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Elogio della vecchiaia
Mantegazza, Paolo
TITOLO: Elogio della vecchiaia
AUTORE: Mantegazza, Paolo
TRADUTTORE:
CURATORE:
NOTE: Un saggio scritto alla fine dell'800 da un
medico positivista con l'intento di rivalutare
l'età avanzata, condizione considerata una
sciagura nel senso comune del tempo.
In appendice la traduzione ottocentesca, ad
opera di Michele Battaglia, del "De Senectute"
di Marco Tullio Cicerone.
Il testo elettronico riproduce fedelmente
l'opera di Paolo Mantegazza "Elogio della Vecchiaia"
secondo l'edizione di Franco Muzzio Editore,
Padova, 1993, tranne le seguenti varianti:
1) Capitolo Terzo:
"La donna, sopo aver perduto i diritti del
sesso" sostituito con "La donna, dopo aver
perduto i diritti del sesso".
2) Capitolo Terzo:
"per potersi sentire amici, e null'altro che
amici, un uomo e una sonna devono" sostituito
con "per potersi sentire amici, e null'altro
che amici, un uomo e una donna devono".
3) Capitolo Terzo:
"una parentela comune con le cose, con la
natura, con gli umini." sostituito con "una
parentela comune con le cose, con la natura,
con gli uomini."
4) Capitolo Quarto:
"una pleiade gloriosa di vechi" sostituito con
"una pleiade gloriosa di vecchi".
5) Capitolo Ottavo:
"lo strepiatre dei molti" sostituito con "lo
strepitare dei molti".
6) Capitolo Undicesimo
"E i bambini di San Terenzo conosono il loro
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vecchio " sostituito con "E i bambini di San
Terenzo conoscono il loro vecchio"
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: "Elogio della vecchiaia"
di Paolo Mantegazza,
collezione Muzzio biblioteca;
Franco Muzzio Editore;
Padova, 1993
CODICE ISBN: 88-7021-653-5
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 19 aprile 2005
INDICE DI AFFIDABILITA': 1
0: affidabilità bassa
1: affidabilità media
2: affidabilità buona
3: affidabilità ottima
ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:
Ferdinando Chiodo, [email protected]
REVISIONE:
Patricia Masini, [email protected]
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Elogio della Vecchiaia
di Paolo Mantegazza
Due parole al lettore
che possono anche servire di prefazione
Oh che vita gloriosa sarà questa mia,
essendo piena di tutte le felicità
che si possono godere in terra.
LUIGI CORNARO
a 95 anni
Gli amici più cari, quei pochi ai quali confido tutti i miei pensieri, quando ebbero udito da me, che
volevo scrivere l'<I>Elogio della vecchiaia</I> si misero a ridere; facendomi intendere molto
chiaramente, che io parlavo per celia.
Io però insistevo, atteggiando la faccia alla più grave serietà, e allora mi davano del matto; e un
coro di obiezioni, di sarcasmi, di invettive mi si rovesciava addosso, come valanga di pietre in
un'antica lapidazione.
Sì, sì: sta bene, il tuo elogio sarà come quello di Erasmo sulla pazzia. Lodare la vecchiaia, per farne
la satira.
Ma che si fa celia? Lodare la vecchiaia, la parte più miserabile della vita, che presa anche
nell'assieme, è pure una povera cosa? Lodare l'età del catarro, della sordità, della debolezza; l'età in
cui ogni giorno strappa un fiore o una foglia dall'albero della nostra vita; lodare l'agonia
dell'esistenza?
Non riuscii a persuadere uno solo dei miei amici, che il mio libro sarebbe stato serio e che
senz'ironia avrei lodato la vecchiaia.
Chissà che dopo averlo letto non abbiano a cambiar d'opinione, chissà che non si ricredano del loro
errore!
Io ho scritto questo libro per me e per tutti coloro, che avendo più di sessant'anni, più di cinquemila
lire di rendita, e una buona salute, non sono felici, e non lo sono per la sola ragione di esser vecchi.
Nella mia giovinezza, nell'età adulta ho sempre fatto le più grandi meraviglie, vedendo che gli
uomini si auguravano a vicenda come sommo bene una lunga vita, e avutala, la maledivano. In
questo paradosso doveva trovarsi nascosto, come bruco in un frutto, un grosso errore, che si doveva
scoprire e distruggere.
Che tu possa campar cent'anni, che tu possa vedere la quarta generazione! E poi si dice che la
vecchiaia è la miseria delle miserie, e i vecchi brontolano in coro: felici coloro, che son morti
giovani!
Quanto è diverso l'augurio dalla cosa augurata!
Dov'è il bruco nel frutto? Dov'è l'errore? Chi ha ragione dei due? Chi augura a sé e agli altri la
vecchiaia o il vecchio, che, avutala, la maledice?
La vecchiaia non è che una fase della vita; e in una vita normale, fisiologica, perfetta, è necessaria
come tutte le altre età. Non v'è giornata senza il crepuscolo della sera, e non v'è vita perfetta senza
la vecchiaia. Ora, essendo la vita una cosa bella e buona, e che ogni organismo sano difende con
tutte le forze del corpo e dell'anima dai nemici che la insidiano, anche la vecchiaia può e deve
essere una cosa buona e bella, che abbiamo mille ragioni d'augurare a noi e agli altri.
Se i vecchi per la più parte non sono felici, non è colpa della vecchiezza, ma di loro stessi; così
come abbiamo tanti infelici nelle altre età, che pur giudichiamo le migliori.
Nella vecchiaia si sommano tutti gli errori fatti da noi nell'infanzia, nell'adolescenza, nella
giovinezza, nell'età adulta - e ad essi poi i più ne aggiungono altri speciali nell'ultima età - per cui è
certamente più difficile essere felici da vecchi. Ma anche qui convien ricordare due dogmi
fondamentali dell'arte di vivere: che cioè la felicità è sempre una cosa difficile e rara, come difficili
e rare sono tutte le cose migliori di questo mondo; come rara è la bellezza e raro è il genio. E poi
l'altro dogma è questo: che le cose sono tanto più desiderabili, quanto più sono difficili ad aversi, e
che tutti quanti hanno un po' di sangue nelle vene e un po' di nerbo nei polsi devono mirare alle
cose difficili e alle difficilissime.
Per conto mio, il primo giorno in cui il lunario mi ebbe dichiarato vecchio, non stracciai il lunario,
né tentai coi sofismi e gli artifizi di falsificare le date ma mi affacciai coraggioso alla vecchiezza,
che mi guardava con ironia crudele:
Ma tu mi vorresti fare infelice, tu vorresti vedermi piangere e brontolare?
No e poi no! - Le cose difficili mi son sempre piaciute sopra ogni cosa e anche le impossibili mi
hanno sempre affascinato. Tu non mi avrai fra le tue vittime. Io sarò felice malgrado le tue insidie e
le tue percosse. Io voglio benedire la vita fino all'ultimo respiro, non voglio essere molesto né a me
né agli altri. Accetto la canizie come una corona d'argento, non come un obbrobrio; accetto il
riposo, non come una maledizione, ma come il premio di una lunga vita di lavoro e di lotta. Voglio
essere felice, benché vecchio. La felicità può e deve mutar forma nelle diverse età della vita ma non
deve mai abbandonarci. In questa lotta con la vecchiaia fino ad ora son rimasto vincitore: non so se
e fino a quando mi sorriderà la vittoria. La desidero a me e a voi tutti, che da tanti anni leggete i
miei libri, nei quali, pur variando stile e materia, ho avuto sempre dinanzi al mio pensiero l'idea
fissa di fare un po' di bene a chi mi legge, di accrescergli il patrimonio della gioia, di alleggerirgli o
di togliergli il peso del dolore.
Quando libro, fosse pur l'ultimo fra gli ultimi, raggiunge questo fine, non fu scritto invano, e
l'autore, per quanto modesto, può esserne contento.
Capitolo Primo
La vecchiaia nel cuore
e nel pensiero dell'uomo
D'ailleurs, il faut vieillir sous
peine de la vie, c'est un arrêt du
ciel, et le moindre des maux c'est
la vieillesse, pour qui sait la porter
avec courage et avec dignité.
CHEV. DE BOUFFLERS
Veux-tu savoir vieillir?
Compte dans ta vieillesse,
Non ce qu'elle te prend,
Mais ce qu'elle te laisse.
LEGOUVÉ
Vetustas quidem nobis,
si semper sapimus, adoranda est.
MACROBIO
L'uomo vecchio per il selvaggio è un delinquente, che deve esser punito, o una creatura schifosa,
che fa ribrezzo. Egli deve esser punito con lo sprezzo, con l'odio; se occorre anche con la morte,
perché ha voluto arrogarsi il sacrilego privilegio di campar molti anni.
Nella famiglia è un peso seccante, un parassita. Non può più seguire i compagni alla caccia, alla
pesca, alla guerra. È un inciampo nei viaggi e nella fuga. Convien nutrirlo, sorreggerlo, difenderlo.
Se poi il vecchio è una donna, oh allora lo schifo che ispira è ancora maggiore. Il selvaggio
dimentica che quella donna lo ha partorito, lo ha allattato, lo ha amato più di se stessa. È una
creatura immonda, ributtante, che nessun maschio desidera: è assai meno del cane che lo aiuta nella
caccia. Tutt'al più si può farla cuocere, si può mangiarla; ma la sua carne è dura e amara.
Dovrei intinger la mia penna nel sangue per descrivervi tutti i trattamenti crudeli inflitti dall'uomo
fuegino, dall'australiano all'uomo che ha il torto di aver troppo vissuto; ed io non voglio funestare il
lettore (ch'io vorrei mi accompagnasse in un viaggio giocondo), rattristandolo e facendolo
rabbrividire fin dalla prima pagina del mio libro. Se è un pessimista arrabbiato che si compiace
nella lettura di Lourdes o della Terre, prenda un trattato di etnologia e vedrà in quali e quanti modo
si insulti, si maltratti, si seppellisca vivo o si mangi morto, colui che fu padre amoroso, fors'anche
guerriero intrepido o cacciatore fortunato.
Il mio libro è scritto con la penna di un ottimista, che cerca il meglio della natura umana, e ne studia
il male soltanto per guarirlo o per migliorarlo. In questo elogio della vecchiaia io non sono un
giudice, ma un avvocato.
Le razze inferiori devono scomparire affatto dalla faccia della terra e non v'ha pietà di filantropo o
scuola di missionario, che possa salvarli da questa distruzione.
Vorrei piuttosto parlarvi del posto che occupa il vecchio nella società civile, in quella in cui siam
nati e viviamo; in quella società che cammina ben lavata e ben pettinata, che porta guanti e
istituisce ospedali pei malati, ospizi pei vecchi; ma che fa ancora la guerra e nella fine d'un secolo
così ricco di gloria e di scienza si ammala di anarchia.
In questa società civile si celano ancora i semi dell'antica e animalesca ferocia, e sbocciano qua e là,
come il loglio fra le spighe del grano, appena l'egoismo li inaffi e la passione li riscaldi.
Noi non uccidiamo più e molto meno mangiamo i nostri vecchi, ma li disprezziamo spesso e spesso
gettiamo loro in faccia come una colpa la loro debolezza e i loro acciacchi. Tutt'al più verso di essi
si sente la compassione, quasi mai le simpatia o l'amore; si giunge fino alla pietà, quasi mai fino alla
stima.
Eppure la posizione del vecchio si è andata sempre migliorando col progredire della civiltà, come è
accaduto per la donna, che con lui divide la colpa della debolezza. Il Vangelo di Cristo e quello più
universale dell'umanità pietosa ha parlato anche per il vecchio, dandogli un posto al sole. Quando il
nerbo dei muscoli non fu più l'unica o la prima delle umane virtù, si trovò che anche nelle teste
canute il pensiero è desto e operoso; si trovò che il vecchio non è un parassita della società, ma un
membro utile e necessario del grande organismo sociale.
Nel mondo cattolico, il vecchio diventò papa, il rappresentante di Dio in terra.
Nel mondo politico, il Senato ebbe il posto d'onore fra il Re e la Camera dei deputati.
E al letto del malato e nei consigli della famiglia il vecchio fu l'uomo preferito.
Tutta una redenzione fatta in nome della giustizia, della pietà e soprattutto in nome di una più
profonda conoscenza della natura umana.
Di qui una lotta fra i crudeli atavismi ereditati dai nostri lontani padri e la pietà tutta moderna per
gli infelici; di qui i molteplici e svariati sentimenti che la vecchiaia risveglia nell'uomo che pensa,
nell'uomo che sente.
Di questa lotta, troviamo le tracce in tutti gli scrittori che rivolsero il loro sguardo alle teste canute;
e se raccogliessimo tutti i giudizii dati da essi sulla vecchiaia, faremmo senza volerlo tutta quanta la
fisiologia, la psicologia e la legislazione di quest'ultima età della vita.
I pessimisti ci dipingono la vecchiaia come una grande sventura. L'antichità classica scrive sulla
tomba: felice colui che è morto giovane.
Menandro proclama che la vecchiaia è un peso molesto: Difficile senectus est hominibus onus.
E Terenzio, ancor più crudele di Menandro, dice francamente che la vecchiaia è una vera malattia.
Senectus ipsa est morbus; sentenza che giunge fino a noi sotto forma diversa e ispira al Dr. Turck
tutto un libro: La vieillesse considereé comme maladie; paradosso che l'autore può difendere con le
stesse parole del più grande fra gli avvocati della vecchiaia, Cicerone, che nel suo libro immortale
De senectute, scriveva: Pugnandum tamquam contra mortem, sic contra senectutem.
E il Dr. Turck avrebbe potuto invocare a difesa della sua tesi anche i Santi Padri, dacché anche nei
loro libri si legge:
"Quando gli uomini augurano a se stessi la vecchiaia, qual altra cosa non desiderano, che una lunga
infermità?"
Alcuni scrittori si accontentano di scherzare, dicendo come Theodectes, che vecchiaia e matrimonio
devono essere due cose molto simili; perché desideriamo di averle, ma avutele, ci rattristiamo.
Altri studiano un lato solo dell'ultima età della vita, o ci danno consigli etici e filosofici sul modo
migliore di sopportarla. E Aristotele, che ci insegna che i vecchi sono increduli, perche vissero
molti anni e in molte cose furono ingannati o peccarono.
Ed e lo stesso grande enciclopedista dell'antichità, che da ai vecchi una lezione di igiene genitale.
Et propter hoc mulus est longioris vitae quam asinus et equus, ex quibus fit, quia ipse non generat.
Seneca detesta i vecchi che fanno lo zerbinotto.
Nihil turpius quam senex vivere incipiens.
Turpis et ridiculosa res est elementarius senex.
E quando Chilone umoristicamente scrive: optabilem esse senectutem juvenilem, molestam vero
iuventutem senilem, va poco lontano dallo stesso Seneca, che aveva detto:
Iucundissima est aetas devexa, iam non tamen praeceps.
Aprite la Bibbia e vi troverete in più luoghi la glorificazione della vecchiaia.
L'Ecclesiaste ne parla con entusiasmo sincero:
Quam speciosum caniciei iudicium. Quam speciosa veteranis sapientia et gloriosus intellectus et
consilium. Corona senum multa peritia et gloria illorum timor Dei.
E il Levitico vi insegna di alzarvi davanti al vecchio e di inchinarvi riverenti a lui:
Coram cano capite consurge et honora personam senis.
E con lui fanno i libri di Giobbe e dei Proverbi:
In antiquis est sapientia et in multo tempore prudentia (Giobbe).
Corona dignitatis senectus, quae in viis iustitiae reperitur (Proverbi).
Dignitas senum canicies (Proverbi).
Corona senum filii filiorum dignitas senum canices (Proverbi).
E bastino le citazioni. Se ve ne offrissi cento, mille, direbbero tutte la stessa cosa.
Ora è il pessimista, che si turba davanti agli acciacchi e alla debolezza della vecchiaia; ora
l'ottimista che ne contempla con venerazione la canizie argentina e ne ammira la prudenza, il senno
e tutte le altre virtù, che derivano dall'aver molto veduto, molto pianto e molto goduto.
Fra gli uni e gli altri oscilla la grande folla umana, che desidera e teme in una volta sola la
vecchiaia; ne sa il più delle volte, se sia il timor della morte o l'amor della vita (che son cose
diverse, benché conducano poi allo stesso fine), che le faccia desiderare la vecchiaia.
Nella società moderna il vecchio ispira pietà e rispetto; pietà per le sua debolezza, rispetto per
l'esperienza accumulata ed anche per un'inconscia ammirazione per tutto ciò che ha saputo resistere
al tiranno dei tiranni: il tempo.
La parola di veterano è poco diversa da quella di vincitore, e il vecchio ha saputo vincere il potente
dei potenti, colui che tutto abbatte, schianta e distrugge.
Pietà e rispetto circondano il vecchio nella famiglia e nella società, la dove l'egoismo o la miseria
non e più forte dei sentimenti benevoli. Purtroppo quando la fame e l'ambiente in cui si vive il
giorno e la notte, quando gli occhi del proletario contano dolorosamente le bocche e i bocconi
intorno al desco, trovando sempre uno squilibrio crudele fra quelle due cifre; pietà e rispetto
scompaiono davanti alla voce straziante e animalesca dei vuoti ventricoli. Se il labbro tace, dalle
viscere affamate sorge un urlo di belva, che se non parla con la bestemmia o con la maledizione
omicida, si traduce in uno sguardo ferino, che invoca la scomparsa di un vecchio: l'equilibrio delle
bocche e dei bocconi.
A questi omicidi pensati, ma non compiuti, provvederà la giustizia dell'avvenire; provvederà il
maltusianismo previdente dei posteri.
Nelle classi agiate e ricche, dove i bocconi sono sempre in maggior numero delle bocche, la
soppressione del vecchio non è invocata mai né dalla bestemmia omicida né dal muto e feroce
rancore; ma l'uomo canuto non ha ancora il suo posto al sole, benché il Vangelo abbia quasi venti
secoli di storia: e questo più per colpa dei vecchi che della società in cui vivono.
L'igiene ancor bambina, la lotta per la vita che ci fa vecchi prima dei cinquant'anni, l'abuso di tanti
eccitanti fisici e morali, l'inconsulta sete della voluttà, danno ai più la decrepitezza prima della
vecchiaia e giustificano il paradosso di Terenzio che la vecchiaia è una malattia.
Di qui la pietà sempre superiore al rispetto; mentre io vorrei inutile affatto il primo sentimento, alto
fecondo e universale il secondo.
Perché ciò avvenga, è il vecchio che deve provvedere con tutte le forze che gli rimangono, con tutta
l'esperienza di cui è tanto ricco. Egli da solo deve conquistare e mantenere il posto che la natura gli
ha assegnato nell'organismo sociale. Egli deve respingere la compassione di cui non ha bisogno,
non deve invocare la pietà che gli è inutile; nulla chiedere e nulla accettare come elemosina e avere
per diritto quanto gli spetta nel riparto del bene e del male fra gli uomini.
Alla propria felicità deve provvedere egli stesso con una savia economia delle forze, col tener alta
la propria dignità fisica e morale; cercando di nascondere i guasti del tempo con una cura maggiore
della propria persona, con l'indipendenza del carattere.
E deve farsi amare, perché degno d'amore, perché generoso in vita di ciò che presto dovrà
abbandonare per forza; perché egli non ruba il posto ad alcuno, e dove egli sta è giunto col lavoro
onesto, con la vita intemerata.
Egli non ha diritto a minori gioie e a una felicità più incompleta del giovane e dell'adulto. Soltanto,
gioie e felicità devono essere diverse in lui, non minori mai.
Ad ogni età un clima diverso, ma fiori sempre e frutti sempre.
