Balossa seguito dal tentativo di fuga poteva indicare o un
pentimento o una mistificazione. La storia dell'uomo accreditava questa indicazione piuttosto che
quella.
IV.
La signora De Capitani, patrizia milanese, aveva dato al ferrarese Agnoletti la mano di sposa e la dote
di centomila lire. Il marito si era obbligato ad assicurare la dote sopra un suo forte credito antico; ma
poi, non solo aveva mancato a questa obbligazione, ma tra infiniti dispendi celati alla moglie aveva
dato fondo ad ogni ricchezza e calando la maschera si era rivelato nel vero suo essere di uomo
egoista, violento, malcreato. Ed è notevole che nelle continue scene di famiglia aveva proferito assai
spesso la minaccia di suicidio e specialmente quella di gettarsi nel mare legandosi un sasso al collo
affinchè il suo corpo non fosse rinvenuto e la moglie non potesse passare a nuove nozze.
Del resto i cinque anni di matrimonio furono una serie di dissidi e di concordati, di lotte e di
pacificazioni, finchè non avvenne la separazione, la quale permise all'Agnoletti di aver seco, di
quando in quando, come nell'ultimo giorno, il figliolo comune.
V.
Dal processo di parricidio lampeggiò qualche guizzo di anomalia mentale, che la difesa si studiò di
trattare come pazzia; ma l'Agnoletti non era pazzo. Non era neppure Radamisto che trucida la moglie
idolatra per sottrarla alla signoria del nemico; non era neppure Virginio che svena la figliola intatta
perchè non sia contaminata dal tiranno; ma era Medea che sacrifica i figlioli al bisogno di una
vendetta efferata. Vendetta malvagia e raffinata: ecco il "giusto principio filosofico" che l'Agnoletti
scriveva averlo mosso a strappare l'unico figliolo alla madre da lui odiata. L'Agnoletti era un
delinquente nato, che rivelava tutti i segni di una tale natura. E poicil delinquente nato non riceve
un particolare trattamento dalla nostra legge scritta, i giurati condannarono l'accusato a vita,
facendogli grazia del capo con la concessione delle attenuanti in suo favore.
Nel parricida di Milano la colpa era tutta della sua natura, non della società, che gli aveva anzi
prodigato gli agi e i privilegi di un'immeritata fortuna; e i giurati che per l'ufficio e l'indole loro non
fanno dell'antropologia ma della sociologia, applicandola in forma di protesta e di voto contro certe
imperfezioni legali e sociali, i giurati non poterono scorgere altra giustizia verso il parricida milanese
se non quella di una severa condanna.
Invece nell'omicida fiorentino la colpa era tutta della società, conservatrice inescusabile di una legge
ingiusta e ipocrita, la quale sacrifica i figlioli sempre innocenti dell'adulterio ad una bigotta e mentita
idolatria verso un mito d'ordine morale che si rivela alla prova tanto irrisorio e mendace, quanto
all'idea è ingenuo e sublime, l'indissolubilità del vincolo nuziale, e che si risolve nel frequente
dilemma dell'uxoricidio o del lenocinio, del parricidio o del bastardume, del suicidio o della
prostituzione. E però Dante Sodini, vittima ribelle, che pure uccise una creatura umana, fu assolto.
La verità della natura ebbe ragione della finzione della legge.
I TRAGICI
Vieni a veder la gente quanto s'ama!
Purg. VI.
I.
Era la pasqua ed erano tre anni che Ranieri Parentini aveva sposato Marianna Feretri, assai giovane e
avvenente, non altrettanto fida e assennata.
Il Parentini era guardia del Comune di Firenze; e la sua vita di strada gli faceva desiderare più che a
chiunque la gioia discreta e le cure tranquille della casa. Ma la sua donna non gli fu mai capace di
questo segreto indefinibile e gli apprestò in cambio inquietudini e crucci e sospetti.
Anche lei faceva la sospettosa; e col pretesto di una tresca immaginaria del marito carpì dal capo delle
guardie la disposizione che il Parentini fosse adoperato e immobilizzato nel servizio di piantone sul
crocicchio del Ponte Vecchio.
Anche in quel giorno di pasqua Ranieri Parentini era di piantone, quando un giovine, che forse lo
vide, passò il ponte e si inoltrò nel centro della città. Erano le tre e il Parentini aveva lasciato di poco
la casa, dove aveva festeggiato la pasqua con un desco imbandito un po' meglio del solito e con la
presenza della suocera, che d'ordinario non era da lui vista di buon occhio, come la mala consigliera e
la dispettosa tutrice di tutti i torti della figliola. Non si seppe perchè, ma la guardia disertò a un tratto
il suo posto e fece inaspettato ritorno a casa.
Aprì con la sua chiave la porta, dette del capo nel salotto e nella cucina: non vi trovò nessuno. S'avviò
alla stanza da letto e vide su l'uscio socchiuso la moglie discinta, mentre l'aveva lasciata vestita. Non
fece che spingere violentemente l'uscio per scoprire due segni d'orrore a prima vista: il letto coniugale
tutto scomposto e una confusa figura di uomo rotolare giù da un lato mentre diceva queste parole:
ascolti ascolti.
Che avrebbe dovuto ascoltare il Parentini? e che avrebbe potuto dirgli quell'uomo? Il Parentini non lo
ascoltò; non lo toccò neppure. Dato di piglio alla daga di cui era armato, ne asses un fendente sul
capo della moglie disposta a fuggire, poi gettò subito quest'arma, impugnò la rivoltella che
completava la sua divisa soldatesca e sparò due colpi alla mira di colui che non aveva voluto neppure
avvicinare alla distanza della sua daga; tanto gli faceva ribrezzo! L'uomo fece un ultimo giro della sua
persona sul pavimento e rimase supino con gli occhi socchiusi, le braccia aperte, la bocca spalancata.
Morto.
La donna benchè versasse sangue a fiotti dall'ampia ferita alla testa, ebbe tempo di fogarsi su per le
scale comuni chiedendo soccorso. Al primo piano nessuno rispose, al secondo neppure; al terzo si aprì
la porta prima che la donna bussasse; ma tardi. II marito, che si era fatto giudice di una turpe azione in
suo danno, aveva già pensato come avesse commesso una grande parzialità: ghiacciare un uomo
attratto dalla civetteria più che dalla passione di quella donna, un uomo a lui sconosciuto, che non gli
aveva protestato fedeltà nè simulato amicizia, e lasciar fuggire, vivere, godere ancora, la donna che gli
s'era resa spergiura. Allora era corso su per le scale, dietro le tracce del sangue, con la rivoltella in
pugno, e, raggiunta la moglie, le faceva fuoco alle spalle.
Poi, nel discendere quelle scale, pen ancora: - E la suocera? Quella cara suocera che ha sempre
favorito i torti e i sotterfugi della figliola, quell'ineffabile suocera che or ora ho lasciata in casa a
custodia di lei, dov'è? Non è già la sua assenza la sua colpa? - Raccolta la daga e riposta la rivoltella,
si diede alla ricerca di quella triste vecchia che aveva sempre odiata. Attraversata la via, suonò il
campanello d'una casa dove costei prestava qualche servizio domestico, la vide affacciarsi a una
finestra delle scale, la invi a scendere sulla porta. Avutala davanti, le fece fuoco addosso con due
colpi, che fortunatamente per lei non furono mortali.
Al contrario la giovane Marianna moriva pochi giorni dopo, proferendo l'ultima menzogna in odio del
marito col sostenere ch'ei l'aveva colpita a morte mentre lo rimproverava della sua tresca con una
donna maritata: quasi che il suo compagno infelice non l'avesse già preceduta nella via della verie
dell'espiazione!
II.
Durava ancora l'impressione profonda del fatto; non ancora le donne infedeli avevano ripreso le
consuetudini antiche e i venturieri d'amore le imprese più audaci; si aspettava tuttora l'epilogo
giudiziario della triplice strage, quando, pochi giorni dopo, si divulgava per Firenze la nova che un
altro marito geloso aveva sfogato nel sangue la sua gelosia.
Benedetto Cagnacci e Teresa Haubrick si erano incontrati in una casa patrizia fiorentina, cuoco l'uno,
l'altra istitutrice. Il romanzo non tardò a intrecciarsi fra questi due termini estremi della società
domestica, e presto fu necessario il matrimonio per legittimare una condizione inoccultabile, essendo
Teresa diventata madre nelle braccia di Benedetto.
Brevi furono gli anni lieti, che la moglie si rese apertamente infedele, tanto che il marito, per sottrarla
al contatto della nostra razza a lei tanto piacente, com'ei diceva, la inviò presso i suoi genitori in
Baviera insieme al piccolo Bruno di cinque mesi, terzo frutto dell'infelicissima unione. Ma anche
questo espediente, che era per il Cagnacci la più penosa privazione, non gli riusciva efficace e
confutava la sua psicologia della razza piacente. Infatti il suocero doveva confessargli con teutonica
durezza la mala condotta di Teresa in Germania, la corrispondenza ch'ella teneva con un Fiorentino e
la probabile origine adulterina di Bruno. Tutto questo gli scriveva in lingua tedesca; ma un interprete
distratto glielo traduceva così: - La prego di darmi ancora uno schiarimento; se lei sa dell'altro, e se
per caso lei non è nemmeno il padre del piccolo Bruno, giacchè l'altro scrive: guarda bene alla nostra
carissima gioia, al nostro piccolo Bruno!
Allora il Cagnacci non è più di se stesso ma della passione travolgente che tutto lo rapisce. Teme che
la donna tanto desiderata da lui, se già fu di qualcuno, oggi diventi di tutti; e così si accende sempre
più di collera e di desiderio e prega il suocero di far sapere alla Teresa, dovunque si trovi, ch'ei le
perdona e l'aspetta a Firenze presso di sè.
E così è. Ma la tolleranza nuova è breve e si svolge in una serie continua di giusti sospetti e di
contestazioni, di fughe e di ritorni, di tormenti e di minacce. Una sera, dopo un alterco violento tra i
coniugi e mentre Teresa sale il letto, il marito le getta una corda al collo e tenta di strangolarla: non vi
riesce. Allora di piglio a un coltellaccio, la colpisce furiosamente due volte, la scanna. Afferra
Bruno che dorme dolcemente nella sua culla, gli gira intorno al collo un'altra corda sottile, e la stringe
forte, la lascia annodata alla gola, e getta il corpicino strangolato sul cadavere della madre: poi con
mano ferma scrive sopra una striscia di carta: "chi mal vive mal muore". Quindi si arma di una
rivoltella e corre per la città in cerca dell'ultimo amante di Teresa: lo rintraccia per via e gli spara
contro tre colpi, ferendolo gravemente. Arrestato, narra freddamente la triplice strage.
III.
Era trascorso poco tempo e si ripercotevano ancora gli echi del processo che riepilogava la nuova
tragedia domestica, quando la furia di un altro marito geloso commoveva Firenze, la stessa città del
Cagnacci e del Parentini. I conquistatori di donne d'altri ne furono sgomenti e si notò che il
commercio dell'amore a prezzo fisso aveva avuto un notevole rialzo. Si imprecò alla mala arte dei
difensori, e s'ebbe torto; si gridò alla perniciosa influenza di condanne troppo miti, e s'ebbe più torto
che mai.
Enrico Nesi, giovine e infaticabile venturiero di piazza, aveva ragione di sospettare che, quando
lasciava di buon mattino la moglie nel letto comune, un calzolaio suo amico prendeva il suo posto.
Avver l'amico di questo sospetto e gli disse: - Se vi ci prendo, a te pago da bere, a lei do tutte
coltellate. - Evidentemente il Nesi non possedeva il senso di imparzialità del Parentini e del Cagnacci.
E fu di parola. Una mattina va all'usato lavoro alle quattro. La moglie appende una calza alla finestra
di Via Toscànella; poco dopo l'amante è nelle sue braccia. Alle sette dormivano e sognavano
entrambi, quando a ripetuti colpi forsennati nella porta si riscotono, indovinano che sono in pericolo
di vita.
Il calzolaio, copertosi alla peggio, si getta da una finestra assai bassa, ed è salvo. La donna invece
crede di poter simulare indifferenza al marito e va ad aprirgli tutta assonnata in apparenza per
giustificare il suo indugio. Ma il marito che aveva veduto fuggire per la finestra l'amico, caccia la
mano in tasca, ne cava un coltello e lo ficca trenta volte nelle carni della moglie. Poi corre a
consegnarsi, confessando il delitto e mostrando il coltello a cui erano avviluppati col sangue lunghi
capelli.
Due comari accorrono a vedere la misera donna seduta sul pavimento in mezzo a una gran pozza di
sangue, e accennante con le mani al soccorso, e intanto che si ritraggono inorridite l'infelice richina la
testa sul petto, poi la getta all'indietro, quindi cade riversa.
Sopra il suo corpo fatto cadavere furono riscontrate trenta ferite: due nella gola, cinque nel lato destro
del petto, dodici nel sinistro, cinque nella parte posteriore, tre nel braccio sinistro, due nel destro, una
nella cervice, le quali attestavano l'impeto e la rabbia onde aveva agito la gelosia nello scoppio
subitaneo della sua espansione.
Il calzolaio non bevve al bicchiere dell'amico, ma nemmeno subì il tradimento della sua parola.
IV.
Ho còlto questi tre casi tra i tanti del libro della mia memoria perchè il succedersi di questi in un solo
anno e nella medesima città è indizio d'una relazione e d'un'influenza tra loro. E la relazione e
l'influenza consistono nella forza morale dell'esempio, che induce ad agire dentro la sfera delle stesse
circostanze in cui altri ha agito; consistono nell'attraenza del fatto compiuto sulla disposizione a
compiere un fatto uguale; consistono nel contagio dell'idea morbosa quale si scorge ne' suicidi, che
avvengono quasi sempre a serie di due, di tre, di quattro per volta. Ma l'indulgenza dei giudici, ma
l'arte dei difensori, ma l'incoraggiamento delle miti sentenze sono una supposizione fatua e arbitraria.
Prima di tutto il Parentini, il Cagnacci, il Nesi furono tutti condannati, benc a non gravi pene. In
quell'anno imperava una norma di giurisprudenza, ritornata presto nel nulla, che inibiva a quel modo
che nei tre casi raccolti inibì, di sottoporre ai giurati il quesito dell'assoluzione sul fondamento
dell'infermità derivante dall'accesso della passione.
Ma poi il Cagnacci scanla moglie e strangolò il figliolo quando il Parentini non era stato ancora
giudicato e il Nesi me le sue trenta coltellate dopo che il Cagnacci aveva riportato sul capo la
maggior condanna.
Dunque non l'incoraggiamento delle pene miti ma il contagio dell'idea morbosa, ma il funesto
esempio di chi delinque in circostanze uguali è la causa e la spiegazione del triplicarsi di un identico
delitto in uno stesso anno e nella stessa città. Il fenomeno è confermato dall'analogia dei suicidi. Or
non è molto, una guardia comunale di Napoli accorreva al rumore di un'esplosione avvenuta nella via
pubblica e scorgeva in terra un uomo che s'era esploso un colpo di rivoltella al cuore. Lo raccoglieva
cadavere e lo trasportava all'ospedale. Il giorno dipoi tornava sul luogo del suicidio e si esplodeva un
colpo di rivoltella al cuore. La sereni del cadavere raccolto il giorno innanzi, il compianto udito
dalla bocca di coloro che l'avevano veduto, la fama laudata dell'uomo che pure al buon nome aveva
preferito la morte, furono necessariamente le cause occasionali del secondo suicidio avvenuto per
influenza del primo.
Di tali influenze non è miseria nell'argomento dell'omicidio. Vo' dirne un solo esempio, che ha ancora
una stretta relazione con i tre esposti. Un armaiolo fiorentino, di nome Natale(11), si trovava nella sua
bottega di armaiolo con la moglie Adele e contestava a lei alcune ragioni di sospetto sulla sua fedeltà.
A un tratto Natale non trovò più argomenti da rinfacciare alla moglie, tranne quello di impugnare una
pistola ed esplodere a bruciapelo un colpo, il quale le bruciò le vesti ma la lasciò illesa. Ebbene, la
bottega dell'armaiolo geloso era nella stessa casa dove avvenne la strage di una moglie e del suo
amante per opera del Parentini. E le parole proferite prima dell'esplosione erano state queste: -
Ricordati che qui ci lasciò la pelle una donna come te!
Quanto contagio in uno stesso ordine di disposizioni al delitto!
V.
Ma il contagio era la causa occasionale; la causa primigenia tutt'altra. Era il bisogno di spezzare col
ferro o col fuoco un vincolo che altrimenti non può essere sciolto. È vero che la forza impulsiva di
questi delitti matrimoniali è la gelosia, inseparabile compagna d'ogni unione d'amore; ma è anche
vero che la gelosia tanto più scoppia e divampa quanto più è contenuta e costretta. Il marito ingannato
avrà un compenso e un conforto nella sua onta e nel suo dolore, se potrà almeno recuperare la sua
libertà e impedire alla compagna infedele di andare trascinando nel fango il suo onore. E le statistiche
insegnano che gli uxoricidi son meno numerosi nei paesi dove le nozze son rese dissolubili col mezzo
del divorzio, un male necessario per rimedio di mali peggiori.
La sola separazione dei coniugi non spezza ma allunga la catena d'un pesante imeneo; e la catena
affatica così il colpevole come l'innocente; se non che l'uomo n'è soltanto legato, laddove la donna ne
sopporta tutto il peso e ne sente ad ogni suo più naturale movimento lo spaventoso stridore.
Dal dì che nozze, tribunali ed are
diero alle umane belve esser pietose,
da quel l'uomo è tornato belva assai più truce tutte le volte che si è sentito infrenato ne' suoi
risentimenti naturali e ne' suoi bisogni istintivi. E non è da far colpa di questi delitti alle unioni mal
combinate, nelle quali si preferisce il fasto e il tornaconto alla simpatia e alla salute e si sostituisce il
calcolo della convenienza all'estro dell'elezione, perchè i matrimoni ben combinati offrono spesso
impensate e dolorose sorprese, che gettano nel nulla la più cauta coscienza degli informatori e nello
sgomento e nell'angoscia la più prudente canizie dei padri.
Se l'uxoricidio ha una remora, questa è il divorzio. Chiunque professi principî fecondati dalla libera e
serena osservazione, non dal pregiudizio e dal partito preso, è costretto a riconoscere questa chiara e
limpida verità. Se la Chiesa cattolica può aver ragione di non consentire che si sciolga un vincolo
contratto col suggello del sacramento, circoscriva la sua opposizione al divorzio per le unioni
religiose e lo concordi per quelle unicamente civili. Oltre tutto, queste son da lei considerate come
concubinaggi peccaminosi; e allora perchè ostinarsi a voler mantenuti dei vincoli che sono peccati? In
questi limiti sarebbe possibile una legge che riconoscesse l'indissolubilità delle nozze contratte anche
in faccia alla Chiesa e sancisse lo scioglimento di quelle unicamente civili e in pochi casi,
estremamente imperiosi. Sarebbe un riconoscimento dei diritti della religione dello Stato quando
interviene negli atti civili; e il fondamento della maggiore opposizione tra noi sarebbe vinto e insieme
rispettato. Tutto ciò, mi piace ripeterlo, nell'estrema limitazione dei casi, quale ad esempio la
condanna perpetua del marito.
VI.
Quando all'assise delle Alpi Marittime a Nizza si svolgeva nel 1892 l'accusa di omicidio contro il
signor Deacon, che aveva ucciso il signore Abeille, amante della moglie, un foglio francese, l'Echo de
Paris, pubblicava l'opinione sfavorevole all'accusato di Alessandro Dumas giuniore. L'opinione era
destinata al più grande rumore, come quella che apparteneva a chi aveva gridato un tempo con tanta
audacia - uccidila - al marito che coglieva la moglie in adulterio. - Tue-la - è infatti la conclusione
dell'Homme-Femme del vecchio romanziere. Ora le ragioni della nuova opinione sono non già una
tarda sconfessione di quel grido ma la più ragionevole e preziosa riaffermazione.
- La cosa più importante di questo processo - scriveva il Dumas - è di sapere se il presidente e
l'avvocato generale si decideranno a riconoscere e invocare quella legge del divorzio il cui principale
fine è stato di sopprimere l'uxoricidio e di assimilare l'uxoricida a tutti gli altri delinquenti ordinari,
che agiscono sotto l'impeto dell'ira, della vendetta e della riflessione. Io che ho detto tue-la, che passo
per aver predicato la dottrina dell'assassinio coniugale e che mi avvicino all'ora in cui dovlasciare
questo mondo, non vorrei andarmene carico di soverchia riprovazione; e però supplico il presidente
dell'assise di Nizza di voler ricordare al prevenuto, con tutta la delicatezza e la benevolenza dovute
agli assassini, che da dodici anni è in Francia una legge la quale ristabilisce il divorzio, e che non sono
più io che dirigo e spingo la mano del marito disgraziato, e che il delitto ch'egli ha commesso è senza
scusa legale. Non tengo alla condanna del signor Deacon, se proprio i giurati hanno fatto voto di non
condannare nessuno; ma, pel principio, perc la legge del divorzio produca tutti i suoi effetti, si
potrebbe condannarlo invocando un'altra legge nuova, la legge Bérenger, e non fargli subire la pena se
non in caso di recidiva, la qual cosa equivarrebbe alla tradizionale assoluzione. Infatti gli annali
giudiziarì non fanno menzione fino ad oggi di un marito che abbia ucciso un secondo amante della
moglie dopo avere ucciso il primo, anche nel caso che ella ne abbia parecchi. E allora i mariti, ai quali
l'avvenire riserba disgrazie simili, saranno avvertiti ufficialmente che essi hanno soltanto il diritto di
ripudiare, e, se verseranno il sangue del prossimo, saranno assimilati agli assassini ordinari. Ed io col
mio tue-la potrò presentarmi innanzi al presidente delle assise eterne con le mani ancora più terse di
quelle di Pilato.
Il presidente dell'assise di Nizza, con tutta la delicatezza e la benevolenza dovute agli assassini,
contentò di gran cuore il Dumas e citò il suo parere, il quale, anche se non piaceva al signor Deacon,
era lo svolgimento lento e razionale di un'antitesi sicura.
Se Alessandro Dumas vivesse oggi in Italia, dove non vige una legge del divorzio, e parlasse ai mariti
italiani, dovrebbe gridare ancora una volta e sinistramente: - tue-la!
GLI ASCETI
Ciascun confusamente un bene apprende"
nel qual si queti l'animo...
Purg. XVII.
I.
A che non attribuirebbe l'uomo i suoi malefizî piuttosto che alla sua colpa? Se non attribuisce alla
divinità le sue virtù e le sue fortune, le addossa volentieri i suoi vizi e i suoi delitti. E pe Giordano
Bruno disse il cielo popolato di "larve, statue, figure, immagini, ritratti, processi ed istorie di nostre
avarizie, libidini, furti, sdegni, dispetti ed onte"(12).
Una gran parte degli antichi sacrifizî non si fonda su altra ragione se non quella di propiziare gli dèi
col sangue. I profeti ebrei e gli autori greci raccontano con orrore gli olocausti umani inalzati alle
divinità Fenicie e Cartaginesi; eppure la povera figliola di Jephte va piangendo invano sui monti la
sua verginità sacrificata. Le Saturni Hostiae son esempio di tali sacrilegi presso i Romani, anche se
Plinio non ci avesse fatto sapere che nei primi tempi della repubblica hominum occidere
religiosissimum erat. La sanguinaria usanza, non interrotta mai attraverso la storia dei Peruviani, dei
Tartari, degli Indiani, dei Messicani, si riepiloga tristamente in un fatto di data gloriosa e iniziatrice
dell'êra moderna, quando nell'invadere il nuovo mondo gli Spagnoli fanno voto pio di sacrificare ogni
giorno in onore dei dodici Apostoli dodici Americani.
E quando la superstizione trapassa dal sangue nel pudore, ci rivela la prostituzione religiosa delle
Kadesse, il libertinaggio mistico delle Tesmofere, l'eucarestia oscena dei Manichei, le messe nere dei
Demoniaci, l'impudicizia rituale degli Alentini, presso i quali la nudità è il costume sacerdotale.
Nei riti del cristianesimo non è traccia di tali innesti sacrileghi della fede col malefizio. Agli olocausti
umani si sostituiscono quelli di piante e di animali; ma già nel Vecchio Testamento il sacrifizio di
Isacco rimane sospeso per volere di Dio. Ciò non toglie che la più crassa ignoranza di delinquenti
cristiani faccia mescolare la superstizione col delitto.
La banda Manzi era carica di amuleti, quella Caruso collocava nei boschi e nelle grotte immagini
sacre. Don Vincent di Aragona aveva cura di dare l'assoluzione allo studente che si era prefisso di
assassinare. A Tréguier in Bretagna è tuttora una cappella dove si va a invocare dalla Madonna de
l'Haine la morte del fratello odiato. I Camorristi napoletani della Sucietà dell'Omertà venerano per
proprio protettore san Vincenzo O munacone e sant'Anna vecchia putente; i ladri siciliani si
raccomandano a santo Dino e i Mafiosi a san Giovanni Decollato; i Nuraghes sardi(13) portano
offerte alla chiesa per propiziarsi dalla divinità la buona ventura d'una sanguinosa aggressione.
E ciò non toglie neppure che un'asceta fiorentina possa nella sua ossessione credersi ispirata ad un
efferato uxoricidio da ciò che la forma cristiana offre di più commovente e di più puro alla fede:
l'innocenza d'una vergine e l'amore d'una madre.
II.
Nelle prime ore del mattino l'asceta si presentava alla questura. Era lacera e macilenta e teneva per
mano un bambino, un altro più piccolo portava in braccio, altri due maggiori si stringeva alla sottana.
Incontratasi in una guardia, diceva:
- Ho ammazzato mio marito e questi erano i nostri figlioli.
Consegnarsi alla polizia e farsi arrestare, qual era il proponimento di quella donna, non è l'impresa più
facile e spedita. La guardia consigl la donna a trattenersi sulla porta intanto che sarebbe andato a
svegliare il brigadiere; venuto il brigadiere, disse che bisognava chiamare il maresciallo; sopraggiunto
tra il sonno e la rabbia, il maresciallo osservò che era affare del delegato. E così trascorse tanto tempo
quanto sarebbe bastato alla donna di pentirsi, non dico di avere ucciso il marito, ma di essere andata a
raccontarlo alla polizia.
- Ah, avete il coraggio di venire anche a quest'ora! - gridò il delegato quando si vide davanti la donna.
- Avete preso a venire anche prima di giorno a piangere delle solite carezze del marito. Andate! Non
posso farvi nulla.
- Mi ha sempre detto così.
- Ebbene, andate! - Uno sbadiglio sgarbato interruppe una più sgarbata ingiunzione sulla bocca
dilatata di quell'uomo, tenuto per dovere del suo ufficio a vegliare quella notte. Poi riprese
masticando: - L'ho sposato io, il vostro marito? Voi ve lo siete preso e voi fatene quel che volete.
- L'ho ammazzato.
A queste parole il funzionario notturno si stirò per largo e per lungo, contrasse più volte la fronte
come per dislogare la piccola massa del cervello intorpidito, si stropicc gli occhi, li spalancò e
scòrse che la donna aveva bagnate di sangue le vesti, e si persuase che questa volta era venuta "per
qualche cosa da verbale". E infatti si accinse a compilare un lungo e prolisso verbale, dove
concludeva che Augusta Gazzeri, da Firenze, di ventotto anni, maritata al calzolaio Alessandro, suo
cugino dallo stesso casato, aveva nella notte scorsa ucciso il marito, configgendoli tutta una coltella
nel collo mentre dormiva nel letto nuziale. Quindi, tolta con sè una scorta di guardie, si indirizalla
via Pellicceria, al luogo del delitto.
III.
La casa di numero 14 oggi è demolita. Sotto i colpi del martello che l'ha distrutta insieme a tante altre
della stessa via sono caduti i mattoni più marci e i calcinacci più fetidi e sono insieme fuggite le talpe
più grasse e gli insetti più vigorosi. Quando la famiglia Gazzeri abitava due stanze del sesto piano di
quella casa, le talpe e gli insetti erano i testimo ma non i compagni d'una miseria e d'una
disperazione estrema. Cinque persone dormivano in uno stesso letto in confusa promiscuità di teste, di
braccia, di piedi; il solo Alessandro, disteso nel suo gran sonno di ubriaco, occupava un altro letto per
sè. Ma che dico letti! mucchi di cenci e di fieno, anzi canili addirittura. E questa era la suppellettile
della stanza migliore. Nell'altra più piccola si confondevano insieme la cucina, la latrina, la calzoleria
e nelle ore di maggior disposizione al lavoro anche la fabbrica di monete false dello stampo di mezza
lira.
Il Gazzeri o non lavorava o riserbava a sè solo il guadagno del suo meschino lavoro di ciabattino e di
falsario. Ai quattro figlioli e qualche giorno anche a se stessa provvedeva la povera Augusta, che per
lo più accattava pochi brincelli di pane, e, presi seco i figlioli, andava a sedersi presso la celebre Fonte
del Cinghiale, modellata dal Tacca, e divideva lo scarso e insipido desco annaffiato di sottoterra.
Invece il marito divagava la fame e smaltiva l'ubriachezza con le più turpi violenze sopra la moglie.
Quando poi era di buon umore, perchè gli era riuscita felicemente la coniatura d'una mezza lira, allora
torturava la povera donna perchè la spendesse oppure la martoriava crudelmente se non riusciva a
spenderla. Donde le scene più lugubri di pianto e di sangue, di disperazione e di ferocia, di pietà e di
barbarie.
E tutto ciò accadeva nel cuor di Firenze. Chi avesse osservato una sola di quelle scene selvagge
avrebbe imparato come le città hanno alla pari dei boschi i loro covigli, dove invece di belve superbe
si annidano bestie abbiette, avrebbe imparato che all'estremo di tutte le gradazioni e di tutte le
sventure v'è una miseria che si rivolta audacemente e osa impegnare una lotta contro la potenza
congiurata dei diritti dominanti e dei fatti fortunati: lotta orribile, nella quale la miseria combatte
l'ordine sociale a colpi di spillo col vizio ed a colpi di mazza col delitto.
IV.
Ed ecco il delitto.
Nell'orrido abituro del sesto piano, lugubremente torreggiante nel mezzo di Firenze addormentata,
dorme il tiranno, dormono gli schiavi, i quattro figlioli, sola la vittima di un antico sacrifizio del cuore
siede e veglia e lavora. Ma la vista dell'uomo che dorme, sazio e avido insieme del proprio piacere e
dell'altrui tormento, la irrita e la accende assai più che se quell'uomo parlasse e inveisse contro di lei.
Allora non ricorda e non piange tanto il male che si fa a lei quanto il bene che si toglie a' suoi figlioli
impedendo che un altr'uomo possa farsi valido sostegno a lei ed a loro; sente la catena dei patimenti e
delle privazioni a cui la vincola la legge con un nodo che vuole indissolubile perchè lo finge
sopportabile: scorge l'abisso che le si apre davanti; per non cadervi vi si precipita; brandisce la più
grossa coltella che sia in casa; invoca la Vergine, inginocchiandosi estatica davanti alla sua immagine
che tante volte ha invocato invano; appunta la lama alla carotide del marito giacente di fianco;
l'affonda tutta e la lascia confitta nel guanciale.
Tutto ciò era atroce, ma necessario.
V.
Chi impersonava la legge aveva detto più volte alla donna che gli recava i piati contro il marito: - non
posso far nulla per voi. - E in realtà la legge non dice nulla di più consolante a una donna che si trovi
nella condizione della nostra. Tu vivrai avvinta per sempre alla causa del tuo male e della tua
desolazione: ogni compenso, ogni rimedio t'è tolto, anzi t'è vietato: solo t'è concesso dividerti dal letto
e dal desco dell'uomo che ti ripudia: ma guai a te! guai al tuo onore e alla tua libertà, se addurrai le
sollecitudini muliebri e il tributo della grazia a un altr'uomo per ottenerne in cambio il maschio
sostegno della vita non più tua ma dei figlioli di chi t'ha rinnegata con loro! Saresti chiamata adultera,
fedifraga, impudica, e saresti condannata. Vivrai dunque col sudore della tua fronte: e non importa se
la natura e la miseria ti han fatta debole, invalida, dolente: non importa se il tuo sudore sarà
insufficiente alla tua prole prima che a te stessa: non importa se alle fatiche d'un'operaia dovrai
aggiungere le cure d'una madre, che le forze si dividano mentre le necessità si moltiplicano: va',
non sarai più sposa nè fanciulla, salirai il Calvario delle tentazioni e delle calunnie portando la croce
dei sacrifizî e delle amarezze: e dietro i tuoi passi, sol perc vai abbandonata e sola, grideranno i
Farisei de' tuoi giorni "crocifiggela" e, colpevole o innocente, sarai crocifissa.
Dunque dividersi, non sciogliersi; separazione, non liber di rifarsi la vita. Ebbene, se Augusta
Gazzeri fosse stata la moglie del ricco, e fosse stata, anche per propria colpa, separata da lui, avrebbe
ottenuto larghe e quotidiane provvigioni, le quali l'avrebbero posta nella condizione di non aver
bisogno del sostegno di un altro uomo; ma il calzolaio Gazzeri non era ricco e per la sua moglie la
separazione sarebbe stata una formula vuota, anzi irrisoria. E dove la legge irride ai bisogni e ai diritti,
piuttosto che porgere soccorso e difesa, provoca a violarla più che la causa stessa del delitto che la
violerà.
È vero che la legge minacciava di pena severissima la nostra donna se avesse commesso omicidio; ma
questa stessa minaccia significava incitamento e vantaggio per lei. Prima del suo delitto ella era
impotente, inutile alla prole ed a sè, condannata e incarcerata come rea della strage del marito,
assicurava ai figlioli il sostentamento e la protezione di cui era resa incapace la sua maternità, ed a se
stessa procacciava un asilo, ancorchè di pianto e di vergogna.
VI.
