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giovamento all'uomo buono: e l'una creatura nell'altra è portata dall'uomo buono a Dio». Vuol dire:
l'uomo mette a profitto gli animali in questa vita, per il fine di redimerli in sé e con sé. Mi sembra
che perfino il difficile passo della Bibbia in Romani, 8, 21-24 sia da interpretarsi a questo modo.
Anche nel Buddhismo non mancano espressioni di ciò: per esempio, quando Buddha, ancora in
forma di Bodhisattva, fa sellare un'ultima volta il suo cavallo, per la fuga dalla paterna residenza
verso il deserto, dice ad esso queste parole: Già lungo tempo tu fosti nella vita e nella morte: ma ora
devi cessar di portare e di trascinare. Sol questa volta ancora, o Kantakana, portami via di qua, e
quando io avrò conseguita la legge (diventato Buddha), non mi dimenticherò di te (Foe Koue Ki,
traduz. di Abel Rémusat, p. 233).
L'ascesi si rivela inoltre nella volontaria, meditata povertà, che non sopravviene per accidens, in
quanto il patrimonio venga donato per lenir mali altrui, ma è già scopo a se stessa, serve di
permanente mortificazione della volontà, affinchè l'appagamento dei desideri e la mollezza della
vita non tornino ad eccitar la volontà, della quale ha concepito orrore la vera conoscenza. Chi è
pervenuto a tal segno, sente ancor sempre, come corpo animato, come concreto fenomeno di
volontà, la disposizione al volere in tutte le sue forme: ma meditatamente la soffoca, costringendosi
a nulla fare di quanto vorrebbe, e viceversa a tutto fare quanto non vorrebbe, anche se non abbia
altro fine, che quello di servire alla mortificazione della carne. Poiché egli medesimo rinnega la
volontà palesantesi nella sua persona, non resisterà se altri fa lo stesso, ossia se gli fa un torto: ogni
sofferenza, che a lui venga dall'esterno, sia per caso, sia per altrui malvagità, è la benvenuta; e così
ogni danno, ogni smacco, ogni offesa. Tutto accoglie gioiosamente, come occasione di dare a se
medesimo la certezza, ch'egli la volontà più non afferma, bensì lieto prende le parti di ciascun
nemico sorto contro quel fenomeno di volontà, ch'è la sua propria persona. Tale onta e dolore
sopporta quindi con inesauribile pazienza e dolcezza, paga senza ostentazione il male col bene, e
non tollera che il fuoco dell'ira si risvegli in lui, più che non tolleri il fuoco della brama. Come
mortifica la volontà, così mortifica la sua forma visibile, l'oggettità di lei: il corpo. Scarsamente lo
nutre, affinchè il suo rigoglioso fiorire e prosperare non torni a far più viva e forte la volontà, di cui
esso è semplice espressione e specchio. Similmente pratica il digiuno, anzi la macerazione,
l'autoflagellazione, per sempre più uccidere mediante perenne privazione e sofferenza la volontà,
ch'egli conosce ed aborrisce qual sorgente del proprio doloroso essere come di quello del mondo.
Viene finalmente la morte, a disciogliere questo fenomeno di quella volontà, la cui essenza qui, già
da gran tempo, per libera negazione di se medesima, fuori del fioco resto che ne appariva in
mantener vita al corpo, era spenta. E la morte, come invocata redenzione, è altamente ben venuta, e
lietamente viene accolta. Con lei non termina in questo caso, com'è per gli altri, il solo fenomeno;
bensì l'essenza medesima è soppressa, la quale qui ancor soltanto nel fenomeno, e per suo mezzo,
aveva una pallida vita
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: ultimo fragile vincolo, ora anch'esso spezzato. Per quegli, che così finisce,
è il mondo insieme finito.
E ciò, ch'io qui con debole lingua e solo in termini generali ho descritto, non è per avventura una
fiaba filosofica di mia invenzione, e che solo da oggi duri: no, era invece l'invidiabile vita di
numerosi santi e di belle anime tra i Cristiani, e ancor più tra gli hindù e i Buddhisti, e pure in altre
confessioni. Per quanto fossero diversi i dogmi impressi nella loro ragione, nell'identica guisa venne
tuttavia ad attuarsi, mediante il modo di vivere, l'intima, diretta, immediata conoscenza, da cui
esclusivamente può procedere ogni virtù e santità. Imperocché anche qui si mostra il grande divario
tra la conoscenza intuitiva e l'astratta, finora troppo poco osservato, ma in tutto il nostro sistema
così importante e penetrante in ogni dove. Tra le due conoscenze è un ampio abisso, attraverso il
quale, riguardo alla cognizione dell'essenza del mondo, la sola filosofia può condurre.
Intuitivamente invero, ossia in concreto, ogni uomo è consapevole di tutte le verità filosofiche: ma
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Questo pensiero è espresso, con un bel paragone, nell'antichissima opera filosofica sanscrita Sankhya Karika:
«Nondimeno rimane l'anima ancora un tratto vestita del corpo; come la ruota del vasaio, quando il vaso è terminato,
continua ancora a girare, per effetto dell'impulso prima ricevuto. Sol quando l'anima illuminata si separa dal corpo, e
cessa di esistere per lei la natura, sopraggiunge la sua piena redenzione». C
OLEBROOKE, On the Philosophy of the
Hindus: Miscellaneous Essays, vol. I, p. 259. Similmente nella Sankhya Karika by H
ORACE WILSON, par. 67, p. 184.