Non è men bello l'albero quando ci dà l'ombra delle sue foglie verdi o il profumo dei suoi fiori o il
sapore dei suoi frutti.
All'adolescenza le foglie, al giovane e all'adulto i fiori, al vecchio i frutti.
L'albero che non ha né foglie, né fiori, né frutti, non è vecchio, ma è morto. E i vecchi decrepiti
sono morti che camminano.
Ed io non voglio la vecchiaia agonia della morte, ma crepuscolo roseo di un sole che tramonta;
senza rimpianti e senza dolori.
Capitolo Secondo
L'amore nella vecchiaia
Adhue multiplicabuntur in senecta uberi.
SALMI 61, 62
Les femmes regardaient Booz plus qu'un jeune homme,
Car le jeune homme est beau, mais le vieillard est grand.
Le vieillard, qui revient vers la source première,
Entre aux jours éternels et sort des jours changeants;
Et l'on voit de la flamme aux yeux des jeunes gens,
Mais dans l'il du vieillard on voit de la lumière.
V. HUGO, Booz endormi
Se aprite un libro di fisiologia, vi leggete che la donna fra i quarantacinque e i cinquanta anni vede
cessare il tributo lunare e che l'uomo dopo i sessanta non può più combattere le dolci battaglie
d'amore.
Queste cifre son varie secondo gli osservatori, varie secondo i climi e la costituzione di ciascuno;
ma oscillano sempre fra punti molto vicini.
Queste cifre crudeli ci dicono quindi che, come nelle piante così nell'uomo, la vita dell'individuo
sopravvive a quelle della specie e che il carattere più saliente della vecchiaia è forse quello di dover
rinunziare ai piaceri d'amore.
L'igienista ricalca i suoi precetti sui dati che gli porge il fisiologo, e ci insegna di non tormentare
organi condannati dalla natura al riposo e ci dice di non cercar fiori fra le nevi e i ghiacci
dell'inverno.
Un organo morto non può esercitare funzione alcuna: un organo morto non ha bisogni, né desideri,
e il vecchio non dovrebbe soffrire del digiuno d'amore per la semplicissima ragione che, non
avendo bisogno di magiare, non ha fame.
Noi altri fisiologi e scienziati però siam sempre costretti, quando cerchiamo di segnare i contorni di
un fenomeno o di formulare i regolamenti di una funzione, a recider sempre qualche cosa, a
mutilare qualche nesso, che tien riunito il fenomeno o la funzione con tutti gli altri fenomeni e tutte
le altre funzioni, che si muovono o vivono con essi.
L'uomo di scienza parla coi dogmi e coi numeri, e la natura strilla e talvolta anche si ribella contro
le necessarie prepotenze dei dogmi e dei numeri.
Anche i codici parlano lo stesso linguaggio, ma quando essi si trovano faccia a faccia con gli
uomini vivi, si vede quasi sempre che il verbo non corrisponde allo spirito, che la scienza non si
può saldare con la pratica, e ad aggiustarli alla meglio vengono i regolamenti, i commenti e ahimè
la densa schiera degli avvocati, vengono gli uomini della toga e vengono i giurati.
Nella pratica della vita abbiamo dunque avuto molti e anche parecchi vecchi, che non hanno
rinunziato ai piaceri d'amore, sia perché sono eccezioni ai dogmi e ai numeri scritti nei libri; sia
perché con artifizi diversi mantengon viva la fiamma del desiderio, che dovrebbe spegnersi con
l'atrofia dell'organo.
Ma lasciamo la scienza e scendiamo al piano della vita.
L'amore coi suoi dolci tormenti e le sue care voluttà non tramonta a un tratto, come il sole
all'equatore, ma ha lunghi crepuscoli, che negli organismi robusti e non logorati dagli abusi,
rammenta quelli polari. Il giorno non è finito, e la notte è cominciata appena; e questa lotta della
luce con le tenebre si fa così lentamente, così insensibilmente, da durar tanto quanto la vita.
E l'amore del vecchio, luce e tenebra in una volta sola, crepuscolo misterioso del polo, non tramonta
che con l'ultimo sospiro e senza ch'egli abbia dovuto pronunziare le terribili e nefaste parole papali:
non possumus.
Questa ideale perfezione è privilegio singolare dell'uomo monogamo e virtuoso, che continua ad
amare la sua compagna anche quando le si imbiancano i capelli e incomincia il naufragio della
forma.
Allora la consuetudine supplisce a ciò che il tempo ci toglie e l'esser invecchiato insieme dà quasi
una nuova e più stretta parentela, che non sia quella che unisce due giovani sposi. La lunga e non
interrotta catena dei dolci ricordi, le burrasche superate insieme, l'eguaglianza nella debolezza e il
bisogno dei reciproci perdoni; un intendersi tutto con uno sguardo solo, formano ai due vecchi un
clima tutto speciale fatto di tepori e di morbidezze; che se non è proprio amore, è qualcosa che
molto gli rassomiglia e che in ogni modo è largo dispensatore di intime compiacenze e di occulte e
misteriose voluttà.
Ai disinganni dell'estetica pensano poi le tenebre tanto indulgenti e pietose. Molte tenebre e un po'
di fantasia rattoppano di grandi strappi e celano di grandi piaghe e tanto da superare il più abile
ortopedico del mondo.Volesse Iddio che valessero anche a nasconderci le piaghe morali e le
deformità dell'anima!
Oh quante volte un vecchio arzillo dopo un lauto pranzo innaffiato da vini troppo generosi, volle
fare un piccolo strappo alla realtà coniugale e di soppiatto andò a comperarsi un po' d'amor giovane.
Ma con quanti rimorsi e quanto desiderio ritornò al talamo usato, maledicendo la corsa fatta in
campi non suoi e l'umiliante compassione e la tolleranza mal simulata e il prezzo cresciuto
all'eccesso della grazia accordata.
Con quanta gioia riabbracciò la fidata compagna, a cui trent'anni prima aveva dato la prima lezione
d'amore, con quanta compiacenza riandò con lei sei lustri di carezze e riandò le scoperte fatte
insieme e le nuove terre esplorate e i pudori rinascenti sotto i loro piedi nel dilettoso viaggio, come
fiori sbocciati al fiato della primavera.
Oh quanta differenza fra la commedia schifosa rappresentata nella commedia della voluttà e il
lungo e memore abbandono di due esistenze saldate insieme da anni!
Oh quanta differenza fra un bacio comprato e quel bacio cercato nello stesso tempo in due e in due
assaporato lunghissimamente; quel bacio sempre eguale e sempre diverso, che a guisa di suggello
ha segnato in ogni più piccola parte del corpo, e in ogni fibra del cuore e in ogni più profondo
nascondiglio dell'anima ha intrecciate insieme le due parole: mio, nostro!
Napoleone, cinico ed egoista, ma profondo conoscitore della natura umana, disse, che se l'uomo non
invecchiasse, non gli darebbe una moglie; e con queste poche parole segnò a grandi tratti e molti
anni prima del Balzac quasi tutta la fisiologia e la filosofia del matrimonio.
Sì, egli aveva ragione. Se il matrimonio è ancora la forma meno cattiva del contratto d'amore fra
l'uomo e la donna; è poi sempre l'unico vincolo, che permette all'uomo e alla donna di amarsi, anche
quando fisiologia e igiene li avessero messi all'indice.
Il volgo ripete ogni giorno con volgarissima menzogna, che fra due sposi l'amore si trasforma a
poco a poco in amicizia.
No e poi no: il sentimento che lega due vecchi che hanno attraversato insieme una lunga vita, non è
amicizia, ma è ancora amore e amore sessuale. Non è l'amore ardente e vulcanico del giovane, non
l'amore dotto e ingegnoso dell'adulto; ma è sempre amore.
Un amore pieno di dolci e misteriosi ricordi, ignoto al mondo tutto e che formano il delizioso ed
esclusivo segreto di due corpi e di due cuori.
Un amore pieno di indulgenze, di concessioni, di generose bugie e di tenerissime ipocrisie.
Un amore pudico, perché ha molto da perdonare e da farsi perdonare, un amore che osa esser
libertino, ma senza violenze, che sa di non poter peccare; un amore ritornato puerile e timido, ma
rimasto parecchio birichino e capriccioso.
Un raggio di sole, che squarcia le nubi nere di un temporale e cade sopra la candida neve polare, e
par che la riscaldi e la disciolga con un fiato di calda tenerezza!
Se l'amore di due vecchi può esser giocondo, diventa poi giocondissimo, se è benedetto dalla
fecondità. Allora rassomiglia in tutto al più caro e al più bello fra gli alberi, il limone; sempre verde
di foglie, sempre profumato di fiori, sempre ornato di frutti.
I nostri figlioli sono specchi viventi, nei quali due creature di sesso diverso si guardano e si
contemplano con intima e misteriosa compiacenza.
Un figlio guardato nello stesso tempo dall'uomo e dalla donna, che li hanno fatti, è lo spettacolo più
giocondo per gli occhi, più inebriante per l'anima.
Più d'una volta due felici mortali, da quello specchio vivente riportano gli occhi sopra se stessi,
scambievolmente e lungamente. Un sorriso in due dice loro, che si son ricordati della stessa cosa e
nello stesso istante. Un ricordo che il mondo ignora e che porteranno essi solo nella tomba. Il
ricordo di una carezza diversa da tutte le altre, e che ha generato quella creatura; una voluttà non
mai dimenticata e da tutte le altre diversa e che rimase improntata in un lineamento, in un gesto; che
è fusione di due carni e di due sangui.
La Bibbia dice che il Creatore, dopo aver guardato il mondo fatto da lui, se ne compiacque e
sorrise.
E come non sarà divino il sorriso, quando son due i creatori, che guardandosi nello specchio della
loro fattura, si rivedono vivi e giovani, come quando in un amplesso potente e innamorato,
riaccesero insieme la fiaccola della vita?
È il frutto saporoso che rammenta a quei due il fiore profumato, da cui nacque; è un mirabile
accordo del passato e del presente; è la visione vaga e misteriosa dell'avvenire, di cui quei due sono
gli artefici fortunati.
Se un raggio di sole, toccando la punta di un ago lucente, si frange in aureola scintillante di luce; se
rompendosi nella gocciola della pioggia, si distende nell'iride di un arcobaleno; gli sguardi
dell'uomo e della donna, che insieme passano attraverso la loro creatura, formano un altro arco di
luce celeste, che congiunge il passato all'avvenire, riempiendo l'anima di estasi e di beatitudine.
È il creatore, che dopo la creazione se ne compiace e sor ride!
Ma non tutti gli uomini vecchi hanno una moglie: abbiamo la lunga schiera dei vedovi e la
lunghissima dei celibi, ribelli per tutta la vita al matrimonio e che in fatto d'amore son sempre
vissuti di rapina o di voluttà pagate.
Tutti questi infelici hanno in generale perduto la loro virilità prima dei mariti; dacché è un dogma,
che nulla conserva certi preziosi poteri quanto l'ambiente costante e tranquillo del matrimonio. In
questo caso, avvezzi da lungo tempo ad una grande irregolarità nell'esercizio delle loro facoltà
riproduttive, abituati ai lunghi digiuni interrotti da pasti gargantueschi (veri selvaggi dell'amore) si
rassegnano a intermittenze più lunghe delle solite e di digiuno in digiuno sopportato facilmente per
la fame diminuita, giungono senza rimpianti alla castità assoluta.
Ricordano il passato con compiacenza e si rassegnano al digiuno d'amore. Non ci rassegnamo forse
a perdere i capelli e i denti, a vederci il volto solcato dalle rughe; non portiamo forse gli occhiali
senza piangere e non assistiamo ad una festa da ballo senza ballare?
L'uomo perfettamente sano però e che ha navigato per tutta la vita nel mare della voluttà, col timone
in mano e con la bussola davanti agli occhi, muore anche oltre gli ottant'anni, senza aver abdicato
mai del tutto alle dolcezze d'amore.
Gli rimangono le lunghe e estetiche contemplazioni di una fra le più belle creature. Gli rimangono
le innocenti carezze e tutte le svariate adorazioni di un Olimpo, che è ricco di Dei e di Dee più del
cielo indostano. E se scrivessi in India e per gli indù potrei a questo proposito discutere e
commentare e distinguere, conciliando l'igiene con la morale e facendo camminare a braccetto la
voluttà col galateo della penna.
Ma son nato europeo e scrivo per europei, e la mia penna che fu sempre ardita, ma che può vantarsi
di non aver mai insegnato ai libertini una leccornia nuova, né di aver mai rotta una maglia della fitta
rete che difende il pudore, s'arresta e tace.
Il medico igenista si accontenta di dire al vecchio:
Non usate mai e poi mai afrodisiaci. Suscitano in voi falsi desideri, vi darebbero false gioie,
accorciandovi la vita; facendovi vergognosamente morire fra le braccia dell'etere.
Se vi sorride un desiderio spontaneo, naturale, entrate pure nel tempio, dove non si domanda mai la
fede di nascita ma si richiede la patente della virilità. E in ogni caso fate sempre la metà di ciò che
vorreste fare.
E se avete la fortuna di conservarvi belli anche a sessant'anni, e se per di più un'aureola di gloria
illumina i vostri capelli bianchi e vi fa ancora desiderare dalle donne; fate pure senza vergogna la
parte del casto Giuseppe, e fatevi pregare, come se foste una donna giovane e bella. Non tentate mai
di conquistare, òa lasciatevi conquistare. Il ridicolo è il più spietato assassino dell'amore. A lui
nessuna passione resiste e a lui si piegano sottomesse tutte le forze della terra.
Capitolo Terzo
L'amicizia nel vecchio
Coram cano capite et onora personam senis.
LEVITICO, 10
Senes non fiunt amici cito.
ARISTOTELE
L'adolescenza e la giovinezza sono le età dell'amicizia. Rarissimo è far amici nuovi nell'età adulta,
quasi impossibile nella vecchiaia.
Sentimento di lusso non fiorisce che nei terreni fecondi e sotto il sole ardente della primavera della
vita, quando ogni siepe, ogni prato, ogni zolla di campo e ogni arbusto di foresta spande nell'aria i
profumi di mille corolle.
Venuta l'estate, non più mammole né primule; né tutti quegli altri primi fiori freschi e sereni come il
cielo d'aprile. All'amicizia tien dietro l'amore e nella rosa par che si concentrino tutte le energie
della vita gaudente e innamorata. L'amicizia perdura, ma si ritira nel fondo della scena, come i cori
davanti al tiranno.
Nella donna poi la maternità con le sue onde feconde e tumultuose dilaga talmente per ogni lato, da
affogare o almeno da raffreddare tutte le amicizie del passato.
Per far degli amici conviene sentir calde le simpatie, che avvicinano i cuori e fondono le anime.
Conviene sentirsi forti e generosi, pronti ad ogni sacrifizio, felici anzi di poter fare. Se non temessi
di profanare uno dei più alti sentimenti, direi che nell'adolescenza e nella giovinezza noi siamo
come un polipo gigante, che stende dovunque i suoi tentacoli, abbracciando e stringendo ogni cuore
che risponda alle nostre simpatie, pronte a sorgere e avide di consensi. Si è tanto ricchi in quelle età
beate, tanto prodighi di se stessi agli altri! Allora il dare non impoverisce, lo scialacquare non
sgomenta. Se oggi abbiam dato metà di noi stessi, siam sicuri che l'alba dell'indomani ci troverà di
nuovo ricchi come eravamo oggi; pronti sempre a dare e a scialacquare.
E così come i polipi nelle battaglie della loro vita carnivora, vanno perdendo dei loro tentacoli,
divorati dai pesci più forti o schiantati fra le fessure delle rocce, così anche noi nel cammino della
vita andiamo sempre stringendo l'ambito delle nostre braccia e delle nostre simpatie, e giunti sulla
soglia della vecchiaia siamo anche noi polipi mutilati, pieni di cicatrici e poveri di tentacoli.
Ad ogni tentacolo divorato o spezzato corrisponde un amico perduto.
Oh quanto ci era caro quel fratello dolcissimo dell'anima nostra, con cui avevamo intrecciati i primi
giuochi nel cortile comune della casa paterna; a cui avevamo affidati gli arcani e misteriosi segreti
della pubertà; con cui avevam diviso le torture della scuola, i primi sogni dell'ambizione, le
spensieratezze delle lunghe vacanze; a cui avevamo confessato le prime colpe, che ci avevano fatto
arossire!
Eppure quell'amico, che per venti anni era vissuto con noi e per noi, con cui avevamo comuni il
sangue e il pensiero, ci abbandonò e per poco divenne nemico; perché il caso volle che amassimo la
stessa donna!
E quell'altro, di cui eravamo innamorati quasi come fosse una fanciulla, tanto era bello e gaio e
divertente, dove se n'è andato? Oh lontano lontano, al di là dei mari. Esciti dall'Università, ognuno
di noi dovette scegliere la propria via; ed egli se n'è andato nell'Argentina.
Ricordo ancora quando l'accompagnai a Genova sulla nave che doveva portarmelo via. Ricordo le
lagrime amare, i singhiozzi, gli abbracciamenti lunghi e strazianti della nostra separazione. Ricordo
che gli ufficiali di bordo dovettero quasi buttarmi giù dalla scaletta del piroscafo. Ricordo, come se
fossero di ieri, i saluti convulsivi, che dalla mia barchetta gli andavo gettando da lontano...
Eppure oggi non ci scriviamo più e ignoro perfino dov'egli sia. Prima le nostre lettere erano d'ogni
mese, poi si andaron facendo sempre più rade; una ogni due, ogni tre, ogni quattro mesi; poi una
alla fine dell'anno e poi più nulla.
Ancora un braccio del polipo consunto dal tempo, che lima e arrugginisce i metalli più saldi.
E quell'altro ancora, le cui delicatezze femminili mi facevano da barometro e da galvanometro, per
cui parlando e discutendo con lui sapevo prevedere le procelle più lontane che mi minacciavano, e
attraverso i suoi nervi potevo dire di vivere della vita di tutti; non s'è forse allontanato da me,
dopoché ebbi sposato una donna che a lui parve bellissima?
Non ci fu verso di tenerselo vicino. Io ero sicuro di lui e di lei; e glielo facevo capire in ogni modo,
ma sempre delicatissimamente. Eppure non ci fu modo di persuaderlo a frequentare la nostra casa.
Temeva egli di sé o di lei o di chi? Mi credeva forse geloso o capace di divenirlo?
Non potrei mai cavargli una parola a questo proposito. Cercò un impiego molto lontano da noi e
non l'ho più veduto che a lunghissimi intervalli.
E quanti altri amici preziosi, che la politica e la morte mi hanno rapito!
Da giovane ne avevo una legione; oggi una mano sola mi basta per contarli.
Ma, fortunatamente, anche per l'amicizia vale la legge, che governa tutti i fenomeni fisici e
biologici. L'intensità è uguale all'estensione, e i pochi amici rimasti al vecchio, i pochi rispettati
dalle lotte delle passioni, dal contrasto degli interessi, dalla morte, vivono ancora e son divenuti
quasi membra vive del suo organismo.
Avere parecchi e ottimi amici può essere opera della fortuna, ma più di questa ci procura questa
grande, questa alta gloria della vita l'avere un cuore largo e generoso, avere un carattere simpatico,
tollerante, il saper compatire molto e ammirare moltissimo. Insomma è merito nostro l'aver ottimi
amici, e se abbiamo saputo conservarceli attraverso la vita, possiamo andarne gloriosi; più che
l'aver colto qualche corona nelle giostre molteplici del circo umano. È una gloria a cui i posteri non
daranno monumenti, né battesimi di vie o di città, ma che ci avrà benedetto la vita e rimarrà negli
archivi della famiglia, come titolo onorando della più nobile della nobiltà, quella del cuore.