Chi l'ha avvicinata in questo asilo doloroso, dopo che i suoi giudici l'avevano condannata a mite pena,
come se la strage da lei compiuta fosse stata improvvisa e non premeditata, l'ha udita ostinarsi a
sostenere che era stata ispirata alla strage dalla Madonna, e l'ha veduta assumere all'occhio, al gesto,
nell'accento, un'aria indefinibile di asceta, quale dovette assumere nell'ora suprema del delitto.
Lasciandosi persuadere che i suoi quattro figlioli erano al riparo dalle peripezie del mondo - no -
diceva - non mi pento di quello che ho fatto. - E poi, mostrando le mani scarne e le concave gote,
soggiungeva: - Sono scomparse quasi tutte le mie lividure. Oh! mi rimetterò. E in questo tempo
lavorerò per i miei figlioli; e se perdoneranno alla mamma, se uscirò, allora rimetteremo su casa, ci
aiuteremo fra tutti, e la Madonna che m'ha messo a questa prova ci saptutti aiutare. Ora non posso
dormire; ma sono tranquilla tranquilla tranquilla.
Ecco i frutti di una pianta abbandonata in un terreno incolto e senza luce. Una legge ingiusta non solo
non ha saputo antivenire il delitto ma anzi con la sua minaccia d'una pena che era un vantaggio ha
incitato a commetterlo; una fede cieca, non illuminata da un raggio di ragione di educazione, ha
fatto il resto. Ed ecco perchè quella donna poteva dire di essere tranquilla tranquilla tranquilla.
Sola una voce le gridava di dentro, come a Macbeth, tutte le notti: - Tu hai ucciso il sonno, l'innocente
sonno, e pnon dormirai.
GLI ELEGIACI
Per elegiam stilum intelligimus miserorum.
De vulg. el. II. 4.
I.
"Da Montelupo si vede Capraia" dice il verso dell'antico proverbio toscano, tanto per offrire la rima
all'altro che l'accompagna: "Iddio fa le persone e poi le appaia".
Quante e quali strane associazioni di pensiero non detta la rima, che la fantasia commentatrice
presume attribuire a relazioni e non a semplici occasioni di richiamo! In realtà da Montelupo si vede
Capraia, percquesto paese sorge di fronte a quello, mentre l'Arno passa giocondamente nel mezzo,
a quindici miglia del suo corso da Firenze. Ma da Montelupo si vede altresì, a breve distanza e sulla
medesima sponda, un immenso e solitario edificio a quattro torri, vasto quanto mezza Capraia; e chi
lo guarda e pensa alla triste accolta infelici che vi sono rinchiusi sente nel cuore inquieto come
veramente la sorte non solo appaia gli uomini ma anche li accumula in una stessa occasione di
sventura e di dolore.
Il mesto edificio fu un tempo ricca villa medicea: oggi è un manicomio criminale. Anime inferme,
rivelate dai segni più evidenti e paurosi, giudicabili in osservazione per manifestata pazzia,
condannati impazziti nello sgomento e nelle asprezze della pena, accusati prosciolti per
irresponsabilità dimostrata da condizioni anormali, tutti insomma i folli palesi che cadono sotto la
disciplina della giustizia sono inviati in questo triste luogo. Sono gli elegiaci della letteratura
criminale, se l'elegia è lo stile dei miseri evolge al grave e al mesto quanto di estatico e di concitato è
nella lirica.
Il ribrezzo del carcere qui si aggiunge alla tristizia dello spedale; la pietà dei pazzi rende più amaro il
compianto dei colpevoli, il compianto dei colpevoli rende più profonda la pietà dei pazzi. È un lutto
doppio e una doppia tristizia. E quale verità e quanto mistero! quanta sciagura e quale fatalità tra
questa gente perduta! Voi leggereste le varie impronte di tanta miseria umana in quelle strane figure,
or tristi or fiere or scialbe or cupe, che paiono vinte da uno stesso dolore; e pensereste che almeno in
una gran folla di casi non è cagione del delitto la malvagità e la malizia ma la natura perversa, dato e
non concesso che la malvagità e la malizia non siano naturali nè fatali.
II.
Avviandovi per il primo tratto dell'Ambrogiana, come si chiama il manicomio di Montelupo, l'aspetto
delle cose vi dispone di grado in grado a maggiore pietà. In ampî cameroni i cronici spaziano
liberamente, non creando dissidî complotti fra di loro, perc ogni infelice qui ha da badare a
qualche sua particolare e importante occupazione, che non consiste in altro se non nell'inseguire e
nell'elaborare le idee dominanti del circolo sconnesso delle varie aberrazioni.
E qui le follìe si mescolano alle follìe, i delirî ai delirî. Il movimento incomposto di quella gente segue
lo stesso ritmo delle sue idee erranti; ogni stanza abitata a comune da l'immagine di uno di quei
cervelli sconvolti. Quante volte la frase più strana è ripetuta da una stessa voce! E non è quasi mai
contraddetta ma soverchiata da altre voci più alte e acute. Par d'essere in un'assemblea politica
nell'imminenza d'una votazione solenne, quando ogni votante grida non per imporre, che sarebbe
inutile, ma per ostentare il suo voto.
Ma ecco che incomincia la serie lugubre delle celle.
III.
Mentre percorro l'andito angusto, in cui questo umano alveare apre la sua triste intimità, sono invitato
a entrare in una cella. Lo strano abitatore è condannato a morte; poi fu graziato del capo. È pallido e
macilento, di età avanzata, di esile e breve corporatura, d'aspetto mite e sommesso.
Era disteso nel suo lettuccio e aveva il viso coperto da una benda. Toltagli questa, è rimasto a occhi
chiusi, sebbene si sia levato a sedere e abbia cominciato a parlare.
- Mi riconoscete? - gli ho domandato per indurlo ad aprir gli occhi.
- Tutti ci conosciamo perchè tutti siamo fratelli; e le donne sono nostre sorelle; ma sono
ingiustamente dimenticate; infatti si dice umanità e fratellanza, mentre si dovrebbe dire anche
donneittà e sorellanza.
- Sento che vi siete fatto feminista; ma perchè non aprite gli occhi?
- E perchè dovrei aprirli? per vedere il sole, se non me lo lasciano toccare?
Questa pretesa di confidenza e di contatto con l'astro maggiore è un'idea fissa del pover uomo, la
quale si estende anche agli astri minori. Infatti una sera di plenilunio si affacciò alla sua inferriata e
gridò a una guardia che vide nel cortile sottostante:
- Guardia, andate a smorzare quella luna, che non posso dormire.
Poco dopo una nuvola fugace eclissava interamente il disco luminoso. Allora il pover uomo,
adirandosi contro la guardia:
- Vi avevo detto di smorzarla e non di spengerla.
- E poi e poi - ha ripreso a dire, parlando con me - non apro gli occhi perchè non ho carta da lavorare.
Anche questa pretesa di aver carta a suo piacere è una fissazione del mio interlocutore. Infatti
l'assicella infissa al muro, che è mensa e scrittoio per ogni abitatore di quelle celle, è ingombra di
carta d'ogni forma e misura. I lavori in carta e pane, così perfezionati tra i suoi compagni di dolore,
sono da lui assai trascurati per risparmio di carta riservata allo scrivere e rappresentano quasi tutti un
coltello e una bandiera, simboli degli strumenti di cui era munito nell'esecuzione del suo delitto.
In uno de' suoi scritti si legge: "O Sire o Re D'Italia Vi reclamo le 3 Lire a mese da cucinare da me la
carta da scrivere uno Giornale. Viva l'assegno d'ogni età evviva la Repubblica Universale".
- Dunque siete repubblicano - gli ho osservato.
- L'ho gridato tutta la notte; ma è inutile....
- E l'assegno d'ogni età che affare è?
Allora mi ha esposto prolissamente una certa sua dottrina d'un certo suo comunismo a base di
fratellanza e di sorellanza, che in verità non sono stato capace di afferrare; tanto che ho cercato di
richiamarlo a un argomento particolare e più positivo:
- E il fatto di Napoli?... Come andò il fatto di Napoli?
Quell'uomo è condannato a sentirsi ripetere questa domanda da quasi trent'anni; e vi risponde in modo
spesso diverso ed evasivo. A me oggi ha risposto come mi rispose tredici anni fa, quando lo vidi per
la prima volta nello stesso luogo.
- Il passato è passato e non ritorna più. Se io semino e voi raccogliete, come fate a ritrovare il seme
che è diventato frutto?
- Giusto! Ma avete mutato opinione sul vostro avvocato?
- Diceva ogni momento nel suo discorso: sire, sire. E io gli accennavo il busto della sala d'udienza e
gli dicevo: non vedi che ha la testa di gesso?
L'ho lasciato, dicendogli che m'annoiavo a parlare con un uomo che sta a occhi chiusi. M'ha pregato
di trattenermi; ma piuttosto che aprir gli occhi m'ha lasciato andar via.
Il mio ostinato interlocutore, forse ve ne siete già accorti, è Giovanni Passanante, che atten al re
Umberto nel '78. Mi è stato detto che la sua strana ostinazione degli occhi chiusi durava da varî giorni
ed era uno dei nuovi capricci della sua demenza consecutiva, che è l'ultima fase di quello stato di
incoscienza e di irresponsabilità che fu fatta apparire invano dai periti frenologi nel suo processo per
regicidio.
Per vario tempo e con singolare concessione il Passanante coltivava a orto il divisorio destinato al suo
passeggio. Vi aveva composto nel mezzo una piccola aiola e attorno ai muri aveva appoggiato gigli e
fagioli, agli e rose; gusto matto di un romantico che fa il realista per forza! Ma un giorno in un
accesso di delirio, dette di piglio a tutto il suo strano prodotto, sradicò ogni pianta, calpestò ogni fiore;
e il piccolo orto, che aveva per lungo tempo ristretto lo spazio prezioso al passo del prigioniero, parve
colpito dalla furia dell'uragano. Quel giorno fu l'ultimo che Passanante uscì dalla sua cella. Oggi ho
riveduto il suo orto abbandonato: un solo filo di gramigna tremolava al vento, unico verso dell'ultima
poesia d'un dissennato(14).
IV.
Ma rientriamo per poco nel triste asilo dell'Ambrogiana e lasciamo il suo ospite più celebre e antico,
rinchiusovi dalla sua pazzia manifesta, che pur fece sognare ai mal dormienti sulla difesa dell'ordine
pubblico cospirazioni e congiure.
Questo manicomio criminale non risponde affatto al sistema vagheggiato sotto un tal nome dalla
scuola positiva. Non è se non una sezione di carcere e di manicomio insieme o un'infermeria del
carcere fuori del carcere, dove si raccolgono in cura o in osservazione giudicabili e condannati.
Un istituto come questo era stato aperto fino dal 1850 a Drundrum in Manda, nel 1858 a Perth in
Scozia, nel 1863 a Broadmoor in Inghilterra.
Altrove, come a Gaillon in Francia, si adotta una "sezione di pazzi criminali" nelle carceri comuni.
Similmente si pratica in Germania nelle case penali di Bruchsal, Halle, Amburgo.
Nondimeno, così com'è oggi istituito, questo manicomio è almeno un breve passo verso il meglio e
offre larga materia di studi e di esperienze raccolte come in un solo gabinetto di antropologia
criminale. Un'esperienza che particolarmente è degna della massima considerazione è lo stato di
salute degli infelici che sono mandati qui dopo avere espiato qualche anno di reclusione "inasprita
dalla segregazione cellulare continua". La frase crudele non è mia, ma della giurisprudenza, che
confessa come la pena non sia sempre un'emenda ma spesso una vendetta. Quegli infelici sono presi
da una lipemania profonda per lo stato di abbrutimento in cui li riduce la segregazione. Tant'è che
anche coloro i quali sono liberati da lunga pena senza aver toccato il manicomio criminale passano
spesso dalla reclusione al manicomio comune per manifesta imbecillità, oppure tornano volentieri nel
carcere per inveterata inadattabili alla vita libera. E di questi lipemaniaci è ricca quella parte
dell'Ambrogiana che è destinata ai cronici, alla quale appartiene anche il Passanante.
Confusi con i condannati, si custodiscono i giudicabili che attendono il giudizio dello psichiatra prima
di quello del magistrato, il qual giudizio non sempre è conforme per spirito di diffidenza o per difetto
di preparazione.
Vi si custodiscono, confusi con gli altri, accusati prosciolti per irresponsabilità derivante da pazzia, i
quali, appunto perchè assolti e dichiarati innocenti, meriterebbero un soggiorno e un trattamento
diverso da quello de' rei e de' condannati. Ma sopra tutto richiederebbero una diversa e assai maggiore
mallevadoria, che non fosse quella della semplice proposta di un direttore di manicomio, per essere
dimessi definitivamente da ogni custodia. Infatti, in grazia della nostra legge ibrida e incoerente sul
tema della responsabilità, accade che un omicida furioso sia dichiarato impune perc a causa della
sua infermità di mente non può fare a meno di seminare stragi, ma nello stesso tempo sia consegnato
"all'autori competente per i provvedimenti di legge"(15). Ora in una frase co disinvolta e
superficiale, che sa di annotazione in margine, è riposta tutta la sicurezza sociale contro chi non è
colpevole ma non per questo è meno pericoloso.
Chiedereste invano quale sia la competenza dell'"autori competente" e quanta la provvidenza dei
"provvedimenti di legge". Un attestato o una lettera del direttore del manicomio, che dichiari potersi
liberare, anche a breve intervallo dal suo tremendo delitto, l'irresponsabile, perchè, nonostante questa
sua definizione, non merita quella di soggetto da manicomio: ecco tutto il congegno d'una delle più
delicate tutele sociali!
In varî reparti sono accolti gli agitati; e qui lo spettacolo si fa più triste e lugubre. Di sotto le coltri
vedete protendere stentatamente e rabbiosamente teste arruffate e sconvolte, dagli occhi minaccianti
mille vendette e mille paure, dalle gote or livide e or rosse, dall'espressione che ispira ad un tempo
misericordia e terrore. Gli infelici giacciono interamente legati, con forti anelli ai malleoli e ai polsi,
con larga cintura alla vita e talvolta con alto collare alla gola. E in questa posizione passano o
piuttosto lascian passare i giorni, i mesi, gli anni, con una sola speranza in chi li osserva e con un solo
conforto di chi li compiange: che non riacquistino mai la coscienza del loro stato.
Quali figure in ogni persona e sotto ogni aspetto! quali espressioni di incoscienza e di intrattabile
destino! quanti segni di infermità o di degenerazione! Facce disformi, orecchie ad ansa, nasi obliqui,
zigomi angolosi, fronti sfuggenti, cranî dalla forma e misura strana, bizzarre disposizioni di peli e di
capelli, moti convulsi, incessi disordinati e instabili, logorree monotone e ostinate, leggende
programmatiche di tatuaggio: tutto l'atlante del delinquente nato o pazzo o abituale è in questa
raccolta viva di infelici.
V.
Ma l'occhio stanco e l'animo confuso dinanzi a così miserevole spettacolo si ritemprano alla vista di
due stanze silenziose e tranquille. Nell'una di queste alcuni alienati lavoran da calzolai; nell'altra altri
tagliano e cuciono da sarti. Tutti costoro seggono sopra sgabelli separati e distanti, valendosi di arnesi
legati a catena, a scanso di reciproche offese. È questo un paziente e benefico tentativo di lavoro tra i
pazzi.
Ma quanti tentativi inani! Quante inutili cure attorno a questa gente perduta! Ogni rimedio, ogni
compenso è perduto con lei. A riguardare la sua condizione così mortificata e pur necessaria vien fatto
di riflettere come il sommo della perfezione civile, quale può essere nel sistema della difesa pubblica
un manicomio criminale, non è se non la continuazione e il complemento dell'infelicità del fato,
invece che esserne la correzione e il sollievo.
Ecco che una voce imprecante a mille persecuzioni e mille angarìe va ripetendo ad alte note questa
amara riflessione. - Se son pazzo - grida quella voce - perchè m'avete condannato come reo? se son
reo, perchè mi trattate da pazzo? - La voce è d'un uomo ancor giovane, che è condannato a vita. È un
altro regicida, che attentò nel '97 alla stessa persona del re Umberto: è Pietro Acciarito di Artena,
paese di triste fama, che invano si dolse di essere sua patria e chiese di mutar nome, come invano già
altra volta lo mutò. Andato con i suoi a diciott'anni da Artena a Roma, era fabbroferraio fino a due
giorni prima dell'attentato: nel principio del nuovo soggiorno frequentò le scuole e con particolare
amore quella del disegno, ma nè lo studio il lavoro valsero a dare ordine e impulso al suo avvenire:
cominciò a delirare due anni prima del delitto per malattia d'infezione, poi s'incontrò con Pasqua, e i
suoi amori con lei furono tutto un delirio: si sepa dalla famiglia e s'infiacchì nel lavoro: la
percezione subitanea e confusa delle idee politiche, non corretta da alcuna forza di reazione di
elaborazione, fece il resto.
Non si notano segni esteriori evidenti di degenerazione, tranne il cranio aguzzo, il naso obliquo, lo
sguardo vivo e duro; ma il suo albero genealogico dimostra come in lui sia discesa per i rami l'insania.
L'ava materna visse più anni e morì nel manicomio per manìa furiosa, la zia vi fu rinchiusa poco dopo
per manìa di persecuzione, la madre è frenastenica, il padre bevitore: ciò che non gli impedisce di
essere un vecchio e regio portiere e di vantarsi di esser nato nello stesso giorno in cui nacque per
appunto re Umberto. Oggi l'attentatore alla vita del coetaneo regale del padre è nel massimo disordine
di idee e di affetti: argomenti sociali e pensieri d'amore si alternano e si confondono rapidamente:
immagini di persecuzione e sogni di gloria si inseguono e si contrastano a vicenda: sta di
incoscienza e sprazzi di malizia si compendiano in una stessa nota di irresponsabilità e di follìa.
Se questa nota si fosse ricercata e riconosciuta in tempo e al di sopra di pregiudizî ingiusti e persino
contrarî ai loro fini, si sarebbe subito accertato che il regicida di Artena aveva avuto un complice: il
suo genio malsano. E non si sarebbero cercati altri complici e tanto meno si sarebbero inventati. Ma,
ammessa la sua libera e piena responsabilità, suggellata con l'ergastolo, era logico e giusto credere a
complicità adombrate. L'errore non può che generare l'errore.
Intanto due regicidi, condannati come responsabili pieni, fin da poco dopo le loro condanne sono in
un manicomio criminale, sono per identità di origine e di destino l'uno accanto all'altro qui a
Montelupo, donde si vede Capraia e per giunta si impara veramente come "Iddio fa le persone e poi le
appaia".
VI.
Ora, se tornaste sui vostri passi dolenti, rasentando le celle che avete visitate, vi colpirebbe l'orecchio
una voce che non vi è più nuova, meno straziante e più monotona delle altre.
È la voce di Giovanni Passanante, che legge quello che nello stesso tempo scrive. Ora reclama da re
Umberto, che suppone ancor vivo e che d'altronde ha conosciuto bene, la concessione di risparmiare
tre lire al mese sul suo vitto, cucinandolo da sè, per potere acquistare con quelle tre lire tanta carta da
scrivere un giornale. Oppure acclama ancora una volta alla repubblica universale dolce e bella e
all'assegno d'ogni età, che è il suo comunismo un po' confuso. Quindi impreca ai vili che fanno guerra
all'assegno d'ogni età.
Ecco la mente che armò il braccio del primo regicida! Una paranoia demagogica e fastosa lo fece
delinquente; ogni altra causa del delitto è ormai esclusa dall'ovvio confronto tra il suo contegno
durante la colpa e il suo stato durante la pena. Arrestato, dichiarò di "avere attentato al re con la
certezza di ucciderlo, essendogli venuta in uggia la vita, dopo i maltrattamenti del suo padrone".
Interrogato, ripetè costantemente che "nel fatto si era dimenticato del cartello rivoluzionario su cui
aveva scritto: morte al re, viva la repubblica!" Condannato a morte, in odio alla vita e per fascino di
vanità rifiutò il ricorso per cassazione. Graziato del capo, non pensò alla vita che gli era salva, ma alle
censure che gliene sarebbero incòlte.
Oggi la demagogia e la fastosità hanno avuto bastante sfogo nei trent'anni di ergastolo e nella
condizione tranquilla che vi ha ricevuto(16). Una certa civetteria nel suo modo di porgere indicava,
fino a pochi anni addietro, una mal celata compiacenza delle visite che riceveva e delle discussioni
che sosteneva. Ogni altra idea, ogni altra passione è vanita per sempre dalla sua mente e dal suo
cuore. Nella condizione attuale egli è reso insensibile, inoffensivo, inadatto finanche alla libertà, per
modo che liberato soccomberebbe nella lotta dell'esistenza: e non sarebbe neppure pie la sua
liberazione.
Ma se oggi non vivesse, cadrebbe sul suo capo troncato dalla mannaia un fallace e irreparabile
giudizio intorno alla sua colpa. Morto, farebbe rivivere sognate congiure e temute cospirazioni; vivo,
vale almeno a uccidere quei sogni e quei timori.
Gli amici del boia sono diffidati.
AUTORI OSCURI
L'error dei ciechi che si fanno duci.
Purg. XVIII.
I.
Vittima o ribelle? colpa o sacrificio? Tali i lembi del velo impenetrabile che spesso avviluppa la
figura misteriosa del delitto.
Chi non ha provato il dubbio e il sospetto, chi non ha patito il tormento dell'irresolutezza nel formare
un giudizio o un proposito, non vi conosce, potenze occulte del vero e dell'ignoto. Solo i ciechi hanno
confidenza con voi e pretendono distinguervi al tasto. I savi e i veggenti vi contemplano con occhio di
stupore e con sentimento di religione, perchè tutto ciò che è ignoto e incomparabile col vero è sacro e
inoffensibile mistero. Spesso non si è fondata sopra altro altare la divinità: i Latini si fecero un'iddia
perfino della Febbre perchè non ne conobbero le cause: tra noi anche coloro che non credono
all'immortalità onorano di incensi, di faci, di fiori, di epicedi la morte per omaggio all'ignoto che reca
sotto la sua ala bruna: oggi le arti e le lettere si velano di un simbolo oscuro per suscitare almeno un
sentimento di stupore e di confusione. La lussuria in gran parte si pasce d'una singolare curiosità del
recondito, dell'intimo, dell'inesplorato; ond che spesso si dilegua dopo la prima soddisfazione della
vista e del tatto. L'ineffabile non è che l'indefinibile. Il mistero che circonda l'innocenza e la colpa, la
virtù e il delitto, l'amore e l'orrore, è sempre un dei maggiori argomenti di attenzione e di stupore, di
curiosità e di commozione.
Gli uomini non professano il vero non solo per un volgare interesse a spacciare il falso ma anche per
una istintiva e abituata tendenza all'artificio. Perfino una testimonianza è l'eco di cento impressioni e
cento prevenzioni inconsciamente artificiose: un giudizio è il resultato di tali impressioni prevenzioni
e per giunta è l'effetto di una contratta abitudine a ragionare con certi dati e certi procedimenti logici,
per i quali l'impressionarsi e il convincersi del fisico è un'elaborazione intellettuale affatto diversa da
quella del filosofo. Ed è pur diversa tra gli stessi giudici, e non solo tra popolari e togati, ma tra questi
medesimi secondo che giudichino in un grado o in un altro.
La verità è un'astrazione: è l'assoluto tra i relativi; ciascuno l'apprende in grazia d'una particolare
concezione dell'idea rispetto alla realtà; la certezza non è se non la conformità della nozione dell'idea
alla realtà: e però non è se non uno stato subiettivo determinato dal lavoro dei sensi.
La calma perfetta delle facoltà intellettuali e attive che Pirrone, maestro degli scettici, chiaapatia,
è scetticismo quando si risolve nell'astensione dal giudizio intorno agli effetti per disconoscenza delle
cause, come se si nega il moto intanto che si cammina, ma è logica inconfutabile quando non nega gli
effetti ma trattiene il giudizio intorno alle cause, come se nega il moto non già nelle sue apparenze e
nei suoi effetti ma nella sua realtà intrinseca e nelle sue leggi. Per modo che un giudizio forense
dovrebbe spesso arrestarsi dinanzi alla fallita ricerca dei fatti nei loro effetti inesplorabili e dovrebbe
sempre astenersi rispetto alle loro ragioni inconoscibili, com'è sempre inconoscibile, in senso
assoluto, la responsabilità dell'uomo.
Ma poichè gli uomini prendono piacere e profitto dalle convenzioni e dai ludi del mondo, bisogna
pure che giudichino, come bisogna che artefacciano e prendano a giuoco in ogni relazione civile la
verità. E allora non solo vogliono affermare la realtà dei fatti umani ma presumono anche di definirne
la ragione, cogliendo, stringendo in pugno e persino misurando e pesando in un chicco di miglio
quello che è di più inafferrabile e imponderabile: la responsabilità umana.
II.
Qui si discorre dell'affermazione della realtà; e però si riaffacciano i due termini del mistero
giudiziario: vittima o ribelle? colpa o sacrificio?
Tra questi due termini si ritro un cittadino di Firenze, che nella sua breve vita aveva dato buon
esempio d'onestà e di moderazione. Artigiano col sole, servitore la sera, fu ugualmente fedele e
operoso co sotto il camiciotto dell'artefice e alla tavola del mosaico come sotto la giubba del
servitore e al letto del padrone. E presso il padrone crebbe e servì per lunghi anni, non interrotti
neppure dalle nozze contratte nè dalle sollecitudini accresciute per doppia prole.
Una sera di giugno era a custodia della casa lasciata dal padrone e dalla sua famiglia, che erano andati
a godersi la quiete del podere. Gli era compagna la donna di casa. Averardo Bracciotti e Annina
Galletti, i due custodi, erano giovani; Annina era anche formosa e non spiacente ragazza; ma al ricco
padrone stava a cuore il pericolo delle sue ricchezze, non quello d'una accensibile compagnia
notturna.
Era la mezzanotte, quando gli abitatori della casa del numero 1 in via Barione udirono dapprima
confusi lamenti e poi lunghe e distinte grida d'aiuto. Bussarono alla porta del secondo piano donde
partivano quelle grida, nessuno aprì; chiamarono, nessuno rispose; spiarono d'ogni parte la casa, non
si udì che le stesse grida. Abbattuta e scavalcata una finestra, si scòrse a pochi passi, in un andito della
casa, Averardo Bracciotti disteso in terra e legato nella persona da doppia corda, che gli costringeva i
polsi sui reni e gli circondava strettamente il collo e i piedi. Presso la bocca aveva due ampie pezzòle
annodate per di dietro e leggermente macchiate di sangue. Sciolto a gran stento, quell'uomo gridava
con accento di orrore: - I ladri, i ladri! siamo stati assassinati! l'Annina, l'Annina! - Traversate due
stanze, il passo degli animosi fu sbarrato da uno spaventevole ingombro: l'Annina con i capelli
scomposti, gli occhi dilatati, la bocca gonfia, le mani legate, un piede scalzo, la gola stretta in un
doppio giro di corda, un altro tratto di corda sciolto vicino ai piedi, giaceva morta sul limitare d'una
stanza prossima alla cucina.
Dinanzi a questo raccapricciante spettacolo volle esser condotto anche Averardo, che alla vista di ciò
che aveva già annunciato col nome di Annina si ripiegò sulle ginocchia e ripetè più volte quel nome,
che ormai apparteneva a chi non rispondeva più. Percorse le altre stanze in traccia dei ladri, se ne
rinvennero le vestigia: mossa e travolta la suppellettile, scassati e aperti vari cassetti, vuotato e
disperso un medagliere, e una cassaforte, che a dir del proprietario doveva racchiudere valori per
migliaia di lire, violentemente aperta e predata. Sul cadavere di Annina non si riscontrò, oltre il solco
profondo un dito intorno al collo, segno di violenza nè di contaminazione.
Narrava il Bracciotti che, essendo solo con la compagna e seduto presso di lei al desco preparato per
la cena, udì sonare il campanello di casa; andò ad aprire seguito dalla donna che portava il lume;
domandò prima chi fosse e gli fu risposto: il sarto. Allora aprì; ma fu appena in tempo ad adocchiare
un uomo alto, dalla barba nera, con un grosso fardello sotto il braccio, e dietro a quello un altro di più
corta statura e con folti mustacchi, e un altro ancora o piuttosto l'ombra d'un altro che si perdeva
dietro le due prime figure, quando improvvisamente fu colpito al petto, gettato a terra presso l'andito e
imbavagliato. Intanto altri si scagliò sopra la donna; il suo lume essendo caduto spento a terra, egli
non vide più nulla; sentì il tonfo di un corpo che stramazzava, poi un urlo soffocato e poi null'altro;
avvertì però i passi di gente che si dirigeva alle altre stanze; poi i rumori vari di una furiosa
devastazione; quindi i nuovi passi di gente che ritornava, varcava la porta di casa e la chiudeva. E solo
allora cominciò a gridare al soccorso.
III.
Narrava il vero o il falso Averardo Bracciotti? Era vittima o ribelle? Fu complici o paura il suo
contegno? La sua ambascia davanti allo sconcio cadavere di Annina fu pietà o simulazione? E
l'epilogo del fatto doveva essere pietà per lui o condanna?
Il Bracciotti fu giudicato; ma uno spirito cauto e illuminato mal saprebbe persuadersi se quello stesso
giudizio fosse errore di ciechi che si fanno duci o giustizia di giudici che colgono nel segno per caso.
Si arrestò come unico e certo colpevole chi si era trattato e si doveva trattare come vittima, e, fattosi
centro sopra questo giudizio preconcetto col compasso della polizia, si pretese dimostrare la
quadratura del circolo. Si cominciò a dire: - È lui! - Ma se era altri? Questo non si pensò neppure. - È
lui, è lui! - si seguitò a dire. Ma che almeno potevano essere altri con lui non si volle pensare. Onde
accadde che si dimenti che da solo il Bracciotti non si sarebbe potuto legare, come poi fu alla
prova riconosciuto; si dimenticò che delle migliaia di lire rubate non un centesimo era stato trovato
addosso a lui, che pure era rimasto sul luogo del delitto; si dimenticò che neppur uno dei vari arnesi
che necessariamente si erano adoperati nello scasso s'era rinvenuto in quel luogo; si dimenticò che un
solo artefice del misfatto non avrebbe avuto nè tempo nè modo di consumarlo. - È lui, è lui! - segui
a ripetere la polizia per compensarsi della sfortuna delle sue ricerche; e quasi finì per crederlo;
cosicc non trovò e non cercò altri altro. E se non avesse inciampato, come in un ingombro
sensibile sul cammino d'un cieco, nel Bracciotti legato e impacchettato come un fardello pronto per la
spedizione, non avrebbe trovato neanche lui! E, in verità, all'infuori di questa singolare posizione di
Averardo, non si fornì ai giudici altro mezzo di convincimento. Onde l'accusa si fon e la causa si
definì sul ragionamento, non sulle prove.
Si pensò all'inverosimiglianza del racconto dell'incolpato; si riflette che nessuno meglio di lui
conoscesse la casa spogliata; si argomentò che gli assassini avrebbero dovuto disfarsi prima dell'uomo
che della donna; si disse che troppo tempo egli era rimasto nella quieta e passiva posizione di vittima.
E non si pensò che delle ragioni e degli avvolgimenti del delitto è follìa dettar regole di logica e di
misura; non si riflette che ladri confessi hanno spesso fatto stupire i derubati dell'intima e perfetta
conoscenza dimostrata delle loro abitudini e dei loro ripostigli; non si seppe credere che i manigoldi
di via Parione potessero aver risparmiato la vita dell'uomo per far cadere su di lui i sospetti della
strage della donna; non si considerò quali e quanti potessero essere gli effetti della paura in un uomo
assalito da una violenza inaspettata: della paura a cui i consoli romani coniarono medaglie raffiguranti
non solo l'effigie della donna esterrefatta ma anche dell'uomo atterrito: della paura a cui Alessandro il
Macedone dedi olocausti prima di combattere. E poichè un atroce delitto non doveva rimanere
impunito, un pauroso fu forse della sola paura punito.
IV.
I giurati di Firenze, a maggioranza d'un voto, lo condannarono come complice e non autore del truce
misfatto a trent'anni di reclusione. Ma quel voto, che decideva della vita d'un colpevole o d'un
innocente, non ebbe sanzione, perchè fu annullato il lungo dibattimento e rimandata la causa all'assise
di Siena, perchè vi fosse novamente dibattuta.
Là nessun ausilio di nuovi indizî si addusse. Anche là comparvero due testimoni che già erano andati
spontanei e maravigliosi davanti al magistrato investigatore a dichiarare di aver veduto Averardo
Bracciotti comprare nel giorno del delitto nove metri di corda, quasi che essendo più i malfattori,
come la stessa accusa riconosceva, non dovesse comprare quel terribile arnese di morte chiunqu'altro
di loro tranne il Bracciotti, che doveva mostrare la faccia agli investigatori del cupo mistero ed essere
riconosciuto da' funai. E anche resultò chiaramente che la qualità e la misura della corda descritta
da que' due testimoni non corrispondeva alla misura alla qualità di quella raccolta addosso al
Bracciotti e presso l'Annina. I giudici senesi assolsero l'accusato dall'omicidio premeditato e lo
condannarono del solo furto domestico.
V.
I soliti buttafuori dell'opinione pubblica gridarono all'assurdo e alla contradizione. Ma il verdetto di
Siena racchiudeva in se stesso uno di quei sottintesi di compenso e di adattamento, per cui i e i no
dei giudici palliati sono talvolta più sache i considerando e gli attesochè dei giudici togati.