Se l'amicizia nella giovinezza è uno dei tanti fiori, e diciamo pure dei più belli, che le fanno
ghirlanda; nella vecchiaia è un frutto saporoso, nutriente, pieno di succhi profumati, che
imbalsamano la bocca, che scendon giù giù nel fondo del cuore e del paracuore; come certi vini
amari e vetusti, che hanno due e fin tre sapori, con cui deliziano la lingua e il palato.
Gli amici dei nostri amici sono per lo più, anzi quasi sempre, amici nostri, per quell'assioma
matematico, che due quantità eguali ad una terza sono eguali tra loro. Ne vien quindi, che il vecchio
buono e sapiente ha intorno a sé come una corona di uomini, che si amano tutti tra di loro e che son
stretti scambievolmente da una specie di parentela, dove, se non entra il sangue così spesso
traditore, entra però l'elezione, che è consanguineità altissima delle intelligenze.
E quando uno di quei vecchi è rapito dalla morte, pare che l'anima sua trasmigri nei compagni del
suo circolo, e in ognuno di essi ne entri una parte; quasi un'inconscia eredità di affetti, di memorie,
di consapevoli e intime simpatie.
L'amico è morto, ma i superstiti lo hanno ereditato e assorbito e nel circolo comune rimangon vivi i
suoi motti spiritosi, i suoi tic speciali, le sue innocenti manie, per cui la voce sua rimane ancora fra
quelle voci, il suo pensiero pensa sempre con gli amici suoi; e se potesse alzare il capo dalla tomba,
vedrebbe che la parte migliore della sua eredità è rimasta, senza bisogno di testamento, in quel
crocchio di teste canute, strette fra di loro dalla santa fratellanza d'elezione.
Ad ogni amico che scompare, le file si serrano e il circolo si restringe, guadagnando in intensità ciò
che è andato perdendo in estensione; e quando son due o tre soli i rimasti, concentrano in sé tanti
tesori di memorie, tante tenerezze si affetti, tanta irresistibilità di simpatie reciproche da formare
una vera e propria famiglia, in cui la parentela non porta nomi speciali, ma che è un succo
condensatissimo di tutto ciò che ha di più caro e di più alto l'umana natura.
Da quei circoli non è esclusa la donna, anzi vi entra, vi porta una nota tutta speciale delle
delicatezze e delle morbidezze del proprio sesso, dando alla conversazione un sapore di pudica e
calda sensualità e spargendo sugli uomini e sulle cose come una luce, che abbia attraversato un
vetro color di rosa.
Chi rammenta gli intimi saloni dell'amica di Chateaubriand, di Madame Recamier, di M.ma
Swetschine e della nostra Clara Maffei, può ripensare tutte le gioconde conversazioni di molti
vecchi illustri, che hanno lasciato il loro nome e la loro gloria alla Francia e all'Italia. Ma anche
senza il lusso della gloria intorno al fidato tavolino di un caffè o di un domestico tresette possono
addensarsi e concentrarsi tante care compiacenze, tanti fidati consensi di pensieri e di simpatie, da
indorare la vecchiaia di tutti coloro che non aspirano che alla modestia gloria di morire onorati e
senza macchia.
Davanti alla felicità, anche la gloria abbassa le ali e democraticamente rinunzia al frastuono delle
artiglierie e delle campane, rinunzia agli inni dei poeti e agli archi di trionfo.
La natura, spesso più giusta della nostra giustizia togata, non ha mai misurato la gioia col metro del
genio ma la dispensa a tutti i cuori onesti e sinceri, che non hanno mai fatto versare una lagrima, né
oltraggiata una virtù.
Tutti coloro che negano la possibilità di un amore platonico, ammettono l'amicizia fra un vecchio e
una vecchia, benché anche in questo caso la circondino di molte reticenze non prive di malizia
maligna.
Quei due si amano, perché hanno ricordi comuni, lontani lontani, ma che vibrano ancora. Chissà,
che qualche postuma prurigine faccia loro credere di essere ancora capaci d'amare. Ma non
vogliamo malignare: il sentimento che unisce quei due può essere una vera e pura amicizia.
Così dicono i maligni, che pur sono la parte maggiore dell'umanità, quando vedono due vecchi che
stanno bene e volentieri insieme e si chiamano amici.
Noi che non siamo maligni, crediamo il contrario.
Due che si sono amati da giovani, dopo lungo scorrere di anni possono rivedersi vecchi e spesso
cercano quell'incontro con avida curiosità, sperando di riannodare la dolce catena da tanto tempo
spezzata; di ritrovare a un tratto una fiamma miracolosa, che riscaldi i loro cuori di ghiaccio.
Consiglio con tutte le forze, con tutta l'energia di una profonda e provata convinzione, di soffocare
quella curiosità e di sfuggire da quelli incontri.
Un amore passato è un morto e i morti si seppelliscono o si cremano. Rispettate le tenebre della
terra e il segreto delle urne. Non rimescolate i cadaveri e non profanate le ceneri.
Voi avete sempre davanti agli occhi vostri la donna che avete amato trenta o quaranta anni or sono
come un'immagine affascinante di giovinezza e di venustà. Ne avete di certo il ritratto in qualche
santuario della vostra casa e guardandolo talvolta nelle ore malinconiche dei ricordi, l'avete riveduta
come quando vi appariva trepida e voluttuosa nei ritrovi d'amore. Voi, guardandone l'immagine o
ricordandola, rivivevate un'ora della vostra giovinezza. Era un fantasma, ma era anche un angelo;
era un sogno, ma di ebbrezza e di voluttà.
E invece la vostra malsana curiosità vi ha voluto far palpare la realtà nuda e cruda. Ne siete punito e
crudelmente. Le memorie d'amore vivono nel tempio, e voi, profanatore di un altare, siete stato
punito dal Dio oltraggiato.
E vi ha fulminato, distruggendovi il sogno e facendo del vostro angelo una diabolica creatura.
Il vostro angelo non è più che una vecchia. I capelli lucenti e corvini son grigi o bianchi. Gli occhi
hanno perduto ogni bagliore di passione, stanchi d'aver troppo veduto. La bocca, che vi ha tante
volte baciato, facendovi perdere i sensi, è divenuta la fessura di un salvadanaio e i denti fra veri e
falsi son tutto un cimitero abbandonato. Nessuna linea di quel corpo risveglia un desiderio; nessun
movimento si accompagna con una grazia. Ad onta dei cento puntelli dell'arte ortopedica e
cosmetica è un edifizio che si sfascia.
E quel quadro si sovrappone brutalmente alla miniatura deliziosa, che avevate eterna nel cuore e ne
ricevete un urto violento; come d'un pugno psichico, che vi atterra e vi offende.
È il Dio delle sante memorie d'amore, che avete voluto oltraggiare e che vi fulmina, come Jehova
fulminava i violatori del Sancta Sanctorum!
E ciò che voi avete provato e ciò che voi avete sofferto vedendo lei, lei ha provato e sofferto,
vedendo voi, che avete perduto le chiome ebanine e avete solcato il volto di rughe e forse forse
avete anche una pancia.
Due disinganni, due caricature che si mettono al posto di due santi e dolci ricordi, che il cuore
attraverso gli anni aveva lasciati intatti e sempre giovani. E badate, che l'ultimo dei ritratti vi rimane
così crudelmente inchiodato negli occhi che ad ogni volta che vorrete ricordar lei giovane e bella, vi
troverete invece dinanzi sempre il ritratto più recente; quello della vecchia deforme.
Ben diversamente accade quando i due amanti, siano poi consacrati dal sindaco o dall'amore,
invecchiano insieme. Allora nessun confronto odioso può fulminarli e come abbiamo già veduto,
essi possono amarsi sempre, mutando forma l'affetto che li lega, ma non mutando natura.
Vi è però un'amicizia purissima, che lega l'uomo alla donna, quando essi cioé non si son mai veduti
giovani, ma si sono incontrati, quando insieme scendevano per la china degli anni.
Negare questo sentimento sarebbe spingere scetticismo e pessimismo al superlativo e sarebbe forse
disonorare e calunniare la natura umana.
La donna, dopo aver perduto i diritti del sesso, rimane pur sempre un uomo, e tutta la tenerezza del
cuore e i tesori del pensiero possono fare di lei un compagno carissimo, un vero amico.
Si possono invidiare gli amanti di Georges Sand, ma io per conto mio invidio più ancora gli amici,
che ebbe fidi e numerosi anche nella sua vecchiezza.
Se con gli anni la donna non può più risvegliare alcun desiderio, di lei rimangon sempre vive le
tenerezze dell'anima e i delicati accorgimenti, le care civetterie del pensiero, la mobile vivacità delle
impressioni, la sua carità per chi soffre: insomma tutto ciò che la fa donna nel mondo del
sentimento e dell'intelletto.
I sentimenti sono più elastici, più mobili e soprattutto nelle loro forme svariate e nei loro infiniti
gradi più numerosi delle nostre parole.
Fra un uomo e una donna il nostro dizionario non ammette di sentimenti affettuosi, che l'amore e
l'amicizia, che sono infatti le due forme più distinte; ma nella pratica della vita possiamo trovare
amori amichevoli e amicizie amorose e tante altre forme intermedie, che oscillano fra quei due poli
ben definiti.
Per decidere poi, se sia amore o amicizia l'affetto che lega un uomo ad una donna, non vi ha che una
sola pietra di paragone, ma che io credo infallibile nei suoi responsi.
E questa pietra è il desiderio.
Finché esiste un desiderio del possesso sessuale, fosse pur pallido e freddo come un'alba di gennaio;
finché si può pensare ad una carezza o ad un bacio dato o ricevuto con voluttà; l'affetto non è
d'amicizia, ma d'amore.
Per potersi dire, per potersi sentire amici, e null'altro che amici, un uomo e una donna devono,
trovandosi insieme, aver bevuto l'acqua di Lete; per cui l'uno e l'altro hanno del tutto e per sempre
scordato di essere Adamo ed Eva. E quell'acqua devono averla bevuta in due, dacché se uno solo
desidera e l'altro no, il contrasto dell'amicizia con l'amore offusca ogni sincerità di rapporti, creando
ad ogni contatto dei pensieri urti spiacevoli e attriti stridenti.
L'amicizia pura, l'amicizia vera, quella che al tasto della mia pietra di paragone ha dimostrato da
ambo le parti l'assoluta assenza del desiderio, è una delle maggiori delizie, che indorano gli ultimi
anni della nostra vita.
L'esser della stessa età vuol dire avere una parentela comune con le cose, con la natura, con gli
uomini. Vuol dire aver ammirato gli stessi eroi e disprezzato gli stessi farabutti; vuol dire aver
esultato alle stesse feste e pianto alle stesse sciagure nazionali. Vuol dire in una parola esser piante
della stessa terra, uccelli della stessa covata. Vi è una lingua, somma di mille consensi, che non
possono parlare insieme e intendere che gli uomini d'uno stesso tempo. Contemporaneo è spesso
più che compaesano, è una specie di parentela psichica, che si sovrappone e si confonde con molte
altre consanguineità.
E quando i coetanei sono un uomo e una donna, questa parentela d'ambiente cresce ancora e si
affina; perché l'una e l'altro hanno vissuto insieme, ma della vita hanno sentito e veduto una parte
diversa: sommate insieme le due parti, ne viene il tutto di un'epoca, di un ambiente artistico, di un
periodo storico, di un'evocazione religiosa.
Ecco perché più d'una volta, un vecchio e una vecchia, seduti accanto l'uno all'altra in comode
poltrone, tra l'una e l'altra presa di tabacco, dopo una lunga conversazione, tacciono lungamente,
guardandosi negli occhi o tenendosi per mano.
Hanno in quei dolci momenti una visione comune, quella di un passato già molto lontano, in cui
vissero insieme e nel cui giudizio si trovano d'accordo. Senza pretesa di storici né di filosofi hanno
letto insieme una pagina di storia e l'hanno commentata benevolmente e con grande indulgenza;
dacché tutti i vecchi sani e buoni son sempre ottimisti.
I romanzieri, i moralisti hanno fatto sempre brontoloni i vecchi, ce li hanno sempre descritti come
seccanti laudatores temporis acti. Io invece descrivo il vecchio ideale, come io vorrei che lo fossero
tutti; il vecchio felice di leggere la storia perché dimostra che il passato fu cento volte peggiore del
presente; il vecchio che d'una cosa sola è dolente, di esser nato troppo presto, perché egli morrà
nella beata sicurezza, che il futuro sarà migliore del presente.
E i miei due vecchi amici parlano spesso insieme di questa cara fede.
Lei per dire che nel futuro gli uomini non si faranno più la guerra. Lui per assicurare, che la scienza
sarà sempre la padrona del mondo e guarirà sempre le ferite, anche quelle fatte con le sue proprie
armi.
Capitolo Quarto
Il pensiero nella vecchiaia
In antiquis est sapientia et in multo
tempore prudentia.
GIOBBE, 12
La vie de l'esprit se fait voir (dans la vieillesse) sous un autre aspect, sans interrompre son acti-vité;
il y a transformation, il n'y a point détérioration. Si des pertes ont lieu, on a fait aussi des
conquétes... En pesant, en estimant les résultats avec sincérité, peut étre trouvera-t-on, en effet, que
la vieillesse a plus gagné que perdu.
REVEILLÉ-PARISE
Si crede da molti che il vecchio, come è debole alla corsa e al salto, lo sia anche nel pensiero. Si
crede che egli sia un invalido dell'intelligenza; che da lui non si possa aspettar più nulla che possa
illustrar l'arte, le lettere o la scienza; che non si possa, né si debba esiger più nulla da un cervello
smemorato, stracco; per poco non so dire, da una mente imbecille.
E si cita il grande Lucrezio:
Post ubi jam validis quassatum viribus oevi
Corpus et obtusis ceciderunt viribus artus,
Claudicat ingenium, delirai' lingua que, mensque:
Omnia deficiunt, atque uno tempore desunt [1].
Lucrezio in questi versi ci dipinge il vecchio decrepito, non il vecchio fisiologico, e alla citazione
pessimista del gran poeta latino io potrei contrapporre una pleiade gloriosa di vecchi, che sull'orlo
della fossa continuarono ad onorare l'umano pensiero.
Potrei citare Tiziano, che a novantanove anni dipinge ancora quadri stupendi.
E Michelangelo ottuagenario, che fino alla morte merita il battesimo di divino.
E l'altro divo dell'antichità, Platone. E Lesage, che termina il suo immortale Gil Blas a sessantasette
anni.
E Lafontaine, che a sessant'anni pubblica la seconda raccolta delle sue Favole.
E Goethe, olimpico sempre anche dopo gli ottant'anni.
E quel vulcano di spirito e di arguzie che è il Voltaire il cui ingegno non invecchiò mai.
E Humboldt, che presso i novant'anni scrive il quarto volume del suo Cosmos.
E Fontenelle e Chevreul, centenari e non mai imbecilli.
E Duverney, l'anatomico, che ad ottant'anni si fa applaudire nella Accademia di medicina, come
oratore potente.
E la Sand, che nei suoi ultimi romanzi scritti dopo i settant'anni non mostra nessuna fiacchezza nel
suo poderoso ingegno di scrittrice.
E Palmerston e Gladstone, che governano l'Inghilterra e potrei dire più che mezzo il mondo civile a
più di ottant'anni.
E tanti e tanti altri, che nell'estrema età della vita continuano a pensare altamente e a fare con
energia.
Ma voi potreste dirmi che i geni fanno classe a parte, che sono rare e onorevolissime eccezioni.
Ed io allora direi subito che noi ci occupiamo soltanto dei grandissimi, perché essi soli fermano
l'attenzione universale; ma che anche negli strati medi e bassi dell'intelligenza abbiamo vecchi, che
negli affari pedestri della vita o nelle industrie o nei commerci conservano in tutta la vigoria i nervi
del pensiero.
È per me uno dei pochi dogmi incontrastati della biologia, che il primum nascens è l'ultimum
moriens; e così come nell'uovo fecondato la prima forma che si disegna è l'asse cerebrospinale; così
nell'organismo che muore l'ultimum moriens è il cervello, con le sue mille o proteiformi energie.
E il mio dogma non è soltanto vero nel suo complesso e preso nella sua sintesi più larga, ma si
afferma nei più minuti particolari. Ognuno di noi nasce con diverse attitudini, che segnano il
sentiero in cui cammineremo per tutta la vita; ma nella giovinezza tutte quante a volta a volta e
magari tutte insieme esigono il loro posto al sole.
Il cervello dell'uomo giovane è un giardino, in cui sbocciano nello stesso tempo molti fiori e noi
non ci curiamo di vedere quale di essi dia più ricca messe di corolle. C'è tanto da vedere e da
ammirare! Ma più innanzi nella vita i fiori dati dalle piante più gracili e delicate avvizziscono e
rimangono quelli soltanto delle piante più robuste e che nel terreno d'ogni cervello trovano il campo
più adattato alla loro natura.
E se invece dell'immagine dei fiori ne volete una forse più fedele, vi dirò che il cervello di un
giovane è un orto che dà molti e svariati frutti; ma non tutti giungono alla maturità, mentre quello
d'un vecchio è un orto che dà meno frutti, ma maturan tutti e son più saporosi e più nutrienti.
E gli alberi, che nell'orto del vecchio continuano a dar frutti sono i più robusti, quelli che eran più
conformi alla sua particolare natura.
Il primum nascens anche qui si manifesta l'ultimum moriens.
L'Azeglio nasce artista, ma oltre il genio dell'arte ha anche un vivo amor di patria, ha anche un culto
sovrano per la libertà, ha anche un buon senso tetragono. Orbene nella sua giovinezza e nella sua
età matura egli è a un tempo pittore, scrittore, soldato, uomo politico; ma giunto alla vecchiaia gli
alberi minori non danno più frutti o pochi soltanto, e in lui sopravvive il grande artista e si diletta
soltanto della pittura, l'ultimum moriens di quel cervello tanto italiano e tanto polimorfo.
E nella vita di tutti i grandi uomini, e specialmente di quelli che possiamo chiamar polimorfi perché
dotati di diverse energie, potreste verificare l'esattezza del mio dogma.
Ma vediamo di approfondire lo scalpello nelle profonde fibre del cervello umano, segnando i
caratteri propri dell'ingegno nella vecchiaia, onde sfatare, se è possibile, il detto volgare e
pessimista, che il vecchio sia poco meno che un imbecille, che finisce i periodi a suon d'orecchio,
che pensa col pensiero degli altri, che nulla più produce di buono, di bello, di utile all'umana
famiglia.
Eccovi dunque il bilancio del pensiero del vecchio.
Bene Male
Prospettiva serena Debolezza di memoria.
del passato. Poca pazienza d'analisi
Maggior sensibilità estetica. e d'osservazione.
Convinzioni profonde Minor resistenza al lavoro.
e sicure. Difficoltà di assorbire
Sintesi più larga. nuove cognizioni.
Facilità nella tecnica Più fiacca la creazione.
del pensiero. Più debole la fantasia.
Maggiore elasticità
nel maneggio della lingua.
Carattere più virile
dell'eloquenza.
Grande attitudine politica.
Associazioni di idee
più numerose e più facili.
Grande attitudine stereoscopica
nell'abbracciare ad un
tempo tutti i lati di un problema.
Il giovane non ha passato: egli è l'uomo del presente e soprattutto dell'avvenire, e nei suoi giudizi
manca quasi sempre la più esatta delle misure, che è appunto il confronto del passato col tempo che
è, col tempo che sarà. Egli può studiare la storia, ma ben di raro lo farà per piacere.
Il vecchio invece ha veduto molto, molto sofferto e molto goduto. Nella sua lunga esperienza ha
dovuto correggersi molte volte nei giudizi dati con troppa fretta o ispirati da troppa passione. E
quindi più giusto, più equanime. Egli non odia il passato, ma neppure teme l'avvenire; perché sa che
sono anelli di una catena, che non ha interruzioni né rotture. Egli era darvinista dieci secoli prima
che Darwin nascesse, e se non è colto nelle scienze naturali o nelle filosofiche lo è egualmente,
perché la teoria dell'evoluzione sta scritta in tutti i cervelli che pensano, in tutti gli organismi che
vivono; da per tutto.
E il vecchio che ha vissuto molto ha naturalmente in sé una più lunga storia di evoluzioni, ch'egli
contempla con grande serenità, con calma grandissima.
Il giovane, nel tumulto della sua vita appassionata, nel contrasto dei venti che agitano le vele della
sua navicella coraggiosa, muta spesso di direzione e di movimento. Ora temerario si lancia nelle più
pazze utopie, ora per reazione si fa conservatore arrabbiato; oggi socialista, domani difensore del
trono e dell'altare; or credente, or miscredente; sempre però sicuro di se stesso e della propria fede.
Quante volte ne ha mutati gli articoli!
Il vecchio invece ha trionfato delle procelle e soprattutto ha imparato a conoscere la navicella, in
cui ha navigato per tanti anni. Dopo aver attraversato il mare delle dubbiezze è entrato nel porto
tranquillo e sicuro di poche e sicure convinzioni. Egli non si tormenta più nella ricerca
dell'inintelligibile o nella conquista dell'infinito. Al di là del suo giardino e del suo orto ha messo
Dio o uno zero, e se ne accontenta. Egli ha opinioni ben determinate in religione, in politica e in
morale, e non perde il tempo nel metter acqua in un cribro o nel correr dietro alle tante fate
morgane, che brillano sull'orizzonte dell'uomo giovane.
Avere poche e sicure convinzioni dà al vecchio una grande sicurezza di propositi, che gli accresce
valore presso gli uomini e a lui pure rende più facili e piacevoli i travagli del pensiero. Non è senza
ragione, che da secoli l'umana famiglia ha sempre chiesto luce e consiglio dai vecchi. Non è invano
che Senatus deriva da senex e che la mitologia cristiana dipinge sempre il Padre eterno sotto le
sembianze d'un vecchio canuto.
Ecco perché egli riesce soprattutto nelle arti della politica, che appunto esige sicurezza di terreno
per piantarvi edifici che non crollino al primo soffio di vento.
Il saper troppo, l'avere ali troppo robuste e genio troppo fecondo son tutti impedimenti nell'arte di
governare gli uomini. Pessima poi sopra ogni altra cosa è la potenza critica in un uomo politico.
Ricorderò sempre a questo proposito ciò che rispondeva il Ricasoli a alcuni deputati di sinistra
andati da lui per persuaderlo a fare una politica più democratica.
Dopo aver giustificato la sua condotta egli disse a un dipresso così:
"Io non ho grande talento; ma ho delle convinzioni profonde acquistate con il molto pensare e miro
al mio scopo, miro diritto senza guardar mai né a destra né a sinistra. Guardo il mio bersaglio, e non
vedo altro, e ci vado attraverso tutto e tutti. Quel bersaglio non sarà forse molto alto, ma è il mio, e
ad esso concentro tutte le mie forze, tutta la mia energia".
Senza saperlo, il Ricasoli dava in quel momento la più fedele definizione della politica e senza
volerlo anche quella della fisonomia speciale del pensiero del vecchio.
Non c'è bisogno di dimostrare il perché nel vecchio la sintesi sia e debba essere più larga.
Egli ha molto veduto e nel suo cervello sono entrati tali e tanti elementi del mondo umano e del
mondo cosmico, da allargargli sempre più l'orizzonte. Se il giovane è più alpinista di lui, perché ha
polmoni più ampi e garretti più robusti, il vecchio ha salito più cime del pensiero e ha imparato a
intendere le ombre nelle valli dell'ignoranza e a non lasciarsi ingannare da tutti i fantasmi della luce
e delle meteore. Egli è presbite anche nel cervello e non soltanto negli occhi e alla sintesi questo
difetto giova assai più che la miopia.
Alla più larga sintesi si associa nel vecchio anche una maggior ricchezza di associazioni nelle idee.
È questa la conseguenza logica della prima virtù.
Nel giovane vi sono molti tasti che non rispondono, vi sono accordi che non riescono, perché ha
molte corde vergini, che non hanno vibrato ancora.
Nel vecchio invece tutti i tasti sono agevoli, tutte le corde sono attraversate da mille correnti, e le
associazioni delle idee si fanno pronte e per ogni verso; diffondendosi per tutti i territori del
pensiero e del sentimento.
Questa è grande virtù e che supplisce in gran parte alla forza diminuita, all'intensità più debole della
corrente prima, che si sprigiona da quel laboratorio massimo della natura viva, che è un cervello
che pensa.
A supplire alla forza iniziale diminuita contribuisce assai anche la facilità acquistata nella tecnica
del pensiero.
Di certo che la macchina pensante di un giovane è migliore di quella del vecchio; ma appunto
perchè esce da poco dall'officina ha molta rigidità nelle sue articolazioni, per cui si muove a scatti e
chi la maneggia è ancora inesperto.
Nel vecchio invece gli attriti son vinti dall'uso, le giunture son molli e pieghevoli e il macchinista ha
imparato a conoscere tutti i difetti e tutte le virtù della sua macchina; per cui tutte le forme diverse
di movimenti son divenute in lui quasi automatiche e si fanno senza fatica e senza esitanza.
Ciò salta all'occhio specialmente in quel lavoro altissimo, che è la parola.
Quanti intoppi, quanto balbettamento nell'uomo bambino, prima che la corrente della parola corra
pei nervi alla laringe, alla lingua, alle labbra! Quanti tentativi inutili, quante storpiature, quanti
involontari idiotismi, prima che l'uomo raggiunga quella bellissima equazione, che apre poi le porte
all'eloquenza:
Pensiero = Parola.
Se la vita non fosse tanto breve ai mille viaggi pensati, vorrei nei discorsi politici degli oratori più
celebri seguire l'evoluzione della parola attraverso le età; studiando come essa si muti passando
dalla prima giovinezza alla vecchiaia. Sarebbe questo un lavoro utile e fecondo, perché ci
permetterebbe di segnare a grandi linee il diverso stile dell'eloquenza, che pur rimanendo sempre
alla stessa altezza, ha però tante fisionomie, quante ne hanno la pittura e l'architettura.
Se non ho potuto fare queste ricerche con tutte le esigenze della scienza sperimentale, ho però
seguito per quasi trent'anni con studiosa attenzione i discorsi dei nostri grandi oratori parlamentari
dal Brofferio al Minghetti, dal Cordova al Mancini e al Cavallotti. Or bene mi pare di aver trovato
che l'eloquenza non decresce, ma cresce con gli anni, acquistando soprattutto alcuni preziosi
caratteri, che riassumerei con le parole di una virilità maggiore.
Nel giovane la parola è più calda, più prorompente: se volete, più affascinante, perché ispirata da
più calde passioni, perché in essa sentite il grido della battaglia e l'impeto della lotta. E più adatta ai
tumulti dei meeeting e alla conquista del popolo nelle piazze o alla conquista delle coscienze sotto
le volte del tempio.
Nel vecchio invece vi è meno calore, ma maggior potenza di idee, e l'arte più sottile e più ingegnosa
nasconde mirabilmente i tranelli dei sofismi e le trappole dei sillogismi. L'eloquenza del vecchio
conquista e tien salda la conquista. La prima è una carica di cavalleria o un attacco di bersaglieri; la
seconda è un quadrato di fanteria, che non si rompe nella difesa, o è l'artiglieria che abbatte gli
eserciti e rende sicura e infallibile la vittoria. Ed è perciò che nei parlamenti è la forma di eloquenza
che vince ogni altra; anche quando la voce è più fioca, e la parola meno battagliera e appassionata.
Sul pulpito e in piazza vorrei veder sempre un oratore giovane, sulla cattedra e soprattutto nel
parlamento vorrei sempre ammirare oratori canuti.
Se dovessi quindi riassumere la fisionomia caratteristica del pensiero nell'ultima età della vita, direi
che il vecchio ha un cervello potentemente stereoscopico, mentre il giovane ha un cervello creatore.
In questo l'agilità e la fecondità, in quello la sicurezza e la tenacità. Nessuno primo, nessuno
secondo; entrambi organi diversi, che adempiono funzioni distinte in quel grande organismo, che è
una società umana.
Quando i progressi dell'igiene faranno campare per ottant'anni almeno tutti i nati sotto il sole;
l'umana famiglia sarà più felice, più ordinata, più morale, più intellettuale; per molte ragioni, ma per
questa principalissima, che con una popolazione equale avrà un numero molto maggiore di vecchi.
Capitolo Quinto
I due pèchés mignons della vecchiaia
Le plaisir de la table est detous les àges, de toutes les conditions, de tous les pays ed de tous les
jours; il peut s'associer à tous les autres plaisirs et reste le dernier pour nous consoler de leur perte.
BRILLAT-SAVARIN
La gola
Da buon cristiano aborro i peccati mortali e credo di non averne mai commessi in mia vita, così
come spero di non commetterne mai in avvenire; ma adoro i peccati veniali, che sono come chi
dicesse il sole della vita, e senza i quali i più tra gli uomini rinuncerebbero a far la loro comparsa
sul nostro pianeta.
Prima però di dirvi quali e quanti sieno questi peccati veniali, intendiamoci bene sui peccati mortali,
onde non avvenga confusione.
I miei peccati mortali non sono quelli della Chiesa apostolica romana, ma di un'altra chiesa più
grande e soprattutto più alta; in cui entrano cristiani e ebrei, mussulmani e buddisti, purché prima di
entrarvi si sieno levate le scarpe della superstizione e abbiano adottato il dogma del non far soffrire
anima viva.
Dunque i miei peccati mortali sono questi:
1. Far soffrire.
2. Esser superbi.
3. Esser vili.
4. Non amare la patria.
5. Non credere nell'ideale.
6. Non credere nel progresso.
7. Mentire.
Quanto ai peccati veniali, non ve li posso dir tutti, perché da soli farebbero un volume e ve li dirò
un'altra volta.
Essi sono i nei, che messi in buon posto e su una bella faccia, la rendono bellissima. Sono i
chiaroscuri del paesaggio, sono l'amaro del caffè e il moscatello dell'uva, sono il sale della sapienza
e la grazia della bontà; sono sale ed aroma; sono il vino del desinare; sono insomma tutto ciò che
v'ha di meglio nella vita.
So anch'io che senza di essi l'uomo sarebbe perfetto; ma allora non sarebbe più un uomo, ma un
angelo, e fino ad ora nella vita breve vissuta dall'umanità, siamo ancora lontani lontani dal metter le
ali.
Gli angeli poi hanno un grave difetto, quello di volar via, quando vogliamo acchiapparli. Ne nasce
qualcuno anche fra gli uomini e specialmente fra le donne; ma quaggiù sulla terra, quando
camminano tra noi, si sporcano i piedi, perché c'è troppo fango, e ne hanno un gran schifo e volan
via: volan lontano, poggiando per poco sulle vette illibate e candide del Monte Bianco o
dell'Everest e là li vediamo librar le ali d'argento per pochi istanti e dopo essersi scosso il fango
terestre dai piedi, se ne vanno forse in un pianeta migliore dove non c'è fango.
Per ora almeno, il sole ha le sue macchie e l'uomo buono e bello ha i suoi peccati veniali, che lo
aiutano a tollerar la vita e talvolta bastano a farla felice.
Fra essi ve ne son due, prediletti dalla vecchiaia, e sono la gola e l'avarizia; e noi li studieremo l'uno
dopo l'altro, perché il nominarli non basta; perché i peccati veniali sono come le grandi virtù, ed
hanno forma e indole diversa; tanto che possono essere antipatici o simpaticissimi, possono far del
male e far del bene.
La gola è larga dispensatrice di gioie grandi e piccine al vecchio; anzi egli gode di questi piaceri più
del fanciullo, che è distratto, più del giovane troppo occupato dei suoi amori, più dell'adulto che
deve dedicare il suo tempo a farsi un posto al sole.
Tutti i sensi impallidiscono nel vecchio; meno il gusto, che in lui si affina anzi con l'esperienza e
con l'attenzione.
La gola sotto alcuni rapporti è meglio dell'amore; primissima fra le voluttà, arciprimissima fra i
bisogni umani.
Amore e gola hanno un prima, un mentre e un poi; ma quanto diversi questi prima, questi mentre,
questi poi!
Nell'amore il prima è spesso un prurito che fa male o un uragano che schianta gli alberi e rovina le
messi. Il mentre è dolcissimo, ma ahimè, dura troppo poco. Non dirò con l'epicurea francese, che
cela ne dure que le temps d 'avaler un æuf, ma dobbiamo pur confessare, che il mentre si misura
non a giorni, né a ore; ma con l'orologio a minuti secondi.
Il poi, poi, è ora acido, ora amaro: nei casi più fortunati è un languore, cioé una forma di
stanchezza. Nei casi più disgraziati, che pur son frequenti, è un dolore o un pentimento o l'uno e
l'altro insieme.
Nella gola invece delizioso è il prima, più delizioso il mentre, deliziosissimo il poi.
Il vecchio, quando si sveglia al mattino, fra i crepuscoli che gli aprono le porte della giornata, vede
sempre per prima cosa la sua colazione e il suo pranzo.
È d'inverno, e pensa ad una lepre in salmì o ad una beccaccia lardellata di prosciutto, dorata dal
grasso di uno spiedo sapiente e adagiata sopra una fetta di pane aromatico, croccante,
profumatissimo.
È d'estate, e pensa ad una pesca morbida e vellutata come la rosea guancia d'una bella inglese o
come il roseo e grasso cuscino d'una giovane olandese. Vede i denti e le labbra, che s'affondano in
quella benedizione di Dio e sente il succo nettareo, che inonda la bocca e sgocciola per ogni lato.
Ma né una beccaccia, né una lepre, né una pesca bastano al pranzo, e il vecchio epicureo studia gli
accordi e le melodie delle note diverse, che dovranno formare la musica della colazione e quella del
pranzo.
Ieri il desinare fu troppo leggero. Una zuppa, una sogliola fritta e un beccaccino gli hanno lasciato il
corpo troppo leggero e il ventricolo non sazio. Converrà che oggi il pranzo sia un po' più serio e
converrà pensare a un gigot di montone o a una lingua di Zurigo adagiata in un letto di cavolini di
Bruxelles. Degli ovoli ben pepati alla gratella potranno servire di fritto.
Ma per prepararsi degnamente ad assaporare e a digerire questo pranzo forse un po' pesante,
converrà che la colazione sia più leggera del solito, benché l'appetito sia impertinente e esigente.
E qui una nuova e lunga meditazione su questa prima parte della giornata. Una sogliola no, perché
l'ho mangiata ieri. Mangerò una piccola frittata al prosciutto e una costoletta di vitello ai ferri. -
Finalmente colazione e pranzo sono fissati e il piano di battaglia è ottimo. Unità nella varietà;
sapori diversi che fanno melodia di note deliziose.
Il vecchio goloso si veste, prende il suo caffè e va egli stesso al mercato, perché non lascia mai al
cuoco l'onore e il compito difficile di scegliere il pesce, il selvaggiume e la frutta.
Gira e rigira; tutto guarda e tutto pesa con la bilancia dell'occhio, del naso e del tasto. Salutato da
tutti i rivenditori, che lo conoscono come un antico e prezioso cliente, non si lascia sedurre mai né
dai sorrisi più amorevoli, né dalle offerte più insinuanti; ma da solo e senza riguardi giudica e
manda.
Ha scoperto un pesce spada, non apprezzato né conosciuto nella città dove vive e che è giunto per
caso. Egli ne conosce tutto il valore e se l'ha comperato.
Ha trovato una pernice paffutella proprio nel punto giusto di maturità e l'ha comperata.
Ha scoperto da un ortolano un piccolo cestino di funghi dormienti. Son cresciuti sotto le nevi
dell'Appennino e nel freddo silenzio dell'inverno hanno maturato i più delicati aromi del monte e
degli abeti.
Ah quanta ignoranza nel volgo dei cuochi e delle cuoche!
Il buon vecchio è andato un po' tardi al mercato; eppure gli hanno lasciato intatto quel tesoretto. Li
farà friggere e gli parrà di mangiare la più delicata e squisita cervella.
Dal fruttaiolo ha preso due pesche sole, scelte fra cinquanta. Una pera burrona, delle noci fresche,
del ribes e una banana. Quei frutti faranno un bel quadretto, colorito e profumato e quei grappolini
di rubino messi fra le pesche, la pera e la banana sembrerà che ridano, come labbruzze di bambini
festanti.
Si può metter tanta poesia e tanta estetica nei preparativi di una colazione e di un pranzo, quanto nel
comporre una sinfonia, una romanza o un inno.
E sinfonie e romanze ed inni cantano ad una tavola ben apparecchiata. Cantano le lodi alla natura
proteiforme e creatrice, che con la lenta pazienza dei forti prepara all'uomo i succhi profumati, le
carni tenerelle e le polpe voluttuose, che attraverso al tempio del palato danno a noi nuovo sangue,
nuovo calore e nuova vita.
La tavola è un'ara, su cui la natura offre all'uomo il più giocondo, il più prezioso tributo, e in cui si
compie la più sublime trasformazione delle forze.
Il mentre è più delizioso del prima. Questo è la speranza: quello è la fede.
Il giovane che col respiro soffocato, col cuore palpitante, con le mani fredde aspetta la donna che
ama, se può parlare dice a se stesso: Venga quest'ora e poi ch'io muoia! Uno di questi minuti e poi
la morte!
Il vecchio che si siede a tavola, non ha il respiro affannoso, né il cuore turbato, né le mani fredde;
ma distende il tovagliolo sulle ginocchia con studiata lentezza, e tirando su dai precordi un
profondo sospiro, si guarda intorno, aspirando tutti gli odori presenti e futuri, che vengono e
verranno dalla cucina.
Quegli odori son buoni, son gravidi di promesse, e il vecchio si stropiccia le mani davanti alla
zuppa profumata, che deve aprire le porte a tutte le voluttà gastronomiche, che con ordine sapiente
si succederanno le une alle altre.
Quelle voluttà or profonde, or delicate, ora intense, ora vaporose si succedono è come onde
tranquille di un mare allegro. Non uragani, né lampi, né fulmini; ma ondulazioni soavi e molli, che
scacciano un piacere, per darcene uno maggiore.
Nell'amore il rapimento, nella gola il possesso. Nell'amore siam foglie vibranti di voluttà, ma
trasportate da una bufera che è più forte di noi. Gaudenti, inebriati; ma posseduti. Nella gola,
padroni noi stessi del nostro piacere, che governiamo a nostro capriccio, col timone in mano;
sempre padroni del dove, del come, del quando.
Nell'amore, felici, ma schiavi di una potenza troppo potente; nella gola, felici e padroni della nostra
felicità. Nell'amore, il troppo, che ci rovescia a terra, che ci capovolge, che fa naufragare il nostro
Io nell'onda tumultuosa e tiranna. Nella gola, il molto, ma un molto tutto nostro e che possiamo far
riposare a nostro capriccio.