I giurati senesi pensarono che il Bracciotti non poteva essere estraneo al triste affare di via Parione,
ma riconobbero di non possedere le prove specifiche per determinare la misura della parte da lui
sostenuta; per cui, fra tante ipotesi, adottarono la migliore, ovvero la meno peggiore. Pensarono che
gli assassini avessero patteggiato col Bracciotti il furto con l'intesa di legar lui consenziente per
sottrarlo al sospetto d'ogni complicità e la donna nolente per ridurla all'impotenza di ogni reazione,
laddove ella avrebbe vigorosamente reagito o mostrato di riconoscere i suoi assalitori, i quali allora,
per una risoluzione improvvisa suggerita dall'occasione e ignota al Bracciotti già legato, avrebbero
stretto la corda al collo della donna. Le mani legate della vittima, la lunga corda ritrovata presso il suo
cadavere e l'avviluppamento del Bracciotti in altrettanta misura di corda confermavano chiaramente
che si doveva aver deciso di legare la donna come l'uomo e di non uccidere nè l'uno nè l'altra.
Ma frattanto le strage disumana consumata nel cuore d'una città popolosa e nelle prime ore d'una notte
d'estate rimase invendicata. Le autorità, allora occupate nella caccia alle idee, non seppero colpire un
fatto che repugna ad ogni idea. La polizia fu non solo inetta ma anche fatale, perc col suo errore
fece la fortuna de' rei e ten di aggravare il danno dell'accusato. La magistratura, ridotta com'è nel
presente sistema di inquisizione giudiziaria a umile registratrice delle fantasie poliziesche, autenticò le
insufficienze e le ostinatezze della polizia. E chi n'ebbe la peggio?
Sempre la Giustizia.
GLI ESTETI CRIMINALI
Vidi quivi a' lor giuochi ed a' lor canti
ridere una bellezza, che letizia
era ne li occhi.
Par. XXXI.
I.
Sorgi tu dall'abisso o discendi dagli astri, eterna irresistibile Bellezza? Hai nell'occhio l'aurora e il
tramonto: la tua bocca è un'anfora che versa mescolati il bene e la colpa: i tuoi baci son filtri che
fanno vile l'eroe e magnanimo il fanciullo: sei simile al vino: semini a caso la gioia e i disastri:
governi il mondo e non rispondi di nulla; cammini su i morti e ne ridi: il Demonio ti segue ansimante
come un cane: l'Orrore non è il meno attraente de' tuoi gioielli: l'Omicidio è tra i tuoi più cari
ornamenti e brilla rosseggiante sul tuo seno superbo.
Che importa, eterna irresistibile Bellezza, che tu discenda dagli astri o sorga dall'abisso, se il tuo
sorriso mi dischiude egualmente la porta dell'infinito? Che tu sia Angelo o Sirena che importa, se fai
l'aria più respirabile e le ore meno affannose?
Così dice l'esteta e così pensa il savio; perchè la Saviezza, stanca dei paludamenti gravi e impacciosi
tra i quali è costretta, se ne discinge spesso non vista e si invoglia e si gode della sua stessa nudità, che
tanto rigidamente celava. Ma il savio si ricompone alla vista del pericolo che lo insidia; l'esteta non
conosce pericoli orrori se non per farsene nuovi e più arguti vertici per salire al piacere. Il genio
del male e quello del bene si ispirano al fàscino di un'immagine parimente bella; il tristo non
altrimenti che il giusto si finge la Bellezza a sua immagine e inclinazione; il delitto, alla pari di ogni
altro affinamento umano, è spesso, per la via del pervertimento, la glorificazione della Bellezza.
II.
Una luce viva, alta, scintillante nel ciclo opaco della notte, su dalla casa del nemico, il fumo sinistro,
lo strepito minaccioso delle travi pieganti sotto la furia del fuoco, lo schianto fragoroso del tetto che
crolla, la fuga insecutrice delle fiamme lungo le viti e gli olivi del poggio odiato, sono bellezze
squisite che l'incendiario contempla col cuore traboccante di vendetta e che canterebbe volentieri con
l'anima piena di poesia, se potesse concedersi la cetra impunita dell'incendiatore di Roma, laetus
pulchritudine fiammae.
Un bel colpo, un fendente solo ma sicuro, un taglio netto e mortale, una scarica rispondente alla mira,
un ammucchiamento di vittime, sono del delitto la gioia crudele, ispirata dal fàscino di una bellezza
truce ma deliziosa.
Un'invenia felice nell'arte di ingannare, un trucco perfetto, una grande menzogna meglio creduta di
un'ingenua verità, una commedia recitata con maggiore fortuna di una dotta opera di scena, un intrigo
più fantastico di una novella araba, sono godimenti estetici spesso negati agli uomini di lettere ma non
ai frodatori.
Una conquista subdola d'amore su di un soggetto immaturo, una violenza trionfatrice, un ratto
romanzesco, un tradimento avventuroso dell'ospitalità, il boccaccesco inganno di un marito tronfio nel
far la guardia alla fedeltà, sono licenze poetiche felici di un seduttore fuor della legge.
Una satira tagliente, una caricatura notomizzante, un epigramma diffamatorio, un soprannome
rivelatore, sono spesso eleganze letterarie gustosissime nell'estro maligno di insultatori e diffamatori.
Una contraffazione sicura di monete, di suggelli, di impronte, di documenti, una perfetta
adulterazione di vivande e di medicine, un'irreprensibile usurpazione di trovati, un audace
contrabbando sotto gli occhi dei guardiani, sono altrettante gioie seduttrici del senso estetico malsano,
non ispirate tanto dal calcolo e dal bisogno del guadagno quanto dal sentimento della novità e del
contrasto.
III.
Sono della schiera ignorata degli esteti il cleptomane specialista che sottrae oggetti d'arte non per
rivenderli ma per destinarli alla propria segreta ammirazione; il galante raffinato che per ornare di
rose la sua casa scavalca il muro dell'orto vicino e spoglia il rosaio adocchiato; il bibliofilo folle, che
spingendo al limite estremo quel concetto assai singolare e spicciativo che i più professano intorno
alla proprietà del libro, prendendolo in prestito e non restituendolo mai, osano nelle biblioteche e
negli archivi sottrazioni e appropriazioni che non oserebbero mai sopra qualunque altra proprietà.
È degno di stare in riga con questi esteti lo Schliemann, il celebre escavatore di Troia, al quale la
passione dell'arte e della storia, cresciuta lussureggiante nel suo cervello di antico droghiere,
ammorbò la delicatezza di un intimo affetto. Convinto che non ultimo fine delle nozze debba essere
una letizia intellettuale, andò a chiedere la futura sua compagna al primo magistrato della classica
Atene, pregandolo di sceglierla tra le più valenti frequentatrici delle scuole. Presentarsi alla famiglia
dell'eletta, domandarla in isposa, celebrare le nozze fu presto fatto, tosto che si fu d'accordo su questo
articolo fondamentale: che la moglie avrebbe letto tutti i giorni un canto d'Omero al marito mentre
questi si faceva la barba. E per nessuna ragione al mondo l'esteta permise che il patto fosse violato. Fu
vista e udita la povera signora, un'ora prima del parto, sorretta da una spalliera di guanciali, leggere
con la voce estenuata l'episodio di Pàtroclo mentre l'impassibile Schliemann scorreva il rasoio sulla
sua gota(17).
Lo vinse in crudeltà Thomas Wainewright, da Oscar Wilde salutato con ammirazione, il quale uccise
la sua amante Elena Abercrombie dicendo a chi gliene moveva rimprovero:
- Sì, è stata una cosa terribile, ma Elena aveva i fianchi tanto piatti!
Alla medesima riga appartiene Luigi di Baviera, che all'ultima battuta dell'opera wagneriana,
rappresentata per lui solo nel teatro di corte, vuol subito rinnovata la sua spirituale letizia e piglia a
scudisciate gli attori che adducono l'impossibilità di ricominciare tutto il melodramma.
E vi appartiene uno de' più illustri puristi toscani, odiatore sincero e irreconciliabile dei barbarismi
inquinanti la purità della lingua, il quale, essendo stato pestato da un gentiluomo piemontese, invece
di accettare le sue scuse offertegli con il più garbato pardon, si accende subito del sacro fuoco della
purezza e schiaffeggia violentemente il gentiluomo gridando: - Schiacciare un piede e dire anche
pardon, questo è troppo!
In questi casi l'estetica è più il fine che il movente del delitto; in altri casi i termini si invertono:
l'estetica è del delitto l'estro e la ragione. Allora un bel gesto vale il sacrificio di tutta la vita. Quando
il fornaio di Motta Visconti dovette innanzi al giudice che lo interrogava fingere di ripetere il colpo
dato al petto del presidente Carnot, si illuminò di gioia, gli occhi gli scintillarono di ispirazione, i
lineamenti si contrassero, tutta la persona tremò di un fremito di energia nuova, che il signor
Benoist gli gridò inorridito:
- Basta, siete un mostro!
E l'anarchico:
- Oh, questo non è nulla! Mi vedrete al dibattimento e poi sul palco della ghigliottina. Ah,
specialmente questa scena sarà bellissima! sarà bellissima!
Vaillant, venutagli meno la speranza di riformare il mondo con un libro, pensa di poterlo rivoltare con
una bomba nel parlamento francese; ma prima corre a posare davanti al fotografo e dispensa il suo
ritratto; appena arrestato chiede dei giornali che stampano la sua effige e dice al carceriere:
- Si dirà che chi ha compiuto un così bel fatto non poteva essere che un così bell'uomo, non è vero?
Questo, lo so, è anche segno di vanità; ma la vani prende spesso le veci dell'utilità nel maleficio,
perchè questo verme roditore dei cervelli sani e dei malati, che è la vanità, si apre la sua via sottile a
traverso i sentimenti della fastosità, confusi spesso con quelli della bellezza, sia pure la più perversa e
malsana.
Ravachol, invitato a dire la sua difesa davanti ai giudici della Senna, improvvisa un discorso così
eloquente nella sua semplicità scorrevole incalzante ordinata, che solo un uomo fornito da natura del
senso estetico della parola e innamorato della bellezza della propria azione poteva pronunciare. Con
parola sobria e schiva delle forme più usate nel vieto argomento rintuzza la propria colpa contro la
società colpevole delle differenze e delle discordie che creano il delitto:
- Tutte le classi sociali, non la sola operaia, si invocano e si addossano tra loro la sventura, se non la
morte, che suona male all'orecchio, affinchè la sventura rechi vantaggio: ogni mercante vorrebbe esser
solo e fa voti e sforzi perchè ogni suo concorrente scompaia: la morte, come mezzo di fare scomparire
un ostacolo o un nemico, non è che la misura di questa necessità. Infatti voi certamente mi
condannerete nel capo, perchè credete che questa sia una necessità, e così voi che sentite orrore per
me e per chi versa il sangue, voi stessi non esiterete più di me a versarlo, uccidendomi, con questa
differenza: che voi agirete senza correre alcun danno, mentre al contrario io ho agito a prezzo della
mia libertà e della mia vita.
IV.
Il bel colpo del ladro, non si crederebbe, ha pure il suo movente estetico. Io vorrei poter dire al secolo
corrotto: sei ladro e creatore di ladri; ma la sincerità dell'esperienza e l'intimi dell'osservazione mi
inducono a credere candidamente che un movente non miserabile ma fastoso, un movente estetico,
non economico, è la spiegazione prevalente del furto. Infatti i ladri sono per la massima parte giovani
e viziosi e figlioli di famiglia e spesso ben mantenuti dai parenti o dalle amanti e sempre disposti a
gettare il frutto dell'opera ladronesca nei tempietti di Venere Ciprigna o nelle grotte di Bacco
Toscano. La malesuada fames e la turpis egestas e il bisogno persuasore orribile di mali sono poetiche
immagini che si adattano ad altre deboli tentazioni del delitto, ma non all'estro ardito e intraprendente
del ladro; il quale, alla pari di tutti gli artisti, non sa apprezzare il valor venale dell'opera ed è sempre
povero in canna. È un'ingiusta onta che gli si fa col credere che il suo delitto derivi solo da un freddo
calcolo di cupidigia: il compendio furtivo, a cui non renunzia, è pun premio che un fine del furto.
Egli è un artista; e la sua arte è una tendenza e un'applicazione dell'ingegno al difficile, all'ignoto, al
rischioso, al maraviglioso. Voi conoscete artigiani intelligenti e abili ma non prodigiosi; invece i ladri
compiono spesso prodigi di intelligenza e di abilità nel far saltare scrigni inconoscibili e serrature
straniere, nello scassare porte ferrate, nel traforare da parte a parte mura maestre, nel fare spiccare il
volo a casseforti che erano state messe al posto da dieci uomini affaticati. Provate a chiamare un
fabbro perchè vi apra la porta di casa, se ne avete smarrita la chiave. Se vi fa stentare un'ora, dite pure
che quello è un galantuomo. E allora, se vedete passare un giovane snello, dai movimenti felini, dagli
occhi piccoli e scintillanti, dalle labbra asciutte e sottili, abbiate l'accortezza di chiamarlo e dirgli:
- Galantuomo, salvo il vero, volete vedere se vi riesce di aprire uno scrigno?
Quegli sdegnerà il lusso del fascio di grimaldelli che l'onesto fabbro dagli occhiali inforcati aveva
portato con sè, vi chiederà una forcina, aguzzerà gli occhi, contrarrà le nari, premerà le labbra, sputerà
tre volte in terra: e in due tratti il galantuomo vi avrà dato una smentita di questo nome.
Il sentimento dell'arte si rivela nel ladro anche in certe sue suscettibilità d'amor proprio professionale.
In uno degli estremi viali di Firenze spiccava nella sua solitudine gaia un villino, che a giudicarsi
dall'eleganza degli addobbi delle sue finestre pareva anche riccamente arredato. Due compari lo
adocchiarono e decisero di profittare dell'assenza de' suoi abitatori per dargli la scalata. Infatti, dopo
lungo e industrioso lavoro, poterono penetrarvi tranquillamente. Ma quale ingrata sorpresa! Non solo
gli arredi di tutta la casa erano umili e pochi, ma dentro a quegli umili e pochi arredi non si tro
neppure uno spillo che meritasse d'esser levato dal suo posto. Allora i due compari, offesi nel loro
sentimento più delicato, che è appunto il sentimento estetico d'una bella impresa, non seppero fare a
meno, sdegnando pericoli e identificazioni col dar causa a nuovo indugio, di scrivere e lasciare alla
porta questo monito severo: "Quando si ha tanta miseria non bisogna ostentare certe apparenze per
ingannare così atrocemente il prossimo."
Uno dei briganti che infestarono l'Appennino pistoiese, come vide, dopo aver frugato con scarsa
fortuna la carrozza della contessa Cellesi, che il cocchiere rimaneva freddamente seduto al suo posto
gli intimò di alzarsi e appena scorse sul sedile un portafoglio gridò:
- Questo, brutto brigante, ce lo volevi rubare!
E come nell'ordine delle arti belle, così anche in quello dei delitti estetici, ricorrono tendenze e
specialità di attitudine e di gusto. Tra i pittori chi tratta il paese e chi la figura; tra i plastici chi il
monumento e chi il ritratto; allo stesso modo, tra gli esteti del delitto, chi si dedica alla frode e chi al
sangue e chi al furto. E nella stessa cerchia del furto chi ruba soltanto in città e chi unicamente in
campagna, chi sempre galline e chi tutte uova; chi non tocca che l'oro e chi soltanto il metallo vile,
come l'ottone delle insegne e il piombo dei condotti; chi non entra che nelle case e chi soltanto nelle
botteghe; chi si industria nei luoghi di bagni e chi nelle fiere e chi al teatro e chi nelle chiese e chi sui
treni e chi negli incendi e dopo i tremoti e durante i tumulti; alcuni non passano che per le porte, altri
soltanto dai camini e per le finestre; gli uni prendon posizione con un salto; gli altri affrontano con la
potenza dei muscoli la
custodia robusta di una porta o la debole difesa di un muro lavorando unicamente di spalla.
E di questo specializzare non è sola causa la differenza delle attitudini fisiche alla forza o alla
destrezza e delle varie consuetudini con gli uni piuttosto che con gli altri arnesi di mestiere, ma bensì
è ragione principalmente la varietà dell'istinto estetico particolare.
V.
L'arte ha rivestito spesso delle sue spoglie agili il delitto; e le sue rappresentazioni sono preziose
quando contribuiscono non già di proposito per sistema ma per intuito spontaneo a rivelare veri
inosservate. Ma ha passato la parte quando ha esaltato le rappresentazioni del sangue e della morte
violenta, ha abbellito i rapimenti e le stragi, ha avvalorato l'amore acuito dall'acredine dello spasimo,
ha sublimato la bellezza contorta dal gemito del dolore.
Frine, che domanda a Prassitele a prezzo d'amore il capolavoro di Eros, non è se non un'illustrazione
viva della colpa asservita al piacere estetico. La tragedia greca si aggira spesso intorno alla più grande
aberrazione dell'amore per la bellezza, qual'è l'incesto, secondo l'opera di Eschilo, di Sofocle, di
Euripide. E così la tragedia tra il 1700 e 1800, secondo l'opera del Bacine e dell'Alfieri, non
continuata per fortuna dai drammaturghi novissimi.
Primo tra i nostri, Cino da Pistoia, il dolce Cino, cantava:
E piacemi veder colpo di spada
altrui nel viso e nave andare a fondo;
e piacerebbemi un Neron secondo
e ch'ogni bella donna fosse lada.
E quella bestia del suo concittadino contemporaneo Vanni Fucci, delinquente non solo per la gesta
alla sagrestia dei begli arredi ma altresì per violenze sanguinarie:
Per me non luca mai nè sol nè luna,
posto mi ho in cor di dir ciò che convene,
fo ciò senza portare.... a chi porta,
voglia mi viene di stracciarmi i panni(18).
Nella rappresentazione shakesperiana sono forse identificati i tre tipi principali di delinquenti: in
Macbeth il nato, in Amieto il pazzo, in Otello il passionale; e intanto Macbeth ci offre una rivelazione
della sua estetica criminale quando narra alla donna il suo bell'omicidio e le esprime tutto l'animo suo
gagliardo avanti e dopo il delitto.
Il masnadiere Carlo Moor, nell'intenso dramma giovanile dello Schiller, non è che un delinquente
conquiso da sogni di bellezza e di grandezza, agitati in lui da un profondo disgusto del mondo volgare
e da una di quelle nature predestinate a fare di un uomo o un Bruto o un Catilina.
Hjördis, nella Spedizione Nordica dell'Ibsen, è donna che giustamente si paragona da ad aquila in
gabbia, che becca le sbarre, siano di ferro o d'oro; e d'aquila ha l'occhio e l'ala dal volo robusto per
anelare a sogni grandiosi indefiniti di bellezza, di terrore, di cimento. A Dagny, sua compagna, dice
con grande naturalezza:
- Non ti meravigli di vedermi viva? non hai paura nel trovarti sola con me, ora che cade la notte?
Dobbiamo essere come sorelle, finchè tu sei mia ospite; andremo al mare quando imperversa
l'uragano e le onde fuggono come selvaggi cavalli dalle bianche criniere e lontano appaiono le balene.
Ah! che voglia è quella di comparire dinanzi alle navi come una strega sul dorso delle onde,
scongiurare le tempeste e con magici canti attirar gli uomini nella profondità del mare.
L'eroina di Hedda Gabler dello stesso Ibsen è il tipo di un'altra donna che ama diletti virili, azioni
energiche, commozioni estetiche. Sposa uno scienziato timido per contrasto di pietà e finisce per
levarsi la vita senza altra ragione se non quella d'un bel gesto e dopo aver lodato l'uso già fatto di
quella stessa pistola da un altro suicida del dramma (Loerborg), osservando però che sarebbe stato più
bello spararsi, invece che al petto, alla tempia, come intanto fa lei.
Sono fiori sbocciati dall'estetica del male i componimenti intimi del Baudelaire, dal canto dell'Eroe
delinquente ma felice all'ultima lirica alla Donna, a cui il poeta grida: - Piangi, disperati, allora
soltanto mi piaci! - E sono fiori addirittura venefici quelli di cui si circonda la fronte il poeta nel
cantare che se il pugnale, il veleno, lo stupro non intessono più bellamente il canevaccio della nostra
stupida vita, egli è perchè non siamo abbastanza audaci nel vivere.
Ed è una rappresentazione di estetica criminale storica il dramma del buon Cossa, impersonante
Nerone che sino all'ultimo gemito grida di essere un artefice, anzi l'esteta sublime, che appicca il
fuoco all'Urbe per attingerne una novissima ispirazione poetica e che mesce nel vino la cenere di
Roma per un ditirambo originale.
Ed è una personificazione d'estetica criminale Corrado Brando del dramma dannunziano. Quell'uomo
che ne uccide un altro, dopo averlo derubato, è alla ricerca della gloria, in continuo sforzo di
grandezza e di dominazione, e crede di essersi innalzato superbamente al di sopra di tutte le miserie
umane. Egli si sente fuori della legge e al di sopra della società; la bellezza del fine lo rinfranca a
passar sopra a certi ostacoli meschini, quale sarebbe la vita d'un vecchio possessore d'una sufficiente
ricchezza; egli si vale della sua forza per appropriarsela spezzando l'ostacolo, perchè egli solo saprà
impiegarla in uno scopo glorioso. Tutto ciò dice lui, l'eroe, ma non lo dimostra l'azione del dramma; e
però il pubblico del teatro non gli crede e non gli da ragione.
VI.
L'arte novissima, auspicando all'umanità un sistema sociale estrocentrico, inneggia ai peccati radiosi,
si ispira ai lampi di un bel delitto, si accende alle fiamme d'ambizione perverse ma titaniche, si esalta
alle magnifiche stragi ad arme bianca. Legouvè chiama le donne che uccidono per amore, le sublimi
omicide, il Lemaître le saluta col nome di angeli dell'assassinio, il Barrès adora lo Spagnolo perchè sa
essere appassionato e feroce, mistico e crudele, desidera veder sangue, mordere, annientare.
Elisabetta d'Austria, un'imperatrice nell'ultimo abbandono delle sue sventure, è distrutta dal pugnale
anarchico; ed ecco il poeta scorge nel delitto la virtù del ferro che compie l'opera del Destino.
L'assassinio non è per lui deplorevole perchè fatale e diventa un saggio squisito d'arte perchè il colpo
è estetico e perc la vittima può ancora navigare per pochi momenti sulle acque azzurre del lago. Il
suo dolore e il suo sogno erano maturi come quei frutti di settembre ch'ella mangiava seduta sulle
rocce lacustri guardando impallidire le belle acque. Il Destino, che aveva scosso con fulmini così
grandi le sommità di quell'anima solitaria, la trattò con una mano altrettanto ardente e forte nell'ora in
cui vide la necessità di staccarla dalla vita e di fissarla nella memoria degli uomini per mezzo
dell'avvenimento impreveduto. Sotto il colpo rapido e preciso la beltà secreta di quella vita imperiale
si rivelò subito ai nostri occhi in un rilievo netto e puro, come il bronzo della statua immortale splende
d'un tratto fuor della ganga spezzata dal colpo del martello brutale. In quella fine sanguinosa fu una
perfezione che si elevava all'altezza della tragedia sopra la cronaca monotona della morte, una morte
armoniosa.
E ancora lo stil nuovo, benc riposto tra le pieghe della tunica talare, penetra profondamente nella
causa del medesimo assassinio e vi scorge
il disperato dei vecchi secoli
dolore accolto tutto in un'anima
sognante una nequizia
grande che par giustizia;
e si spinge fino a intravedere acutamente in quella morte l'indizio e quasi l'auspicio d'una vita più viva
e vissuta:
È fatto nuovo, che tra le lacrime
paterne lieto matura a' parvoli,
e di vita più forte
fa messaggio la morte?(19)
Il colpo dell'anarchico di Ginevra appare così bello nella sua estetica criminosa, anche perc scevro
di quel solo e scarso interesse che si può scorgere nei sacrificî anarchici, quale è l'odio verso i
partecipi della potestà civile, che la medesima interpretazione di bellezza sorge spontanea anche nella
mente del mite poeta di Myricae, che canta al carcerato:
Dormi? Oh! lontano tu sei già trascorso.
Nel sonno oscuro il tuo pensier calpesta
Suolo senz'eco e vie senza rimorso
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
perchè l'hai tolto a qualche regia scure
il ferro per il tuo pugnal plebeo.
VII.
Ecco che nell'estetica del delitto l'arte nuova incontra ed esalta stessa; invece la scienza vi scorge
una malattia. Vi scorge un eccesso morboso del senso estetico, che si rivela manifesto quando tende a
suggestionarsi, quando si sforza di ostentare pregi e virtù dove non sono che istinti e vizi, quando
ricerca e riconosce il segno della bellezza nei fenomeni stranieri al fine e alla legge di conservazione
del mondo attuale, quando insiste in un lusso di attività e di energia che conducono al contrasto e alla
distruzione di altre attività ed energie più utili, anzi indispensabili all'umanità, quando del male che
descrive non fa il ponte che si attraversa per giungere alla sorgente del piacere ma forma l'oggetto
stesso del piacere, l'eccitante estetico immediato.
L'arte nuova, consapevole e sgomenta delle esaurite dovizie dell'antica, costretta a ricercare effetti
nuovi e compensi inusitati, non fa che raccogliere e sfruttare fatalmente questi elementi che sono nella
real della vita attuale: allora non è che il delirio di questa febbre di stimoli e di emozioni. Perciò è
decadente, perche tale è un costume che non conosce freni sacrifici negli istinti del piacere, che
non conosce misura nella conquista delle più raffinate emozioni. Ma è intima e rispondente al suo
tempo, perc deriva direttamente da una tale istintività infrenata, più intima dell'arte d'altri tempi, la
quale non ci ha sempre rispecchiato tutta la verità delle loro tendenze istintive. Oggi le tendenze si
comunicano meglio, forse si sentono di più, certo si ostentano volentieri; ecco perchè un'estetica
nuova che anima il delitto e ispira l'arte è al tempo stesso intima e ostentata, languida e audace.
VIII.
Il danno è in ciò, che anche l'arte più debole e mediocre svolge la sua influenza nei costumi e nel
delitto. La spiegazione di tale influenza è quella di una suggestione più potente delle altre, che
all'istinto dell'imitazione aggiunge l'abbellimento e l'accreditamento dell'esempio artistico sotto forme
ingannevoli e fascinatrici.
È inutile che tentino negarla, questa influenza, gli scrittori che per appunto furono anche influenti.
Beyle, per esempio, diceva: - Il libro è uno specchio che cammina sopra una strada: questo specchio
riflette il fango: e voi l'accusate d'essere immorale? Ma accusate piuttosto la via dove il fango s'è
accumulato e ancor più il cantoniere stradale che ha lasciato formarsi il pantano. - E nessuno vorrà
difendere il cantoniere stradale, ma ognuno osserve che, se il fango non è una bella cosa, non c'è
ragione di rispecchiarlo, perchè in grazia dello specchio si vede due volte, nella strada e sul vetro.
Bourget porta un esempio: - Se un diabetico si fa una ferita, può morire; ma non l'uccide la ferita;
questa non fa che rivelare uno stato patologico. - E sta bene, ma, se non era per la ferita, lo stato
patologico di per non conduceva alla morte; sicc è da consigliare chi vuol menare di coltello a
rimetterselo in tasca, perchè tra la gente che si busca una ferita ci possono essere anche i diabetici di
Paul Bourget. È inutile giocar di parola. C'è un'influenza reciproca tra costume e letteratura: il
costume è il modello, la letteratura il quadro; ma il quadro diventa alla sua volta modello, esempio,
attrattiva. La sua influenza è in questa realtà; nell'esperienza è la sua conferma.
Dissi di già come al tempo che furon rappresentati e divulgati I masnadieri dello Schiller, nei quali il
protagonista Carlo Moor raffigura un brigante invaso da sogni di grandezza, mossi da un profondo
disgusto verso il mondo della vecchia costituzione, un brigante che vuol romperla con tutte le
menzogne sociali, non mancarono giovani eletti e di onorevoli famiglie della Germania che si dettero
al brigantaggio, inducendosi a vivere e scorrazzare nelle foreste per erigersi giudici e condannatori
d'una società colpevole e aborrita.
Dietro il furor d'entusiasmo che suscitò il Werther del Goethe, dove il suicidio è presentato sotto così
lusinghevoli apparenze, caddero più vittime che per il fascino delle più adorabili donne. Quasi tutti
quegli infelici furon trovati col volumetto istigatore in tasca. Sicchè all'autore giunsero imprecazioni e
lettere di madri che lo rimproveravano di avere spinto i loro giovani figlioli alla morte. La celebre
scrittrice Hohenhausen lo apostrofava con una veemenza che l'amor materno le faceva certo
perdonare: - O uomo - gli scriveva - che Dio ha dotato di genio, uomo che dovevi essere educatore
della razza umana, Dio ti chiederà conto dell'uso che hai fatto del tuo ingegno. - Gli stessi pastori
protestanti non ristettero dal chiamare il Goethe assassino. E come nell'Indiana della Sand, altro
romanzo di simile suggestione disperata, il suicidio era attuato a due, così i suicidi si successero a
coppia. Il dottor Bancal, medico reputatissimo, aprì la serie uccidendo la sua amante e tentando di
suicidarsi, e in cfare ricopiò esattamente la scena descritta dalla Sand.
Quando, a mezzo il secolo scorso, Alfonso Karr, col suo romanzo La Pénépol normande, rimise in
moda il vitriolage, una delle vecchie maniere di sfigurare gli amanti, perc non tutti possono
concedersi il lusso regale di Elisabetta di Russia, che fece tagliare il naso a due signore
dell'aristocrazia, troppo amate per la loro bellezza, un marinaio iniziò il ciclo delle imitazioni, che
sono sempre attraenti nel delitto come nel suicidio. Tradito dalla moglie, dopo essersi battuto col suo
rivale, averlo ferito ed esserne stato mortalmente ferito, chiamò al suo letto la donna, l'attirò a per
baciarla un'ultima volta, e le premette sul viso un fazzoletto inzuppato di vetriolo, che tutta la bruciò.
D'allora il vitriolage ebbe una grandissima diffusione in Francia.
IX.
Gli scrittori che fecero esperienza delle proprie opere non teorizzarono come Beyle e Bourget, ma si
dolsero degli effetti che non avevano voluto. Lo Schiller, costretto a scampare alle molestie del duca
Carlo e della società scossa dal dramma geniale nel suo vecchio ordine costituito, emigrò in solitudine
e deviò dalle manifestazioni del suo primo lavoro. Il Goethe, a malgrado della sua gagliardìa d'animo,
si sentì inseguito dallo spettro delle sue vittime e particolarmente della signorina Wrangel di Weimar,
che credendosi abbandonata dal suo promesso sposo si gettava nel fiume, presso il giardino dello
stesso Goethe, ed era raccolta esanime sotto i suoi occhi, mentre aveva indosso il libretto del
"Werther". Il Foscolo, che imi questo libro nel tono deprimente con l'"Jacopo Ortis" e ne cagio
qualche simile effetto, se ne dolse pubblicamente. - È reo - scrisse - chiunque fa parere inutili e tristi
le vie della vita alla gioventù, la quale deve, per decreto della natura, percorrerle preceduta dalla
speranza. - E ad un giovane che gli domandava se poteva scrivere come Jacopo, rispondeva: - Sì, ma
metto una condizione: che tu abbia perduto non l'innamorata, ma la patria, e quella patria e a qual
modo.
Il Boccaccio, che sapeva di aver prodotto tutt'altri effetti col Decamerone, ma non certo morali,
avendogli scritto l'amico suo Mainardo Cavalcanti come si proponesse di dare a leggere il Novelliere
alle sue donne, si affrettava a sconsigliarnelo con un'ansia di vecchio pentito, che commove. - Tu sai -
gli scriveva - quante cose vi siano men che decenti, anzi contrarie all'onestà, quanti pungoli alle
veneree concupiscenze, quante cose atte a sospingervi un petto anche di bronzo, le quali, sebbene
sieno incapaci di trascinare all'incesto illustri donne, sulla cui fronte è scolpito sacro pudore, vi
insinuano tuttavia con passo tacito un ardor lusinghiero.... Guardati, te lo ripeto, per mio consiglio,
per mia preghiera, dal farlo.... Leggendolo mi ripeteranno turpe mezzano, incestuoso vecchio, uomo
impuro, turpìloquio, malefico ed avido relatore delle altrui scelleraggini. - E Victor Hugo, che pure
non aveva da rimproverarsi particolari effetti funesti, sentiva il bisogno di fare la sua ammonizione: -
O poeti, abbiate sempre un fine morale dinanzi a voi: non dimenticate mai che i fanciulli vi possono
leggere: abbiate pietà delle piccole teste bionde. Noi dobbiamo ancora più rispetto alla gioventù che
alla vecchiaia.
Ora, se può sonar romantica, è giusta la difesa dei fanciulli, e specialmente delle fanciulle, che posson
leggere e leggono più degli adulti. Ferdinando Martini, in una polemica sulla verecondia della
letteratura, essendogli state messe dinanzi agli occhi queste gracili vittime della licenza, esclamava: -
O maritatele una buona volta, queste ragazze. - Sì sì, ma la dote non gliela dava lui; e un'arguzia non
sempre risolve una questione.
Si dice agli scrittori: proponetevi un fine morale. Ma non sempre il fine salva i mezzi se non assorbe
in il loro effetto immediato, perchè, vedete, avviene questo nella realtà: che mentre l'autore scrive
per un fine morale e col calcolo di rivolgersi a lettori capaci di distinguere il fine dai mezzi, ecco che
coloro i quali potrebbero leggere tali pagine senza pericolo, anzi con profitto, non le leggono, e coloro
che al contrario dovrebbero leggere altre cose non leggon che quelle.
Il segreto del libro onesto non sta soltanto nel fine morale, ma nell'assoluta ed esclusiva attitudine
dei mezzi a conseguire quel fine, in modo che i mezzi non gli prevalgano e non lo soverchino.
X.
Ha ragione lo Spencer di mettere in ridicolo la teoria del grand'uomo e di negare una grande influenza
nel mondo al genio, perc questo non è se non il prodotto di quello, è un figlio e non un padre del
suo tempo, è un uomo non attivo ma rappresentativo, un attore e non un autore del dramma storico;
ma se l'opera del genio non può avere di regola una grande influenza nel costume e nelle sorti del
mondo, ne ha però una innegabile e potente nella cerchia circoscritta dei costumi e dei vari soggetti
singoli e particolarmente dei deboli e degli iniziati all'aberrazione.