Come è deliziosa quella nota eterea di un sorso di dorato Sauterne, che ci lava bocca e lingua dal
saporoso gusto di una rosea trota. Come è austero quell'amaro di un Bourgogne premier cru, che si
marita col succo nettareo di un petto di beccaccia! E quei tartufi che alternano il loro profumo, che
sembra l'etere della terra, con le carni soavi di un grasso tacchino; e quel pasticcio di Strasburgo,
che si discioglie nella nostra bocca, come la carezza innamorata di una donna libertina; e tutta
quell'infinità di sapori odorosi e di saporosi odori, che fanno del nostro palato una serra calda piena
di fiori inebrianti; e quelle estasi profonde, senza deliri e senza stanchezze, non sono forse tutto un
poema?
Di certo, il vecchio fortunato che può mangiar bene e senza rimorsi, se pranza solo tiene aperto il
libro immortale del Brillat-Savarin[1] dove si legge:
Il gusto, così come la natura ce l'ha dato, è ancora quello dei nostri sensi, che ben considerato, ci
procura più godimenti degli altri:
1. Perché il piacere di mangiare è il solo, che goduto con moderazione, non sia seguito dalla
stanchezza.
2. Perché è di tutti i tempi, di tutte le età e di tutte le condizioni.
3. Perché si gode necessariamente almeno una volta al giorno e può ripetersi, senza inconvenienti,
due o tre volte al giorno.
4. Perché può associarsi a tutti gli altri e può anche consolarci della loro assenza.
5. Perché le impressioni che ci dà sono in una volta sola più durevoli e più ubbidienti alla nostra
volontà.
6. Finalmente, perché mangiando noi proviamo un certo benessere indefinibile e particolare, che
sgorga dalla coscienza istintiva; perché mangiando noi ripariamo alle nostre perdite e prolunghiamo
la nostra esistenza.
Il nostro vecchio non si vergogna di esser goloso. Quando l'arte asseconda la natura e ci procura
piaceri innocenti, deve anzi renderci fieri di esser uomini, e di avere col nostro intelletto allargato
tutte le frontiere del sensibile e del soprasensibile.
Egli ha letto e riletto le pagine dedicate dal Brillat-Savarin al fagiano e vuole regalarle ai lettori
italiani (e sono molti) che non le conoscono e non le hanno degnamente apprezzate e assaporate:
Il fagiano è un enigma la cui soluzione è stata rivelata soltanto agl'iniziati: essi soli possono
assaporarne tutta la bontà.
Ogni sostanza ha il proprio apogeo di mangiabilità: alcune vi sono già arrivate prima del loro intero
sviluppo, come i capperi, gli asparagi, le pernici grige, i piccioni al cucchiaio, ecc.; altre vi arrivano
nel momento in cui hanno tutta la perfezione d'esistenza che è loro destinata, come i poponi, la
maggior parte delle frutta, il montone, il bue, il capriolo, le pernici rosse; altre finalmente quando
cominciano a decomporsi, come le nespole, la beccaccia e soprattutto il fagiano.
Quest'ultimo uccello, se si mangia nei tre giorni dopo la sua morte, non ha nulla di speciale. Non è
né delicato come una pollastra, né profumato come una quaglia.
Preso al momento giusto è una carne tenera, sublime e gustosissima, perché sa di pollastra e di
selvaggina insieme.
Il momento così desiderabile è quello in cui il fagiano comincia a decomporsi: allora il suo aroma si
sviluppa e si unisce a un olio che per venir fuori aveva bisogno di un po' di fermentazione, come
l'olio del caffè, che si ottiene solo dopo l'abbrustolimento.
Quel momento si manifesta ai sensi dei profani con un leggero odore e col mutamento di colore del
ventre dell'uccello, ma gl'ispirati lo indovinano per una specie d'istinto che agisce in molte
occasioni, che per esempio suggerisce ad un abile rosticciere di decidere alla prima occhiata se un
uccello dev'esser tolto dallo spiedo o se invece deve fare qualche altro giro.
Quando il fagiano è arrivato a quel punto, bisogna spennarlo, non prima, e dev'essere accuratamente
lardellato scegliendo il lardo più fresco e più sodo.
Non è inutile l'avvertimento di non spennare il fagiano troppo presto: esperienze molto ben fatte
hanno insegnato che i fagiani conservati con le penne sono assai più profumati che quelli rimasti a
lungo nudi, sia che il contatto all'aria neutralizzi parte dell'aroma, sia che parte del sugo destinato a
nutrire le penne venga riassorbito e serva a far più sostanziosa la carne.
L'uccello così preparato dev'essere vestito: e si fa così.
Prendete due beccacce, disossatele e vuotatele in modo che ne vengano due parti: una di carne,
l'altra d'interiora e fegatini.
Poi prendete la carne e fatene un ripieno tritandola con midollo di manzo cotto a vapore, un po' di
lardo sminuzzato, pepe, sale, erbe odorose e tanti tartufi quanti ne occorrono per riempire l'interno
dell'animale.
Avrete cura di fissare questo ripieno in modo che non si spanda al di fuori, cosa un po' difficile se
l'uccello è avanzato. Però ci si arriva con vari mezzi, e tra gli altri, tagliando una crosta di pane che
si attacca con un nastro e che fa da otturatore.
Preparate una fetta di pane che superi di due pollici da ogni lato le dimensioni del fagiano disteso
per lungo: poi prendete i fegatini e le interiora delle beccacce e pestatele con due grossi tartufi,
un'acciuga, un po' di lardo sminuzzato e una quantità bastante di buon burro fresco.
Stendete ugualmente tale pasta sulla fetta di pane e collocate questa sotto il fagiano in modo che
s'impregni bene di tutto il sugo che ne gocciola mentre si arrostisce.
Quando il fagiano è cotto, servitelo con grazia sulla fetta di pane, circondatelo di arance amare e
abbiate fiducia nell'effetto.
Questa pietanza di nobile sapore dev'essere inaffiata di preferenza col vino dell'alta Borgogna; ho
ricavato tale verità da una serie di osservazioni le quali mi sono costate più fatica che tutta una
tavola di logaritmi.
Un fagiano così preparato sarebbe degno di comparire sulla tavola degli angeli, se essi
camminassero ancora per il mondo come ai tempi di Lot.
Ma che dico? L'esperienza è stata già fatta. Un fagiano vestito fu preparato, sotto i miei occhi, dal
bravo cuoco Picard, nel castello della Grange, ove abita la mia bell'amica signora de Ville-Plaine, e
fu portato in tavola dal maggiordomo Louis, che incedeva con passo solenne. Fu esaminato con lo
stesso interesse che se fosse stato un cappello della signora Herbault, fu assaporato attentamente, e
durante questo sapiente lavoro gli occhi delle signore brillavano come stelle, le loro umide labbra
sembravano di corallo e le fisionomie erano estatiche.
Feci di più: ne presentai uno simile a una riunione di magistrati della Corte di Cassazione che sanno
come occorra qualche volta deporre la toga senatoria, e ad essi dimostrai facilmente che la buona
tavola è un giusto compenso delle noie giudiziarie. Dopo un conveniente esame, il decano scandì,
con voce grave, la parola: "Eccellente!". Tutte le teste si chinarono in segno di assenso e la sentenza
fu approvata all'unanimità.
Durante il processo io avevo osservato che i nasi di quegl'illustrissimi erano agitati da movimenti
molto visibili di olfatto, che le auguste fronti dimostravano una tranquilla serenità e che le veridiche
bocche avevano un che di giubilante che arieggiava ad un mezzo sorriso.
Del resto, tali effetti meravigliosi sono naturali. Cucinato secondo la ricetta che abbiamo esposta, il
fagiano, già squisito per conto suo, s'imbeve di fuori del saporito grasso derivato dal lardo che si
carbonizza, s'impregna di dentro dei fluidi odorosi che emanano dalla beccaccia e dal tartufo. La
fetta di pane già così riccamente guarnita riceve ancora i sughi triplicemente combinati sgorganti
dall'uccello che si arrostisce.
Così di tutte le buone cose che si sono riunite, neppure la più piccola particella sfugge
all'assaporamento: e data la squisitezza di questo piatto, io lo credo degno delle più nobili mense.
Chi ha scritto queste pagine condite di così fino epicureismo, per esse sole meriterebbe di passare
all'immortalità; ma la sua squisita ghiottornia non gli impedì di essere uno degli uomini più
rimarchevoli del suo tempo (1755-1826). Fu deputato agli Stati Generali; poi all'Assemblea
Costituente, Consigliere di Cassazione e quel che più importa magistrato liberale e coraggioso;
nemico d'ogni violenza, venisse poi dall'alto o dal basso. Queste virtù, rare in ogni tempo, gli
valsero l'esiglio. A Nuova York visse dando lezioni di francese e suonando nei teatri. Ritornato in
patria fu nominato segretario dello Stato Maggiore dell'armata francese in Germania, poi
commissario del governo presso il tribunale di Seine et Oise e dopo il 18 brumaio passò alla Corte
di Cassazione, dove visse gli ultimi venticinque anni della sua vita.
Quanto alla sua virtù di scrittore basti citare ciò che lui scrisse il più grande forse dei prosatori
francesi, il Balzac:
A partire dal XVI secolo, se si fa eccezione per La Bruyère e La Rochefoucauld nessun prosatore ha
saputo conferire alla frase francese un rilievo così vigoroso; ma ciò che distingue soprattutto l'opera
di Brillat è il comico al di sotto della bonomia, carattere peculiare della letteratura francese della
grande epoca che iniziò con la venuta di Caterina de' Medici in Francia e si chiuse con la sua morte.
Così la Fisiologia del gusto piace alla seconda lettura anche più che alla prima.
Eppure vi sono molti idioti che credono la gola un peccato mortale e degno solo di gente volgare e
di tipo molto basso. Essi forse non hanno mai letto la sentenza del gran cuoco Brillat-Savarin:
Les animaux se repaissent, l'homme mange, l'homme d'esprit seul sait manger.
Dove però la gola stravince nelle sue dolcezze l'amore è nel poi.
Il vecchio che ha pranzato bene, che ha nascosto le fatiche della digestione con una tazza ardente di
ottimo caffè, si siede o meglio si sdraia, abbandonandosi alle infinite delizie del chilo. Se parla,
risponde a mezz'aria e come in sogno e adagiando tutte le membra nelle profondità voluttuose di
una poltrona o di un'agrippina, cade in estasi. Estasi di compiacenza: compiacenza di aver adempito
molto bene ad uno dei doveri massimi dell'uomo animale e di aver goduto uno dei più grandi
piaceri dell'uomo intelligente.
E i piaceri per lui hanno sempre il carattere di un frutto proibito; ciò che li acuisce, li affina e direi li
spiritualizza.
Per mangiar molto, per mangiar bene com'egli ha fatto, ha dovuto fare i conti con la gotta e col
ventricolo non più vigoroso come a vent'anni. Egli ha dovuto ricordare i consigli del medico e i
precetti dei libri d'igiene studiati da lui con largo benefizio d'inventario. Nel piacere goduto c'è un
po' di birichineria. Egli l'ha fatta in barba all'igiene e alla Facoltà di medicina, e la facile espansione
del suo ventricolo e il languido tepore che lo innonda per ogni parte gli danno la beata sicurezza,
che anche questa volta avrà saputo canzonare Esculapio e i suoi sacerdoti.
Fra un dormiveglia saporoso e soporoso e un ricordo di altri pranzi egualmente fortunati, gli
passano dinanzi tutti i sapori e gli odori della mensa abbandonata da poco.
Ah quel Sauterne come gli ha imbalsamato le labbra, la lingua, il palato! Come ha salutato
festosamente l'ultimo profumo di quella trota tenerella, là in fondo alla bocca; proprio sulle
frontiere del sensibile e dell'incosciente. Pareva del Chateâu-Yquem!
E quell'ala dorata di fagiano, quanti aromi nettarei aveva assorbito! Aveva in sé i profumi del
tartufo e della beccaccia, che gli avevan tenuto compagnia nel sapientissimo laboratorio di un'aulica
cucina!
Quanti ricordi di voluttà recenti, quanti progetti giocondi di peccati futuri!
Purché non venga la gotta, purché non faccia un'indigestione...
Ma l'ala del sonno si posa sulle palpebre del vecchio beato, confondendogli sapori, odori e paure.
E tutta quella beatitudine goduta senza tradire l'amico, senza prostituire il corpo alla compera della
voluttà; una festa senza rimorsi, una vittoria senza morti e senza feriti, che si potrà rinnovare presto,
fors'anche domani...
È in quell'ora di chilo che forse il mio vecchio felice dà ragione al Brillat-Savarin, che faceva di
Gasterea una decima musa, quella che presiede ai piaceri del gusto e ch'egli descrive sotto la figura
di una fanciulla, dai capelli neri, dagli occhi profondamente azzurri, dalle forme piene di grazia, con
una cintura del color del fuoco. E aggiunge che "elle est belle comme Vénus; mais elle est surtout
souverainement jolie ".
Capitolo Sesto
L'avarizia nel vecchio
Cum cuncta vitia in cene senescunt,
sola avaritia iuvenescit.
SANTI PADRI
Quando ero giovane, ho dato; da vecchio domando.
PROVERBIO DEL DARDISTAN
La patologica e la fisiologica
Da Orazio al Raiberti, che lo parafrasò stupendamente in dialetto milanese, satirici e moralisti furon
tutti d'accordo nel flagellare con lo scudiscio della satira e con lo sdegno della morale oltraggiata
l'avarizia. Non vi fu un aggettivo vituperevole che bastasse a ferirla, né frase sanguinosa per
offenderla.
A volta a volta peccato mortale davanti al confessionario e vizio immondo al tribunale della
pubblica opinione; qualcosa di vile, di abietto, di sudicio, di paradossale. E se volete persuadervi
del concetto etico e sociologico, in cui i più tengono l'avarizia, dovete studiare la mimica del nostro
volto, quando accusiamo un tale di avarizia.
La parola è l'ombra del pensiero e il gesto mimico, che accompagna una parola, che sia giudizio di
qualcuno o di qualche cosa, la rinforza e gli aggiunge un valore psicologico massimo. È un terreno
sfuggito finora all'osservatore e che è sfuggito anche a me, che pure ho dedicato tutto un volume
allo studio della fisonomia e della mimica [1]. Propongo questa miniera vergine ai posteri: La
mimica degli aggettivi.
Eccone le prime linee:
Voi dite: Che libertino è Tizio!
E intanto i vostri occhi luccicano e le labbra si baciano l'un l'altro e poi anche la lingua bacia la
vostra bocca: tutta una mimica erotica e libertina.
Caio è troppo superbo!
E il nostro capo si erige alto sulle spalle e le gote si gonfiano e ne esce il soffio pieno e rumoroso
del millantatore. Sempronio è un gran furbo!
E voi ghignate con un occhio e stirate all'insù un angolo della bocca, come se esprimeste la
diffidenza e suonaste la campana dell'allarme.
E infine, se voi date dell'avaro a Martino, strizzate gli occhi, arricciate il naso e sollevate le labbra,
come se sentiste un puzzo; il che vuol dire, che al cospetto degli uomini l'avarizia è fra la cose
vituperevoli e ributtanti.
Si può dire libertino, superbo, furbo, avaro, in mille lingue diverse e quindi con mille diversi suoni;
ma il gesto che accompagnerà questi aggettivi sarà quasi sempre eguale, rappresentando così quel
linguaggio universale che è la mimica, la grande fratellanza umana.
E perché il consenso di tutti i tempi e la mimica di tutte le faccie umane è andata d'accordo nel
flagellare l'avarizia? Perché fu posta fra i vizi immondi, fra le più basse passioni?
Perché l'avarizia offende il nostro egoismo, che perdona cento volte più facilmente i peccati
d'amore, che anche a noi possono portare o promettere qualche zuccherino.
Perché il giurì, che è l'inconscia e poco onorevole denudazione della natura umana, condanna il
ladro e anche l'assassino, che ha ucciso l'amante della moglie.
L'avaro è per noi un ladro, che ruba alla società umana il tributo del denaro, che dovrebbe entrare
nel grand'alveo della circolazione, fecondando il campo di tutti; e quindi anche il nostro. Con la
solita ipocrisia, però, che fa da vernice a tutti i nostri giudizi, ai nostri usi, alle nostre istituzioni;
vituperando l'avarizia abbiamo cura di dire, che questo vizio è una mostruosità, perché priva l'uomo
di tutti i comodi e di tutte le gioie che gli vengono dal denaro. L'Io nostro, il piccolo, è molto
nascosto o si confonde con l'Io sociale, l'Io grande, di cui siamo tutti, consapevoli o inconsci,
difensori e avvocati.
Non crediate però ch'io voglia difendere l'avarizia e da peccato mortale redimerlo e sollevarlo a
virtù.
No, e poi no: voglio soltanto fare con voi un po' di analisi fisiologica di questa forma psichica, di
cui distinguo subito due forme molto distinte e diverse.
Vi è l'avarizia patologica e la fisiologica. La prima è un vizio, è una malattia psichica e merita tutte
le contumelie dei satirici e dei moralisti. La seconda è una mezza virtù, è un pèché mignon.
L'avaro patologico è un uomo che adora l'idolo e non il Dio, e che è innamorato del denaro, come
rappresentante della massima forza e del piacere; lo ama, lo difende; lo palpa, lo accarezza e se ne
fa adoratore assiduo e ardente.
Per lui il denaro non è più lo strumento dello scambio e del commercio, non è più il rappresentante
di tutte le delizie della vita; ma è un Dio esistente di per sé e che è bello, perchè potente e grande,
perché tutto abbraccia e sottomette. E così come il poligamo libertino ad ogni unità femminea, che
aggiunge al proprio harem, gode una nuova gioia, anche quando questa è potenziale soltanto e non
attuale; così l'avaro accresce le sue compiacenze, quanto più arrotonda i suoi capitali e ingrandisce
le sue casse.
E siccome ogni spesa assottiglia il suo tesoro, così tormenta se stesso e la propria fantasia per
ridurre al minimo l'uscita; privandosi d'ogni festa, d'ogni larghezza di lusso, d'ogni tripudio di
allegrezza. E soppresso il superfluo, lima anche il bilancio del necessario; ogni giorno, ora
contrastandogli il terreno e godendo di una sovrumana voluttà nel sagrifizio che si impone; in ciò
poco diverso dell'amore, dell'amor materno, di tutte le grandi passioni umane, che nel sagrifizio
trovano la sorgente più feconda di gioie.
Suo idolo, suo Dio il denaro, e ad esso l'avaro sacrifica ogni altra gioia, felice di soffrire per l'amor
suo, che per lui rappresenta tutte le energie, tutte le possibilità; la soddisfazione di tutti i desideri.
La formula psichica dell'avaro è una equazione semplicissima, chiara come 1+1=2.
Tutti i pensieri, tutti gli affetti, tutte le energie sacrificate a un Dio solo, il denaro. Per lui vivere, per
lui godere, per lui soffrire. E davanti a sé una fame che non si sazia mai, una sete che non si
estingue; l'infinito palpabile; un ideale insomma, che basta alla felicità umana perché non muore
che con l'ultimo respiro; perché non conosce disinganni, perché non ha bisogno di alcuno.
Immaginate voi la gioia morbosa, intensa di quel marchese che avendo scoperto che nei fornelli
della propria cucina, insieme alla cenere, ardevano molti carboncini che andavan perduti diede
l'ordine perché la cenere fosse stacciata, e i carboncini fossero messi a parte per servire a cuocere il
caffè del mattino?
Immaginate voi l'allegrezza di quell'altro, che raccogliendo la ceralacca delle lettere raccomandate,
dopo pochi mesi poteva darla al cartolaio per averne un paio di cannuccie di ceralacca?
Pensate voi alla compiacenza di quell'illustre fisiologo, che ad un pranzo dato in suo onore, allo
stappare dello champagne, andava sotto la tavola per raccogliere i tappi, che gli potevan servire per
le sue esperienze; risparmiando qualche soldo per comprarne di nuovi?