Or è l'anno, a Firenze, furono condannati due amanti, Adolfo Fuscati e Isolina Grossi, rei di avere
strangolato una giovanissima sposa, della quale uno degli strangolatori era da tre mesi il marito. Tra i
documenti del processo contro la coppia criminale era un romanzo del signor Adolfo Lovati, assidua
lettura della coppia nelle sue veglie d'amore; e quel romanzo si chiudeva con l'uso ferale d'una corda,
quale servì al delitto, e recava per titolo un programma: Amore assassino(20).
Ancora a Firenze, una sera d'estate del '21, due suoceri chiudono la tranquilla e calda giornata
bevendo insieme un malinconico caffellatte, che il recente genero aveva preparato per loro. Sono
contemporaneamente còlti da gravi e strani disordini, ai quali reagisce la suocera svuotando lo
stomaco, ma non il suocero, che dopo tre giorni muore. Mentre corrono queste pagine, la Giustizia ha
pronunziato l'accusa di veneficio contro quel genero, capitano dell'esercito, dopo averlo dimostrato il
più bugiardo degli uomini.
In realtà costui, nel calare in quella casa attraverso la seduzione del giovanissimo cuore dell'unica
fanciulla, superstite al fratello caduto da poco in guerra, vi imperver con tutte le sue trame false:
presentò una sua laurea di ingegnere falsa, donò alla bellissima sposa nella vigilia delle nozze una
grande collana di perle false, all'altare le porse un rutilante anello falso, accampò riserve patrimoniali
di famiglia false. Ma quando dovette pagare un forte debito di giuoco, contratto nei primi mesi di
matrimonio, non trovò altra riserva che il cuor generoso e addolorato del suocero, che pagò di sua
tasca. E come il pover uomo fu morto, il genero avido e impaziente dell'eredità, che trapassava per tre
quarti alla sua moglie docile, rubò tre titoli del valore di trentamila lire, presente il cadavere atteggiato
a vittima pietosa del suo scellerato disegno di menzogne e di latrocinio.
L'accusa attribuisce all'avvelenatore l'uso dell'aconito. Ora tutti i librai fiorentini hanno in vendita,
non da oggi ma da sette o ott'anni, più d'una traduzione italiana del racconto di Oscar Wilde (del
nostro "Esteta Convertito" del seguente capitolo) dal titolo "Il dovere del delitto", dove lord Arturo
Saville, ritenendosi obbligato per ossessione a un delitto, tenta di propinare alla sua vecchia cugina
lady Clementina Beauchamp una buona dose d'aconito, veleno di effetto spedito, di facile impunità,
com'è lucidamente detto nel volume di Erskin, consultato da lord Saville. A Firenze anche l'aria ha le
sue influenze d'arte e di letteratura.
Il Pranzini, soppressore della ricca e bella mondana Régnault, racconta che poche ore prima del suo
delitto aveva letto con l'amante il romanzo Le Joueur, nel quale si descrive un altro amore assassino.
La signorina Lemoine, rea d'infanticidio per aver soppresso il bambino nato dal suo amplesso con un
cocchiere, confessa nel processo svoltosi a Parigi che i romanzi di Giorgio Sand l'avevano sconvolta.
Quei romanzi esaltavano le unioni ineguali e dimostravano che l'adulterio non consiste nell'ora breve
che la donna dedica all'amante, ma nelle lunghe ore che sacrifica al marito. E la Lemoine soggiunge
che particolarmente dal romanzo Valentine aveva tratto la persuasione della bellezza e della felicità di
elevare fino a sè un essere umile, di dar la gioia a un verme innamorato di una stella!
XI.
E quanto meno l'arte è alta e tanto più è facile la sua influenza al male, qualunque sia l'argomento che
svolge, dovunque conduca l'azione che muove. L'arte, sia la più subordinata ai metodi della verità
positiva, ha un ideale intrinseco in sè stessa, che è il suo fine supremo e che prescinde dall'argomento
e dall'azione, che pur sono i mezzi subordinati a quel fine. Se i mezzi non sono subordinati ma
soverchianti ed esaurienti in sè stessi, si può parlare d'un buono studio o d'un bel pezzo d'arte ma non
d'un'opera artistica. L'ideale, che è la sua ragion d'essere, è una pura astrazione di bellezza, un effetto
eliminativo più che cumulativo dei particolari dell'opera. Di modo che nell'arte grande un particolare
di nudo, un argomento di bruttura, un'azione di malizia non è deve essere il fine l'effetto
dell'opera; il male in una tal'arte non può essere la sorgente stessa del piacere immediato ma il
ponte che si attraversa per giungere alla soddisfazione del piacere indiretto, consequenziale. Nella
sproporzione e nell'eccesso di mezzi che siano di per osceni o licenziosi rispetto al fine, che deve
sempre emergere nobile e puro, sta il discrimine del lecito e dell'illecito nell'arte.
Una figura tutta nuda come la Venere Capitolina ci suscita un'emozione purissima; le grandi e franche
nudità di Michelangelo nel Giudizio Universale, invece di svegliarci il senso del pudore e offenderlo,
mettono così in alto il fàscino dell'opera, che quelle forme paiono rivestirsi di una luce soprannaturale
e trasfigurarsi; quell'arte
che amore in Grecia nudo e nudo in Roma
d'un velo candidissimo adontando
rendea nel grembo a Venere celeste,
divinizzava l'umano, non lo imbestialiva. Infatti gli artisti greci preferivano rappresentar nudi gli dèi e
gli eroi e gli uomini che innalzavano al grado di numi; e dall'esser tutta nuda la statua del Gladiatore
Borghese si argomentò che ella non dovesse rappresentare un semplice gladiatore ma un eroe. I
plastici romani che vollero aggreggiarsi agli adulatori nell'apoteosi dei loro sozzi imperatori li
effigiarono nudi. Nudo significò, in Atene e Roma, immortale.
E così ci furono poeti grandi che posero nel paradiso terrestre della loro strofa l'uomo e la donna
perfettamente nudi come uscirono dalle mani di Dio; ma non fecero che divinizzare alla lor volta la
nudità. Il peccato originale non era per loro, come non è pei loro compagni di levatura superiore alla
mediocre, il tema unico e dominante dell'opera, ma incidentale e subordinato.
E pe non è giusto attribuire un'influenza malefica nelle scuole all'estetica classica, benc
malamente professata(21). Se s'allude alla storia del mondo classico, si può ammettere che la nota
della violenza sia predominante rispetto a quella della frode, che è tristamente propria della storia
moderna. Ma non si deve ammettere così per fretta che l'esempio della malizia sia più educativo di
quello della forza. Del resto la storia di Roma, che più è ispirata alla violenza, non manca del tutto di
contenuto morale. La liberazione di Roma, prima dai re e poi dai decemviri, dipende dai casi di due
vittime muliebri, Lucrezia e Virginia, sacrificate al pudore. Coriolano non arretra davanti al Senato e
solo s'arrende ai rimproveri della madre e della sposa, per ubbidire ai quali si sacrifica al nemico.
Nella stessa corrotta età imperiale, ammutinatesi le legioni, uccisi i centurioni, lo stesso Cesare
Germanico spregiato, quei soldatacci inferociti e pieni di disprezzo si arrendono quando vedono la
moglie Agrippina.
Se poi s'allude alla letteratura classica, i poemi omerici furono considerati dalla riconosciuta sapienza
di Licurgo come uno dei più efficaci mezzi di educazione del popolo spartano, per l'elemento civile
che vi scorgeva. Quello stesso scetticone di Orazio, nell'esporre l'alto ufficio morale del poeta, diceva
che Omero definì meglio di Crisippo e di Crantore quid sit pulchrum, quid turpe, quid utile, quid non.
Senofonte, Cicerone, Virgilio tesserono le lodi della semplicità e dell'operosità della vita rustica.
Un giovine colto, appartenente a famiglia colta, due volte laureato, a Bologna s'insaguina nelle vene
del cognato, premeditandone la strage. Ecco che si pensa alla nefasta influenza degli studi classici su
di lui che ha compiuto anche gli studi di lettere e che poco prima del delitto ha letto in una biblioteca
pubblica Esiodo. Ma a chi pensa così bisognerebbe domandare quale utile influenza ebbero su quel
giovine gli studî delle leggi, nei quali si era pur laureato, delle leggi, la cui conoscenza dovrebbe
dissuadere dal male, se non per la loro virtù persuasiva, per la loro forza intimidatrice. No, il delitto di
Tullio Murri è un caso del tutto dipendente dalle condizioni personali e dalle circostanze occasionali
in cui s'è svolto. E, in guanto a Esiodo, le sue Giornate e le sue Opere sono per appunto una raccolta
di precetti di morale pratica e di economia domestica, nella quale non rientra per nulla l'uccisione d'un
cognato; e la sua Teogonìa si fonda sulla predilezione dell'antichiper le genealogie, che si fondano
alla lor volta sull'amor proprio nazionale, giacchè la storia degli eroi della Grecia metteva capo a
quella degli dèi. Tutta la poesia di Esiodo, contemporaneo o anteriore a Omero, lungi dal corrompere
il costume e ispirare il delitto, ritrae lo spirito ingenuo dei tempi primitivi della Grecia.
XII.
Il contrario è da pensare rispetto a quella simulazione d'arte che non professano stilisti preziosi e
decadenti, ma scrivanelli impuberi e precoci, scimmie impotenti fin nel peccato.
Questi poveri esteti non sono soltanto finzioni letterarie ma rappresentanze d'un ceto. Giovinetti male
iniziati si suggestionano a segno da professare strane teorie intorno al diritto degli alunni d'Apollo, di
tutto concedersi e nulla rispettare, di ribellarsi ai precetti della morale volgare, di subordinare il
mondo ad una falsa arte anche nella real della vita. E, quel ch'è peggio, è stato saviamente
avvertito(22), non mancano in questa vecchia società i plaudenti a cosiffatti enunciati, sol perchè
derivano dalla classe privilegiata degli esteti; e in tal modo genitori vani e innamorate scipite
ammirano come eroismi le aberrazioni incoscienti dei loro beniamini, che perc son così arroganti
spregiatori d'ogni cosa seria e assennata. Di fronte a costoro scompare il fenomeno artistico e sorge il
fenomeno e il pericolo sociale.
Per fortuna non si tratta di uomini ma di superuomini; ma i loro propositi sono troppo ostinati perchè i
poveri diavoli che si chiamano semplicemente uomini non debbano mettersi in guardia contro
un'estetica novissima, non destinata al convegno delle Muse ma al congresso degli antropologi e al
manicomio criminale.
UN ESTETA CONVERTITO
Così scopersi la vita bugiarda.
Purg., XIX.
I.
Ovidio esule attribuì due cause alle sue tristezze: carmen et error. Carme ed errore furono ugualmente
le cause della sventura del poeta irlandese che mutò nella matricola C. 33 del carcere di Reading il
nome celebre e avventuroso di Oscar Wilde.
Il carme è riassunto nel programma della sua opera letteraria: - Un libro non è nè morale nè immorale,
è bene o male scritto. Lo sdegno del secolo XIX contro il Realismo è uguale all'ira di Calibano che
vede in uno specchio il proprio viso deforme. La vita morale dell'uomo rappresenta una parte intima
dell'artista, ma la moralità dell'arte consiste nell'uso perfetto di un mezzo imperfetto. L'artista non
deve avere simpatie etiche; una simpatia morale lo induce a un manierismo intollerabile di stile.
L'artista non è mai corto di soggetti: egli può tutto esprimere. Per l'artista sono strumenti d'arte il
pensiero e il linguaggio. Il vizio e la virtù non sono che i materiali.
Così prelude al suo Doriano Gray dipinto, che suscitò grande scandalo, singolarmente nell'animo di
coloro che non lo lessero, come uno di quei libri che sono scritti bene ma pensati male. L'autore, che
era un grande ingegno ma non un genio, non vi trattava se non di scorcio i suoi istinti pervertiti,
mescolandovi una strana sentimentalità. Marziale, Petronio, il Verlaine, il Platen, lo Shakespeare nei
sonetti seppero col loro genio permettersi assai di più intorno ai loro istinti segreti. È un errore credere
che l'opera del Wilde rispecchi il pervertimento che si nasconde nella persona dell'autore e diffonda
l'immorali che pare enunciata nel suo programma d'arte. Spesso egli è propugnatore di una morale
rigida, che non gli concede di lasciare impune il vizio e inonorata la virtù. Alcuni de' suoi apparenti
paradossi non sono che inosservate verità; non è certo un paradosso affermare che viviamo in un
tempo nel quale le cose inutili sono le sole necessarie, oppure che oggi bisogna essere un po' sempre
inverosimili per parere di essere nel vero.
L'errore si svela negli elementi malsani del carme, vissuti con ostentata attuazione. Sotto il velame
dell'arte che copre quegli elementi si scorge un amore stranamente ideale e stranamente sensuale, una
lotta non vittoriosa tra l'orrido e il bello, tra il guasto e il sano, combattuta con desideri sottili e
rinunzie spasmodiche, un eccesso del senso estetico a tutto sacrificio degli altri sensi, una proporzione
spesso inversa tra le cose tristi che il poeta ci fa conoscere e quelle buone che non riesce a farci
preferire. Ma ad onta di queste perversioni oscure e del programma ostentato, il carme di per sè solo
poteva essergli fonte di fortuna e non di vergogna. Sennonchè il Wilde era uno di quegli artisti che
vivono l'arte propria e se ne fanno l'abito e la responsabilità della vita; onde accadde che negli errori e
nelle ostentazioni della sua condotta si identificò l'arte sua; e così il carme e l'errore si confusero e si
aggravarono in suo danno. - Io ho posto - lo riconosceva da - tutto il mio gemo nella vita; non ho
messo che il mio talento nelle opere. - Simile ai filosofi della Grecia, spesso non scriveva ma parlava;
viveva la sua sapienza confidandola imprudentemente alla fluida memoria degli uomini è scrivendola
come su l'acqua. Coloro che lo avvicinarono(23) ci attestano che era un dicitore e soprattutto un
narratore meraviglioso. Parlava per ore di seguito senza stancarsi, ascoltandosi il suono della voce
lenta, dolce, ben modulata, ridendo sgangheratamente delle sue continue arguzie, mostrando i denti
candidi e la lingua sottile, che pareva leccasse le parole. Da una favola faceva scaturire una scena, da
un fatto ricavava una favola. Non ascoltava mai e non si curava punto del pensiero degli altri, poco
del proprio appena non era più suo.
II.
In questa sua arte parlata era assai più imprudente che in quella scritta e doveva finire per svelare tutto
intero stesso. Mostrava una particolare curiosi per tutte le perversioni, era al giorno di tutti gli
scandali della cronaca inedita, enunciava sentimenti e pensieri contrastanti con la morale comune. In
tutto ciò era qualche sforzo di atteggiamento, qualche ostentazione a fin di richiamo, simile a quella
che confessò il Baudelaire sopra stesso rispondendo ad un prefetto di polizia che gli domandava
come mai un uomo del suo ingegno parlasse come un pazzo: "pour étonner les sots". E se gli sciocchi
giudicano da pari loro e non secondo la sapienza di chi vorrebbe stupirli e non rivoltarli non è loro
colpa.
Ma sotto l'atteggiamento ostentato era una natura veramente anormale. L'ostentazione voleva esserne
l'abbellimento, ma in fondo ne era la rivelazione; sì che i giudici sciocchi erano più vicini al vero che i
sapienti, come qualche volta accade. Miss Jane Francesca Elgee, dalla quale Oscar nacque a Dublino
nel 16 d'ottobre del '54, era una donna strana. Il reverendo Carlo Maturin, un romanziere che il
Baudelaire non meno che il Balzac ammirava, ma non in modo da non dover chiamare diabolico il
suo capolavoro Melmoth il vagabondo, era suo zio. E quest'uomo, del quale il pronipote Oscar fu
ammiratore costante e sviscerato, tanto che dopo l'onta del carcere si scelse il nome di Melmoth, era
un impasto di genio e di insania. Tra le sue stranezze si racconta che quando si dava al lavoro si
appiccicasse un'ostia sulla fronte per indicare che il suo cervello era occupato. Miss Elgee fu scrittrice
essa stessa e sotto il pseudonimo di "Speranza" dette fuori poesie e romanzi nei quali si rivela una
somma facilità nell'immaginare il romanzo nelle cose più semplici e comuni. Rivoluzionaria prima
delle nozze, serbò un carattere forte ed esuberante quando fu moglie di Roberto Wils Wilde, mite e
benefico oculista, ma non meno ostinato e intemperante bevitore. C'è chi in nome della scienza
sostiene che i nati da una coppia di cui la femmina ha maggior vigore di carattere e di intelligenza che
il maschio hanno spesso una grande attrazione per il medesimo sesso. Si sa per certo che come dalla
coppia Elgee-Wilde fu nato Oscar, la madre, che avrebbe preferito una bambina, lo vestì per molti
anni da femmina e come tale lo trattò.
Lady Wilde, benc moglie virtuosa, era rimasta rivoluzionaria nella maniera libera di pensare e di
parlare anche davanti alla prole. Un giorno Oscar, nell'invitare un amico a casa, gli diceva: "Venite
con me, voglio presentarvi a mia madre; noi abbiamo fondato una socie per la soppressione della
virtù". Non avevano fondato nulla; e quella di Oscar era una sfacciata ostentazione; ma sotto c'era
questo di vero: che la madre professava in teoria una tolleranza sconfinata per la rilassatezza della
morale, una confidenza estrema per i peggiori vizi, quale l'alcoolismo, un odio irreconciliabile per le
deficienze fisiche, uno smodato amore per ogni bellezza, infine una vanità straordinaria sostenuta
dalla maggiore prontezza di tutti i mezzi per soddisfarla e dal massimo disprezzo di tutte le difficoltà
per difenderla(24).
Oscar fu il figliol prodigo di queste qualità. Scolaro prima nel Trinity College di Dublino, poi
all'Università di Oxford, fu spesso il primo nelle varie prove di studio, nelle quali gareggiò invano con
lui Edoardo Carson, futuro avvocato, che tra poco vedremo misurarsi col vincitore in una più fiera
gara, nel temerario processo che il Wilde intenterà contro il marchese di Queensberry: e il vinto nella
scuola sarà il vincitore nella vita. In generale tutti i condiscepoli odiavano il Wilde per la soverchieria
sprezzante che mostrava verso di loro; tanto che un giorno, mentre passeggiava in campagna, lo
assaltarono in otto, lo legarono e lo trascinarono in cima a un colle. Il Wilde non si difese, non
protestò; ma quando fu lasciato libero su la vetta guardò intorno e disse: "sì, la vista che si gode da
questa altezza è veramente bella".
Ancora studente, nel '77, fece due viaggi, l'uno in Italia e l'altro in Grecia, con diverso risultato
morale. E da Roma man una delle sue prime prose(25). L'anno di poi pubblicò nelle riviste un
poema su Ravenna, che gli fruttò il premio di Newdigate, e varie poesie, nelle quali una strana
affettazione si innesta ad un quieto classicismo. Lasciata in quell'anno l'Università e giunto a Londra,
vi cercò e purtroppo vi ottenne quel trionfo che ogni città concede a chi la diverte.
Passeggiava in calzon corto le strade come un trasognato che insegua la propria chimera, recitando a
voce alta dei versi come delle preghiere, tenendo nelle mani un giglio o un girasole, familiarizzando
con giovani d'ogni ceto e facendoseli suoi discepoli. Dapprima portava anche i capelli lunghi; ma poi
si accorse che l'atteggiamento boemo era già fuori di data e uscì dalle mani del parrucchiere come un
gentiluomo del giorno, dicendo che aveva preso questo partito dopo avere ammirato il busto di
Nerone. Chiacchierava chiacchierava chiacchierava, di circolo in circolo, di carrozza in carrozza, di
drogheria in drogheria(26); e così obbediva al bisogno di una celebrità moderna, provvedendo a
quelle cose inutili che erano le sole necessarie. Infatti a qualche amico confidava come andasse
cercando un editore, che non trovava.
I bellimbusti londinesi furono contenti di presentare alle loro mense l'uomo intorno al quale la città
elegante parlava volentieri e i giornali umoristici si sbizzarrivano di gusto. Pare che veramente
riuscisse singolare nella conversazione, tanto da giustificare la viva curiosità che suscitava. Anche il
principe di Galles volle conoscerlo. Ma quella società, che andava contraendo con la colpa del suo
ospite la propria colpa, incoraggiandolo nella sua compiacenza malsana, eccitandone la vanità e la
follìa, che avean tanto bisogno di disinganno e di freno, perdonandogli tante cattive azioni,
intimamente lo odiava. Di quest'odio egli sarà inconsapevole fino all'ultimo, tanto quanto la plebaglia
che nell'ora della condanna gli urlerà contro come a un idolo dell'aristocrazia da spezzare.
III.
In cerca di maggior fortuna, andò tra l'82 e l'83 negli Stati di America, nel Canada, nella Scozia e in
Francia. Meta di questi viaggi era un servigio che voleva rendere al movimento estetico; e consistette
in conferenze che tenne su per i teatri con molta teatralità, parlando più particolarmente dell'estetica
del Rinascimento inglese e di arte decorativa. Intorno alla quale per lo meno professava idee di buon
gusto; per esempio: "non bisogna, nella decorazione della casa, imitare una materia con un'altra; non
bisogna dipingere il legno a imitazione della pietra o la carta da parati con l'apparenza del marmo".
Oppure: "ci fu un tempo che ogni cosa era bella; il vero fondamento d'ogni manifestazione artistica
era: stimate e onorate l'artigiano; per altra via l'arte diventa il lusso di pochi opulenti e la moda di
poche stagioni". Nondimeno la fortuna letteraria si risolse nello scherno col quale spesso il
conferenziere fu annunziato, accolto, giudicato; quella pecuniaria fu tale che lo trascinò alla miseria.
Lo sollevò da questa infruttuosa e triste condizione l'incontro con la bella e gentile irlandese Costanza
Lloyd, che gli accordò la sua mano e una sufficiente dote. Quando nel maggio dell'84 si fecero le
nozze a Dublino, lo sposo esteta volle dirigere la parte decorativa, imponendo anche l'abbigliamento
della sposa, la quale, semplice e buona com'era, apparve anche in seguito e più volte sgomenta di
trovarsi vestita alla greca tra una folla di invitati e invitate dalla moda più corrente e fastosa. Ma dalle
comodità della nuova vita potè finalmente sorgere lo scrittore, che per la sua natura singolare non
avrebbe potuto venir fuori dal raccoglimento e tra le privazioni. Ai Racconti fantastici, che sono forse
la prosa più caratteristica di lui, già sparsi per i giornali, succedono le Intenzioni, libro paradossale in
cui batte di fronte gli aforismi comuni della borghesia; poi Doriano, il romanzo più clamoroso; poi la
Casa dei melagrani, una raccolta di novelle squisite e immaginose; il Dovere del delitto, uno specchio
nitido e luminoso di un caso di suggestione criminale; poi gli altri scritti che si frammezzano con le
opere drammatiche rappresentate anche a tre e quattro per volta sui teatri di Inghilterra e talune anche
negli altri teatri d'Europa. Il marito ideale, Una donna di nessun conto, Tragedia fiorentina, Il
Ventaglio di lady Windermere, Salome sono componimenti che rivelano non un genio drammatico,
ma un ingegno versatile, signore dell'arte sua, conoscitore del suo tempo.
L'opera letteraria del Wilde, oggi è nota anche in Italia. Resta a sapere quanto fosse fortunata
nell'attualità della sua produzione e durante la vita dell'autore. - Ignoro - dice Enrico de Régnier - se i
suoi versi valessero quelli di Algernon Swinburne, ma so che un volume di saggi della più ingegnosa
dialettica, un romanzo drammatico e significativo, quattro bellissimi racconti e la fama indiscussa che
lo proclamava primo tra gli esteti d'oltre Manica gli conferivano gloria e testimoniavano l'importanza
della sua persona. Piacque, dilettò, stupì. Ci fu entusiasmo per lui, ci furono fanatici. Ricordo come la
signora di un amico nostro affermasse di vedere intorno alla fronte del suo ospite un'aureola
luminosa.... Lo ammiravano e si ammirava da con compiacenza profonda. Aveva un corteo di
discepoli, una scorta di referendari. Non gli mancò la gioia di vedere le proprie opere sfarzosamente
edite. I suoi poemi si vendevano rilegati in pergamena bianca con fregi d'oro, il suo Doriano con una
copertina di preziosa carta color grigio, da sembrar cenere di sigarette, la Casa dei melagrani con
custodie di tale carta da simulare preziose stoffe per panciotti. Si rappresentavano con buon successo i
suoi lavori in molti teatri.
Era dunque sulla vetta della gloria: da sè stesso si chiamava re della vita: e ciò in grazia del carme.
IV.
Ma l'errore, il suo massimo errore, fu quello di conoscere lord Alfredo Douglas, figliolo del marchese
di Queensberry, un giovanetto pallido, sdolcinato, pronto a tutte le imprudenze e le esagerazioni, che
scriveva versi su "i due amori" e "in lode della vergogna" e traduceva dall'originale francese in inglese
la Salome dedicata a lui stesso. Costui condusse alla rovina il Wilde, che col suo programma artistico
scritto e vissuto camminava lungo i margini del sospetto, come su l'orlo del precipizio: e lo cacciò
nella tempesta di un odio di famiglia solo paragonabile a quello degli Atridi.
Alfredo, indifferente alle convenienze sociali, temerario anzi nel fronteggiarle, forse desideroso di
un'aureola triste di celebrità, dovette sentire il pregio di una mano abile e forte, per quanto
contaminata, che lo guidasse, come quella del Wilde; il quale, bencripetesse volentieri che non si
può amare più di sei mesi la stessa donna (voleva dire la stessa persona), potè serbare la sua amicizia
con Alfredo per nove anni, dal '91 fino alla morte.
Lord Queensberry volle rompere i legami di una tale amicizia. E ciò dette luogo ad una
corrispondenza che divenne un documento terribile di prova giudiziaria e di miseria umana. Il padre si
doleva col figliolo che a ventiquattr'anni avesse lasciato Oxford e non si disponesse ad abbracciare
alcuna professione, si ricusava di fornirgli denaro per soddisfare i suoi vizi e gli rimproverava di avere
troppa intimi con un animale bruto, col quale lo vedeva spesso a braccetto. (L'animale era un
traslato e indicava il Wilde). Alfredo rispondeva per lo più con un telegramma per dire al padre
solamente: "Siete un pazzo". Il padre ributtava, replicando, la pazzia sul figliolo, come non si trattasse
di cosa di famiglia! "Sola vostra scusa - gli scriveva - può essere la pazzia; non per nulla a Oxford vi
si credeva pazzo. Se io vi trovo ancora con quel bruto, farò uno scandalo tale da suscitarvi contro tutti
gli onesti e vi priverò dell'eredità. Sappiate dunque come regolarvi". Alfredo replicava con uno de'
suoi telegrammi di tre parole. Il padre ributtava che pazzo era proprio lui e scriveva con la nota d'una
degenerazione profonda che scende per li rami: "Siete pazzo e vi compiango, e non mi fa meraviglia
che abbiate potuto divenir preda di codesto orribile bruto. Quando eravate ancora bambino, spesso,
vicino alla vostra culla, io piansi pensando a chi avevo generato". Altro telegramma di Alfredo. Il
quale, per verità, nella brutta faccenda della culla non era il colpevole ma la vittima.
Ma vittima compassionevole del più atroce destino era alla sua volta il padre, che dinanzi alla
malignità della natura invincibile non trovava requie al suo dolore, che era il più grande dei dolori,
come quello che rende intollerabile la vita nel suo compito fatale di perpetuarsi e infligge strazi e
sgomenti disperati dove si aspettano consolazioni e dolcezze soavi. Altre volte il padre minaccia il
figliolo di accarezzargli con "un bastone nuovo"
la schiena sensibile e in quanto a Oscar di ucciderlo. Allora Alfredo non telegrafa; scrive: "Poichè non
aprireste le mie lettere, son costretto a scrivervi una cartolina. E vi dico che le vostre minacce non
hanno assolutamente potere sopra di me. Dopo la vostra azione verso O. W. procuro e procurerò di
mostrarmi sempre con lui nei luoghi più frequentati, continuerò ad andare dove e con chi mi par
meglio. Sono maggiorenne e padrone di me stesso; m'avete diseredato per lo meno una dozzina di
volte;voi avete su di me un diritto qualunque, morale o legale che sia. Se O. W. intentasse contro
di voi un processo per diffamazione, potreste esser condannato a sette anni di lavori forzati:
nonostante tutto il mio odio contro di voi, desidero che ciò non avvenga, ma se voi tenterete di usarmi
violenza, mi difenderò con l'arme che porto sempre meco e se vi ucciderò sarò perfettamente nel mio
diritto. Del resto non credo che la vostra morte possa rincrescere a molti".
In quanto al parricidio forse gliene manl'occasione; in quanto a continuare a fare tutto quello che
gli piaceva ed a mostrarsi col Wilde, Alfredo fu di parola. Chi lo vedeva in compagnia di lui nei
"gabinetti riservati" e in altri convegni era preso da un sentimento di paurosa curiosità, domandandosi
se non stesse per sopraggiungere il padre con quel "bastone nuovo" di cui aveva fatto minaccia(27).
Ma il padre sopraggiunse davvero alla prima rappresentazione della commedia Ernesto o La necessi
di essere uomo serio, nel Saint James Theatre, dove suscitava grande commozione tra gli iniziati.
Voleva gridare, in presenza di tutto il pubblico, all'autore, ciò che pensava di lui; ma fu trattenuto
fuori. Si dovette contentare di fargli consegnare un bel mazzo di legumi, e più tardi, recatosi al circolo
che il Wilde frequentava, lasciò per lui un biglietto dove formulava l'accusa di "pose esteriori". Era la
premeditazione dello scandalo. Era infatti premeditata l'abilità di lord Queensberry nell'accusare il
Wilde non di azioni mal suscettibili di esser provate ma semplicemente di apparenze, di "pose". Il
Wilde, un pesce fuor d'acqua nel regno giudiziario e incosciente come tutti i pervertiti, abboccò
all'amo e si querelò dell'ingiuria. Lord Queensberry fu arrestato secondo il rigore della legge inglese.
Tutta Londra se ne commosse e arse del più acceso favore per l'uomo che tentava salvare il figliolo
dalla rovina e la società dall'ignominia.
V.
Il giorno del dibattimento (3 aprile '95) Oscar Wilde si recò al tribunale in cocchio a due cavalli e con
due servitori in livrea, accompagnato da lord Alfredo. Il giudice però non permise che il giovanetto
assistesse all'udienza e si mostrò assai severo verso l'amico maggiore, il quale pareva non si rendesse
conto della gravità del suo caso. L'aspettazione era al colmo; la curiosità e la turbolenza della folla,
alla quale non sono mai chiuse le porte dalla procedura inglese, spinta al delirio. Il marchese
querelato, che aveva ottenuto la liber sotto cauzione di 12000 lire, sosteneva che il libello era
fondato su l'interesse pubblico e per un fine sociale. Cominciarono le prove documentali: lettere
rivelatrici e non di Oscar e Alfredo soltanto. Se ne chiese la giustificazione. Allora cominciò uno dei
soliti interrogatori interminabili su l'arte e la morale, in cui si mostrò abilissimo l'avvocato Carson,
l'antico emulo del Trinity College e ora spietato avversario del Wilde sotto la veste di difensore del
Queensberry.
Il Carson chiese al querelante ragione di una certa novella comparsa nella rivista Il Camaleonte e
intitolata Il prete e l'accolito, nella quale i due protagonisti si avvelenano dinanzi all'altare per
rinunziare ad un mondo che non comprende il loro amore. Il Wilde negò di esserne l'autore "perc
era male scritta ". Gli chiese conto di certe espressioni che si leggevano in una lettera da lui
indirizzata a lord Alfredo: "Bosie, non fatemi delle scenate, mi fan troppo male; distruggono la
dolcezza della vita; vi veggo, voi così greco e così grazioso, diventar brutto sotto la passione dell'ira;
non posso vedere le vostre labbra rosee e nello stesso tempo udire le vostre parole; mi spezzano il
cuore". Il Wilde dichiarò che tutto quanto era scritto da lui era sempre originale e fuor del comune e
ammise che il suo affetto per Bosie (era il vezzeggiativo di Alfredo) era grandissimo, senza
ammettere con questo alcuna colpa. Il Carson allora lo trascinò sul terreno della chiara incoerenza tra
le teorie artistiche o sentimentali e le amicizie e gli chiese ragione della sua consuetudine di vita con
giovani scostumati, alcuni abbastanza volgari, come un altro Alfredo, il suo futuro compagno di
sventura giudiziaria, giovani dai modi e dagli occhi di tribade e dai calzoni che invece delle tasche
avean dei tagli. Il Wilde seguitò a schermirsi con l'audacia delle ammissioni astratte in contrasto con
la realtà rinnegata e disse che amava la gioven e in questo amore non aveva pregiudizi di classe.
Osò citare anche Michelangelo e fu applaudito. Il Carson gli doman se avesse mai baciato un
povero servitorello di lord Alfredo: il Wilde lo negò "perchè quel giovinetto era troppo brutto". Il
Carson lo incalzò ancora per sapere se avesse avuto notturne confidenze con un giovane commesso
del suo editore. Il Wilde credette gli bastasse negare le confidenze e ammettere la pazza ammirazione
che aveva acceso quel giovane per lui nel vendere e nel sentir lodare le sue opere.