E faccio punto, perché se volessi numerare tutte le fantasiose invenzioni degli avari per risparmiare
una lira, un soldo, anche un centesimo, non la finirei più.
Sì, l'avaro giunge ad essere crudele e puerile per appagare la propria passione. Patisce la fame e
affronta il ridicolo; il colmo della pazzia e dell'eroismo in omaggio di una passione. Vincer la fame,
il più formidabile e il più animalesco dei nostri bisogni; affrontare il ridicolo, che piega anche gli
atleti della volontà, che fa paura anche agli eroi!
Vi sono forme così feroci, così crudeli dell'avarizia, che toccano le frontiere orrende del sadismo,
tanto che vorrei farne una specie, che raccomando agli studiosi della patologia psichica e che
chiamerei l'avarizia sadica.
Fin qui però questa passione (che davvero per la sua forza e per il suo andamento merita questo
nome) non s'aggira che nell'ambito di un individuo. È un tumore morale, che cresciuto in un
organismo, sacrifica organi e funzioni a se stesso, e di se stesso pascendo, vive e muore nella
frontiera dell'Io. È Origene che si mutila per non peccare.
Ma l'avaro raramente può essere uomo sciolto da ogni vincolo di famiglia, da ogni dovere sociale.
Egli può aver una moglie, dei figli, dei vecchi genitori; e allora al suo altare non bastano più i suoi
tributi personali; ma sacrifica anche i più santi affetti, i doveri più sacri. Non contento di patire egli
stesso, fa patire anche gli altri. Non vi ha voce di dolore o lamento che lo commuova. Quella stessa
fantasia ingegnosa, che gli aveva fatto trovare i carboncini nella cenere dei suoi fornelli, gli viene in
aiuto per trovare che anche i suoi figli possono privarsi di ciò che a lui non è necessario, e di
transazione di coscienza in sofismi scivola poco a poco nella più crudele, nella più feroce
violazione dei doveri di padre, di marito, di fratello, di uomo sociale.
È il ladro, che dalle volgari arti del furto, passa alle glorie più alte dell'assassinio. È il passaggio
brusco e violento dal carcere correzionale alla galera e alla forca. È la passione suicida e omicida,
che non conosce più frontiere al possibile, né ardimenti alla violenza. È il sadismo dell'avarizia
spinto al colmo della patologia più vile e più ributtante.
Ma all'infuori di questa avarizia, che appartiene alla patologia, ve n'ha un'altra fisiologica, che è una
delle tante armi con cui il vecchio deve difendersi.
È un'economia un po' esagerata del denaro e che va insieme a tutte le altre economie, che egli è
costretto a fare. È una riduzione del bilancio passivo, è una forma di prudenza e di previdenza.
Il giovane può essere prodigo, l'adulto può esser largo; il vecchio deve essere economo e
dall'economia all'avarizia non v'ha che un passo.
Il giovane può osare, può rifare la propria fortuna, può godere dell'altalena vertiginosa, che volta a
volta lo innalza nelle beate sfere della ricchezza per piombarlo subito dopo nella miseria. Il giovane
non cammina, ma salta e il bastone è per lui un gingillo di moda, ma non mai una terza gamba,
come è per il vecchio.
Per questo, i salti sono pericolosi e il bastone è un aiuto. L'economia è per lui la terza gamba.
Ammetto benissimo, che si può esser vecchi senz'avarizia; ma io parlo della grande maggioranza
degli uomini.
Questi con la lunga vita hanno imparato a diffidare della generosità del prossimo e soprattutto, se
hanno dignità d'uomo, sdegnano d'ispirare la compassione e di stender la mano; fosse pure alla
moglie o ai figliuoli.
Il vecchio sano nel corpo e nel pensiero accetta l'affetto, la tenerezza, le carezze più delicate e i più
delicati accorgimenti del cuore; ma non vuole ispirar mai la compassione, che lo diminuisce e lo
avvilisce. L'indipendenza economica è la sua dignità d'uomo, quella che gli fa tener alto il capo,
malgrado tutte le debolezze, che lo insidiano e lo piegano.
E all'economia egli ci pensa tanto da scavalcare d'un tantino le frontiere, che lo separano
dall'avarizia.
È un'avarizia benigna, carina, ch'egli esercita non per sé solo, ma per i suoi cari; dacché egli vuole
essere ricordato con riconoscenza, anche quando egli non sarà più di questo mondo. Più d'una volta
il suo gruzzolo di economie sarà disperso da eredi scialacquatori, ma ciò non gli importa.
Scomparso dai vivi non sentirà né l'ingratitudine, né l'obblio.
Ho conosciuto un vecchio che con il lavoro fortunato era riuscito a farsi milionario e che negli
ultimi anni della sua vita era divenuto cieco. Orbene, sua massima gioia era quella di rinchiudersi
nel suo studio e di numerare i biglietti di banca, che aveva addensato nello scrigno. Li conosceva
tutti al tasto e li ordinava secondo il loro valore e li palpava amorosamente; alternando quelle
carezze con altre date ai marenghi e alle svariate monete d'oro d'ogni conio e d'ogni paese e che
faceva risuonare al suo orecchio gaiamente, lungamente.
Era un uomo d'ingegno, e quel suo spasso, che bastava a farlo felice, non era un gioco puerile; ma
una tacita e intensa adorazione di uno fra i massimi fattori della civiltà, del progresso; una delle
fonti più feconde d'ogni opera buona (checché ne dicano i socialisti calunniatori del capitale).
Egli rideva spesso tra sé e sé, palpando quei biglietti e facendo saltellare le monete.
E perché rideva?
Rideva pensando a tutte le trasformazioni, di cui eran capaci quei fogli e quei dischetti d'oro.
Ecco qui; questo foglio da mille potrebbe comprare la virtù di dieci ragazze almeno o corrompere
l'onestà di un impiegato, di un doganiere, di un giudice.
Quanto male potrebbe fare questo foglio! - Ma viceversa potrebbe salvare dal suicidio un
poveraccio, a cui scade una cambiale; potrebbe per un anno intiero difender dalla fame una
famigliuola; potrebbe permettere a un giovane bravo e povero di fare gli studi ad una università.
E quest'altra povera monetina da una lira, nella sua piccolezza quante cose può fare! Tra le altre, per
esempio, sminuzzata in venti soldi procacciare venti sorrisi da venti conduttori, quando io dessi loro
un soldo di mancia. E m'avrei qualcosa di più d'un sorriso. Anche una scappellata! - Un sorriso e un
saluto per un soldo! Ma quel soldo è un sigaro non previsto nel bilancio della giornata, e alla fin dei
conti, se la gratitudine è maggiore del dono, ciò non prova che l'uomo sia una creatura vile, ma
prova soltanto che per il povero conduttore un sigaro può dare un gran piacere.
Se la Venere medicea potesse narrarci tutte le voluttà de' sensi e del pensiero, tutte le opere d'arte
che ha risvegliato nei mille e mille uomini d'ogni tempo e d'ogni paese, che l'hanno contemplata; e
se tutti questi tesori estetici e voluttuosi potessero tradursi in una cifra, che ne significasse il valore,
si troverebbe di certo, che quella statua greca vale almeno quanti diamanti pesa.
E con un gran salto, scendendo al denaro, anche la sua contemplazione ha risvegliato pensieri e
gioie e opere, che figurano nel bilancio del bene nel gran libro dell'umana famiglia.
Nell'avarizia tutti hanno veduto la forma patologica, perché vi hanno scorto la poesia e le idealità,
che possono esserle compagne.
Non è soltanto in amore, che il prima è spesso la parte migliore; ma in quasi tutti i tesori concessi
all'uomo, la potenzialità avanza l'attualità, se mi permettete (per una volta sola) di prendere in
prestito le mie parole alla metafisica.
Spendere il denaro per soddisfare un desiderio fu, è, e sarà sempre una delle maggiori compiacenze.
Ma il contemplare il denaro, pensando a tutti quanti i mille desideri che potrebbe soddisfare, a tutte
le trasformazioni, a tutti i travestimenti di cui è capace è godere in potenza mille gioie in una volta
sola, conservando pur sempre la forza motrice; che anche domani, anche posdomani e sempre potrà
farci nascere i desideri nuovi e aprirci orizzonti nuovissimi in quel cielo lontano, dove regnano i
sogni e le chimere che son pur sempre la parte più bella della nostra vita.
Il fare è bello, ma dopo aver fatto il più delle volte non ci rimane altra risorsa che disfare.
Invece il sapere di poter fare è cosa grande e bella e gioconda, che cresce stima a noi stessi e fede
nell'avvenire. E il denaro è l'unica cambiale pagabile a vista in ogni tempo e in ogni luogo.
Sopra ogni biglietto di banca, sopra ogni moneta sta scritto in caratteri invisibili ai più la bella
parola posso; ma il vecchio la vede, la legge e la rilegge con amore, con intima gioia; sicuro che
egli potrebbe tradurla da un momento all'altro nell'altra bellissima: voglio.
Perdonate dunque al vecchio la sua avarizia fisiologica, quella che non fa male ad anima viva e che
egli concede tante segrete e profonde allegrezze.
Capitolo Settimo
Le grandi virtù e le grandi gioie della vecchiaia
... senectus nihil aliud quam
canus sapiensque intellectus
SANTI PADRI
Vi sono molte e diverse virtù, che chiamerei negative e dalle quali ripugniamo soprattutto quando
siamo giovani.
Sono l'economia, la prudenza, la pazienza, l'indulgenza, la tolleranza, la modestia: tutte cose ottime
e commendevoli; ma che mal si accordano con la spensierata gaiezza dell'età primaverile. Virtù
cristiane e buddistiche per eccellenza, perché si informano sulla fede, che fa della vita terrena un
breve passaggio alla vita eterna o fa del nirvana lo scopo ultimo della nostra esistenza. Virtù che il
giovane loda assai, ma pratica poco, e che a bassa voce battezza per antipatiche. Quando poi egli è
di cattivo umore, perché deve praticarle per forza, esclama irato:
"Felici coloro, che non hanno mai bisogno né di essere economi, né di essere prudenti, né pazienti,
né indulgenti, né tolleranti".
Meno male per la modestia: con un po' di facile ipocrisia si può essere superbi di dentro e modesti
di fuori!
Mano mano gli anni passano e le forze diminuiscono, quelle virtù negative si vanno facendo sempre
più utili, più necessarie; finché pigliamo un vero gusto nell'esercitarle. Sono corazze, che ci
difendono da tanti malanni, sono callosità provvide e pietose, che ci difendono da tanti attriti
sociali, dalle punture di tanti insetti umani: più noiosi e più velenosi delle zanzare, delle mosche e
delle pulci.
I carabinieri, le guardie di pubblica sicurezza non sono di certo i più simpatici personaggi della
nostra società civile, ma son necessari; e nessuno di noi oserebbe maledirli o torcer loro un capello.
Or bene quelle virtù negative sono altrettanti carabinieri, ai quali affidiamo la difesa di tante cose
preziose nel giro piccino del nostroIo. A forza di guardarli e di ringraziarli per il bene che ci fanno,
si finisce per trovarli anche belli e li salutiamo con rispetto, se non con amore.
Le virtù negative, le virtù difficili son come i sigari o come l'assenzio. Si incomincia a trovarli
amari o nauseosi e poi si forma un palato nuovo, che sa apprezzarne i reconditi pregi; finché non
possiamo farne senza e ci divengon necessari quanto il pane e l'aria.
Per conto mio confesso, che farei senza piuttosto della camicia, che della triplice corazza di
pazienza e di indulgenza, che mi son messo intorno alla fragile pellicola della mia nervosa
personcina.
La pazienza
All'economia ho già dedicato tutto un capitolo. Vediamo di studiare le altre virtù negative, che
indorano l'orizzonte del vecchio sano e felice.
Il giovane è per sua natura poco paziente. Ha la pelle fina e irascibile e ogni puntura di spillo è per
lui un'offesa fatta alla sua dignità e contro cui reagisce violentemente. Non offende e non vuol
essere offeso; cerca la gioia e la vuole piena, festante. Ha molto da fare e non vuol esser seccato.
Quando sulla via trova un seccatore o una seccatura, getta l'uno e l'altra da parte; senza badare se il
suo pugno abbia fatto male a qualcuno o a qualche cosa.
Non essendo paziente, non è tollerante, né indulgente; dacché la tolleranza e l'indulgenza sono
figliuole legittime della pazienza.
Il vecchio invece ha imparato con una lunga e spesso dolorosa esperienza che molte seccature sono
necessarie condizioni della vita, e che il volerle abbattere con la violenza è lo stesso che dare un
pugno ad un tronco, che ci contende il cammino. Il tronco rimane al suo posto e la nostra mano ne
rimane ferita o storpiata. E il vecchio si guarda bene dal voler abbattere la pianta, ma la gira,
continuando il suo cammino.
Il giovane quando coglie le rose è ben raro che non si punga e non ne abbia insanguinate le mani. Il
vecchio coglie le rose e non si punge mai.
La pazienza è buaggine, quando si sopportano i dolori, senza calmarli o guarirli con l'igiene della
filosofia o con la terapeutica delle forze avverse.
La pazienza è virtù, quando si sopportano i dolori non sanabili né con l'igiene né con la terapia.
Il lamento breve, automatico può essere il grido spontaneo e irresistibile della natura offesa; ma
quando dura, è la confessione umiliante della nostra debolezza, della nostra impotenza.
È verissimo che la pazienza è resa più facile al vecchio, perché in lui è minore la sensibilità; ma non
cessa per questo di essere una virtù, ch'egli è andato acquistando con lunga fatica.
Egli ha anche imparato a sue spese che nulla è più prezioso del tempo e le ore o i giorni spesi nel
lamentarsi sono una pura perdita del più prezioso dei capitali. I grandi uomini hanno trasformato i
loro dolori in grandi opere d'ingegno o in alti eroismi. Goethe guarisce da un amore infelice
scrivendo il Werther; e Garibaldi fulminato da una sventura crudele e umiliante pel suo cuore,
guarisce con la spedizione dei Mille.
Senz'essere né Goethe né Garibaldi tutti i vecchi trasformano i loro dolori, i loro disinganni in
pazienza; in una pazienza non vile, ma saggia, in una rassegnazione che non è soltanto cristiana, ma
umana; in una forza d'inerzia che resiste al male e lo vince. Ad impossibilia nemo tenetur: egli
ripete a se stesso e più volte questo assioma, che diventa guida fedele nel cammino della vita, così
pieno di spine, di ostacoli e di inciampi.
Molti anni or sono alle mie lezioni pubbliche di antropologia non mancava mai una vecchia signora,
che mi ascoltava con viva attenzione e a cui io guardava più volentieri che a cento altri uditori
perché aveva nel volto un eterno sorriso, fatto di bontà e di contentezza.
E speravo sempre che mi si offrisse un'occasione per conoscerla da vicino e scoprire il segreto di
quella felicità, che irradiava intorno a sé la simpatia e l'ammirazione.
Un giorno essa venne a domandarmi uno schiarimento ed io non potei resistere alla tentazione di
confessarla.
"Ella deve essere ben felice, cara signora, perché le si legge in faccia una perpetua giocondità e fa
tanto piacere il guardarla, ch'io nelle mie lezioni spesso non parlo che per lei."
La buona signora si mise a rider forte, ma non disse verbo.
Ed io:
"Ella deve avere una famiglia, che la circonda di tenerezze e di amore, dei nipotini che giocano con
lei..."
E la buona signora, ridendo ancora, si scoprì un braccio: "Ella già è medico e non avrà ribrezzo di
vedere una cosa molto brutta..."
Aveva una piaga cancerosa estesissima, che le divorava pelle, muscoli, ossa...
"Oh povera signora, quanto deve soffrire... Ma come può ella assistere alle mie lezioni col volto
sempre sorridente... perché ella deve soffrire dolori atroci..."
"Sì, ma non sempre. Ed io sorrido, perché sono paziente e non voglio ispirare compassione o
ribrezzo ad alcuno. So che di questo male devo morire e cerco di passare meno male possibile i
miei ultimi giorni. Assisto a molte lezioni, vado in teatro e soprattutto mi diverto con me stessa,
mostrandomi più forte del mio male. È una specie di amor proprio, di eroismo modesto quello di
vincere il dolore e di mostrargli, che io sono più forte di lui. Quando non ne posso proprio più e mi
scappa un lamento, anche quando nessuno lo sente, io mi trovo avvilita; quasi come deve esserlo un
generale, che ha perduto una battaglia, o un avvocato che ha perduto una causa, e mi propongo di
essere più brava un'altra volta. L'assicuro che son riuscita a stare sette giorni intieri senza dire un
ahi o un oh. E godo di questa mia bravura e quando mi vedono sempre sorridente e mi sento dire,
come mi ha detto lei: quanto deve esser felice! godo, godo assai, perché vedo di essere riuscita non
solo a nascondere la mia lurida piaga, ma anche i miei dolori. E son fiera di me stessa... Dirà, caro
professore, che la mia è una mania singolare, ma è però una mania che mi tien viva e mi fa superba
di essere un po' diversa da tutti gli altri, che con un male molto minore non fanno che lamentarsi,
seccando tutti..."
Strinsi la mano più volte a quella brava donna, dimostrandole tutta la mia ammirazione.
Ebbi anche un amico, che è morto di 82 anni e senza malattia, passando dal sonno alla morte, senza
che nessuno se ne accorgesse. Egli non aveva nessuna piaga sul corpo, ma soffriva di qualche
acciacco dell'estrema vecchiezza. Eppure era sempre gaio, sempre disposto a sorridere a tutte le
infinite bellezze della natura e a ridere cordialmente e senza fiele delle più che infinite ridicolezze
umane.
Egli mi diceva sempre: se il fiato che sprecano nel lamentarsi tutti i vecchi lo adoperassero a soffiar
via lontan lontano da sé fastidi e i pensieri di color oscuro, non maledirebbero la vecchiezza, che ha
per sé tante care e buone cose. Contro i mali inevitabili io ho il contravveleno della pazienza, che
adopero in diversa dose a seconda della importanza del veleno. E poi a furia di ottimismo son
riuscito a scoprire che un uomo tutto quanto perfido e un fatto intieramente sciagurato son due cose
che non esistono in natura e credo non potranno mai esistere. Ogni uomo ha un lato buono e ogni
disgrazia porta seco qualche bene; ed io mi ingegno a trovare il buono e il bene, e più è nascosto e
più mi diverto a trovarlo; precisamente come le sciarade più difficili a spiegarsi son quelle che più
ci divertono. Invece purtroppo la maggior parte degli uomini fa ogni sforzo per ingrandire il lato
cattivo degli uomini e delle cose, trascurando e dimenticando del tutto il lato buono.
Vi sono uomini disgraziati, che impiegano tutta la loro vita in questa sola pazza, stupida e fedele
occupazione di trovare il pelo nell'uovo; mentre quei pochi, che sortono da natura la fortuna di esser
felici, è perché cercano l'uovo nel pelo; fanno cioè l'opposto dei primi. Voi mi direte, forse ridendo,
che nessuno dei due riesce nel suo intento, ma io che son vecchio posso assicurarvi, che col
microscopio dell'ottimismo o col telescopio dell'idealità son sempre riuscito a trovare l'uovo nel
pelo; cioé dovunque e sempre un germe di meditazione o una scusa del peccato; un lato estetico
anche nei gobbi.... Ho trovato sempre il filo tessile nell'ortica e il profumo nell'assenzio.
L'indulgenza
La pazienza e l'esperienza, che non fanno rima soltanto nelle parole ma anche nell'armonia delle
umane cose, ci procurano quella cara e santa virtù che è l'indulgenza, tanto rara nela giovinezza,
tanto comune nella vecchiaia; a cui porge infinite dolcezze e a cui dà un'amabilità grandissima.
Fra la pazienza e l'indulgenza sta la tolleranza, che tiene dell'una e dell'altra e che le riunisce in un
vincolo di strettissima parentela.
Vi sono debolezze e viltà e iniquità nell'uomo, che non possiamo approvare, né giustificare; ma nel
giovane risvegliano lo sdegno e nel vecchio invece ispirano la tolleranza.
Nella gran fabbrica degli uomini, assai più difficile di quella delle ciambelle, vengon fuori dei
gobbi, dei nani, degli idioti, tanto nel corpo come nell'anima; e dacché non possiamo ucciderli,
dobbiamo accontentarci di tollerarli, studiando intanto di perfezionare quella fabbricazione, che
finora è sempre nello stato infantile e mitologico della più oscura ignoranza.
Dalla tolleranza all'indulgenza non vi è che un passo, e indulgenti son tutti i vecchi sani e buoni. Il
perdono è una virtù sublime della vecchiaia, e se la insegnò e la predicò Gesù Cristo, benché
giovane, fu il solo e meriterebbe il nome di un Dio anche per questo solo, di avere insegnato a
perdonare.
Guardatevi intorno e anche senza uscire dal giro ristretto della vostra famiglia, vedrete come
l'indulgenza cresca con gli anni.
Voi avete preso moglie e avete avuto parecchi figliuoli. Or bene col primo siete severissimo, col
secondo severo, col terzo giusto, con gli altri indulgente. I vostri genitori poi, nonni dei vostri
figliuoli, son con tutti indulgentissimi.
Di questa indulgenza si dà merito alla debolezza senile, e invece di quella virtù ha merito
l'esperienza degli uomini e delle cose.
Quando si è giovani, si ha una fede cieca nell'impotenza dell'educazione e si vuole che i nostri
figliuoli sieno altrettanti geni, altrettanti eroi; modelli di perfezione in tutto. E le armi pedagogiche
si maneggiano con crudele coraggio: l'emulazione, il castigo, le busse del corpo e le umiliazioni
dell'amor proprio. Nostra divisa è: chi molto ama molto castiga. E si sogna il beato sogno, che d'una
zucca si possa fare un popone e di un asino un cavallo.
Ma poi, poco per volta, siam costretti a confessare, che ad onta di tutto il nostro crudele e artificioso
armamentario della pedagogia la zucca è rimasta zucca e l'asino è sempre un asino. Tutt'al più la
zucca è divenuta un po' meno insipida e l'asino ha accorciato un tantino le proprie orecchie.
E allora si ripongono le ferule e gli scudisci, si ha vergogna di aver dato degli schiaffi e si viene a'
più miti consigli, accontentandosi di ammorbidire con un po' d'olio le ruote rugginose, di strappar
qualche spina, di arrotondare qualche punta. Miglioriamo la zucca e diamo un po' d'intelligenza
all'asino, senza più pretendere alle metamorfosi di Ovidio. Un po' per volta troviamo che anche la
zucca, anche l'asino hanno una missione in questo basso mondo; hanno anch'essi la loro utilità.
E diveniamo indulgenti.
Santa e cara e gioconda virtù, che spande una luce rosea su tutto ciò che tocca: santa e cara e
gioconda virtù, che ci fa simpatici a tutti dacché tutti hanno qualcosa da farsi perdonare, qualche
piaga da nascondere, qualche difetto, di cui devono arrossire.
Noi abbiamo in orrore specialmente quei difetti, che feriscono il lato più sensibile dell'anima nostra
e ci ribelliamo ad essi e vorremmo distruggere con il colpevole la macchia, che offende in noi il lato
estetico o morale; ma l'esperienza ci ha dimostrato, che né la ribellione, né lo sdegno possono
campiare il carattere degli uomini, e al posto dello sdegno abbiamo messo con gli anni il
compatimento; giudicando tutto e tutti con un'indulgenza grandissima.
Badate bene, che l'indulgenza non è rinunzia delle nostre convinzioni, né mancanza di fede nel bene
e nel male, né scetticismo cinico. Indulgenza vuol dire bontà e giudizio fusi insieme; e la nostra
dignità di galantuomini e di gentiluomini, non viene per essa ad abbassarsi di una linea; ché anzi ci
innalza ad una sfera superiore. Chi perdona sta sempre più in alto di chi è perdonato; mentre chi
disprezza e insulta, per disprezzare o insultare, deve scendere al livello del suo avversario.
Fra le tante virtù, che i cristiani hanno dovuto al loro Dio, forse la più bella è appunto quella della
misericordia; parola alquanto mistica, ma che tradotta in lingua povera vuol dire una infinita
indulgenza per tutte le umane debolezze, per tutti i peccati, che può commettere il fragile figlio di
Adamo e di Eva. È vero, che l'invenzione dell'inferno ha sciupato alquanto l'idea divina di quella
misericordia; ma parecchi teologi poco ortodossi, ma molto ragionevoli, hanno negato l'inferno,
accontentandosi del purgatorio; e questo si può conciliare anche con la misericordia, visto che gli
uomini non hanno né limite né creanza nel peccare e l'indulgenza eccessiva non deve poi esser più
grande della facoltà infinita al peccare!
Le opinioni
Anche all'infuori dell'indulgenza, che si esercita soprattutto nel campo morale e nel circolo della
famiglia e degli amici, il vecchio è tollerante per tutte le opinioni; purché non tocchino i dogmi
dell'onestà e della dignità umana.
All'infuori di questo sancta sanctorum, che giovani o vecchi dobbiamo tutti difendere e rispettare, il
vecchio, che non ha più né ciechi fanatismi, né ardenti passioni, sa che tanto a sinistra come a destra
e anche nel centro c'è del buono e c'è del vero, e pur conservando le proprie opinioni, rispetta le
altrui.
Il giovane è apostolo, ed è bene che lo sia. Il vecchio è convertito da un pezzo ad una religione
politica, etica e religiosa, che è sua e che non diserta più, pur senza avere la superbia di credersi
infallibile e di giudicar sbagliate tutte le opinioni contrarie alla propria. C'è posto, egli dice, per
tutti; per i codini e per i socialisti, per i cattolici e per gli atei. Tanto tanto dobbiam vivere gli uni
accanto agli altri. Vediamo di viaggiare di buon accordo, tollerandoci a vicenda. Rispettiamo le
nostre donne e i nostri averi, e basta.
All'apostolato poi il vecchio ha rinunziato da un pezzo. Crede poco alla sua efficacia e ha poco
tempo da buttar via. Sulle conversioni politiche, morali, religiose è molto scettico e diffidente, e ne
ha la stessa opinione che per l'onnipotenza dell'educazione.
Il nuovo lo interessa, si compiace dell'antico; ma sopprattutto gode del presente, che assapora
lentamente e con epicurea voluttà.
Il vecchio autocratico, codino, retrogardo, è o decrepito o malato. Concedo al vecchio d'essere
conservatore: anzi è fisiologico, è naturale ch'egli lo sia, ma retrogrado mai.
Il vecchio sano nel corpo, nel cuore e nel pensiero, guarda all'avvenire con la stessa compiacenza
con cui lo guardano il giovane e l'adulto. Soltanto è più prudente sui metodi per raggiungerlo:
fors'anche l'avvenire ch'egli sogna e spera sarà un po' diverso da quello che sogna e spera il
giovane, ma anch'egli lo desidera più giusto e meno ipocrita.
Il vecchio liberale è uno dei tipi più simpatici, più cari della umana famiglia.
Quando vedo e ascolto un uomo, che con i capelli bianchi, parla con entusiasmo e con calda fede
del progresso, del trionfo della verità giusta, della sana idealità contro la superstizione io mi sento
commosso e lo guardo con tenerezza piena di ammirazione. Provo la stessa alta emozione, che mi
danno le alte cime delle Alpi, quando le indora il sole. Neve e ghiaccio sì, ma frementi anch'essi
sotto il palpito di quel babbo celeste, che semina la vita sui suoi pianeti, dicendo a tutte le creature:
avanti, avanti sempre!
La rispettabilità
Non ultima gioia della vecchiezza è la rispettabilità che la circonda. Sia nei modesti travagli
dell'officina o dei commerci, come nelle sfere più alte dell'arte, delle lettere, o delle scienze, o nelle
svariate faccende delle professioni liberali; il vecchio deve essersi fatto un posto al sole, deve aver
acquistato una certa superiorità, che gli viene dalla lunga pratica. Egli deve essere un maestro, e i
francesi con fino accorgimento, con nessun'altra parola credono di onorare un grande artista o un
grande scienziato, che chiamandolo non cher maître.
E maître non si può essere quasi mai che con i capelli bianchi, maître non si può essere che dopo
essere stati modesti operai in una delle tante officine del pensiero, dopo aver sudato e pianto sul
calvario della gloria, provando e riprovando; alternando i sudori freddi del dubbio con la febbre
ardente della fede.
E il maestro riposa ormai contento di sé e degli scolari che lo circondano e lo ammirano, e nei quali
egli ha versato tanto tesoro di idee. Paternità sacra e veneranda più di quella che vien dal sangue,
perché nella coppa della vita non siamo noi soli i mescitori; ma nella scuola e nell'officina il
maestro è in una volta sola padre e madre, genitore duplice e sempre legittimo.
In molti casi maestro è più che padre, e povero, infelice quel padre, che giunto alla vecchiaia e
guardando i propri figli, non può dire con giusto orgoglio e intima compiacenza:
Io sono stato il loro maestro!
Capitolo Ottavo
Le piccole gioie della vecchiezza
.... optabilem esse senectutem juvenilem,
molestam vero juventutem senilem.
CHILONE
La pipa
Felice il vecchio, che non ha mai fumato e non invidia i fumatori; ma pur troppo gli amici del
tabacco son molti, e tutta la popolosa schiera degli infelici, dei malcontenti, degli annoiati trova
nella nicoziana un conforto, una sorgente feconda di piccole gioie.
Fra i fumatori, nessuno fuma meglio né con arte più epicurea del vecchio.
Se preferisce la pipa, ha per essa un culto, un'adorazione, che non si suole avere che per le cose più
sante.
Nessuno l'ha a toccare fuori che lui, nessuno la deve ripulire e tener tersa e lucente fuor di lui.
La pipa è per lui quasi una creatura viva, appunto perché vive con lui, accompagnandone i pensieri,
i ricordi, le voluttuose sonnolenze.
È anche per questo, che preferisce fumare nella solitudine della sua cameretta o della sua
passeggiata.
Due quadri della vita umana ho veduto spesso, in apparenza molto diversi, in sostanza molto simili:
una mamma che lava il proprio bambino, un vecchio che ripulisce la propria pipa.
E le mamme non gridino al sacrilegio, perché nel mondo dei viventi non v'ha fibra o cellula, che
non si con leghi per nervi invisibili alle fibre e alle cellule le più lontane.
La mamma amorosa contempla il suo angioletto e lo ammira e ne segue con l'occhio e con la mano
purificatrice i rosei contorni, palleggiandone le soavi rotondità, giuocherellando con le membra
minute, che guizzano e saltellano nell'onda amica. È una tempesta di carezze e di baci che copre il
ciangottar dell'acqua; è una profonda sensualità delle mani, che accarezzano, che palpano e direi
quasi che parlano con le carni tenerelle e fresche. Carni belle e palpitanti di vita e che son carni
della mamma, perché le ha fatte lei e le ricordano tutto un mondo di voluttà ardenti, di lunghi
dolori, di lunghissime trepidazioni.
E il vecchio ha la sua pipa, che per quanto fragile, ha già dieci anni di vita vissuti senza ferite e
senza accidenti, ma con molto onore; dacché le zone del tempo che fu vi hanno scritto la loro storia
in tante ondette, che dal bianco dorato vanno fino al nero dell'ebano. Quanto fumo è passato
attraverso i pori di quella lucidissima pietra e quante dolci meditazioni hanno accompagnato quel
fumo! In quelle tinte di ambra, di magogano, di noce, il vecchio ripensa mille pensieri giocondi e le
tante ore vissute senza dolore e senz'ira.
E quando la cava dal suo astuccio e la ripulisce cautamente, pazientemente, rispettando le carezze
del tempo, ma levando ogni granello di cenere e passando e ripassando per il fornello, per il tubo e
levigando l'ambra e rimettendola in assetto di guerra, prova un gran piacere, che ai non fumatori
può sembrare puerile, ma ai veri artisti della nicoziana è tutto un poema.
Chi ha veduto nella buvette del Senato il generale Durando con la sua eterna pipetta di gesso in
mano e l'ha seguito nelle amorose cure che le prestava, può intendere le infinite compiacenze del
vecchio fumatore, i suoi tanti e lunghi colloqui con la sua cara compagna di schiuma o di gesso.
Anche per il sigaro il vecchio può aver moine e carezze, ma la poesia è molto minore, perché si
rivolge a una creatura che vive un quarto d'ora.
Il sigaro è un amore di passaggio, la pipa è un'amante, anzi una moglie; ma una moglie rimasta
sempre amante.
La mano alquanto tremula, che sfila un Virginia e vi passa e ripassa la fida paglia, che gli ha tenuto
lunga compagnia, è una mano che gode.
La mano che taglia la punta di un biondo e nervoso Avana, è una mano felice, perché promette al
vecchio epicureo sogni e profumi.
Ma Virginia e Avana sfumano fumando e di loro ahimé non rimane che un po' di cenere; mentre la
pipa, dopo averci offerto l'olocausto del suo altare, rimane nel nostro taschino accanto al cuore;
tiepida dell'ultimo fiato, promettitrice di altre gioie future, fino all'infinito.
Abitudine e simmetria
Il giovane è vagabondo, versatile, amico del nuovo e dell'inaspettato.
Il vecchio è abitudianario e gode nel fare le stesse cose alle stesse ore, di rivedere le stesse persone
allo stesso tavolino del caffé, di trovare al mattino sullo scrittoio ogni cosa all'usato posto.
Dall'ordine delle cose e del tempo egli trae un inconscio augurio, che anche in lui le funzioni tutte
camminino regolarmente, che il pendolo misuri esattamente l'ordine dei suoi piaceri, delle sue
occupazioni.
Il vecchio non ama le sorprese, perché sono per lui urti improvvisi, che gli danno una scossa troppo
forte. Ama invece il ripetersi preciso delle stesse cose alle stesse ore; e quando l'appetito, la sete, la
voglia di fumare lo chiamano all'ora consueta e precisa, egli è felice di constatare l'armonia perfetta
di lui con le cose che lo circondano.
La simmetria vuol dire per lui salute, la puntualità nei ritrovi vuol dire galateo; il tic-tac del pendolo
poi non dice a lui le desolanti parole, che mormorava all'orecchio del grande poeta americano: ever
never (sempre, mai); ma proclama a voce sommessa, che l'ordine regna dappertutto: in cielo e in
terra, in casa e fuori, nel territorio del suo lo come nella gran patria, di cui è cittadino.
Curar la simmetria, mantener l'ordine, sono occupazioni carissime e quotidiane del vecchio; son
gioie che il giovane ignora quasi sempre e gode soltanto, quando una vecchiaia precoce gli toglie le
allegrezze della propria età per dargli in cambio quelle della vecchiaia.
La poltrona
Sarà questa una gioia egoista, ma è anche una gioia umana; quella cioé di star seduti e di veder gli
altri in piedi.
Sarà nel piccolo teatro della commedia o della tragedia o nel gran teatro del mondo sociale; ma voi
siete arrivato prima e avete trovato una sedia e vi restate. La vostra età vi dispensa di offrirla anche
alle signore e vi restate.
Non è forse vero, che tante e tante volte siete rimasto in piedi, stretto e soffocato dalla folla, che vi
pestava i piedi e vi apppestava con il suo fiato?
Non è forse vero, che per molti anni avete ceduto il vostro posto alle signore perché donne; ai
poveri perché infelici; ai bambini perché piccini; a molti e molti perché prepotenti?
Ma oggi siete vecchio e avete diritto a sedere prima d'ogni altro e vi sedete senza rimorsi; magari
forse in una soffice e profonda poltrona, che vi abbraccia tutto quanto, che vi fa sentire dal capo ai
piedi che ogni particella del vostro corpo s'adagia e riposa.
Se poteste, alzandovi e cedendo il vostro posto, far sedere tutti quelli che stanno in piedi, lo fareste
ben volentieri; ma ahimé sono troppi e son più giovani di voi e più forti. Pazienza! Si siederanno
anch'essi, quando voi, facendo l'ultimo viaggio, avrete lasciato loro libera la vostra sedia; quando
anch'essi avranno i capelli bianchi.
Per ora il sieduto siete voi, e vi perdono anche, se sorridete un pochino, cedendo l'andare e il venire
e l'affannarsi e lo strepitare dei molti, che cercano invano una sedia; fosse pure di paglia o di legno.
Tutti gli uomini nati sotto il sole possono sedere, dacché a tutti quanti la mamma ha dato l'organo
per poterlo fare; ma pur troppo non sono gli organi che mancano, ma le sedie. Anzi è appunto in
questo squilibrio fra i sederi e le sedie che sta il grande problema sociale e per la cui soluzione son
tante le proposte, quanti sono i cervelli umani.
Sia ad una conferenza o in una chiesa, in un teatro o in un meeting; se voi guardate d'un colpo
d'occhio tutti gli atteggiamenti dei seduti, vedrete quanto sieno diversi secondo la loro età. I giovani
son sempre seduti per metà, quasi volessero mantenersi pronti alla partenza. Hanno troppo da
vedere all'intorno, signore o amici o nemici. E poi hanno sempre come un piccolo rimorso di star
seduti, quando molti stanno in piedi e guardano allora in terra o fanno il distratto e guardano per
aria, come chi commette un peccato. C'è là nel fondo una signora in piedi, c'è un conoscente che è
zoppo, c'è un loro maestro, che invano hanno cercato una sedia. Ed essi son seduti; ma il rimorso
guasta loro la gioia del riposo e sono inquieti e dispiacenti. La sedia c'è, ma nel cuscino ci sono
nascoste delle spine psichiche.
Il vecchio invece non ha nel suo cuscino che voluttà; voluttà piena, senza alcun pentimento, senza
alcun rimorso.
Perché quesi signori che sono in piedi non son venuti prima, perché non hanno fatto una corsa? Io
son seduto e ci sto bene, anzi benissimo. E le mani del vecchio si appoggiano sul bastone per
aggiungere riposo a riposo e i suoi sguardi lentamente e lungamente girano all'intorno,
compiangendo i non seduti.
Egli possiede col diritto più sacro, quello dell'occupazione legittima.
Egli pronunzia entro di sé le parole del romanzo antico, ripetute in Roma da un gran re moderno:
hic sumus et hic manebimus optime.
Dal teatro, dalla sala, dalla chiesa portate il vecchio nel gran circo del mondo e anche là vedrete
ripetersi su più vasta scala la stessa scena; perché anche là nella scala della gerarchia avete pochi
seduti e molti in piedi, e le sedie son di tante e più categorie che nel teatro, nella sala e nella chiesa.
E anche là il vecchio rimane seduto beatamente e senza rimorsi, mormorando sempre:
Hic manebimus optime!
Libro vivo e parlante
Un'altra gioia del vecchio è quella di raccontare le vicende della sua vita.
Egli è quasi sempre un felice e facondo narratore, e quand'anche la natura non gli avesse concesso il
dono dell'eloquenza, egli racconterebbe bene; perché ha ripetuto tante e tante volte le stesse storie,
da abbellirle e adornarle di nuovi fronzoli.
Sia egli un uomo del volgo o un uomo grande, egli ha sempre veduto molto, e nessuna vita, per
quanto pedestre, manca di una lunga storia di avventure, di accidenti e di incidenti.