Incerta era la pugna; i due campioni dell'antica palestra scolastica si misuravano in questa tanto più
terribile e con forze tanto diverse: la pazienza e la pratica d'una schermaglia in azione da una parte,
l'agilità e l'audacia delle immagini sospese sulla realtà dall'altra; ma il cimento delle prove doveva
decidere della vittoria. Il commesso dell'editore confessò la sua debolezza; alcune donne spiatrici
della condotta del Wilde in un albergo rivelarono altre simili intimità; qualche altro testimone offerse
indizi di inconfutabile valore.
Il 5 d'aprile, quando doveva essere esaminato Alfredo Douglas, ecco, in mezzo ad una grande
commozione, sir Clarke, l'avvocato del Wilde, levarsi e annunziare che il suo cliente desisteva dalla
querela contro lord Queensberry. "Sarebbe contrario all'interesse pubblico - disse sir Clarke -
esaminare tutti questi testimoni e rimestare tutto questo fango". Più abile del suo avvocato, Oscar
Wilde scriveva subito ad un giornale come si rassegnasse a sopportare tutta l'ignominia che lo colpiva
perchè non voleva lasciare lord Alfredo Douglas testimoniare contro lord Queensberry, il figliolo
contro il padre.
Ancora una volta il pensiero era geniale; ma l'uomo era ormai perduto. La sera di quel giorno, in
conseguenza dei risultati del processo promosso da lui stesso, fu arrestato. Londra ne fu piena di gioia
e salutò lord Queensberry con nomi di ammirazione e di riconoscenza perchè era dovuto andare in
prigione per mettervi il suo spregevole accusatore. Nei cartelli dei teatri che annunziavano le
commedie dell'arrestato si dovette sopprimere il nome dell'autore; ma la fortuna delle
rappresentazioni, per quanto anonime, fu più dell'ordinario clamorosa.
Il nuovo processo, che cominciò il 25 d'aprile, fu, invertite le parti, l'ampliamento del primo. Era
intentato anche contro un volgare lenone, ritenuto il mezzano delle avventure del Wilde; che il
trionfatore del libro, del teatro, della vita più eletta e gioconda, dovette sedersi alla barra dei
giudicabili accanto a un lurido soggetto e sotto la più ignominiosa delle accuse. Ambedue furon fatti
comparire più volte e rimandati in carcere a causa della questione per la liber provvisoria, che il
Wilde chiedeva e il giudice negava.
Dopo cinque giorni il processo si dovette rinviare perchè i giurati non si trovarono d'accordo nel
verdetto. Ripreso il 20 di maggio, dopo che, in seguito al rinvio, il Wilde aveva ottenuto la
scarcerazione provvisoria con la cauzione di duemila cinquecento sterline e la separazione della sua
causa da quella del lenone, inclinò subito alla rovina. Il capo dei giurati non si contenne dal
domandare al giudice regolatore del dibattimento che si indugiava a mettere le mani addosso ad
Alfredo Douglas; il giudice da parte sua non rinunz a dichiarare che preferiva assistere, piuttosto
che a questo, al processo del più efferato assassinio. Oscar Wilde fu dalla giurìa dichiarato colpevole
su tutti e sei i capi d'accusa e fu condannato a due anni di lavori forzati.
VI.
Giustizia era fatta. La statua della gloria cadeva infranta sotto il maglio di quella società stessa che
l'aveva inalzata. Invano si cercò di raccoglierne i frantumi e tentarne la restaurazione in nome delle
lettere e dell'arte. Lo tentarono specialmente letterati e artisti francesi, i quali diventarono fanatici del
poeta inglese nell'ora in cui i connazionali ne erano sdegnosi. Ma, ahimè! fu creare un malinteso,
perchè i procedimenti sommari e artificiosi della fortuna non resistono ad una reazione violenta e
profonda. Il sughero che gli gettarono sotto specie d'una gloria da salvare non fece che tenerlo a galla
ed esporlo a nuova furia di pietre e di fango; la sua opera, lungi dal sostenerlo, parve affondare con
lui. Qualche rara mano si tese ancora, ma il fiotto della marea si richiuse sul suo capo. Tutto era
consumato.
E quando tutto è consumato in un'esistenza morale non è dato che un riparo a chi voglia vivere
ancora: rifarsela interamente. Impresa quanto mai ardua e angosciosa e solo possibile per una di
queste vie: o ribellarsi al mondo e alle sue leggi e ingaggiare una rivolta simile a quella del bandito,
cotidianamente sostenuta con tutte le contradizioni alla morale e alla consuetudine comune, o esulare
per sentieri della coscienza opposti a quelli seguiti e orientarsi verso una meta illuminata da luce
nuova, intraveduta a traverso a nuove visioni. Il Wilde aveva già tentato la ribellione al mondo e al
suo costume con le licenze della sua vita, ma ne era stato vinto e sopraffatto; non poteva continuare a
insanire giocondamente in mezzo alla socie contemporanea facendo conto, come fu detto un po'
licenziosamente, di vivere in Italia nel secolo del Rinascimento o in Grecia ai tempi di Socrate; non
gli restava che un'orientazione opposta a quella che gli si era chiusa per sempre. La fama, la gloria, il
fasto, ogni più ambita grazia del mondo erano valori ormai distrutti nel suo patrimonio d'onore: non
avrebbe potuto mai più riguadagnarseli, tranne forse nell'estrema vecchiezza, cioè quando non poteva
più goderne, data la sua singolare natura; gli era dunque indispensabile, se voleva vivere ancora,
rifornirsi di nuovi mezzi, guadagnarsi tutt'altri valori della vita. Restituito per poco alla libertà, prima
della condanna, aveva sperimentato da vicino come quella società che gli era stato tanto benevola e
lusingatrice gli si era lta contro con una persecuzione spietata. Dovette ramingare di dimora in
dimora, essendo dappertutto discacciato appena riconosciuto, sì che non potè risparmiare alla madre il
dolore di presentarsele pallido, scarmigliato, sfinito, cadendo a' suoi piedi e gridando: "datemi
ricovero o muoio sulla strada". Tor alla barra l'ultimo giorno della sua agonia giudiziaria quasi
affrettando col cuore esausto l'adempimento del suo destino. Disse addio ai pochi fidi che lo
circondavano, distrib tra loro alcuni ricordi, baciò la mano alla cognata in atto di profonda umiltà
dinanzi alla virtù sacrificata. Non appena fu condannato i creditori irruppero insolenti nella sua casa, e
delle pregevoli suppellettili fecero non una vendita ma un saccheggio, al quale non furono risparmiati
tra gli oggetti dimenticati dalla signora Wilde neppure una Bibbia donata "dal papà" ad uno dei
figlioli e due piccoli costumi da marinaio(28). E, come fu chiuso nel carcere di Wandsworth e poi in
quello di Reading, il suo nome, a cui teneva quanto alla sua libertà, non fu che un numero, la sua
persona, sempre abbigliata con cura sapiente, fu costretta nel grigio saio del guardaroba carcerario, la
sua parola che ritrovava nell'espressione la vita fu ridotta al silenzio, la spaziosa opera del suo
ingegno si convertì in un rude lavoro forzato di funi da ridurre in stoppia, che gli rendeva le dita
sanguinose e torpide dal dolore. La socie che l'aveva gettato in così basso e oscuro angolo di
degradazione non poteva serbargli sollievi compensi; la nuova orientazione del suo spirito non
poteva essere soltanto la negazione ma doveva diventare la contradizione del passato.
Ecco infatti che nelle ore sopravanzanti al lavoro coatto e alle opere servili con cui si inizia e si chiude
la triste giornata del carcerato ei medita e scrive il suo testamento morale. È un libro che intitola De
profundis dagli infimi abissi donde è pensato: un libro che è la rivelazione piena di un'anima audace,
ultramoderna, affinata al fuoco vivo dell'ingegno e degli studi, provata al cimento più fortunoso di
tutte le gioie e di tutte le seduzioni della vita novissima, che dalle vette sublimi di un'invidiata gloria
pagana discende all'umile e discreta consolazione della semplicità cristiana.
VII.
Sarebbe vile, oltre che ingiusto, negarlo: da diciannove secoli ogni spirito non ottuso si ritrova
nell'alternativa di essere, nel modo di spiegarsi il senso della vita e di praticarla, o un po' pagano o un
po' cristiano. C'è, è vero, chi non è nulla di nulla e crede, nel suo nichilismo morale, di essere un savio
oppure uno spregiudicato, ma in realtà è l'asin bigio che rosicchia il cardo mentre passa il poeta con le
sue memorie e le sue evocazioni nel rumoroso convoglio che divora la via, e non si scompone a tutto
quel chiasso e seguita a brucar serio e lento davanti a San Guido.
Ma Oscar Wilde non apparteneva a questa razza di animali, benc pervertito; egli aveva veduto il
miracol pagano nell'opera d'arte come una realtà convinta della vita, come una gioia e un trionfo della
vita; ora l'idolo pagano era infranto, il miracolo distrutto, la vita gioconda spezzata. Aveva spesso
adoperato i suoi apologhi bizzarri e le sue allegre ironie per confrontare le due morali, il naturalismo
pagano e l'idealismo cristiano, concludendo che questo non aveva senso e terminando con l'inquietarsi
e tormentarsi contro il Vangelo(29). Ora la dura prova delle sue vicende lo disingannava e gli faceva
sentire intimamente come sia privo d'ogni senso oltre certi limiti il naturalismo pagano e come
l'idealismo cristiano abbia da certi altri limiti in poi un senso infinito, per chi sappia intenderlo e
specialmente sperimentarlo, cioè un'inversione dei valori sociali, per cui i primi sono gli ultimi e gli
ultimi i primi, il dolore e la sventura modelli di perfezione, la colpa e la follìa, alla pari del sole e della
pioggia, frutti congemini della natura. "Voi sapete - dice il maestro ai discepoli - -che i principi delle
nazioni fan da padroni sopra di esse e i loro magnati le governano con autorità; non così sarà di voi,
ma chiunque vorrà essere più grande sarà vostro ministro e chi tra voi vorrà essere il primo sarà
vostro servo". E ancora: "i publicani e le meretrici vi precederanno nel regno di Dio". Or qui è
un'assoluta inversione di valori, è capovolto il concetto comune della stima dell'autorità e del mondo,
è assolutamente autonomo il principio di giustizia di fronte al concetto comune. Il Diritto, sia quello
di Roma, sia quello più avanzato d'altre genti, si fonda per sua condizione essenziale sulla forza. Tutte
le istituzioni non riposano sopra altra base. Ora il regno di Dio annunziato con la buona novella non
conosce altra forza che quella morale, non conosce altra legge di questa forza che la libertà
dell'anima, non conosce altro Diritto tranne quello che è funzione maiestatica di Dio, un diritto che
per trionfare non ha bisogno della forza, che anzi deve trionfare, prima che d'ogni altro, della forza
stessa. In questo regno non ci sono le leggi: ci sono soltanto le eccezioni. La ragione civile della
giustizia è dunque sovvertita e annientata; invano la società infliggerà l'infamia e la decadenza civile a
chi cerchi nella dottrina di Gesù estremo e disperato riparo.
VIII.
Tra questi termini inversi a quelli tra cui aveva finora vissuto, il Wilde si ritrova a suo agio come nella
sola condizione di quiete e di compenso che gli resta. Di uno dei primi era diventato l'ultimo degli
uomini: per rifare la sua ascensione spirituale non poteva meglio appoggiarsi che alla dottrina per cui
gli ultimi sono i primi. Il dolore e la sventura gli avevano tolto ogni lusinga della vita, la colpa e la
follìa lo avevano inabissato nell'infamia; nessun altro sistema morale poteva consolarlo meglio di
quello per cui la colpa, il dolore, la sventura e la follìa son cose sacre e mezzi di perfezione.
- Dalla bottega del falegname di Nazaret - scrive infatti dal profondo della prigione - uscì un uomo
infinitamente più grande di tutte le figure dei miti e delle leggende. Per me è incomparabile, questo
giovane di Galilea, che immagina portare sulle spalle tutto il peso del mondo intero, cioè tutto quello
che era da farsi e da sopportarsi, le angosce di tutti coloro i cui nomi sono legioni e la cui dimora è tra
le tombe, i poveri bambini costretti al lavoro anzi l'età, i ladri, i prigionieri, gli abbandonati, coloro
che sono muti sotto un'impressione e il cui silenzio è udito soltanto da Dio. E non solamente egli lo ha
immaginato ma lo ha realmente compiuto; che tutti coloro che vengono in contatto colla sua
persona, anche se non riescono a curvarsi dinanzi al suo altare nè ad inginocchiarsi davanti al prete, si
accorgono in qualche modo che la bruttura dei loro peccati svanisce, mentre si rivela la bellezza del
loro dolore. La sua morale è tutta di simpatia, come dovrebbe essere la vera morale. Se egli non
avesse detto che una sola frase "ti saranno rimessi i tuoi peccati percmolto hai amato", per questa
sola la morte sarebbe stato buon prezzo dell'opera. La sua giustizia è piena di poesia, come dovrebbe
essere la vera giustizia. La sua guerra più veemente fu contro i Filistei, quella che ogni cristiano deve
sostenere. Il filisteismo era la nota caratteristica del tempo e dei luoghi in cui visse. Gli ebrei di
Gerusalemme, con la loro mente ottusa, con la loro grande cura delle materiali della vita e con la
stima ridicola di sè stessi e della propria potenza, erano al tempo di Cristo la copia perfetta dei Filistei
britannici de' nostri giorni. Cristo si fece beffe dei sepolcri imbiancati.
Ecco la rivelazione del movente occasionale del nuovo orientamento. Il filisteismo britannico, di cui il
Wilde era vittima, non poteva essere meglio contradetto che su l'esempio di chi fu vittima e ribelle al
filisteismo ebreo con piena secolare vittoria. La colpa condannata dalla giustizia convenzionale della
giuria londinese non poteva trovare assoluzione che nella giustizia cristiana, che è fatta di simpatia e
di poesia. La perdita della gloria e d'ogni fasto mondano non poteva essere meglio compensata che da
una dottrina che nega ogni pregio delle fortune convenzionali e offre il riposo dello spirito nella
tristezza che abita la vita mediante una serena e quieta umiltà.
- Io ero un uomo - scrive nello stesso libro del carcere - che stava in relazione simbolica con l'arte e la
cultura de' suoi tempi.... Pochi uomini ebbero durante la loro vita una posizione come la mia e
poterono vederla riconosciuta dagli altri.... Stanco di trovarmi tanto in alto, scesi volontariamente in
basso in cerca di nuove sensazioni. Quello che per me era un paradosso nella sfera del pensiero
divenne un paradosso nella sfera del sentimento. Insomma il desiderio era divenuto una malattia, una
pazzia, o l'una e l'altra insieme. Adesso per me non rimane che una cosa: un'assoluta umiltà.... Adesso
trovo nascosta in una parte della mia intimità qualche cosa che mi dice che niente nell'intiero mondo è
senza fine; e il soffrire meno che il resto. Questa cosa celata in fondo alla mia anima come un tesoro
in un campo è l'umiltà. Questa è l'ultima e la migliore cosa che mi sia rimasta, l'ultima scoperta a cui
sono arrivato, il punto di partenza verso un nuovo sviluppo. È uscita dalla mia intimi e si è
manifestata nel momento opportuno. Non poteva venire prima poi. Se qualcuno me ne avesse
parlato l'avrei respinta, se mi fosse stata offerta l'avrei rifiutata; così come l'ho trovata io voglio
tenerla. È l'unica che racchiude in gli elementi della vita e di una nuova vita per me: la mia Vita
Nuova. È la più strana di tutte le cose, la quale non si può acquistare se non con l'abbandono di tutto
ciò che possediamo. Solamente quando abbiamo perduto tutto ci accorgiamo di possederla.
E ancora e con più commossa eloquenza:
- La socie quale noi l'abbiamo formata non ha più un posto per me. La natura, che alla terra la
pioggia or più or meno benefica, avrà qualche cava roccia dove io possa nascondermi e mi offrirà
valli deserte perchè io possa piangere indisturbato nel silenzio; costellerà la notte perchè io scorga gli
inciampi e possa camminare spedito nel buio e manderà il vento sulle orme lasciate da' miei piedi
perchè nessuno mi segua; mi purificherà con acque abbondanti e mi renderà perfetto col succo di erbe
amare.
Il ripiegamento della coscienza pervertita sopra sè stessa gli fa sentire tutta la bruttura del suo essere e
del suo passato, ma nella fonte della dottrina originale di Gesù gli fa pur vedere tutta la purezza di cui
è capace la colpa mercè la purificazione del pentimento: - Il mondo ha sempre venerato i santi come
quelli che più si avvicinano alla perfezione divina. Cristo, invece, per suo istinto sublime pare abbia
considerato sempre il peccato e il dolore come cose sante e modelli di perfezione. Sembra questa
un'idea molto arrischiata; ed è certamente tale come tutte le grandi idee. Ma non è dubbio che questo
fu il Credo di Cristo, il suo vero Credo. Certamente il peccatore deve pentirsi, perchè altrimenti non
potrebbe riconoscere le sue colpe. I Greci credevano ciò impossibile e dicevano sempre nei loro
sentenziosi aforismi: nemmeno Dio può cambiare il passato. Cristo invece dimostrò non solo che il
più vile dei peccatori era capace di farlo, ma che questa era la sola cosa ch'ei potesse fare.
IX.
Non importa fare una diagnosi spietata della psiche o piuttosto della psicopatia del Wilde sotto
l'aspetto sessuale, per ammettere che in quanto a modelli di perfezione consistenti nei peccati più
bassi Oscar era un modello del genere. Non è possibile far sul serio la necroscopia degli scrittori già
disfatti nel sepolcro; e di Oscar Wilde non si può dire fino a qual punto fosse un pervertito, ma si può
credere che un pervertito fosse realmente. Nel fondo stesso della sua arte, non nei suoi resultati, era
una febbre e una malattia. Era un eccesso morboso del senso estetico, che si rivela sempre nefasto
quando l'artista tende a suggestionarsi e si sforza a ostentare pregi e virtù dove non sono che istinti e
vizi, quando insegue il sogno della bellezza nei fenomeni stranieri al fine e alla legge di
conservazione naturale, quando del male che descrive non fa la scorciatoia che conduce alla sorgente
del piacere, ma forma l'oggetto stesso del piacere(30).
Ora Gesù ebbe una particolare consuetudine di pietà e di consolazione con i pervertiti e degenerati
d'ogni specie. Si potrebbe dire che in taumaturgia fosse uno specialista di fronte a questi soggetti
infelicissimi, tanto che i Farisei dicevano che scacciava i demoni solo per opera di Belzebù, che era il
principe dei demoni. Non soltanto gli ossessi, i demoniaci, i lunatici, ma anche i paralitici, gli zoppi, i
catalettici e perfino i sordi e i ciechi, dei quali Gesù ebbe cura, a giudicarli a fondo dai sintomi
descritti negli Evangeli, eran quasi tutti soggetti di psicosi. I paralitici non erano malati della paralisi
che deriva da alterazioni anatomiche, ma da cause isteriche o psichiche. Un isterico o un allucinato si
fissava in mente che il suo braccio fosse paralizzato e perciò tralasciava l'impulso necessario a
muovere l'arto; è facile intendere quanto potesse la parola di Gesù su un tale soggetto; e la sua
potenza sopra soggetti cosiffatti dura ancora dopo diciannove secoli, come ha scientificamente
dimostrato lo Charcot(31). La catalessi e lo stupore eran forme di paralisi isterica con le quali
probabilmente si connetteva il fenomeno dell'"automatismo di comando", per cui si eseguiscono
meccanicamente gli ordini che si ricevono. Oramai la casuistica medica conosce esempi anche di
sordomutismo isterico; ed ecco il Vangelo riferirci la guarigione di un muto che era ossesso. Matteo
lo chiama un muto che aveva un demonio, Luca dice che il demonio stesso era muto. Il bambino
lunatico e sonnambolico, che cadeva spesso nell'acqua e nel fuoco, a dire di suo padre, era anche
muto; e Gesù per guarirlo si rivolge allo spirito immondo e gli dice: "Spirito sordo e muto, io te lo
comando, esci da costui". Anche tra i casi di cecità non mancano quelli che si dicono di amaurosi
isterica, nei quali l'apparato diottrico e il nervo ottico sono intatti ma pure avviene che si perde la vista
per un'illusione dello spirito o un sovvertimento dell'attenzione o altro fenomeno psichico. E tali per
vari segni erano i casi enumerati nel Vangelo.
Dunque la follia, tanto quanto la colpa che n'è sorella, fu l'oggetto preferito della confidenza di Gesù.
E in che consisterebbe altrimenti la perfezione della sua dottrina se non recasse in un compenso che
agguagliasse gli imperfetti e gli infelici ai normali e ai fortunati? Anche chi non conosce ne' più intimi
significati evangelici questa preferenza e si ritrova nella condizione di provare il bisogno disperato di
qualche cosa di simile ne sente tutto l'afflato irresistibile, se non è invaso da preconcetti contrari, e
riconosce con sua grande consolazione che la dottrina è fatta apposta per i tristi più inabissati nel
fondo della miseria, per gli infelici più percossi dal dolore, per tutti gli invertiti nell'ordine della
natura e della stima civile.
X.
Ad una tale capaci bisogna aggiungere qualche elemento originario cattolico che si era mescolato
nel suo sangue e doveva trasudare attraverso alla sua epidermide protestante. Elementi simili, anzi p
spiccati, si ritrovano negli ultimi anni del Byron, che scorgeva una fonte di consolazione nella dottrina
cattolica del Purgatorio, alla fede cattolica voleva educata nel monastero di Bagnacavallo la sua
figliola Allegra, di questa fede immaginava animata Aurora Raby nel Don Giovanni, e per varie
indubbie manifestazioni propendeva verso la chiesa romana(32). Il Wilde aveva avuto una strana
visione di quella via che a traverso alla verde Umbria e alla variopinta Toscana doveva condurlo alla
città santa, "alla ricerca del tempio meraviglioso e del trono di colui che stringe le tremende chiavi".
Ma la vista di Roma e lo spettacolo di "preti e santi e cardinali che procedono splendidi di porpora e
d'oro" modificano la sua mobile fantasia. Dopo avere udito nella Cappella Sistina il Dies irae esclama:
"No. Signore, non è così. Il candore dei gigli in primavera, i malinconici boschetti di olivi, la colomba
dall'argenteo petto mi rivelano più chiaramente la tua vita e l'amor tuo, che non queste fiamme rosse e
questi colpi di tuono, coi loro terrori". A Pasqua le trombe d'argento risuonano sotto la cupola e il
Wilde vede portato sulle spalle degli uomini il pontefice. "Come un sacerdote, aveva una veste più
candida della schiuma del mare; come un re, era cinto della porpora regale; tre corone d'oro sorgevano
ben alte sulla sua testa. Circondato di luce e di splendore, il papa tornò alla sua dimora. Il mio cuore
volò lontano nel passato, a traverso al deserto degli anni, verso un uomo errante sulla riva di un mare
solitario, cercante invano un luogo ove riposare. Le volpi hanno la loro tana, ogni uccello il suo nido,
ed io, io solo, devo errare senza riposo, i piedi sanguinanti, e bere col vino l'amaritudine delle
lacrime". Come torna in patria, il suo Tamigi gli pare più santo del Tevere e di Roma. Ricorda come
cosa strana (ma che a noi rivela tutta la debolezza della sua natura isterica) l'essersi un giorno
inginocchiato davanti a un cardinale che in veste rossa e portando l'ostia attraversava l'Esquilino,
intanto che gli dèi pagani tornano a sorridergli. Nondimeno la madre di Dio non cessa di essergli
cara(33).
Ad onta di questi elementi contradittorii, la nuova orientazione del Wilde non è una conversione
confessionale. Il suo caso, almeno fino a questo punto, non è un caso ascetico religioso, ma
psicologico e morale. Le sue divini non erano ancora nei tempii fabbricati dagli uomini e dentro i
limiti dell'esperienza umana. Quando pensava di proposito alla religione gli veniva voglia (lo dice lui
stesso) di fondare una regola, un metodo nuovo per coloro che non possono credere, una Confraternita
dei Senza-fede, nella quale un prete che non avesse mai provato la pace del cuore potesse celebrare
sopra un altare nudo e senza ceri. L'agnosticismo ha pure i suoi diritti e nell'intimità delle anime può
avere anche i suoi riti. Ma ciò non vuol dire che quel mutamento interiore non si svolgesse
esattamente intorno alla linea segnata dalla dottrina originale cristiana nel modo di spiegare un senso
nuovo della vita e di offrire un termine estremo per sopportarla.
XI.
L'occasione specifica del mutamento fu senza dubbio la prigione, e non sarebbe temerario credere che
non si sarebbe compiuto in stato di libertà e nell'incosciente precipitazione fino agli ultimi vizi. - Se
qualcuno - è scritto ancora nel De profundis - avesse domandato a Gesù la sua opinione, egli avrebbe
risposto che i momenti più belli e più santi della vita del figliol prodigo furon quando cadde in
ginocchio piangendo, quando sciupò le sue ricchezze, quando pascola mandria di porci e si sfamò
con le ghiande destinate a loro. La maggior parte della gente non sa afferrare questa idea: oso dire che
bisogna andare in prigione per poterla capire; e se non s'arriva a intenderla altrimenti, è buona pena
l'essere stato in prigione.
In realtà la prigione è uno stato particolare delle coscienze vinte. Oggi si studiano i sonni e anche i
sogni dei carcerati per scoprirne l'influenza nella loro vita fisica; e già meglio il Dostojewski, con la
sola penetrazione del genio, aveva descritto nel Sepolcro dei vivi i sogni pieni di avventure alternate
ai disinganni, i desiderî e le speranze spinte fino al delirio. I fautori della solitudine della cella
difendono il loro sistema adducendo che l'isolamento ritempra l'energia del reo, ne eleva i sentimenti
avviliti e gli fa ascoltare per la prima volta la voce della coscienza. Gli avversari propugnanti il lavoro
all'aperto sostengono invece che la solitudine comprime ogni attività e uccide ogni principio di forza e
di vigore, che imporla all'uomo equivale a sorpassare ogni grado di tolleranza ed a disorganizzare la
natura, che ogni carcerato, ridotto allo stato passivo, non ha da combattere dentro di che il ricordo
delle sue colpe, al di fuori nulla, nè la tentazione nè la regola (34). La verità è che la privazione della
libertà, la stessa condizione di immobilità e di raccoglimento per cui il carcerato è acchiuso dentro
(come direbbe il Calvalca) e perciò impedito nelle istintive espansioni e derivazioni della vita attiva, il
silenzio di ogni voce che lo distolga dalla sua intima evoluzione determinata dal ritorno alla realtà
triste della vita, tutto ciò, operandosi in uno stato di depressione fisica e morale, ha per effetto quel
ripiegamento della coscienza su sè stessa, che faceva vedere al nostro recluso tutta la bruttura del suo
passato." La gente che vive libera e fuori di queste mura - scriveva il Wilde nel De profundis - è
ingannata dalle illusioni di una vita esternamente mossa e, girando con la vita stessa, contribuisce alla
sua vana apparenza; ma noi che viviamo nella immobilità possiamo ad un tempo vedere e
conoscere(35).
Per tutto ciò la prigione è luogo di sinderesi cristiana. Gesù, ancorc non visto chiesto
accettato, vi è presente come sul suo altare civile. Spiriti gagliardi e capaci de' più eroici sacrifici
verso un'idea di riscatto e di ribellione ve lo hanno veduto e scelto a proprio consolatore. Silvio
Pellico ve lo vide circonfuso di un'aureola di divinità; ma il suo fu un ravvicinamento, non fu incontro
improvviso e inaspettato; egli era entrato nel carcere il 13 ottobre 1820, non il 13 novembre 1895; e
veniva da breve e non da lungo e avventuroso viaggio. Gesù non fu in prigione, ma fu un accusato e
un condannato e provò anche le onte degli accusati e dei condannati quando fu tratto dall'orto alla
casa di Hanan, da Hanan a Pilato, da Pilato ad Antipa, da Antipa a Pilato, soffrendo continui atti di
vituperio. E ogni arrestato ripensa al suo esempio quando è condotto per mille passi vani e dolenti
dalla questura al carcere, dal carcere al giudice e novamente dal giudice al carcere e dal carcere al
giudizio. Il Wilde prova e narra anche l'umiliazione di questa via dolorosa: - Quando dalla mia
prigione fui tradotto in mezzo a due poliziotti al tribunale, X mi aspettava in quel lungo e lugubre
corridoio; e quando gli passai davanti, egli con movimento grave si levò il cappello salutandomi; e
quell'atto suo così dolce e così pio impose silenzio alla folla. Ci furono degli uomini che acquistarono
il paradiso anche con meriti minori; ed egli lo fece con quello stesso spirito di carità, con quello stesso
ardore che animava i santi quando si inginocchiavano a lavare i piedi ai poveri e si chinavano a
baciare le guance ai lebbrosi. La bellezza dell'atto di X io conservo nel reliquiario del mio cuore; è qui
imbalsamata e profumata dagli aromi e dall'incenso di tante lacrime amare.
In questo atteggiamento spirituale qualcuno ha voluto vedere il suo decadimento artistico, anzi la sua
morte civile, e ha gridato alla "canaglia anglicana contenta" perchè ha pur voluto la vittoria di un atto
di contrizione e di umiltà nel re della vita e ha sfogato la bassa passione della piccinerìa che invidia
l'ingegno e gode nel vedere "l'avvilimento di un'anima nata all'aristocrazia del pensiero". Strane
pretese! - Tutti i martiri rassegnati - egli stesso lo disse presagendo la censura - sembrano meschini a
coloro che non hanno provato il martirio - . Tutto sta nel sapere se sono sinceri. E il dubbio della
sinceriè lecito dinanzi a un soggetto anomalo come il Wilde, esercitato negli artificî finissimi della
sua vita e della sua opera. Ma tale era la verità della sventura e del dolore che aveva in lui operato il
nuovo atteggiamento, che non si può stentare a credere alla sincerità delle nuove manifestazioni. La
sua condanna non lo poneva in contrasto con una legge civile di mera creazione giuridica; la sua colpa
era in contradizione, prima che con la giustizia degli uomini, con la legge di natura, che in lui si era
invertita; e se ciò non fosse ancor tutto per il più mondano degli uomini, che col mondo aveva
ingaggiato un patto grandioso, quello di dargli la propria opera e riceverne in cambio la sua gloria,
metteva al colmo dell'ignominia la sua condizione di padre, di figliolo, di marito, di fratello. Dalle sue
nozze con la mite e bella Costanza erano nati Cyril e Vivian: la madre, da lui teneramente amata,
moriva durante la sua prigionia; la moglie ed il fratello, angosciati dall'infamia che aveva colpito il
loro nome, morivano più tardi di crepacuore. Una tale rovina non ammetteva simulazioni.
- Avevo perduto il mio nome, la mia posizione, la mia felicità, la mia libertà, le mie ricchezze: - lo
scriveva da (36). - Ero un condannato, un miserabile. Mi restavano ancora i miei figlioli; ma la
legge me li aveva tolti. Fu un colpo tanto terribile per me che ne perdetti ogni forza; caddi in
ginocchio, piegai il capo, ruppi in singhiozzi e dissi: il corpo di un fanciullo è come il corpo del
Signore, non ne sono degno. Quel momento mi parve mi salvasse. Vidi allora che non mi restava che
di accettare ogni cosa e da quel momento, strano a dirsi, mi sentii più contento. Avevo ritrovato la mia
anima nella mia intima essenza. Ero sempre stato il suo nemico in molti modi diversi, ma ella mi
aspettava come un amico. Quando un uomo viene a contatto con la sua anima egli diventa semplice
come un fanciullo, così come voleva Gesù.
Pur volendo, non poteva più essere quegli che era stato; ed era diverso non solo come coscienza
d'uomo ma altresì come anima di artista; la sua anima, ad onta di chi avesse preferito l'usato stile da
decadente, non poteva più sentire con lo stesso ritmocreare con lo stesso metro. Solo per far cosa
grata "agli ingegni gretti e ai cervelli febbrili" che non avevano amato nella sua arte che il lato più
artificioso, avrebbe dovuto dissimulare la grande verità del suo dolore e sentire il senso e la forma
dell'opera sua. Ma egli presentì la dispiacenza di tali cervelli egoistici e la sfidò consapevole. "Se
questi scritti - scriveva nella lettera che accompagnava il De profundis - non faranno del bene agli
ingegni gretti, ai cervelli febbrili, a me hanno portato giovamento. Ho purificato il mio senno da ciò
che era malsano. Per l'artista il supremo ed unico modo di vivere è l'espressione. E noi viviamo come
sentiamo". Forse, se non fosse stato anormale o almeno ipersensibile, non avrebbe ritrovato la via dei
contrapposti per cui all'estrema squisitezza del vizio potè opporre l'infima semplicità della
resipiscenza, alla massima aristocrazia d'ogni pensiero e d'ogni forma la più profonda umil
dell'anima e dell'espressione. Coloro che sono governati dalle emozioni sono p proclivi
all'adorazione del soprannaturale che la gente positiva, la quale crede logicamente in ciò che sceglie
per limite della sua ragione. I sentimenti religiosi sono spesso influenzati da avvenimenti privati o
locali o nazionali: forse, senza l'oppressione della Chiesa e dello Stato sui poveri di Francia, il
Voltaire non sarebbe diventato scettico.
A un amico che lo interrogava di proposito in carcere il Wilde rispondeva: "Ho scoperto Iddio per
mezzo dell'arte e l'adoro per mezzo dell'arte. Gesù Cristo è per me l'artista supremo, non del pennello
nè della penna, ma della parola. Alla sua divinità, nel senso comune in cui è intesa, non credo; ma non
ho nessuna difficoltà a credere che egli fosse superiore a tutti, come se fosse un angelo sedente sulle
nubi"(37).
XII.
Intorno alla vita del Wilde in carcere ha voluto riferire qualche notizia un guardiano carcerario, il
quale professa la massima di mestiere che il carcerato può ingannare il direttore, il cappellano, il
medico, ma non il guardiano, il cui occhio guarda quando nessun altro occhio vede, nelle ore del
sonno e in quelle della veglia. E però si sente autorizzato a scrivere: - Nessuno dica che il poeta non
era sincero. Era la vera anima della sincerità. Osservandolo dallo spioncino lo udivo spesso parlare,
chiamare sua madre, pronunziare il nome di sua moglie; lo vedevo piangere(38).
Con i compagni del carcere ebbe le relazioni più affettuose. La sua fraterna pietà per loro lo espose
più volte al rischio di essere punito, mentre in generale fu un carcerato irreprensibile. Per mezzo de'
suoi amici recò aiuti di denaro a più d'uno che era per essere liberato; pagava col suo denaro le multe
dei bambini arrestati; e dopo la propria liberazione trattò con alcuni, che meglio aveva potuto
ascoltare, in linguaggio di confidenza sincera. Il giorno che fu rilasciato i compagni soffrirono
rimproveri e castighi per i loro lamenti clamorosi. Uno di loro diceva che come il C. 33 fu partito gli
parve di aver perduto ogni speranza. Il guardiano segue il suo ragguardevole carcerato anche in chiesa
e ce lo descrive ben diverso da un improvvisato asceta fanatico. "Quando il cappellano - dice - si
rivolgeva al suo tosato gregge e diceva quanto miserabili erano tutti e quanto riconoscenti dovevano
essere a un paese cristiano di cui il governo era sollecito della salute della loro anima e del povero
corpo, il poeta sorrideva sdegnato e poi mi diceva: Io vorrei alzarmi dal mio posto e gridare forte agli
infelici che non è così, che la società non nulla a loro, se non l'inedia e la fame per la strada,
l'inedia e la crudeltà in carcere". Non ci sarebbe stato male che avesse accettato un pensiero così
ignobile e cristiano a rovescio, degno del più servile tra i Caifa e gli Anan di Stato! Ma ci fa pure
apprendere, il buon guardiano, come il Wilde sotto il suo abito irriducibilmente scettico e sarcastico
avesse acquistato sentimenti di mansuetudine, di perdono, di dolcezza nuova. Una volta che si sentiva
male e aveva bisogno di ingerire qualche cosa di caldo, il guardiano andò subito da a scaldare una
bottiglia di brodo invece di lasciar passare un'ora tra disposizioni ed esecuzioni di una tale bisogna. Il
guardiano si era nascosto la bottiglia bollente sul petto quando incontrò per le scale il suo capo, che lo
intrattenne su cose di servizio. Il guardiano si sentiva bruciare e stava per tradirsi quando finalmente
fu lasciato andare. Entrato nella cella del Wilde gli raccontò la scottante avventura e quegli si mise a
ridere a ridere a ridere, che il benefattore si sentì mal ricompensato del benefizio e se ne andò
mettendo il chiavistello. "Quando ritornai a portargli la colazione - egli racconta - il Wilde era il
ritratto del pentimento. Mi disse che non avrebbe toccato nulla se non gli avessi perdonato.
" - Neppure il cacao? - domandai.
" - No, neppure.
" - Ebbene, piuttosto che farvi morire di fame, vi perdonerò".
Si faccia dunque del mutamento del Wilde un fenomeno di più della sua natura singolare, certo non
ignobile ma squisita come il pomo punto dall'insetto, che lo rende gustoso, operatosi nella depressione
fisica e morale del carcere; ma è certo ch'ei ne ricavò l'unico conforto che gli era dato e fu sincero nel
comunicarlo. Insomma, nella più orrida e disperata prova della vita aveva per un tal mutamento
ritrovato un conforto o una ragione di vivere, perchè, com'ei diceva, si era trovato in contatto diretto
con un nuovo spirito che dapprima gli gridava tra i tormenti "quale fine! quale terribile fine!" ma più
tardi gli sussurrava con tutta serenità e dolcezza "quale principio! quale meraviglioso principio!".
Come procedesse d'allora in poi, per questo meraviglioso principio, non ebbe molto tempo nè modo a
dimostrare. Oltre il De profundis (1899) non dette fuori se non La Ballata della prigione di Reading
(1898), squisito componimento nel quale già tocca la nota nuova della sua consolazione cristiana. E
dal giorno che lasciò il carcere (20 maggio 1897) non visse che tre anni e mezzo. Chi lo avvicinò in
quest'ultimo periodo della sua esistenza, durante il quale prese il nome di Sebastiano Melmoth
(Sebastiano dalla sua grande simpatia per la figura del martire cristiano; Melmoth dalla sua
sintomatica attrazione per il prozio che scrisse il romanzo di questo titolo), attesta che il cristianesimo
lo possedeva tutto; gli aveva tolto ogni desiderio di competizione; egli manteneva i suoi propositi di
dolcezza e di tolleranza che stupivano gli amici; e solo in rare occasioni un lampo di rimpianto delle
cose perdute riapriva una vena di amarezza nel suo cuore(39).
XIII.
Ma poco o nulla po produrre. Ramingò tra l'Italia e la Francia, finchè nel novembre del 1900,
essendo alloggiato nell'albergo d'Alsace in via des Beaux Arts a Parigi, cadde irrimediabilmente
malato di meningite. Era alla fine della fortuna e della vita. Non è vero che fosse completamente
abbandonato che l'albergo fosse "di decimo ordine". Però l'egregio signor Giovanni Dupoirier che
lo conduceva, volendo protestare contro questa sfavorevole nomea fatta dai giornali alla sua azienda
non seppe difenderla meglio che chiamandola "une maison di cinquième catégorie".
O di decima o di quinta categoria, l'albergo d'Alsace, dove il Wilde fu malato dell'ultima malattia nel
novembre del '900, non accolse che due amici intorno a lui: il romanziere Reginaldo Turner e il fido
Roberto Ross, che faceva le spese. Negli ultimi giorni il Turner si trovò solo e assai sgomento con un
malato di carattere cerebrale, che di quando in quando gli diceva: "mio piccolo ebreo" per chiedere
qualche cosa di nuovo. La sua maggiore incertezza cadeva, intanto che il pericolo incalzava, sul
quesito di informare la famiglia del malato e di chiamare un prete. In una lettera del 28 di novembre
scriveva al Ross: "Si deve chiamare un prete o un pastore protestante quando peggiora? Tuckner (il
medico) lo vuole assolutamente. Io penso di no, se egli non lo desidera. Ma su ciò preferisco sentire la
tua decisione"(40).
Sollecitato da altre due lettere dello stesso giorno, il Ross fu a Parigi il 29 e ritrovò il Wilde
strafigurito, quasi incosciente, rantolante in modo da imitare il verso orribile di una manovella.
Ritrovò il piccolo ebreo infermiere addirittura finito." Allora - racconta egli stesso - andai in cerca di
un prete e dopo tanta fatica trovai il padre Cuthbert Dunn dell'ordine inglese della Passione. Venne
subito e gli somministrò il battesimo e l'olio santo. Oscar non po ricevere il viatico. Gli avevo
sempre promesso di chiamare un prete quando fosse in fin di vita; e mi sentivo un po' colpevole di
averlo sempre sconsigliato dal passare al cattolicismo".
Nel pomeriggio seguente Oscar Wilde cessava per sempre di rantolare.
Composto nella bara tra il crocifisso, l'acqua santa, i ceri, lo scapolare già appeso al suo collo durante
la vita e gli altri simboli del rito cattolico, il 3 di dicembre fu accompagnato al camposanto di
Bagneux dalla pietà seguace de' due amici presenti alla morte, di Alfredo Douglas sopraggiunto il
giorno di poi, del buon albergatore Dupoirier, di una cameriera della moglie già defunta e di due
stranieri sconosciuti.
Queste note estreme, che ci sono offerte da un testimone sereno come il Ross, dimostrano quale
indirizzo aveva preso nello spirito e nella vita reale del Wilde il mutamento che si era operato nel
carcere.
Nella sua tomba, sotto il nome e le date 16 ottobre 1854 - 30 novembre 1900, fu scritto il motto di
Giobbe: "Alle mie parole non osavano aggiungere nulla; e il mio eloquio stillava sopra di loro". Ma in
verità i contemporanei dell'infelice avevano aggiunto qualche cosa alle sue parole.... e Giobbe offriva
un motto meglio appropriato a lui e alla sue sconfessate relazioni col mondo pagano: "Tu mi
innalzasti e collocandomi sopra il vento mi desti orribile tracollo".
FAME POSTUME
.... per lo regno de la morta gente.
Inf. VIII.
I.
Svegliarsi la prima notte in prigione è cosa orrenda: scrisse il Pellico che l'aveva provato.
Addormentarsi l'ultima volta in prigione è cosa più orrenda che mai: diremo noi, benc non ce
l'abbia detto ancora nessuno.
La morte più serena è certamente quella che è meno contrastata dal desiderio. Or chi non immagina i
desideri che spuntano come spine tormentose in chi muore in prigione? Basterebbe quello solo di non
morire nel tristo luogo! E poi il desiderio d'un ultimo bacio! e poi dell'onorato e non segreto
compianto! e poi dell'estrema riconciliazione con l'umanità sul punto di abbandonarla per sempre!
Questo per chi muore. Per chi vede morire, una tal morte è ragione della più grande pietà. Non pare,
no, una liberazione, ma il seppellimento d'un vivo, l'inabissamento d'un'esistenza già condannata a
declinare.
Ripenso le esequie che si fecero nelle carceri d'un mandamento remoto. Un condannato era stato
infermo per malattia cancerosa a una gamba; il medico del paese aveva creduto estrema prudenza
segare la gamba ammalata. Segò segò segò, mentre la gamba era distesa e costretta su una rustica
panca, che a un tratto la gamba e la panca caddero a terra segate insieme. Il carceriere raccolse e
seppellì quel povero ramo secco d'una pianta destinata a seccare tutta, nell'orto del carcere. Ora, come
il mutilato morì e il suo cadavere fu remosso dal triste luogo, i tre compagni superstiti si dettero a
ravviare la terra smossa per la recente sepoltura del moncone, la inghirlandarono del poco verde
d'ellera e d'ortica che poterono raccogliere lungo i muri, si inginocchiarono intorno a quel tumulo
umano e si trattennero tacili e pensosi in questo atteggiamento di dolore per tutto il tempo concesso
alla loro ricreazione.
Povera ma sincera e pietosa sepoltura! dove l'ultima menzogna dell'epitaffio era supplita dal
compianto spontaneo e segreto di chi sa il dolore d'una medesima sventura.
II.
Erano tre, erano giovani, erano fratelli, i prigionieri di Chillon. L'eterna guerra all'idea li aveva vinti e
fatti prigionieri dentro una caverna, dove tutti e tre si scambiavano testimonianza di catene e di dolori.
Presto il più giovane, quegli ch'era la tenerezza e la speranza del padre perchè portava in fronte tutte
le dolci e malinconiche sembianze della madre, soccombè alla prova crudele. I fratelli, incatenati
come lui al macigno d'una stessa colonna, non poterono sorreggergli il capo languente prendergli
la mano intirizzita intanto che spirava. I carcerieri gli snodarono i ceppi, e, scavata una breve fossa
nella stessa caverna, vi gettarono le sue fragili ossa e lo ricoprirono di poca terra:
poca senz'erba rappianata terra,
tomba a cosa sì cara, e in sulla tomba
le sue ruote catene, ivi lasciate
dell'orrendo assassinio a monumento(41).
Ecco come si muore in prigione. Gli austeri, i quali sostengono che ci si vive troppo bene, guardino e
vedano almeno come ci si muore.
Ma per vedere con maggior profitto, bisogna fissare l'attenzione sopra certi casi di morte che non son
quelli d'una propizia e spontanea liberazione.
Dalle carceri delle città dove è cattedra d'anatomia i cadaveri dei carcerati vengono trasportati negli
spedali a disposizione degli anatomici, i quali tuttavia non sono tenuti dalla legge a farne osservazioni
particolari(42). È questo un dono e non un cômpito che si alla scienza, ausiliatrice della giustizia,
come si usò anche in antico. Eppure simili osservazioni non solo formerebbero il tesoro d'una nuova
anatomia e antropologia criminale, ma soddisfarebbero ancora alla dimenticata necessità d'un
prudente sindacato del trattamento che si usa in carcere ai carcerati.
Io dico che per disposizione costante e imperativa tutti i cadaveri dei carcerati dovrebbero essere
assoggettati a rigoroso esame dei necroscopi, come si fa in tutti i casi di morte sospetta, al fine di
accertare la causa della morte e di denunciare ogni più tenue dubbio di morte sospetta. Non si deve
dimenticare che il carcere è il cieco mondo, un mondo particolare, dove si svolge una vita particolare;
la vittima d'un delitto non ha in questo luogo, per far palesi le proprie ragioni, gli stessi mezzi che tutti
hanno in stato di libertà. Coloro che dovrebbero riceverne le denuncie sono generalmente gli stessi
colpevoli da denunciare; le vie per cui si potrebbe giungere a far valere un'accusa sono chiuse per
opposizione d'interesse o per difetto di sistema; i testimoni delle loro sevizie sono nella medesima
condizione di schiavitù e di silenzio. Per i condannati alla segregazione, poi, vale il motto disperato
degli esiliati in Siberia: - Dio è troppo alto e lo czar troppo lontano. - Per loro neppure i testimoni
inascoltati.
Bisogna dunque che almeno una giustizia postuma abbia modo di scrutare e di colpire il delitto più
truce e codardo, a freno e sgomento di carnefici impuni.
IV.
Esempî non lontani ignorati, accaduti nelle carceri d'Italia, confermano la ragione di questo voto.
Ne scelgo uno del libro particolare della mia memoria.
Un giorno, allo spedale di Santa Maria Nuova in Firenze, gli uomini delle stanze del taglio, che
preparano i cadaveri per farne notomia, ne ebbero tra mano alcuni che provenivano dal carcere delle
Murate. Uno di questi pareva così ben conformato, che si pendi ricavarne lo scheletro per il museo
anatomico; ma, data mano alla dissezione delle parti molli, bisognò fermarsi dinanzi a una singolare
sorpresa: tre coste di sinistra erano rotte, rotte quasi tutte le cartilagini di destra, spezzate le apofisi
traverse delle ultime vertebre. Il sangue aggrumato intorno alle fratture per effetto di stravaso, prima
che ogni altra notizia indiretta, indicava abbastanza che quelle lesioni erano state inferte su quel corpo
durante la vita.
Si desistè dall'opera intrapresa e il cadavere fu chiuso in un sacco, donde quelle povere ossa umiliate
furono gettate dove nessun segno le distingue dalle infinite che semina la morte. si fece
denuncia, perchè non era questo il debito di quelle iene umane e pietose; e solo per lo scalpore d'un
giornale che tentava di solito il ricatto (l'uso nelle vicende della verità spesso non basta e allora è
perfino provvido l'abuso) si svolse una timida e monca procedura che dimostrò la malvagità d'un
custode del carcere, la complicità d'un suo aiutante infermiere, la negligenza del direttore e la ciecità
del medico.
Al giudizio sfilò una triste tregenda di uomini numerati con a capo il cappellano del carcere, unica
immagine di pietà tra le orride mura. E raccontarono che gli infermi erano spesso tenuti digiuni e i
dementi abitualmente percossi, che uno di costoro fu veduto col capo rotto mentre era da gran tempo
legato, che generalmente ai malati che chiamavano nel delirio o per bisogno d'aiuto si otturava con
fasce fisse la bocca. Raccontarono che qualche volta alla maggior furia di tali crudeltà era seguita la
morte di carcerati. Raccontarono che il più scellerato e volenteroso complice degli aguzzini ufficiali
era un aiutante infermiere, scelto nella persona d'un mozzo di galera, macellaio d'antica origine,
condannato due volte per omicidio.(43)
Ma lascio la parola a un testimone che già un'altra volta ha parlato in queste pagine, tanto è facile e
chiaro narratore(44). È un condannato che parla; ma negargli fede perc porta un numero piuttosto
che un nome e magari un titolo, come quello di cavaliere del neghittosissimo direttore del
penitenziario, val quanto proclamare il privilegio dell'impunità dei delitti che si consumano nella triste
e inviolabile clausura.
Non credo poi di venir meno al rispetto ch'io debbo a' miei pochi lettori col cedere la parola a un
povero galeotto per amore di stile schietto e istintivo, così desiderabile per contrasto con la retorica
corrente, pretensiosa di novità. Ma già il lettore lo conosce. E quello stesso recluso della casa penale
di Firenze, che raccontò il prodigioso tentativo della sua fuga.
V.
Dunque la parola è al 369:
- Io ero recluso nello stabilimento penale delle Murate a Firenze e portavo il n.° di matricola 369.
Stavo nella infermeria come epilettico: malattia della quale soffrivo e soffro ancora. Un giorno,
stando nella cella n.° 3 del reclusorio, al pianterreno, nella infermeria, nelle ore antimeridiane e verso
il mezzodì, sentii le grida di un recluso che stava nella cella n.° 1, soprastante alla mia nel piano
superiore, di matricola 542, e tali grida rivelavano un malcontento che manifestava quel recluso
contro la guardia N.....(45). Le grida furono accentuate ed alle stesse dovettero seguire delle percosse
al petto, per quello che io potei giudicare dal rumore sordo che sentii e dal tintinnio del mazzo delle
chiavi che la guardia soleva portare. Dopo i primi colpi io sentii eziandio come dei gemiti soffocati e
usciti imperfettamente per mancanza di vitalità. Tutto ciò durò non più di quattro minuti, indi silenzio:
solo intesi alla guardia nell'allontanarsi proferire queste parole: "questo è niente!"
L'indomani, nelle ore mattutine, prima della visita del medico, la guardia N......, affacciandosi ad un
finestrone che resta cinque passi distante dalla mia cella e che risponde al magazzino della lavanderia,
con voce di scherno e con brutale cinismo, chiamando la guardia incaricata di provvedere le casse
mortuarie, le diceva di preparare un baule, che c'era un cappone cotto; ed io che conoscevo l'indole
degli scherzi della guardia capii che quel disgraziato del giorno precedente era prossimo a morire. Per
tre giorni io non intesi la voce del recluso che suppongo, come dissi, fosse stato percosso. Pe
argomentai che egli avesse manifestato il desiderio di avere il cappellano, perchè col solito tono
derisorio a quando a quando e forse in tutti e tre i giorni un tre volte la guardia N...... gli diceva: "ah!
il cappellano, vuoi?"
Il giorno 4, verso le ore 7 di sera, io, stando allo spioncino, vidi la guardia nel pianterreno
dell'infermeria, seduto nella sua poltrona, il detto N......, il quale allontanò, mandando altrove per altro
servizio, un recluso che stava nello stesso corridoio come infermiere, e poscia anch'egli si alzò e andò
al piano soprastante dove io sentii aprire la cella e capii che doveva essere quella n.° 542, a giudicare
dal rumore che si sentiva sul mio capo. Stette sei o sette minuti e poscia ne uscì dicendo:
"Finalmente il merlo è morto". E subito dopo lo intesi ridiscendere le scale, tornare nel corridio del
pianterreno, avvicinarsi ad un mobile, nel cui tiretto gettò la matricola 542, e quindi dallo stesso
mobile estrasse un cartoncino colla croce, che credo abbia applicato alla cella di quell'infelice, perc
lo intesi rifare gli stessi passi. In seguito an a chiamare il sottocapo; ed io sentii che costui
domandò: morto ora?". Io potei notare e leggere il numero di matricola che N...... ripose
nell'indicato mobile, come anche il cartoncino della croce, perc lo stabilimento nell'infermeria è
illuminato a gaz; e non meravigli se ho seguito tutte le fasi di questa scena stando allo spioncino,
giacchè il fatto mi interessava, potendomi io trovare nell'identico caso.
Il giorno seguente alla morte del n.° 542 entrarono nell'Infermeria tre reclusi barbieri per fare la barba
agli ammalati, e due di essi avevano le matricole 121 e 132: del terzo non son sicuro, ma mi pare
avesse la matricola 87; e come furono nel corridoio del pianterreno, il n.° 87, voltandosi a guardare
verso la cella del morto, disse: "l'ha finito di ammazzare stanotte". Io, compreso da raccapriccio e
pensando che il direttore veniva ingannato nella sua fiducia dalla guardia N......, strappai un foglio
d'un libro del quale mi si permetteva la lettura, e, pungendomi un dito con un ago, con un fil di paglia
scrissi, intingendolo nel sangue, le seguenti parole, rivolgendomi al direttore: "La S. V. è
indegnamente ingannata da scellerati che si abusano della di lei fiducia; faccia visitare il cadavere
dell'or defunto 542 e veda di che morte è morto". Ma mi torturavo il cervello per trovare il modo di
far pervenire il biglietto al direttore, mentre, se se ne fossero accorte le guardie, avrei fatto la mia
rovina. Pensai al cappellano, ma fatalmente per quattro giorni non si vide; ed il quarto giorno, quando
entrò nella mia cella, io in tono di esclamazione e consegnandogli quella carta gli dissi: "troppo tardi
lei viene!" E gli narrai quanto avevo visto e inteso. Egli si mostrò incredulo e dal canto mio lo
incoraggiai ad informarsi indicandogli la cella di quel recluso di cui ho parlato e a sentire anco gli
altri reclusi delle celle vicine. Il che pare egli abbia fatto, perchè mi è sembrato di sentir che girava, e
poi, rivolgendosi alle guardie, disse: "guardate di non ammazzare questi poveri ammalati, chè se
viene un'inchiesta io dirò la verità". Non posso dire se si sia rivolto ad una o più guardie ed a chi di
esse, perchè la sua frase fu pronunziata all'ingresso del cancello dell'infermeria. Il cappellano di cui
parlo si chiama Mariano Bucci.
Dopo di questa visita il cappellano, a cui io in altre visite da lui fattemi seguitai a riferire altri
maltrattamenti operati dalla stessa guardia N...... mi disse: "figlio mio, io non so più che cosa fare,
perchè il capo-guardia e il N...... mi hanno messo in discordia col medico, il quale ha fatto affiggere
dei cartellini nelle celle dei reclusi ammalati, che proibiscono di conferire con chicchessia, meno che
col medico"; e difatti tali cartellini furono affissi, ma nella mia cella no, non so perchè, ed io del resto
confesso di non essere stato mai maltrattato.
Ho accennato ad altri maltrattamenti che io riferii al cappellano e li racconto per ordine. Rimpetto alla
mia cella era un recluso del numero di matricola 531, siciliano, il quale per un tumore alla regione
cervicale aveva tutto il corpo paralizzato e quindi per ogni piccolo bisogno doveva ricorrere agli
infermieri. Pare che la guardia N......maltollerasse questo continuo servizio, poichè quando egli era di
guardia l'ammalato si contentava di soffrire, pur di non chiamare. La sera del 9 o 10 aprile, vale a dire
dopo di aver conferito io la prima volta col cappellano, era di guardia il N......, e l'ammalato fino alla
mezzanotte stette silenzioso, cosicchè il N...... l'infermiere che era anco di assistenza furono
disturbati; ma a quell'ora essi si allontanarono e vennero sostituiti dalla guardia Rizzi e l'infermiere da
altro detenuto di cui non ricordo il nome il numero. L'ammalato che avvertì l'avvenuto scambio,
incominciò a chiedere da bere e con malgarbo l'infermiere lo servì; in seguito per altri bisogni e pare
che ciò abbia impazientito la guardia N...... che stava nella sua camera nel piano superiore, perchè si
affacciò nel corridoio della galleria e sporgendosi ordinò all'infermiere che gli avesse turato la bocca e
il naso; e poichè la guardia Rizzi osservava che ciò non era conveniente, il N...... insistè e l'infermiere
si recò con una fascia di telaccia (specie di cigna) e gliela pas sopra la bocca, il che io ho visto dal
mio spioncino; ma non so se gli abbia otturato anche il naso.
Il fatto è che il resto della notte io intesi come un ansare o meglio dire un russare, come di persona
che non abbia libero il respiro. L'indomani alle 8 di mattina io andai all'aria ed al ritorno entrando
nella mia cella vidi semichiusa quella del n.° 531 e la guardia ordinava all'infermiere Carboni Vittorio
di dargli il pane e il latte; ma costui osservava che l'ammalato era quasi morto e allora il N...... disse:
"va bene, lascialo andare". Poco dopo il Carboni, entrando nella mia cella dove era anche addetto alla
sorveglianza, mi diceva: "vogliono farlo mangiare, ma quello è morto, e mi hanno detto che venendo
il medico io dicessi che aveva mangiato una pagnotta e mezzo litro di latte". Infatti, quando venne il
medico, lo trovò quasi morto; e come gli fu detto che aveva mangiato, rispose: "non mangerà più!"
Molti giorni dopo e forse nel colmo della stagione estiva, perchè faceva caldo, di fianco alla mia cella
dove era il recluso n.° 674, ebbi occasione di vedere che lo stesso, percimbecille, spesso chiedeva
del pane, dicendo che lo lasciavano morir di fame. La guardia N...... perciò si impazientiva e non
mancava di rimproverarlo dandogli dei pugni al petto e sbattendolo contro la parete della cella. Io non
potevo vedere ma sentivo il rumore, specialmente agli urti che faceva contro la parete, e sentivo il
disgraziato lamentarsi. La figura del n.° 674 ora descritta io la vedevo guardando dalla magliatura
della porta. Per otto giorni quel disgraziato non prese cibo, e durante questo tempo l'infermiere n.°
714 ebbe a dirmi che l'ammalato mandava sangue dalla bocca e di sotto. Infatti otto giorni dopo se ne
morì. Prima però di morire potè parlare col cappellano, al quale disse di essere stato orribilmente
battuto; ed io ciò lo intesi, ma inoltre mi venne detto dallo stesso cappellano, il quale, dopo che quello
morì, venne, e, saputo della morte, indignatissimo meco parlando disse: "è ora di finirla".
Un ultimo fatto finalmente posso raccontare. Nello scorso febbraio, nell'ultimo piano dell'infermeria
era un recluso il quale portava il nome di Fiorini Gaetano, che si diceva essere stato condannato per i
fatti di Sicilia dal tribunale militare. Costui delirava e pareva dai suoi discorsi come che predicasse
alla sua famiglia. Egli per questo, credo, venne portato giù al pianterreno e collocato nella cella di
fianco a quella che stava rimpetto a me e precisamente alla mia destra ed io vidi che nella detta cella
vi entrarono la guardia N......e l'infermiere Carboni Vittorio e il mozzo di galera a nome Lasagna, i
quali lo legarono con le braccia, con le gambe e con le spalle ad una branda di ferro e quindi
avvedutamente chiusero la porta; non vidi ciò che abbiano fatto, ma intesi rumori di percosse e quindi
un grido strozzato, non avente nulla di umano, e così strano, che richiamò l'attenzione dell'infermiere
Veneto soprannominato Ostia, che stava in cucina a lavare le scodelle e che accorse sul posto, non
entrò nella cella ma si trattenne dietro la porta facendo degli atti di raccapriccio, certamente per quel
che sentiva. Il disgraziato da allora per nove giorni non mangiò più e poi ho saputo che è morto. -
VI.
Queste lugubri rivelazioni, benchè fossero sorrette da altre testimonianze simili nell'origine e nel
subietto, urtavano in una insuperabile difficoltà: quella di segnare i limiti separatori del vero dal falso
e della realtà dall'esagerazione, per decidere fino a qual punto s'era spinto l'abuso delle vittime
impotenti: se fino alla viltà ovvero alla ferocia, se a iniqui maltrattamenti oppure a disumane
soppressioni. La verità non si sarebbe potuta ricercare che su i cadaveri esaminati a tempo; ma ormai
una tale ricerca era negata, non essendo possibile l'esumazione dei cadaveri per la promiscuità dei
seppellimenti in comune.
Allora i giudici, sgomenti di inseguire il vero, si posarono sul verosimile; non vollero estendere
approfondire le indagini che invocava la stessa difesa degli accusati per dovere d'umanità, tantochè,
non essendo stata esaudita, renunciò alla parola nel turno della difesa degli accusati; condannarono il
custode e l'infermiere inumani a lieve pena; non chiesero conto a loro nè ad altri neppure della morte
sospetta della vittima osservata dai settori di Santa Maria Nuova; non supplirono col compenso di
inchieste straordinarie al difetto fondamentale della legge; punirono, non giudicarono; condannarono,
non ammonirono; furon miti, non prudenti; benigni, non giusti.
Or neghi chi può che il voto d'una legge che prescriva la costante osservazione dei corpi che si levano
dal carcere spogli di vita è giusto e irrecusabile.
Sulla livida fronte di questa gente perduta è scritto il pio voto, che naturalmente non sarà mai
esaudito.
RICERCANDO LA GENTE PERDUTA
(IL PROBLEMA PENALE)
La molta gente e le diverse piaghe.
Inf. XXX.
I.
Pianto e riso, piacere e dolore, alterno contrasto della vita, sono impulso e freno, principio e fine delle
opere dei vivi. Sgorga il pianto nei solchi che dianzi si disegnavano al riso, già la tregua del dolore è il
ritorno del piacere, l'uno e l'altro si contendono con assidua inesorabile vicenda i visceri e gli affetti
dell'uomo. Questa, nonostante le più insigni scoperte del pensiero, è la sola verità della vita.
Ogni secolo e ogni giorno di più, la socie tenta regolare questo eterno contrasto, che si ripete p
vivo e pugnace nell'ordine della sua esistenza. Tenta regolarlo, ma non sopprimerlo. Il suo compito è
anzi quello di carpire all'uomo le sue emozioni, nate di piacere e di dolore, e di asservirle come
altrettante forze impulsive al moto fatale del suo sviluppo. I costumi, le costituzioni, le città, le leggi
non sono se non tante trame di rivi e di torrenti scavati ad arte nella natura vergine per derivarne
istinti individuali e dirigerli verso energie comuni. La società ha regolato l'istinto dell'amore nelle
nozze, radici feconde di solidarietà e d'associazione; ha regolato l'istinto della violenza nella milizia,
guardia necessaria all'integri della patria; ha regolato l'istinto del mistero nella religione, cilizio di
pazienza e di perdono in mezzo alle ire civili; ha regolato l'istinto della vanità nel patriottismo, leva
nobilissima e potente di difesa e d'emulazione; ha regolato l'istinto della bellezza nell'arte, strumento
finissimo di gentilezza e di perfezione sociale.
Allo stesso modo e per simile fine la società, nel provvedere alla propria difesa con lo schermo della
pena, ha regolato da una parte il sentimento della pietà e dell'egoismo, della vendetta e della
conservazione, ottenendo dalla maggioranza degli uomini il consenso a reagire contro i perturbatori di
queste condizioni di piacere; dall'altra ha regolato il sentimento della colpa e dell'emenda, del
disonore e del sacrificio, intimidendo i perturbatori con la minaccia e l'afflizione di questi espedienti
di dolore. In mezzo a questi termini estremi e nel contrasto di così opposti sentimenti si insedia umile
e mal sicura la giustizia punitrice.
Fin che il sangue dell'uomo pulsi per stimolo d'ira o d'amore, di pietà o di cupidigia, di vendetta o di
paura, la pena sarà spesso, non sempre, la contradizione del delitto come un motivo di repulsione
contrapposto a un motivo di attrazione;, e nessuna regola potrà frammettersi tra i due termini contrari,
se non l'equilibrio instabile delle loro forze, il contrapasso, come dettò al poeta il suo genio(46); e
nessun caso potrà avverarsi che valga a sopprimere per sempre questo contrasto e ridurlo allo stato
generale di inerzia, se non il caso in cui la sensibilità degli uomini tutti e non dei più ceda un giorno
ad una perfetta indifferenza tra le attrattive del piacere e le repulse del dolore. Ma quel giorno sarà la
fine dell'umanità.
Il quesito della pena è dunque tutto nella misura delle due forze e si compendia in una sola domanda:
quid fortius? È più forte nella varia natura di chi delinque la lusinga del delitto o il terrore della pena?
Tale il problema.
II.
Il terrore della pena: risponde una scuola che il tempo ma non il disuso ha fatto antica: il terrore della
pena, perchè gli uomini sono per loro natura più aborrenti dal dolore che non attratti al piacere e
d'altronde sono liberi di eleggere tra un tale aborrimento e una tale attrazione.
No, rimbecca una scuola nuova: l'attività dell'uomo non è libera, ma si svolge tra vari motivi che la
determinano secondo la sua varia origine e le sue innumerevoli vicende; cosicchè nell'ordine naturale
e non in quello morale si deve ricercare la causa del delitto e la ragione della pena; ma tali e tanti sono
i motivi attraenti del delitto, che non resistono al loro contrasto i motivi repellenti della pena; quindi o
prevalenza del delitto sulla pena o indifferenza tra l'uno e l'altra.
In due scuole vaneggia il popol dotto;
la vecchia al vero il torvo occhio rifiuta;
la nuova il letterario abito muta
come il panciotto.
Di qua cervel digiuno in una testa
di stoppa enciclopedica imbottita,
d'uscir dal guscio e d'ingollar la vita
furia indigesta;
calvo Apollo di là trotta alla zuffa
sul Pegaso arrembato e co' frasconi:
copre liuti e cetre e colascioni
vernice o muffa(47).
La satira, dedicata più che mezzo secolo fa alla zuffa letteraria tra classici e romantici, pare scritta
oggi per il popol dotto dei penitenzieri divisi in classicisti e positivisti. In verità la vecchia scuola
rifiuta l'occhio al vero quando si impunta a considerare il delitto come un ente astratto invece che un
fatto positivo, un'infrazione e non un'azione, un turbamento dell'ordine sociale perfetto da misurarsi
dal danno che ne deriva, piuttosto che dal pericolo che ne sovrasta. La scuola nuova, rifuggendo da un
tale errore, corre al vizio opposto, senza fermarsi troppo per via a scegliere le premesse e misurare le
conseguenze, pur di mutare l'abito delle eredità scolastiche, proprio come si muta il panciotto. Di
teste cocciute nel lasciar coprire di muffa le vecchie dottrine o affaticate nel ritoccarle di inutile
vernice; di qua cervelli spesso digiuni o imbottiti di stoppa enciclopedica e agitati da una gran furia di
uscir dal guscio del mistero e di ingollar la vita, cioè la biologia, pretendendo che il problema penale,
che in parte è problema medico, sia medico soltanto.
Intanto il perfetto adattamento della satira antica al fenomeno moderno dimostra che la storia del
vecchio e del nuovo, anche nelle vicende dell'ingegno e degli studî, è sempre la stessa, e che il
misoneismo e l'avvenirismo, se pure paiono parole peregrine e non sono, significano fatti assai vieti e
comuni. Lo stesso impeto eccessivo nell'innovare: la stessa fissità ostinata nel conservare: lo stesso
risultato di compenso e di assestamento dopo il contrasto.
Le tradizioni e le abitudini mentali sono spregevoli e nefaste quando si considerano nella loro comoda
e cieca forza d'inerzia con la quale resistono a ogni energia nuova, a ogni conquista maggiore; ma è
anche intollerabile e rovinoso il fanatismo folle che corre dietro alle idee più strane e arrischiate, a
quello stesso modo che gli alpinisti fanatici ricercano nelle ascensioni i precipizî più orridi e le vette
più vertiginose. Chi stia nel mezzo, scegliendosi un posto di libera e serena osservazione, guarda,
pensa e sorride, intanto che i partigiani estremi ridon di lui e gli pungono i fianchi con l'ingiuria della
neutralità e della irrisolutezza, come se non sia più opportuno e glorioso guadagnar la sponda degli
arrivati che costeggiare sotto vento e con l'ago rivolto verso il fine paziente della persuasione più
intima e oscura. Del resto un tale contrasto non è se non eterno e fatale, percil processo con cui si
elabora la verità non è formato di elementi diretti e concordi ma divergenti e mediati.
III.
Lo spirito delle nuove ricerche ci trasporterebbe non solo alla natura e ai costumi degli uomini
primitivi, dai più truci e affamati selvaggi ai più miti e felici patriarchi, ma anche agli istinti e alla vita
degli animali. E, se non sapessimo resistere, ci menerebbe fuori del regno animale per farci emigrare
in quello vegetale, dove i fenomeni di certe piante ci farebbero intravedere le origini comuni della
colpa. Allora ci toccherebbe di vedere il cephalotus follicularis attrarre all'odore delle secrezioni delle
sue foglie gli insetti e ucciderli, la genlisea ornata pescare allo stesso modo del pescatore di canna gli
animaletti e mangiarli, l'utricularia neglecta giocare d'astuzia tra gli sciami dei moscerini e divorarli.
Delinquenti, dunque, anche le care benefiche piante, che hanno da rimproverare non a stesse ma
agli uomini tanti delitti e tante stragi sopra di loro, in cambio di protettrici ombre e di odorati respiri
che da loro ricevono.
Ma della coscienza delle piante nessuno ci ha fatto fin oggi rivelazioni più sicure che della coscienza
dei minerali; i quali pur vivono la loro vita, crescono, deperiscono, ammalano, muoiono, e chi sa non
consumino anche i loro delitti! Intanto la mineralogia, smessa per sempre la separazione classica tra
mondo organico e inorganico, ha detto addio alle poetiche immagini dello scoglio che resiste
incolume alla furia delle tempeste, e della montagna che col capo avvolto tra le nubi sfida il morso dei
secoli. Il microscopio ha svelato minerali feriti, che guariscono ricomponendosi in cristallo completo;
ha scoperto parassiti dentro i loro corpi, che ne sono logorati e distrutti; ha rinvenuto il grembo
pregnante nei loro embrioni; ha scrutato nel loro variare di forma l'opera di adattamento ai contorni;
ha ritrovato nel loro movimento, per cui il più forte contende lo spazio al più debole, l'eterna lotta per
l'esistenza; ha accertato anche nella loro vita l'occasione e la causa della morte.
Ma gli animali, i nostri buoni fratelli animali, debbono essere il termine di confronto e di
identificazione con noi ne' nuovi studî. Dopo le comunicazioni del Darwin intorno alle origini
dell'uomo, si era applicato lo studio comparato degli animali alla psicologia, alla sociologia,
all'economia; era naturale si volesse applicarlo anche alla criminologia. E così i nuovi criminologi
hanno scoperto che animali di varie razze rubano e uccidono con molta analogia dell'uomo ladro e
omicida; e ci hanno raccontato la triste e commovente storia della cicogna infedele, che è trascinata
dallo sposo tradito davanti a un tribunale cicognesco ed è punita di morte; e ci hanno ricordato il caso
pauroso delle api briganti, che assaltano e saccheggiano gli alveari stranieri; e ci han descritto la scena
del cane di Rennes, che mangia i montoni ai quali fa la guardia levandosi prima la muserola e
raggiustandosela dopo che s'è sciacquato il ceffo. Già i nostri prossimi antenati del medio evo non
erano rimasti indietro per questa via di scoperte; anzi avevano fatto qualche passo più innanzi, perchè
avevano addirittura condannato di morte o di scomunica gli animali delinquenti, osservando
puntualmente tutte le forme della procedura. E lo seppero i bruci di Vercelli, che avevano intaccato le
viti della parrocchia; lo seppero le mignatte di Berna, che avevano inquinato le acque del territorio; le
passere di Venezia, che avevano turbato i riti di San Vincenzo; i topi di Autun, che avevano
rosicchiato i grani della campagna circostante; lo seppe il porco di Burgundia, appeso al patibolo
dell'uomo per aver mangiato la tenera testolina d'un neonato.
Ma questi errori non furono tanto grossolani per opera degli antenati che li commisero quanto per
colpa dei posteri che li interpetrarono, annettendovi questi un falso concetto della responsabili
animalesca che quelli avrebbero confuso con l'umana(48). Con la condanna dell'animale nocivo non
punivano la colpa di un essere privo della coscienza della pena, ma la negligenza del proprietario, a
quel modo stesso che noi oggi puniamo direttamente la colpa dei proprietari che lasciano gli animali
incustoditi o li tengono in condizioni di nuocere. E le stesse condanne che inflissero a turbe di animali
randagi ebbero la loro ragione in una giustizia sommaria da far ricadere su proprietari ignoti e in uno
spettacolo esemplare da fare effetto su responsabili umani, ed ebbero ragione anche nell'eterno istinto
di rendere il male per il male. Il Deuteronomio puniva il bue uccisore; la savia Grecia condannava
anche le cose inanimate ordinandone la distruzione. Serse fece battere con le verghe l'Ellesponto per
scacciarne gli spiriti maligni che avean suscitato la tempesta e la rottura del ponte.
L'indagine ci ha già fatto deviare e ci ha ricondotto al medio evo. Ma questa deviazione non è che un
primo errore da rimproverare ai più intraprendenti tra i nuovi ricercatori. L'uomo, soltanto l'uomo, ma
non già nella sola personalità organica, ben nella natura complessa, nella costituzione fisica,
nell'eredità, nello sviluppo, nell'educazione, nelle condizioni economiche, nello stato di adattamento
all'ambiente, nelle relazioni con la società, nelle varie occasioni di attività: ecco il soggetto necessario
delle nuove ricerche. E il soggetto è così vasto e profondo, che non deve risvegliare il bisogno di
ampliamenti e di deviazioni.
IV.
L'uomo delinquente, animale non grazioso benigno, facile a riconoscersi, chiaro a definirsi,
ve lo trovate accanto tutti i giorni e in tutte le relazioni. Eppure non ve n'accorgete, a quello stesso
modo che un curioso inglese, il quale volle visitare un grande manicomio, attraversò lentamente un
lungo e lugubre alveare di follìe e di dolori e quando fu per accomiatarsi dal suo cortese
accompagnatore gli rivolse questa inaspettata domanda: e dove sono i pazzi? C'era passato in mezzo e
non li aveva veduti! Ma ciò non vuol dire che il delinquente sia uguale agli altri uomini, ma che
complessa, nascosta, profonda è la radice della sua natura particolare.
Quale sia il tipo unico che fra tutta la gente perduta riassuma una tale natura ha tentato ma non ha
potuto dire la nuova scuola, che pure ha corso dietro a tutte le ipotesi e ha provato tutte le definizioni.
Il fondatore italiano, Cesare Lombroso, preceduto da precursori molti e antichi, da Empedocle a
Aristotele, dal Galeno al Della Porta, dal Lavater al Gall, dal Morel al Despine, pensò prima in modo
esclusivo e poi solo di preferenza all'epilessia, come alla causa e alla spiegazione di tutta la
delinquenza, perc farebbe che le impressioni nel giungere al comune sensorio provochino un
eccesso di reazione derivante da difetto di virtù inibitoria dei centri moderatori.
Ma bisog riconoscere che spesso in questa epilessia non si incontrava l'epilettico, almeno quello
rivelato dal fenomeno dell'accesso; e allora si pen all'epilessia larvata, che è quanto dire a quella
che può esserci ma non sappiamo se c'è: ipotesi che ricorda un po' quel piatto alla casalinga della
cucina toscana, che le nostre massaie chiamano degli uccellini scappati, dove, in realtà, degli uccellini
si sente soltanto che sono scappati molto lontani.
Allora si pensò all'atavismo e ora a quello organico e ora a quello psichico e ora a tutt'e due,
sostenendosi che il delitto è una reversione o un ritorno alla morale degli antenati. Già era stato
avvertito come alcune di quelle disposizioni che incidentalmente ricompaiono nelle famiglie senza
alcuna causa apparente possono considerarsi quali regressi verso uno stato anteriore da cui non si è
separati per molte generazioni: opinione confermata nel modo comune di dire che tali esseri sono le
pecore nere della famiglia. Ma, se l'idea può esser giusta in sè e può anche persuaderci che la malattia
del delitto è ereditaria, non ci dice quale sia insomma una tale malattia.
Si provò a indagare se per caso fosse la nevrosi e particolarmente quella americana, consistente in un
sovreccitamento nervoso. Ma si dovette riconoscere che un tale stato di nervi è l'appannaggio delle
persone colte e delle donne più che delle persone incolte e degi uomini, dei protestanti più che dei
cattolici, degli stati settentrionali più che dei meridionali dell'Unione Americana, mentre la
delinquenza prevale proprio in ordine inverso: la donna, che è il più bel tipo della nevrosi, è assai
meno criminale dell'uomo, i cattolici di tutto il mondo formano la proporzione più alta tra i
delinquenti, gli Americani del Sud delinquono più e peggio di quelli del Nord. Cosicchè bisognò
renunziare alla nevrosi.
Si pensò alla nevrastenia come circolo centrale di tutte le nevrosi e causa tipica di debolezza nella
resistenza a tutti gli impulsi. E si distinse la nevrastenia fisica, che dovrebbe produrre il vagabondo,
dalla morale, che genererebbe il delinquente abituale. Ma alla prova dei fatti bisog renunziare
anche a questa spiegazione; come bisognò renunziare a tante altre: alla pazzia morale, all'alienazione
mentale, alla degenerazione, alla follìa inibitoria: perchè tutte corrispondono non al genere ma alla
specie.
Ma pure si volle insistere; e si pensò al calore del corpo. Sì, anche al calore del corpo! E si disse che
nell'uomo è un centro termico, regolatore del suo calore, il quale può alterarsi; allora ne deriva che,
elevandosi la temperatura dell'ambiente esteriore, l'accumulamento e la distribuzione del calore del
corpo si fanno sempre più irregolari per l'anormalità del centro termico e intanto producono vere e
proprie nevrosi e tra queste la nevrosi criminale. E si disse di aver riscontrato una temperatura assai
bassa nei ladri e altissima negli assassini. Ma non si turbi, a questo cenno sperimentale, qualcuno de'
miei pochi lettori, che nell'inclemenza della stagione si senta oggi troppo bassa o troppo alta la
temperatura; non si turbi, perchè l'ipotesi peregrina non è accettata, non sapendosi bene se il
fenomeno sia rispetto al delitto la causa oppure l'effetto, tant'è vero che gli stessi sostenitori della
delinquenza calorifica ci raccontano che la temperatura degli assassini è elevata quando entrano nel
carcere e scema durante il tempo che stanno al fresco.
La lunga serie delle spiegazioni unitarie si interrompe con una che è la negazione di tutte. Dopo aver
supposto il delinquente un anòmalo e un malato, s'è pensato che non debba essere l'uno nè l'altro,
ma che al contrario sia l'uomo normale e che l'anòmalo sia il galantuomo, lui il malato, lui il
degenerato, per modo che la delinquenza sia la regola e l'onestà l'eccezione. E l'ipotesi sarebbe vera,
se s'adattasse ai disonesti e agli immorali e non ai delinquenti, giacchè l'onestà e la morale, se pure
son la regola della vita, non fanno che i più degli uomini in real vivano regolarmente. Ma in
quanto ai delinquenti, i quali non sono che i disonesti e gli immorali che spingono la loro
incontinenza oltre il sentimento medio dell'onestà e della morale, l'esperienza e la statistica, che vuol
esserne il contatore, ci assicurano che formano il meno e non il più dell'umanità.
V.
Bisognava dunque far di necessità virtù: riconoscere la complessità della bizzarra e maligna natura di
chi delinque, renunziare al tipo unico del delinquente e all'unità tipica della delinquenza e concludere
che il delitto è l'effetto di tre cause o simultanee o distinte: l'organica, riposta nelle condizioni
corporee di chi delinque; la fisica, in quelle meteoriche dell'ambiente; la sociale, in quelle economiche
e morali della società(49).
E la conclusione, chi la guardi con occhio scevro da pregiudizi scolastici, è vera. Ma è anche amara,
perchè è la delusione e la confusione di tanti trovati specifici; e ha anche un po' del socratico, perchè
si riduce a dire: finalmente sappiamo che il delitto è il risultato di varie cause ma di quale
singolarmente non possiamo sapere; è poi sproporzionata ne' suoi termini, perchè la causa meteorica
non merita lo stesso valore di quella sociale, e tutt'e due non valgono quella organica, e questa alla sua
volta non vale quella psichica, la quale ne' suoi segni più prossimi all'azione è la più comune.
Che sia e quando e per che modo la psiche si distingua dalla materia, donde si eleva e pare si dissolva
in un che di etereo e di inapprensibile, non dirà mai nessuno. Ma si può ammettere, senza peccare di
bigotteria spirituale al cospetto degli assolutisti del regno animale, che ci sono dei fenomeni interiori,
vale a dire idee, sentimenti, desiderî, passioni, ricordi, giudizi, propositi, pentimenti, voleri, i quali
con la materia hanno bensì una relazione, perc nulla è sospeso nel vuoto dentro di noi, ma così
intima e complessa, che non possono essere considerati se non a sè. Si fa presto a ripudiare l'antica
fede in tre facoltà autonome della coscienza, quante ne contarono gli scolasti della filosofia -
intelletto, volontà, sentimento - ma negando la fede non si nega la verità che è riposta nell'esperienza
di tre diversi aspetti dell'attività spirituale, i quali si distinguono appunto in altrettanti ordini di fatti
morali: - deficienze o squilibri nel modo di intendere le cose e le loro relazioni, difetti o eccessi nella
forza e nella misura pur relativa di volere, disordini e anomalie nel movente e nell'indirizzo comune di
sentire.
Di qui la necessità della ricerca della gente perduta tra gli elementi psichici della natura; di qui la
ragione d'una disciplina preminente nei timidi tentativi del problema penale: la psicologia, se non qual
è, quale potrebbe essere. Attribuire a questa ricerca ed a questa disciplina una minore importanza che
alle altre è voler fare della novità ad ogni costo; è voler giocare di contraddizione per paura della
metafisica, che pure fu così amabile nella sua signorile agiatezza; è imitare a fatica il Voltaire, che
negava i fossili per paura che provassero la veri del diluvio universale, e sosteneva che le nicchie
delle Alpi non erano se non tracce di pellegrini e le ossa dell'ippopotamo e della renna in Etampes
nient'altro che raccolte antiche di qualche amatore di rarità.
E il torto della nuova scuola è per appunto quello di volere esser troppo nuova per non aver nulla in
comune con la vecchia, di volere esser troppo più medica che psicologica, di avventar sempre la
diagnosi dove spesso sarebbe appena possibile il sillogismo intorno a un soggetto cinto dal più
profondo mistero.
E un tale soggetto è l'anima del più vile degli uomini. Comporre il poema dell'anima, sia pure
dell'ultimo degli uomini, pensò un uomo che degli ultimi non era, sarebbe adunare in un'epopea tutte
le epopee, sarebbe descrivere il laberinto dei propositi e delle contradizioni, l'antro delle idee e delle
passioni vergognose di luce, la fornace dei desiderî e dei bisogni, il campo di battaglia per odî e
amori, sbalzi d'eroismo e abbiette viltà.
E chi può dar forma e misura a queste scene di mistero? Forse l'artista con l'istinto divinatore; meno di
lui lo psicologo con l'esperienza dei fatti invisibili della coscienza; meno che mai il frenologo. La sua
tavola anatomica è assai breve; i suoi quadri clinici sono ben pochi, forse venti o trenta in tutti; la sua
diagnosi (non diciamo della sua cura) benchè rivestita di nomi e di eleganze elleniche, è quella di un
semplicista; le cause alle quali riporta le malattie mentali sono assai grossolane e collegate a
alterazioni organiche vistose (infezioni, intossicazioni, traumi, anemia, arteriosclerosi cerebrale,
lesioni fetali); quando è chiamato a dare il suo parere su di un soggetto giudiziario è costretto a
dichiarare che l'alienista è il giudice delle malattie mentali, delle aberrazioni tipiche e conoscibili della
ragione, ma non delle varietà di carattere e di intelligenza che si rivelano soltanto all'urto di certi
avvenimenti singolari e che rimangono latenti e inconoscibili se il caso non offre raffronti; e quando
ha classificato il facinoroso tra i normali o i pazzi ha finito il suo compito. E, dopo tutto questo, il
beato normale è signore e arbitro della propria condotta? E nella sua natura, perchè monda da cicatrici
recenti e da stimmate natali, non si alternano e non si confondono di sorpresa la ragione e la follia?
Ragione! follia! Due parole, due immagini, che pretendono alla p rischiosa comparazione della
nostra personalità, e non sono che due termini convenzionali per la più arbitraria delle distinzioni. Ci
sono infinite varie individuali, non organiche sistematiche, non croniche acute, che bisogna
riferire per necessità d'eliminazione all'intelligenza, alla volontà, al sentimento, insomma agli attributi
psichici dell'uomo, i quali fanno di lui savio un folle. Ma mentre il folle rivelato ai suoi segni esteriori
è un libro aperto e intelligibile a tutti, tranne a lui stesso, il folle gabellato per savio è un enigma, e di
tanto si rende più enigmatico di quanto è superiore per alcune qualità alla media dei savi: mentisce e a
differenza dei folli sa di mentire, simula e dissimula, si sdoppia e si trasforma in continui
atteggiamenti di dualità e di pluralità.
E chi li conta, questi atteggiamenti? Chi li definisce? Chi ne può comporre la pretesa unità di
funzione, in grazia della quale le immagini psichiche dovrebbero movere da particolari gruppi dei
centri motori? Un'accensione di collera o di lussuria, un agghiacciamento di paura o di dolore, un urto
di dispetto o di disperazione, una raffica invincibile di passione, un falso vedere come di bestia
quand'ombra può mutare d'un tratto la sua personalità, farlo diverso da se stesso, rassomigliarlo a un
altro, sbalzarlo fuor d'equilibrio e ridurlo un automa.
E con ciò a che si riduce l'io voglio</> e l'io posso, onde l'uomo rintrona le orecchie diafane dei
conigli della sua specie? Non ad altro che a due proposizioni che indicano una situazione ma non la
costituiscono. Il fondo dell'io è tutto in questo potere che l'uomo si assume di possedersi; ma la
pienezza della potenza non è che dell'uomo perfetto; e la lanterna di Diogene che lo cercava non
proiettò mai che ombre.
La verità fu detta anche intorno a questo inafferrabile argomento umano dal maestro di Nazareth, che
insegnò a pregare il padre: - tu non ci indurre in tentazione. - E la sola conclusione di questa perfetta
verità fu pur anche dettata da lui, che ammo per regola di condotta umana e non per disdegnoso
gusto: - non giudicate.
VI.
Ma gli uomini giudicheranno. E nell'arte scempia del giudicare vanteranno il fondamento dei regni, e
tutti i giorni faranno e rifaranno leggi con la furia manuale di zingari rabberciatoli di padelle, e tutte le
volte che qualche grosso coriandolo passe per i fori mal rabberciati grideranno che è passata la
giustizia del paese.
Il maleficio sorge dalle cause che lo determinano come un effetto ineluttabile. I buoni e i malvagi, sui
quali il cielo effonde ugualmente il sole e la pioggia, non sono se non quelli che nacquero o
derivarono da cause cosiffatte. I migliori che nella lotta di queste cause son vittoriosi sortirono da esse
stesse i mezzi fortunati della vittoria. Chi sa scegliere e misurare la proprie risoluzioni deve alla
natura che gliene apprestò il segreto questa sapienza inestimabile; i mal nati non riescono mai a
possederla, neppure quando più vi faticano attorno. Se poi ci appaiono riottosi a questa fatica e
spensierati della propria ignavia, abbiamo ragione di disistimarli e mortificarli solo in quanto la
disistima e la mortificazione possono valere a stimolare il loro fondo inerte; ma abbiamo torto di
fargliene una colpa come se di proposito vogliano non volere. Onde ogni giudizio di tutta l'umanità si
riduce ad unica grande separazione tra infelici e fortunati. E non è forse fortunato l'ingegno? non son
fortunate le circostanze proprie a svolgerlo? non è fortunata la bellezza? non fortunata la forza? E non
è infelice l'imbecillità? non infelici la deformità e la debolezza? Ma tutto ciò non importa alla
sapienza del giudicare. Da quel giorno che i tribunali consentirono alle belve umane di essere civili si
son puniti e si puniranno i malvagi, quasi arbitri della loro malvagità, non si son premiati e non si
premieranno i buoni, benchè benemerenti della loro bontà.
L'ultima perfezione dell'arte di punire non potrà ridursi se non al minimo uso delle pene, per modo
che siano unicamente riservate a coloro che sotto il cumulo degli stimoli al delitto conservano un
certo grado di sensibilità ai controstimoli della pena, quale causa di repulsione opposta alle varie
cause di attrazione. Ecco in un pugno la maggiore eccellenza d'una giustizia punitrice! La quale si
risolve in questo ironico paradosso: che ella è fatta per i migliori. E cioè è fatta per uomini che contro
la tirannide tentatrice del delitto dispongono di un tenue tesoro di coscienza e di libertà per versarlo
nel fondo comune della società, e cioè sacrificarlo alla giustizia.
E a tutti gli altri uomini, insensibili alle minacce penali per nascita o per abitudine o per pazzia,
qual'altra sorte può essere riserbata? L'eliminazione, che della pena non avrà il nome ma ne
riaffermerà il sacrificio; l'eliminazione in asili appositi, in colonie agricole, in deportazione o
reclusione perpetua, giusta le più accettabili conclusioni della scuola positiva. Ma a questo modo la
sventura della quale si nega la coscienza e la colpa avrà volontario e studiato compimento nell'opera
più perfetta di difesa della società.
Ciò dimostra una volta di più che ella è opera di utilità e non di giustizia, di fatali e non di
perfezione, e che non erano mistiche ma positive le dottrine pitagoriche della retribuzione e
dell'espiazione, secondo le quali è una fatale identità tra la passione del maleficio e la passione della
pena e questa è una necessaria continuazione del dolore che è contenuto in quella. Si faccia pur
pompa di nomi e di filosofismi, la socie che punisce non si incarica d'altro se non di continuare
fatalmente il dolore, la sventura, la ineluttabile sorte del maleficio. E così operando obbedisce
inconsapevolmente ad una potenza occulta, arcana, terribile, che presiede alle leggi del mondo, ai
grandi trionfi e agli immensi rovesci, che muta un cieco capriccio in un avvenimento solenne, che
dispensa così il bene e il male come il gastigo e il premio senza rilasciarci libertà di merito di
colpa, che si mescola sempre con la ragione e la follia: potenza che prende forma di personaggio vivo
e presente nella tragedia greca e contro il quale lottano e fremono e acquistano co smisurata
grandezza i personaggi umani nella loro fiera e maestosa ma inane immobilità sotto il peso inesorabile
che li vince e li schiaccia.
E questo concetto di retribuzione e di espiazione è tutt'oggi, in pieno scetticismo, profondamente
popolare. Dite alla vittima superstite di una grave offesa che l'offensore è un incorreggibile, un
insensibile alla pena: la vittima, grata e persuasa della vostra amabile dimostrazione, non renuncerà
per questo alla pena; e se non la otter dal giudice, se la procaccerà da sè. Dite a due vittime
designate dallo stesso odio e dalla stessa violenza di un solo ribelle, l'uno e l'altra colpita a sangue,
dite, giusta la dottrina positiva della temibilità del reo, che tanto vale nella misura della temibilità la
violenza che ha colpito nel segno quanto quella che per sola ventura è andata di fuori: l'una delle due
vittime pretende una pena diversa da quella riserbata a soddisfazione dell'altra. E la socie gliela
dovrà concedere per non abbandonare all'arbitrio e al disordine individuale l'opera statale della pena.
In uno degli ultimi processi noti tra noi il capo dei giurati volle spiegare ad un pubblicista il verdetto
di Torino che condannava Linda Murri e Carlo Secchi alla stessa sorte. Il buon mercante allobrogo,
immune di pregiudizi pitagorici, disse: - la Linda e il Secchi furono uniti nell'amore, dovevano essere
uniti nell'espiazione. - Era la voce del popolo giudice del secolo XX, quella che motteggiava così.
Ora se la giustizia, mutata insegna ma non ragione, è ancora Nemesi, dea della vendetta, o Giove
Nemessete, dio vindice dell'empie azioni, è vano ricercare la perfezione in un apparato civile che ha
per fondamento la fortuna, la fatalità, il mistero. E aveva ragione nella sua amara diffidenza il poeta,
più penetrante d'uno statista, quando a mezzo il secolo scorso cantava:
Emendar, mi cred'io, non può la lieta
nonadecima età più che potesse
la decima o la nona, e non potranno
più di questa giammai l'età future.(50)
VII.
Ma la nonadecima età si pose nel suo ultimo quarto sulla via del rinnovamento. Non pretese di
emendar più che la decima e la nona; anzi restrinse la sua fede nella sensibilità dell'emenda o piuttosto
(per metter da parte un'immagine poetica quale è l'emenda) nell'intimidazione delle pene, e queste
riservò a due sole righe di peccatori, quelli per passione e quelli per occasione, ai quali dedicò l'esilio,
il risarcimento del danno per mezzo del lavoro, la consegna a famiglie coloniche, la segregazione
indeterminata in colonie agricole: a tutti gli altri, delinquenti per nascita o per pazzia o per abitudine,
destinò il manicomio criminale, la deportazione perpetua, le colonie per dissodamento o
prosciugamento dei luoghi palustri, la perpetua reclusione in istituti di incorreggibili.
E questo fu il programma della nuova scuola che si iniziò in Italia nell'ultimo quarto del secolo XIX.
E la scuola, ad onta di tanti errori e di tanti infortunî, fu sulla traccia del vero. Ella ruppe per sempre
contro i vecchi feticci d'una metafisica a orecchio; pose in terra il mito di un'astrazione simbolica qual
era considerato il delitto e ne fissò le sue cause, organiche, fisiche, sociali, pur non mettendo nella
dovuta evidenza le psichiche; dimostrò che su tali cause, più che su i loro effetti, deve esercitarsi l'arte
della difesa sociale; provò che è inutile affidarsi unicamente al magistero delle pene, del quale si
conosce ormai tutta l'efficacia intimidatrice per l'esempio allegro di gente condannata venti, trenta,
cinquanta volte; e concluse che non basta reprimere ma bisogna prevenire, perchè, se l'uomo
eseguisce il delitto, la società lo prepara.
Non erano bastati tre quarti della lieta nonadecima età ai lucumoni della filosofia e del diritto per
mettersi d'accordo sul fondamento della ragione di punire. Chi immaginò l'espiazione e chi la
riparazione, chi la semplice vendetta purificata, chi l'emenda e chi l'utilità, chi la riaffermazione del
diritto e chi la necessità politica, chi la retribuzione e chi la reintegrazione e chi la tutela giuridica. Ma
da tutti questi termini differenti e contrastanti non derimai una conseguenza diversa che indicasse
un diverso indirizzo nella disciplina delle pene: tanto poco la filosofia determina gli abiti civili e le
stesse leggi. Il diritto di punire si fondava sulla giustizia assoluta? si direbbe che la pena avrebbe
dovuto essere espiazione e repressione. Si fondava invece sull'utili politica? parrebbe che la pena
avrebbe dovuto essere nuova e radicale prevenzione. Si fondava sulla giustizia in quanto è utile e
sull'utilità in quanto è giusta? la pena avrebbe dovuto essere prevenzione e repressione insieme.
Invece il congegno punitivo, raffigurato in una scala per somma perfezione di gradualità e proprio col
nome di "scala penale" indicato, fu sempre uno solo. Una sola medicina per migliaia di malattie e per
milioni di ammalati.
Eppure il metodo positivo negli studî era antico e tutto nostrano e si potrebbe dire fiorentino. Nacque
dopo la rinascita nelle scienze fisiche e naturali, per opera di Galileo. Nell'ultimo secolo il Bufalini a
Firenze e il Concato e il Tommasi e altri nel resto d'Italia lo applicarono alla medicina, assoggettando
all'esperienza i fatti, i precedenti, le eredità, i ricambi, le manifestazioni organiche del soggetto
d'esame.
Prima di quest'ultima ventura del metodo positivo e quando cadeva il tramonto del secolo XVIII era
nell'aria lo spirito della riforma. Una voce si levava di Francia per ammonire che la socie avea
bisogno di nuove leggi punitive perchè le attuali non erano umane; a questa voce del presidente
Montesquieu rispondeva dai nostri confini ideali il Beccaria. Un'aura di giovinezza spira nelle pagine
del suo libro: la stessa forma agile e romantica sembra rivelare l'avo consapevole di Alessandro
Manzoni. Ma il fine del libro non è se non quello di abbattere l'edificio barbaro e truce delle leggi
penali contemporanee, ingarbugliate di infiniti sofismi sui testi del diritto romano, e perciò rispecchia
lucidamente l'indirizzo della corrente umanitaria del suo tempo. Gli scrittori rivoluzionari
dell'Enciclopedia professavano la filosofia dell'umanità; meno eruditi e p liberi dei loro
predecessori, si fidavano del sentimento e del raziocinio, non si preoccupavano delle esperienze e
delle cognizioni positive, che non possedevano; erano enfatici e sentimentali.
E pe nel libro italiano ritrovarono se stessi e lo levarono al cielo. Il D'Alembert non si stancò di
lodarlo; il Voltaire ci fece sopra uno studio particolare; gli altri enciclopedisti maggiori, Diderot,
Holbach, Rousseau, vollero l'autore, come fu a Parigi, nei loro cenacoli pensosi; e ancora una volta fu
pronunziato in suono di grazia e d'affetto il nome d'Italia.
Ma, combattuta e vinta questa nobile battaglia e rese umane le pene, la riforma non spinse d'un passo
il diritto sulla via dell'esperienza; e ricominciarono gli ozî scolastici per gli spalti rugiadosi
dell'ontologia. Gaetano Filangieri, Pellegrino Rossi, Giovanni Carmignani, e, più compiuto e loico tra
tutti, Francesco Carrara, trassero nell'ordine d'una meravigliosa potenza dialettica tutte le conseguenze
giuridiche della concezione astratta del delitto. Solo Gian Domenico Romagnoli ne aveva concepito
una genesi positiva, fondata su quattro condizioni difettive della società: difetto di sussistenza, di
educazione, di vigilanza, di giustizia: altissima idea ma imperfetta, perchè circoscritta tra le cause di
ragione sociale e straniera a quelle fisiche.
Ma ecco che Claudio Bernard applica il metodo positivo alla fisiologia; ecco che Augusto Comte in
Francia, Guglielmo Wundt in Germania, Roberto
Ardigò in Italia lo estendono alla sociologia; ed ecco che il medico Cesare Lombroso, seguito dai
giuristi Enrico Ferri e Raffaele Garofalo, lo applica al diritto penale e inaugura la nuova scuola.
VIII.
Quale sia per essere l'avvenire di questa scuola, quale l'avvenire di tutta l'arte della difesa sociale, non
è dato presagire.
Fin qui la scuola non ha avuto la fortuna che di per e per i suoi fini si meritava. Non accolta con
fiducia nel nascere, come ogni novità che contraddice alle tradizioni e alle abitudini mentali; non
veduta con benevolenza, come quella che rinnegava il pregio della condotta umana, il merito della
probità, ogni aspirazione al meglio nell'avvenire e persino la dignità del genio, ridotto tra le varietà
della follia e della degenerazione; non rispecchiata se non di rado nella pratica del giudicare per
ignoranza dei patrocinatori e dei giudici; non sfruttata per nulla nel nuovo assetto dato alla nostra
legislazione penale nel 1890; oggi si trova da più anni in una condizione stazionaria e improduttiva. I
tre fondatori han fatto a gara nel renunziare alla propria autorità quando più era necessaria a sostenere
e accreditare una dottrina sospetta. Un di loro si trasse sdegnosamente in disparte; un altro si perse tra
la folla per seguire un partito che distraeva la fiducia in lui, necessaria ad accreditare la scuola; il
maestro che già aveva forzato il suo grande ingegno, corse dietro alle potenze occulte; i discepoli, già
pochi e poco fortunati, rimasero sulle secche senza aiuti, senza cattedre, senza avvenire; nel campo
generale delle discipline giuridiche l'aria è di perfetta indifferenza e di tedio profondo.
Eppure si sarebbe detto che una scuola la quale voleva essere e in parte era medica fosse destinata a
miglior ventura in questo principio di secolo, che è tutto dei medici e sa acutamente di medicina. Gli
uomini di legge vanno di giorno in giorno perdendo terreno e cedono il passo a loro nei comizi, nei
consigli dei comuni, nella rappresentanza parlamentare, nelle aziende dei commerci, nelle imprese
d'ogni specie. I laghi, il mare, i monti, le grotte, le terme zolfuree e salso-bromo-iodiche, le sorgenti
alcaline e lassative, le case di cura, gli uffici di igiene e di sanità, le aziende di assicurazione su la vita
e gli infortuni, le fabbriche di specifici ristoratori del sangue, dei nervi, della pelle, dei ricambi
smodati e delle energie languenti, sono fortune della medicina nel nuovo indirizzo d'egoismo, che ci
induce a sempre meglio conoscere e curare noi stessi. E maggior fortuna le sarà riserbata
nell'avvenire, quando si festeggeranno le auree nozze dell'Igiene col Capitale, quando agli ospiti
paganti degli spedali e dei manicomi si aggiungeranno sotto la scorta medica i ricchi pensionanti dei
cenobî, dei conventi laici, delle case di solitudine e di svago, delle comunità vegetariane, delle colonie
idrologiche scalze lungo le tepide valli acquitrinose e dalla triste aria farmaceutica, quando infine il
medico sarà il custode del futuro uomo immortale e l'arbitro de' suoi pensieri e de' suoi danari, della
sua mensa e del suo letto.
In vista d'un così lieto avvenire, sarebbe ingiusto vaticinare l'oblìo della nuova scuola e la dispersione
d'ogni sua conquista più assennata e proficua. Ma assai probabilmente si alterneranno le preferenze
per questo o quel termine della patogenesi criminale. Ora prevarranno le cause organiche, sostenute
dall'onnipotenza dei medici; ora le sociali, favorite dall'influenza del problema economico, come
avviene presentemente in Francia, dove una scuola che a titolo d'originalità si chiama francese,
applica la parte migliore della nuova dottrina italiana e censura la peggiore quando g si è
incominciato a rifiutarla dagli Italiani. È da augurarsi, per una maggiore efficacia del magistero
penale, che nella cura del delitto prevalga lo studio delle cause psichiche, perchè più assidue alla
reale perchè più suscettibili alla riparazione. D'altronde le sociali si scompongono nei termini stessi
di tutto il vasto problema sociale, che non ci lascia intravedere una pronta e compiuta soluzione; le
organiche, che pure sono le più influenti, non consentono rimedi ma espedienti negativi mercè
l'eliminazione dei delinquenti nati o pazzi o incorreggibili; sole le psichiche o morali permettono una
lunga e sottile serie di cure, assai più preventive che repressive, dirette a illuminare l'intelligenza, a
signoreggiare la volontà, a nobilitare il sentimento.
Ecco in un pugno tutto il problema penale.
Già si tende a restringerlo dentro i suoi forzati confini contenendo il Positivismo nella cerchia della
Critica e instaurando un Positivismo Critico che è l'ultima parola del problema. Per questo indirizzo si
studia l'anima guardandovi in fondo e non ristando troppo su' suoi bordi, perchè si ammette che i fatti
spirituali non siano funzioni di alcuni organi fisici ma concomitanze di alcuni fatti fisiologici. E non si
può negare che in cima a questo indirizzo sia il vero; ma se ci mettiamo a svolgerlo risentiamo troppo
delle sordide compiacenze abituali per la materia. Troppo abbiamo offuscato di affanni e di
filosofismi lo specchio dell'anima; abbiamo troppo lavorato attorno alla ragione come se
disponessimo d'altro strumento per lavorarla che la ragione stessa; ci siamo morsicati la coda pur di
immaginarci un attributo animale di più e concederci un privilegio, una virtù, un ideale di meno. E
così la futura dottrina si ridurrà ad una psicologia senz'anima, vale a dire senza la suetudine e la fede
nella sua conoscenza. Bisognerà che anche in questo argomento il filo dell'errore si assottigli e si
strappi e sorga un'era nuova di sincerità e di discrezione in ogni esercizio dell'ingegno.
IX.
Intanto la difesa giuridica della società oggi non è meglio ordinata di quella politica, perchè manca
ugualmente di precetti coerenti e omogenei. Il giudizio e il trattamento degli irresponsabili, in che si
riassume il compito più delicato della giustizia, si perdono nell'ordine delle idee contingenti e
arbitrarie. La responsabilità è giudicata e trattata mercè un'impura panacea di tutti i detriti e di tutti gli
scolaticci della scuola classica e della positiva, della vecchia medicina legale e della nuova veterinaria
comparata, di una giurisprudenza a tariffa di gabellotti e di un'arte forense senza disegno e senza
colore.
Qui è lo sconcio maggiore che abbia mai offerto l'espediente di una transazione. La scuola classica
aveva ragione di mandare impune il reo che dichiarava irresponsabile per difetto di coscienza o di
libertà de' suoi atti, percquesto difetto riconosceva sol quando era estremo e morboso intanto che
confinava per suo programma il quadro della morbosità nei casi più vistosi ed estremi. La scuola
positiva ha moltiplicato i criteri dell'irresponsabilità, ma non per dilatare, sibbene per restringere i
confini della difesa sociale, giacchè ha trattato gli irresponsabili più severamente dei responsabili
proponendoli non alla libertà ma alla segregazione. Ora nelle giostre giudiziarie avviene che si discute
dell'irresponsabilità con gli sconfinati criteri della scuola positiva, la quale ne fa la regola di una più
rigorosa tutela, e poi la si giudica con le sanzioni vigenti della scuola classica, la quale ne fa la base di
un'eccezione liberatoria.
Mette il pelino allo sconcio un mezzo termine sancito dalla nostra legge(51), secondo il quale il reo
assolto per infermità di mente può essere mandato al manicomio per libera disposizione del giudice.
Ma al manicomio si scopre tutta la realtà dell'errore, perchè si riconosce che l'irresponsabile era tale in
senso assoluto e non relativo, vale a dire non nel senso per cui si chiudono gli uomini nei manicomi
in quello per cui si mandano i rei in libertà; e però, sulla fede del medico, ne viene presto o tardi
dimesso. Il giuoco, che consiste nel baratto e nella confusione dei termini relativi con quelli assoluti,
non potrebbe essere più folle nè più nefasto alla coerenza del diritto e alla difesa della società.
In teoria assoluta ogni uomo non è mai responsabile, perchè o non ha conosciuto il male che ha
compiuto o non ha potuto evitarlo. Se non l'ha conosciuto ha subito un difetto di coscienza; se non ha
potuto evitarlo ha risentito un vizio della volontà, che era o tarata di sufficiente virtù organica o
sopraffatta da una forza maggiore d'occasione, perchè nessuno per suo deliberato proposito vuole non
volere. Io non so dimenticare il mio omicida che pareva tanto brutale ed era così esteta! Gli chiesi
come mai per un futile scontro di strada e in un semplice urto di mani avesse impugnato il coltello e
ucciso.
- Che vuole! - rispose - mi cascò il cappello e rimasi tanto male!
Per tutto quanto si è discorso bisogna concludere che la maggior fortuna del mondo si ridurrà al
migliore ritrovamento di un'arte capace di antivenire le cause trattabili del malefizio col dar luce
all'intelligenza, signoria alla volontà, elevazione al sentimento.
E tale è l'arte dell'educazione.
X.
La parola è casalinga e vieta e senza suono, ma di una significazione profonda e sterminata. L'opera
maggiore della civiltà futura non avrà altro motto; solo un sapiente ordinamento dell'educazione
pubblica sarà il sistema novissimo della difesa sociale dell'avvenire; l'ufficio dei penitenzieri dovrà
cedere per sempre a quello degli educatori; la ragione positiva, non il sentimento lirico, giustifica un
tale augurio.
I fanciulli, per quelli che li conoscono e per noi che li adoriamo, appaiono privi di senso morale.
Questo non è se non un senso acquisitivo. La crudeltà contro gli animali, l'egoismo e la gelosia verso i
compagni, lo spirito di distruzione, la prontezza all'appropriazione sono istinti selvaggi e belluini, che
non aspettano se non il tempo e la liber di espandersi e svilupparsi. Che è che li muta, se non
l'educazione? Lo so: il mutamento può essere un fenomeno evolutivo, analogo a quello che chiamano
embriogenico, per cui il feto umano per riuscire alla sua forma definitiva passa successivamente per le
forme animali intermedie, che lo sviluppo individuale può anch'essere una ricapitolazione dello
sviluppo della specie. Ma l'educazione per lo meno regolerà e condurrà fino al suo massimo stadio un
cosiffatto sviluppo, purchè non sia deviato da vizî d'origine o di conformazione. Non creerà, no, le
facoltà che mancano, ma coltiverà quelle che ci sono. I germi delle cose create non si sviluppano nel
vuoto ma sotto la continua e vitale influenza degli agenti esteriori e dell'ambiente. Ora la natura
migliore d'un uomo, se non avrà tra gli agenti del suo sviluppo quello dell'educazione, ritroverà tutto
un ambiente discorde a sè e farà necessariamente mala prova. E però, profondamente, il poeta:
Sempre natura, se fortuna trova
discorde a sè, com'ogni altra semente
fuor di sua region, fa mala prova.
E se 'l mondo là giù ponesse mente
al fondamento che natura pone,
seguendo lui, avrìa buona la gente(52).
Dante s'ingannava nel supporre buona la gente per fondamento posto in lei da natura, ma aveva
ragione di credere che ogni natura pur buona fallisce alla sua origine se s'imbatte in una condizione
sfortunata e discorde dalla sua bontà, come accadrebbe ad ogni altro seme che germinasse fuori della
sua origine, ossia del suo ambiente propizio.
E che sono i delinquenti se non fanciulli cresciuti in balìa dei loro istinti malnati? Noi non sentiamo
verso di loro nessuna simpatia e nessuna pazienza, sentimenti che invece prodighiamo senza limiti
verso i fanciulli, perc apponiamo agli adulti l'arbitrio dei loro atti e la colpa del loro essere; ma in
verità non è in loro, a paragone dei fanciulli, se non una colpa: quella di non avere in se stessi la
facoltà naturale di rifarsi. E guai a chi li ha fatti! Vivrà con lo strazio di aver servito la natura
prepotente nella sua legge di fecondazione, senz'altro frutto tranne un ingiusto implacabile rimorso.
Con tutto ciò s'intende che questa grande e potente arte di prevenzione del delitto, qual'è l'educazione,
può essere efficacemente dedicata alle cause morali del delitto che nell'infanzia germogliano latenti,
non alle cause organiche che siano insanabili. Ma poichè il difetto di educazione giunto allo stato di
fatto compiuto negli adulti è una delle cause sociali del delitto più vaste e profonde, ecco che per
quella via l'educazione soccorre a un altro ordine di cause della delinquenza, che non è più quello
delle sue cause psichiche ma delle sue cause sociali. Tirate le somme e dite pure che il rimedio è fatto
per qualche numero di mali.
Ma il rimedio non può essere nemmeno tentato fino a che sia incompiuto il concetto e falsato il
metodo di educare. È tempo di smettere una finzione convenzionale per cui si crede che basti
provvedere all'istruzione e all'educazione del popolo con la scuola obbligatoria. Questa è stata una
nobile battaglia combattuta contro le resistenze timorate e interessate di quanti preferivano l'ignoranza
docile o l'incoscienza servile; ma la vittoria non ha dato poteva dare larghi benefizi. L'alfabeto è
senza dubbio uno strumento rudimentale e indispensabile di istruzione, ma non è l'istruzione.
L'analfabetismo è sinonimo di ignoranza, ma l'alfabetismo non è sinonimo di cultura. Quando si dice
con dolore che in Italia, la terra divina delle lettere e delle arti, sono ancora quindici milioni e
novecentottantatremila analfabeti, si può far conto di dire che in Italia sono per lo meno quindici
milioni e novecentottantatremila ignoranti, ma non già che ci sono tanti istruiti in Italia quanti sono i
suoi cittadini meno quindici milioni e novecentottantatremila analfabeti. Immiserisce e sposta un'alta
questione sociale chi va cercando la relazione aritmetica tra il numero dei delinquenti e quello degli
analfabeti. Come si può pretendere che abbia a influire sul delitto l'abbiccì? che prodigio d'influenza
diretta possono avere ventiquattro lettere di un alfabeto? quale modificazione dello spirito e
dell'intelligenza se ne può aspettare? o non piuttosto se ne può temere un mezzo e un'occasione di più
del delitto?(53)
Pensava già Socrate: se l'istruzione non giova a fornire uno spirito giusto e sano, non fa che rendere
gli uomini più tristi e forniti di mezzi maggiori per il male. E il pensiero antico si ripete
nell'esperienza moderna. Disse il Goethe: è pericoloso tutto ciò che apre il nostro spirito e lo allarga
senza darci la signoria del carattere. E il Rabelais: la scienza senza la coscienza non è che la rovina
dell'anima. E il Montaigne: l'affrancamento dei cervelli non è la saggezza. E il Manseley: la civiltà
può fare dei bruti più brutali e pericolosi che lo stato di natura. E il Mazzini: voi sapete leggere; che
monta, se non sapete in quali libri si trovi l'errore, in quali la verità? voi sapete, scrivendo,
comunicare i vostri pensieri ai vostri fratelli; che importa, quando i vostri pensieri non accennino che
ad egoismo? l'istruzione, come la ricchezza, può essere sorgente di bene e di male, a seconda delle
intenzioni colle quali si adopra; oggi in Europa l'istruzione scompagnata da un grado corrispondente
di educazione morale è piaga gravissima, che inclina gli animi al calcolo, all'egoismo, alle false
dottrine.
Bisognava larderellare di questi tòcchi di autorità il boccone perchè a qualcuno non paia scipito,
prima che amaro, per colpa dello sguattero, che sarei io, nel risciacquare utensili così vieti.
L'educazione che può rispondere a' suoi fini non è una scuola nè un mestiere, ma una missione civile;
non è fatta di leggi ma di costumi, non di aforismi ma di opere; è una consuetudine costante di esempi
e di abitudini; un insieme di influenze benefiche esterne; una serie di scene che si svolgono
giornalmente sotto i sensi del fanciullo e gli fanno conoscere il bene da seguire e l'illecito da evitare.
Amare, amare molto il bambino e convincerlo di questo grande amore: tale il mezzo fondamentale
dell'azione educativa della società(54). E, radicato il sentimento dell'amore, della concordia, del
rispetto, della solidarietà, si stabilirà nell'animo dell'uomo futuro una remora interiore al tumulto e alla
violenza delle forze esteriori, si stringeil legame della famiglia, si bandirà dal mondo l'odio, frutto
d'egoismo e di sopraffazione, causa di avvilimento e di vendetta, si allieverà il peso del dovere, del
sacrificio, del lavoro, si diffonderà nelle relazioni e nei fini della vita un senso di idealità e di poesia,
che pure è un istinto e un bisogno animatore dell'uomo.
E solo un tal senso potrà movere gli spiriti a proporsi spontaneamente e liberamente il problema del
perchè e fin dove del loro essere: problema che nella sua stessa proposizione determina già un
indirizzo particolare nell'ordine dei sentimenti e dei principi morali e vale a renderli quasi organici,
istintivi, indipendenti dalla ragione. La ragione! Ma come può accadere, dice con la sua vecchia
autorità lo Spencer, che su la scorta della sola ragione e senza la traccia di regole che fanno autorità e
che riceviamo ereditariamente ci induciamo a comprendere perchè, data la natura delle cose, un certo
modo d'azione sia nefasto e un altro benefico, a guardare oltre al resultato immediato ed a distinguere
chiaramente i resultati indiretti e lontani?
Pensava il Darwin: una credenza inculcata costantemente nei primi anni della vita, quando il cervello
è più impressionabile, sembra acquisti quasi la natura di un istinto; e la vera essenza di un istinto è
appunto in ciò che esso sia seguito indipendentemente dalla ragione(55). E ancora lo Spencer:
l'influenza d'un codice di morale dipende assai più dalle emozioni provocate da' suoi imperativi che
dal sentimento dell'utilità di ottemperarvi; i sentimenti inspirati all'infanzia dallo spettacolo della
sanzione sociale e religiosa dei princi morali, influiscono sulla condotta assai più che la idea del
benessere che si ottiene con l'obbedienza ai principî di tal genere; quando difettano i sentimenti nati
dallo spettacolo di quelle sanzioni la fede utilitaria non basta ordinariamente a produrre
l'obbedienza(56). Oggi par che si torni a pensare allo stesso modo; e se ciò non accadesse oggi,
accadrebbe necessariamente domani, perchè il sentimento religioso non può scomparire mutare la
direttiva della sua evoluzione, la quale dipende dal mistero finale che è riposto in fondo alle
cognizioni umane; un sistema religioso è un fattore normale ed essenziale di ogni società nella sua
evoluzione; le sue particolarità sono collegate alle condizioni sociali; e se la forma ne è temporanea,
la distanza è permanente.
Dico che pare si torni a pensare allo stesso modo. Uno dei tre fondatori della nuova scuola positiva,
negata una seria influenza dell'educazione civile nella prevenzione del delitto, crede che le emozioni
religiose, eccitate nella prima età, non rimangano prive d'ogni effetto ma al contrario lascino sempre
un'impronta, la quale, pure indebolendosi, non scompare mai più, neppure quando venga meno la
fede(57). Il Fouillée ritrova una causa della delinquenza nella lotta contro la religione, che rimane
estranea all'educazione dell'infanzia, considerando il cristianesimo un compiuto sistema di repressione
delle male tendenze e reclamando da chi lo combatte la necessità di sostituire quest'insieme di norme
direttive che formano la coscienza e il sentimento del dovere(58). E il Tarde, insistendo sulla stessa
causalità del delitto, la addita nella funesta propaganda contro gli antichi principî della morale
tradizionale, che vengono scossi e distrutti ma non sostituiti dalla déchristianisation, costantemente
critica e negativa(59). Il Maeterlinck ha fatto appello agli uomini esortandoli a riconoscere che la
nostra vera vita non è quella che viviamo ed a riflettere come noi sentiamo che i più profondi e intimi
pensieri nostri sono interamente estranei a noi stessi, che insomma noi siamo altra cosa che non siano
i pensieri e i sogni nostri(60). Ancora una volta era utile adoperare pensieri altrui, non come
decorazioni di pessimo stile, ma linee salienti d'affermazione nell'avanzamento del problema.
Da tutto ciò non deriva che lo Stato debba promovere una religione dove non è, oppure è mal
professata, e possa magari inventarla. Giuliano l'Apostata fu l'esempio vivo di un tale errore. Come
ogni sforzo di governo fu inutile contro la invasione del cristianesimo nell'impero romano, così
sarebbe inutile ogni artificio di governo a favore del ritorno della fede nel mondo moderno.
Ma lo Stato non può appagarsi di guarentire la libertà dei culti, la quale è un semplice dovere di
polizia e di ragion negativa; bisogna che porga alto e costante l'esempio della morali de' suoi
principî e della puri de' suoi metodi; bisogna che non faccia mai tregua con la vile la menzogna,
ancorchè fatte utili e potenti; che promuova e aiuti con ogni mezzo un'educazione che valga a
umanare le nature selvagge e ad elevarle alle sfere più pure dell'ideale e della speranza. Solo in queste
sfere pnascere e liberamente spirare la fede.
XI.
Ricercandola a traverso il cieco mondo, la gente perduta(61) si incontra o nel sottosuolo della vita
civile, dove s'infiltrano tutti i detriti fermentati della civiltà, o tra le pareti del carcere, che son serre di
cultura del male, o su per l'erta precìpite delle sùbite fortune e del fasto mentito; ma mai per la via
deserta e muta della riabilitazione.
Per rendere accessibile e battuta questa via conviene metter da parte quanto più si possa gli inciampi
inutili delle pene istituite come sistema unico e superficiale di repressione e sostituirle con ogni
mezzo radicale e complesso di prevenzione, commisurato alle varie cause della criminalità, che si
riassumono in difetto di predominio morale, difetto di costituzione organica, difetto di ambiente
fisico, difetto di condizioni sociali. Per questi difetti della natura, dell'uomo, dell'ambiente che lo
accerchia, il baratro del delitto è profondo. Si ha voglia di colmare educando!
Le squallide figure di gente perduta tracciate in queste pagine recano tutte sul viso o nelle impronte
dell'anima i segni di tali difetti. Sono tracciate di scorcio affinc non ostentino per orrido gusto,
dilatandole con le proprie mani, le diverse piaghe già profonde e sanguinanti dalla loro carne
miseranda. Ma son levate a modello dalla verità viva e dipinte alla luce dell'esperienza vissuta. Certo,
per aderire al vero e fuggire dallo strano e dal pretensioso, che hanno ormai assuefatto gli animi alle
nuove letture, han perduto l'interesse che altrimenti potevano suscitare.
L'interesse! Ecco l'ultima parola che compendia la fortuna anche d'un libro. Ma, amico lettore (se a
questo punto mi è rimasto tuttavia un lettore), chi sa mai se da questo libro non potrai ricavare
qualche guadagno con l'imparare a conoscere e schivare le insidie spogliatrici e gli agguati sanguinari
di quell'oscuro cerchio di mondo, che un'antonomasia troppo superba suol chiamare mondo birbone!
INDICE
A chi leggerà
Cap. I I dilettanti
II I transfughi
III Amena delinquenza
IV I plagiari
V Gente inanimata
VI I delinquenti parlanti
VII I delinquenti che scrivono
VIII I filosofi della macchia
IX I semplicisti del sangue
X I tragici
XI Gli asceti
XII Gli elegiaci
XIII Autori oscuri
XIV Gli esteti criminali
XV Un esteta convertito
XVI Fame postume
XVII Ricercando la gente perduta
NOTE:
(1) V. HUGO, Les Misérables.
(2) DAVID TAGLIABILE, Proc. per evasione con effrazione; Trib. di Firenze.
(3) A Firenze la Pretura Urbana è in faccia alla probabile casa di Dante, su la porticciola della quale
era un lapidino timido per l'affermazione un po' licenziosa che conteneva, ma che almeno era tanto
suggestivo. Diceva: - In questa casa degli Alighieri - nacque il divino poeta. - Oggi lo scrupolo storico
ha levato quel lapidino e ha rizzato sotto il nome degli Alighieri alcune case false con una torre falsa e
con un pozzo falso e due botteghe trecentesche false, confessando in una lapide la falsità. E così si è
corretto un dubbio con una bugia certa.
(4) Purg. VI.
(5) L. 4, § 2. Dig. I. 16.
(6) L'esempio già contenuto nelle prime edizioni ai adattava al sistema del collegio uninominale. Nel
nuovo sistema proporzionale il plagio della corruzione non è più ameno, ma più facile: basta che un
armeggione dei comitati che formano le liste includa un pescecane nella lista per... fargliela
finanziare.
(7) Inf. XXX. - Mi è caro ricordare come da questa rievocazione sorse l'idea di un capolavoro: il
Gianni Schicchi di Giovacchino Forzano, musicato da Giacomo Puccini.
(8) Nel settembre del '96 Giovanni Tosi, tutore di Intrepida Libera Sociale, figliola del fu Sante Tosi,
nata a Pisa l'8 agosto '81, dimorante in Firenze, chiese ed ottenne dal Ministero di grazia e giustizia di
sostituire questi nomi con quello di Maria Isola Assunta.
(9) Nov. Constit., LXXIII, c. 3.
(10) Cf. BRUGNOLI, Della certezza crimin., II, 288.
(11) In considerazione d'un fatto scevro da conseguenze funeste taccio il cognome; il nome no, che il
fatto merita d'essere precisato.
(12) Spaccio de la Bestia trionfante
(13) Dico Nuraghes per caratterizzare i Sardi dai loro noti ruderi di quel nome, con la forma della
metonimia, che consiste nell'indicare i luoghi per la gente che vi abita intorno, a quello stesso modo
che avrei detto: i Camaldoli (e questi sono un rione fiorentino) rubano e danno da fare alla polizia più
che tutto San Frediano (e anche questo è un rione e non un santo da bestemmiare).
Ma un cavallino sardignolo ombrò, per la puri delia sua razza, a questo cenno (tanto discreto e
imparziale quanto è vero che il capitolo dov'è incluso è dedicato a un'asceta criminale fiorentina) e
credette tirarmi un leggiero calcio accusandomi pubblicamente di aver confuso i ruderi con la gente
che vi abita intorno.
La bizza del cavallino può fare un certo scalpitìo all'orecchio di chi non abbia sott'occhio il testo
calunniato. Ma ecco che lo lascio tale e quale in questa edizione, come lo lasciai tale e quale nella
seconda, insieme a questa medesima protesta, non riuscendo a persuadermi che sia anche errato nella
sostanza, se pure pnon essere felice nella forma. La slealtà dell'accusa mi ha affezionato all'errore.
L'identificazione dei Sardi coi Nuraghes era fissa nella mia mente per il tocco saliente che dei
generosi Sardi fa il Lamarmora, come di uomini immedesimati nei propri luoghi. "Come molluschi
avviticchiati alle scogliere ove nacquero e ove moriranno, rimangono fossilizzati negli usi e nei
costumi del passato." Per quanto poi attiene all'esattezza della notizia, debitamente ponderata
sull'autorità donde fu assunta, richiamo ancora una volta la Relazione dell'inchiesta sulle condizioni
della Sardegna, redatta da un deputato sardo, l'on. Pais, dove si racconta (pag. 50) come qualche
delinquente sardo "portasse al parroco un'offerta per la chiesa a propiziarsi la divinità per la buona
riuscita del delitto."
Le stesse cose risposi subito, dopo l'accusa fattami, nella Tribuna del 1° febbraio 1908.
(14) Il Passanante finì i suoi giorni nell'Ambrogiana il 14 febbraio 1910 senza riprendere mai la
coscienza.
(15) Art. 46 cod. pen. - Cfr. il cap. XVII: Ricercando la gente perduta.
(16) La condizione, se non tranquilla per tutti, certo men dura e aspra di quella che si riscontra negli
stabilimenti penali, è conseguenza del concetto e del regime di cura medica che vige qui; ed è anche
pregio singolare di intelligenza e di pazienza dei dottori Codeluppi e Nardi, che vi hanno atteso da
oltre vent'anni.
(17) Cfr. PATRIZI, Nell'estetica e netta scienza. Nel capitolo di quest'opera l'A. tocca per primo il
tema svolto di proposito nel presente capitolo: tema assai diverso da quello trattato da altri, p.e. dal
Ferri intorno I delinquenti nell'arte. Questi son tutti i criminali in genere, che nell'estetica ritrovano
una sanzione inconsaputa della loro natura positiva; invece Gli esteti criminali, qui discorsi, sono i
delinquenti di una sola specie e della meno esplorata fino a oggi, i quali derivano dall'estetica l'origine
e la ragione di sè stessi. I primi sono i delinquenti creati dall'arte, i secondi sono i delinquenti che col
delitto creano l'arte. Il Patrizi si doleva qualche anno fa e può continuare a dolersi ancora della
solitudine di queste dottrine: "Il sottoscritto, salvo errore, fu dei primi a richiamare particolarmente
l'attenzione degli studiosi sovra la figura dei delitti intellettuali, e a tentarne, dieci anni or sono, la
classificazione con un saggio (Passioni criminali d'estetica e di scienza) distesamente riferite da
Sigma (Scipio Sighele) in questo stesso giornale (29-30 settembre del 1897) e accolto da Lombroso
nei suoi nuovi studi sul genio e la degenerazione. Da quell'anno non fecero difetto altre illustrazioni di
pensieri o atti delittuosi per morboso amore sia della ricerca scientifica, sia del godimento artistico;
tra quelle mi vengono ora in mente il dramma francese Nouvelle Idole e gli Esteti Criminali presentati
in più città d'Italia dalle plaudite conferenze dell'on. Rosadi". (In Corriere della Sera, 13 giugno
1908). Recentemente il Patrizi ha addensato i suoi studi sul Caravaggio contribuendo a sollevare la
fortuna del grande artista criminale.
(18) Codice Chigiano. L, IV, 131, a carte 767.
(19) P. GIUS. MANNI d.s.p., Elisabetta d'Austria; Ode. Firenze, 1898.
(20) Chi difese la vittima innocente del truce delitto apposto a' due amanti concepì più tardi un tenue
intimo dubbio sulla piena colpa dell'uomo e chiese e ottenne si interrogasse novamente la donna che
lo aveva travolto con la sua incolpazione nella condanna comune. La donna riconfermò interamente
l'incolpazione. Ma giacc ella vive scontando ancora la sua lunga pena, possano queste pagine che
l'autore le manda nel suo angolo di dolore e di raccoglimento suscitarle sentimenti di giustizia serena
e non di amara consolazione nel desiderare compagno del suo dolore chi possa esserne stato causa
colpevole ma non colpa punibile. Sublime bisticcio della giustizia umana!
Questa Nota, comparsa nella precedente edizione, originò una lunga polemica nella Nazione (agosto
1921) e il volume L'affare Fuscati (Firenze 1921) al fine di promovere la revisione del processo, che
però non fu concessa.
(21) Al contrario pensa il GAROFALO, Criminologia, p. II, C. II, § 2, C. III, § 1.
(22) PATRIZI, loc. cit.
(23) Cfr. ANDRÉ GIDE, Ricordi, 1911.
(24) SHERARD, La vita di Oscar Wilde.
(25) Fu pubblicata nel V volume di The Irish Monthly.
(26) RÉGNIER.
(27) Fa testimonianza e tratta di tutto ciò M. A. RAFFALOVICH, L'uranismo nel processo O. Wilde,
traduz. di C. Bruni. Bocca, 1896.
(28) Vedi RAFFALOVICH e SHERARD, opp. cit.
(29) Lo attesta ANDRÉ GIDE: In memoriam, XXII, premesso a La Ballata della prigione di Reading.
(30) Cfr. Gli esteti criminali.
(31) Cfr. il mio Processo di Gesù, 18^a ediz., p. 136.
(32) Cfr. Lord Byron jugé par les témoins de sa vie, Paris, Amyot éditeur, 1868. - Conversazioni sulla
religione con lord Byron e altri tenute in Cefalonia poco prima della morte di Sua Signoria, dal
defunto dottore James Keneddy. Londra, John Murray ed., 1830. - Lord Byron, una biografia con
saggi crìtici sul suo posto nella letteratura, Londra, John Murray ed., 1a edizione, 1872.
(33) Cfr. BARINI, in Nuova Antologia, marzo-aprile 1908.
(34) RICCI, L'evoluzione della vita notturna nella segregazione cellulare continua, in Scuola Positiva,
1901, pagina 513; DESPREZ, De l'abolition de l'emprisonnement, Paris, 1867, pag. 18; DE
SANCTIS, I sogni, Bocca, 1899.
(35) Lettere a Robert Ross, pubblicate nella ediz. ingl. del De profundis. - Lettera 1° aprile 1897.
(36) De profundis.
(37) SHERARD, Vita.
(38) SHERARD, in appendice, Cfr. "Case of Warder Martin ", in Daily Chronicle, mai 1897, dov
una lettera indirizzata a un lavorante di Reading.
(39) SHEHARD, Vita.
(40) ROBERT BOSS, Ultimi giorni di Oscar Wilde, in Nord usud Sud, novembre 1909.
(41) BYRON, Il prigioniero di Chillon.
(42) Cfr. Reg. gen. carcer., art. 407.
(43) Proc. per sevizie e lesioni, contro Niccola Lasagna e altro. Tribunale di Firenze, 10 marzo 1896.
(44) Cf. I transfughi.
(45) Non nomino questa guardia, perchè vivente fuor di servizio, e, spero, pentita.
(46) Inf. XXVIII.
(47) GIUSTI, Origine degli scherzi.
(48) Così il LACCASSAGNE, La criminalité chez les animaux. In Revue Scient., 14 janvier 1882.
(49) Bisogna che letterati e scienziati, se per caso ai incontreranno lungo queste pagine, vengano a
patti nel far grazia della libertà di forma che talvolta la detta. I letterati devono compatire alla
necessità del linguaggio tecnico alcune ineleganze ignote ai succinti Cetegi; gli scienziati un ostinato
riserbo letterario nella selezione dei termini a loro più cari. Si sa, per esempio, che si chiamano più
volentieri biologiche, antropologiche, morfologiche quelle cause che qui son dette semplicemente
organiche; ma come si fa ad adattarsi a una continua fatturazione di parole di lusso e persino a una
stridula dissimetria tra loro, come accade quando alcune cause si indicano con l'attributo proprio della
loro natura e si chiamano fisiche e sociali e altre con l'attributo proprio della scienza che ne tratta e si
chiamano biologiche, antropologiche, morfologiche, psicologiche?
/*
Si forte necesse est
Indiciis monstrare recentibus abdita rerum,
Fingere cinctutis non exaudita Cethegis
Contiget, dabiturque licentia sumpta pudenter.
(50) LEOPARDI, Palinodia.
(51) L'art. 46 capov. del codice penale.
(52) Par. VIII.
(53) Tutto ciò vado dicendo da tempo nell'inaugurare scuole popolari e biblioteche operaie. Cf. La
scuola del libro: Discorso, ecc. Firenze, tip. Elzeviriana, 1906.
(54) Questa la massima dell'educazione civile, pronunciata dal Congresso Antropologico di Parigi del
1890.
(55) L'origine dell'uomo, cap. III.
(56) L'educazione intellettuale, morale e fisica.
(57) GAROFALO, Criminologia, par. II, cap. II.
(58) Les jeunes criminels, in Revue des Deux Mondes, 15 janvier 1897.
(59) La jeunesse criminelle, in Archives d'anthropologie criminelle, 15 juillet 1897.
(60) Le Trésor des humbles, XIII
(61) "Pietro Nelli scrisse tra l'altro un capitolo (Io vorrei pur) contro gli avvocati, dove i rei che a
questi ricorrono per esserne difesi sono designati con la espressione dantesca "la perduta gente":
espressione che per una singolare coincidenza fu adottata nello stesso significato da un noto scrittore
contemporaneo di cose giuridiche come titolo di un suo libro... P. BELLEZZA, Curiosità Dantesche,
p. 287. Milano, Hoepli, 1913. (Il libro e l'autore sono citati in nota).
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