È un cacciatore o un pescatore o un viaggiatore o un soldato o un marinaio. Ha in ogni modo nella
gerla cento aneddoti curiosi, cento storie piccanti o meravigliose. E poi in ogni caso ha raccolto
dalla bocca degli altri aneddoti e storie. Egli è un libro vivo e parlante, e aprendolo a caso, in
qualunque pagina, ha sempre qualcosa di nuovo e di interessante da narrarvi.
Anche senza genio alcuno, anche senza aver viaggiato, combattuto battaglie o navigato oceani;
come uomo avrà sempre avuto avventure amorose ed egli, pur tacendo nomi e luoghi, avrà il suo
piccolo almanacco erotico, qualche conquista di cui potersi vantare, qualche piccola bricconata, di
cui egli fu il fortunato briccone.
Come allora diventa giovane quel vecchio narratore! Come gli sfavillano gli occhietti stanchi, come
gli corrono sulle labbra i baci non obbliati, come gli scintilla e gli accende la parola; e come gli si
rizza il capo curvato, quasi ad ogni episodio, volgendo lo sguardo agli ascoltatori, volesse dir loro:
Eh! Non c'è male, per Dio! Avete voi altri avuto la stessa fortuna?
Rossini e Mamiani, quasi coetanei e compaesani, quando si trovavano assieme al caffé o nel fido
asilo della loro casa, si narravano a vicenda le loro passate fortune amorose, quasi sfidandosi a chi
dei due più meritasse la fama di Don Giovanni.
Rossini nato bello e spiritoso e con l'aureola divina del primo genio musicale del suo tempo, pareva
dovesse stravincere il filosofo nato brutto e con un genio alato, ma che pochissimi potevano
intendere ed apprezzare.
E invece Rossini doveva confessare di dover cedere il primo posto al filosofo nelle fortune d'amore.
Ma come dovevano godere quei due grandi vecchi, narrandosi a vicenda le loro imprese
dongiovannnesche e come è da rimpiangere che un indiscreto ascoltatore non abbia serbato ai
posteri quei fidati colloqui.
Fra le tante e belle cose avremmo potuto avere un nuovo capitolo dell'Ars amandi, che Ovidio non
seppe scrivere. Avremmo potuto imparare come e perché un filosofo, poeta fin che si vuole, ma
bruttino anzi che no, abbia avuto presso le donne maggior fortuna dell'olimpico cigno pesarese, che
innondava il mondo di tante e sublimi armonie e melodie, che delizieranno l'umana famiglia fino
alla fine dei secoli!
Capitolo Nono
Le memorie nel vecchio
C'est bien vrai, on laisse un peu de soi dans les choses, de ses souffrances, de ses espèrances, et
quand on les retrouve, elle vous parlent, elle vous redisent ces choses, qui vous attristent ou vous
égayent.
E. ZOLA
La più grande sventura della vita è la vecchiezza scevra della ricordanza della virtù.
BUZURG, detto il Seneca dell'Oriente
Noi realmente non godiamo e non soffriamo che il momento presente. In ciò siam tutti eguali,
giovani e vecchi, ricchi e poveri, genio e volgo.
Il passato non ci appartiene che in immagini conservate dalla memoria; l'avvenire non è nostro che
nelle sembianze che ci dipinge la speranza o il timore, il desiderio o la paura.
L'uomo più potente e più fortunato, ricco di tutte le energie del pensiero e del sentimento, non può
che rendere il piacere più intenso, chiamando in amoroso convegno con le piacevoli sensazioni del
presente la folla più gaia delle memorie passate e delle speranze dell'avvenire.
Il selvaggio e l'idiota non hanno che una debolissima capacità di concentrazione e alla scena reale
del presente non possono chiamare che pallide e fuggevoli memorie e languidi desideri di un di là e
di un di più.
L'uomo di robusta fantasia e di tenace memoria fa del fuggevole istante tutta una festa, a cui sono
invitati tutti i più lieti ricordi del passato, tutti i rosei fantasmi dell'avvenire; ed è davvero una
fortuna provvidenziale, che il volgo non possa intendere quanta intensità di gioie del pensiero e del
sentimento può concentrare in un istante un cervello potente e fortunato.
Questa è la vera, la vitale differenza, che passa fra uomo e uomo nel godimento della vita;
differenza che avanza tutte le altre segnate dalla bellezza, dalla fortuna, da tutte le infinite
disuguaglianze umane.
E non è da credersi, che il genio solo o soltanto il sentimento fantasioso possa dare a noi questa
fortunatissima delle fortune; perché vi sono dei geni molto infelici, che adoperano la luce del loro
pensiero per illuminare soltanto il dolore, e d'altra parte vi sono cuori troppo sensibili, che vivono in
un palpito continuo di dolorose tenerezze e di convulse suscettibilità.
Il preziosissimo dono di far convergere nel fuoco dell'istante che fugge i raggi del passato e quelli
dell'avvenire è virtù congenita, che l'educazione può affinare ma non creare, e che consiste, per
dirlo in una parola, nell'antitesi, nel viceversa dell'ipocondria; in una felice armonia di sensibilità
squisita e di volontà robusta. Queste nature privilegiate sono lenti acromatiche, sono apparati di
accomodamento psichico più perfetti d'ogni strumento ottico; più perfette del nostro occhio, che è
pure uno dei grandi miracoli della natura.
Ammessa in tutti quanti, questa capacità di concentrazione mirabile del passato e dell'avvenire dà
risultati molto diversi secondo le diverse età. Nella giovinezza abbiamo poco passato di cui disporre
e molto avvenire, nell'età adulta un'equazione quasi esatta dei due elementi; nella vecchiaia invece
ricchi tesori di memorie e un povero avvenire.
Ed è in questa differenza appunto, che i più credono di trovare la grande infelicità del vecchio, per
cui tutto il patrimonio di gioie è nel passato, che più non ritorna, mentre è così ristretto l'orizzonte
dell'indomani.
Errore codesto, ispirato da quel pessimismo brontolone, che è forse il vero peccato originale
dell'umana famiglia.
È forse l'avvenire più nostro del passato? No e poi no. Di nostro, non v'ha che il presente. Passato e
avvenire sono fantasmi, e se fra questi due v'ha differenza, è tutta a vantaggio del passato, che fu
nostro; mentre l'avvenire ci può scomparire fra mano, domani, forse oggi stesso, forse fra un'ora. Si
può morire ad ogni età, mentre d'altra parte anche a cent'anni si può sperare di campare fino ai
centodieci, perché altri uomini vissero fino ai centoquaranta, e lo ha detto San Girolamo, già molti
secoli or sono:
"Nemo enim tam fractis viribus et decrepitæ senectutis est, ut non se putet unum adhuc annum esse
victurum. "
Se non siete artista, se non siete archeologo, se non vi siete mai fermato commosso davanti al
Colosseo o a una cattedrale annerita e corrosa dai secoli, voi potete saltare le pagine seguenti,
perché non furono scritte per voi.
Il tempo non soltanto consuma, non soltanto arrugginisce i metalli o appanna i vetri e corrode le
colonne, non soltanto lima le rocce e appiana i monti; ma nel tempo stesso smorza col suo andare la
nudità dei contorni, l'impertinenza dei colori e l'acutezza degli spigoli, deponendo quel che si
chiama nel linguaggio tecnico degli archeologi e dei numismatici la pattina, e che nella lingua della
poesia, tante volte più vera di quella della scienza, dicesi il fiato del tempo.
Le cose nuove hanno per sé la freschezza, la lucentezza, la gaiezza; ma son sempre un po'
impertinenti, un po' chiassose, sentono un po' del parvenu. Son nobili con blasoni comperati ieri,
son cavalieri di recentissima nomina. Sono ragazzi nati da poco, che saltano, gridano e fanno il
chiasso.
Le cose antiche sono nobili di vecchia data, rispettabili, solide. Vi si può appoggiare senza paura: si
contemplano con venerazione, almeno con rispetto. Le cose nuove ci rallegrano, ma le antiche ci
fanno pensare. Le cose nuove si adoperano, le cose antiche si conservano sotto chiave; e ogni
giorno che passa accresce la loro rispettabilità e il loro valore.
Benché in selce, questa freccia ha una pattina. Benché di selce, anch'essa ha raccolto il fiato del
tempo, che per più di cinquanta o sessanta secoli l'ha accarezzata e baciata. Quanta storia in quel
frammento di pietra! L'uomo che l'ha fabbricata è da cinque o seimila anni scomparso e le sue
ceneri son già passate attraverso chi sa quante mille e mille creature del mondo verde e del mondo
roseo. Forse più d'una molecola di lui è in noi, ma di lui non è rimasto nulla; neppure il nome,
neppure il nome della razza a cui egli apparteneva.
Ma no, rimane di lui questa scheggia amorosamente lavorata e sfaccettata dalle sue mani; mani
come le nostre e che attraverso i secoli si ricongiungono con le nostre.
Quanta storia in quella freccia, quanta densità di memorie in quella pattina non più alta si un
decimo di millimetro, eppure più ricca di pagine della Bibbia.
E questa moneta di Giustiniano imperatore, lucente ancora nel suo oro bizantino, ma tosata con
discrezione da qualche usuraio turco, ma accarezzata anch'essa dal fiato di tanti secoli?
Anch'essa ha la sua pattina e noi la palleggiamo e la palpiamo con amorosa tenerezza. Forse passò
per le mani di Teodora e fu data da lei in premio ad uno dei tanti suoi amanti. E per quante altre
migliaia di mani non è passata, portando sulla sua piccola ruota la fortuna e la vergogna degli
uomini, le loro libidini e i loro desideri; premiando or la virtù, ora il vizio, e pur serbando nel fango
della prostituzione o fra gli incensi dell'idolatria il suo riso ironico del metallo più vile e più superbo
dell'umana mineralogia!
Come nelle foreste i vecchi tronchi degli abeti e delle querce ci narrano le glorie della loro lunga
vita coi licheni policromi e le molli borracine che li rivestono, e nelle cento cicatrici ci narrano gli
schianti dei fulmini, i colpi d'ascia del boscaiuolo, i capricci degli amanti; così ogni cosa antica
escita dalle mani dell'uomo ci parla sommessamente, misteriosamente e in diverse lingue la lunga e
paziente e dolorosa storia della civiltà.
I marmi ce la raccontano con le corrosioni delle nere verrucarie, i bronzi con il fiato verde della
loro pattina, i graniti con l'appannatura del feldspato decomposto. Il legno ci ripete coi suoi gemiti il
morso secolare e paziente dei tarli; e il vetro stanco di tanta luce passata attraverso le sue
trasparenze, si riposa nell'iride dei raggi da lui decomposti. Perfino l'immortale porcellana di
Satsuma ci ricorda nella sfumatura lasciatavi dai secoli un'arte obbliata coi nomi dei suoi grandi
artefici.
Verderame o ruggine, pattina o corrosione, tarli o fenditure ci raccontano tutti la storia dei secoli;
l'andare eterno della materia che non posa mai e mai non muore; riscontro armonico delle borracine
e dei licheni dei giganti della foresta.
E il vecchio legge questo muto linguaggio dei secoli che furono, assai meglio del giovane; perché
anch'egli è un bronzo antico, anch'egli porta sulla sua pelle la pattina del tempo che fu. Egli ha una
stretta parentela con tutte quelle cose su cui ha fiatato il tempo, e con esse rivive il tempo che fu.
All'infuori dell'archeologia il vecchio ha un ricco museo di memorie sue: memorie di cose,
memorie di uomini. Son tristi e son liete: più numerose forse le prime che le seconde, ma più
pallide assai di queste.
Noi tutti ricordiamo con vivezza maggiore i piaceri che i dolori, s'intende sempre a parità di forza;
dacché con la nostra volontà rinfreschiamo, ricordandole, le gioie del passato e spesso cacciamo via
le tristi immagini dei dolori patiti.
Dolori e gioie son ripartiti fra gli uomini con ingiusta misura, per colpa nostra e della fortuna; ma la
memoria serba come tesori i dolci ricordi e cancella i dolori; e anche quando questi furono forti,
dopo i lunghi anni, si dipingono nell'orizzonte lontano come mesti fantasmi, che ci commuovono,
ma non ci fanno soffrire. Il dolore si è trasformato in malinconia e questa è spesso cara, né la
vorremmo cancellare dalle nostre emozioni. Se potessimo ricordare affatto i nostri cari morti e gli
amori sepolti e gli amici lontani per sempre, ci vergogneremo di noi stessi come di una viltà.
Nei nostri giardini, se siamo appassionati cultori di fiori, abbiamo sempre anche il geranio
notturnino, modesto nelle foglie, triste nei fiori; ma questi, piccoli e oscuri, quando tramonta il sole
emanano un profumo acuto come di aromi orientali portati da un vento lontano. E quel profumo
dura tutta la notte e scompare col crepuscolo dell'alba.
Così nel giardino del nostro cuore i muti ricordi del passato devono rappresentare quel geranio della
notte, e anch'essi devono innalzare nel nostro cielo i lontani profumi del tempo che fu.
Dall'infanzia alla canizie che lungo cammino! La vita è breve, quando la misuriamo col metro del
desiderio; ma quanto è lunga, se l'accompagniamo passo a passo, palpito a palpito, dal primo bacio
della mamma alla prima neve caduta sul capo!
Quanti uomini diversi si son succeduti l'un dietro l'altro sotto la buccia sottile del nostro lo; il
bambino, il fanciullo, l'adolescente, l'uomo adulto; ed ora il vecchio li riassume tutti quanti quegli
uomini, che, pur rimanendo una stessa creatura, ebbero gioie e dolori così diversi; altrettanti volumi
di un'opera sola, di uno stesso autore e a cui non manca più che di scrivervi la fatale parola: fine!
Da tutti quei volumi sfogliati dalle nostre mani commosse emana un odore di cose lontani e soavi;
un profumo molle di terra bagnata da una pioggia dopo una lunga sete; un aroma di vecchio cuoio
di Russia, di un mazzolino di mammole dimenticato da anni in un armadio.
Nessuno dei nostri sensi ricorda i luoghi e i tempi come il più imperfetto dei cinque; e come un
odore ci fa riapparire viva e palpitante una scena della nostra vita dimenticata forse da quaranta o
cinquant'anni, così tutte le memorie ci appaiono indistinte, nebulose, crepuscolari come profumi,
che non hanno forma né colore. Nessuna cosa rassomiglia più ad una memoria del passato quanto
un profumo, che l'ala di vento ci porta di lontano.
E con noi quanti compagni incominciarono lo stesso viaggio e ci abbandonarono lungo il cammino!
Eravamo mille, quando uscimmo alla vita e giunti alla stagione dell'amore non eravamo più che
cinquecento. Fanciulli rosei e paffutelli, fanciulli gai e clamorosi e saettanti come rondini, corridori
come puledri in festa, caddero qua e là abbattuti dalla difterite, dal tifo, da uno dei tanti nemici del
povero bipede planetario.
Rotte le file dal tumulto dell'amore, ci siamo dispersi per i prati e le foreste a caccia della voluttà, e
ci siam riveduti alla stazione della virilità e ci siam contati una seconda volta. Non eravamo più che
duecento.
Ed ora quanti siamo, dopo le battaglie dell'ambizione e della gerarchia sociale?
Forse trenta o quaranta.
E ci guardiamo commossi e trepidanti con un'aria di sorpresa, palpando le nostre carni, per sentire
se davvero siamo ancora tra i vivi.
In tutto questo, direte voi, vi è più dolore che piacere. Io dico invece che vi è l'una cosa e l'altra
insieme, e che non può dire di aver vissuto una vita piena e intiera chi non ha potuto raggiungere
l'età dei lunghi ricordi; chi nel calice della vita non ha bevuto anche l'amaro eppur dolce nettare
della malinconia.
La memoria di un lungo passato può avere talvolta l'amarezza della corteccia peruviana, ma
com'essa ha pure l'azione tonica e corroborante; com'essa ha la virtù di guarire la febbre dei miasmi
sociali e le nevralgie del secolo nevrosico.
E con i compagni del lungo viaggio ci hanno tenuto dietro anche le cose e queste hanno saputo
vivere più degli uomini. Abbiamo ancora i papiri di Ercolano, mentre son già disperse le ceneri dei
nostri nonni. Un foglio di carta ha vita più tenace delle carni di Ercole o del cervello di Goethe.
E quanti e quanti di quei fogli rinchiude la domestica biblioteca del vecchio! La prima lettera
d'amore aperta con le mani tremanti, or son cinquant'anni; l'ultima lettera di nostra madre che porta
ancora impresse le nostre lagrime.
Il primo diploma, che quarant'anni or sono, ci proclamava dottori, e l'ultimo articolo di giornale,
che lodava con sentite parole un nostro libro.
Tutto un archivio, tutto un tesoro di affetti, di compiacenze deposto su quel fragile tessuto, che una
vampata di fiamma può distruggere in un minuto, e che pure sanno serbarsi per secoli sempre vivi,
sempre pieni di tutti i succhi, che vi distillavano il cervello e il cuore di cento generazioni.
Fortunato il vecchio che muore nella casa in cui è nato! Per lui quelle mura son quelle di un museo
di reliquie, di una chiesa illuminata dalla fede.
Su quella soglia, sui gradini di quella scala posero i piedi i suoi padri, gli avi suoi, e nel cortile
sempre verde egli ha tentato i passi vacillanti della prima infanzia. Ogni camera è per lui un tempio,
in cui ricorda e fors'anche prega. In un certo corridoio oscuro rubò il primo bacio d'adolescente a
una bella cuginetta e una certa cameretta oscura gli fu prigione nelle prime impertinenze d'una
fanciullezza scapestrata. Risuonano ancora in quella casa la voce fioca della nonna, le ire paterne e
le parole pietose della mamma, che implorano indulgenza dal babbo. Quanti morti ancor vivi
passeggiano in quella casa, quante voci spente, non obbliate mai, ripetono al vecchio l'eco
malinconico di tanti e tanti anni!
E fra quelle sante pareti quante reliquie, quanti monumenti, che non sono né di marmo, né di
bronzo, ma sono imbevute del sangue di tante esistenze vissute con noi e per noi.
Sedie e tavoli e quadri e corone appassite di fiori son tutti benedetti dal dolore o dall'amore, tutti
santificati dai grandi palpiti delle passioni umane che lasciarono da per tutto un alito del loro fiato,
una lagrima dei loro pianti o un fremito delle loro voluttà.
Tutte quelle cose che non parlano ai profani e agli ignari, cantano e piangono e mormorano
sommessamente parole ed inni e pianti, che il vecchio solo ascolta e intende e a cui egli risponde
con altre lagrime, con altri sorrisi, con altre carezze.
Molti vivi son passati morti per la soglia di quella casa per non ritornarvi mai più; ma il custode di
quel tempio è rimasto a custodire le reliquie del passato, a difenderle dall'obblio, ed egli stesso in un
giorno non lontano ripasserà la stessa soglia, dopo avervi lasciato altre memorie ai superstiti; dopo
avervi deposto voci e sorrisi, che i figli e i nipoti di lui custodiranno e difenderanno alla lor volta.
Se tutto questo è dolore, non v'ha uomo di cuore, che non voglia pianger queste lagrime, che non si
senta orgoglioso di poterle piangere.
Capitolo Decimo
La paura della morte
Omnia mutantur, nihil interit.
GIORDANO BRUNO
Aimons la vie et ne craignons pas la mort.
CHEV. DE BOUFFLERS
Qui mortem non tirnet, magnum is sibi præsidium
ad beatam vitam comparavit.
CICERONE
Non so se mai vi sia sulla terra un uomo solo (intendo intelligente e colto), che prima di morire non
abbia dato una sua definizione di quel bipede implume, polimorfo e poliedrico, che ben più ricco di
facce dell'antico Giano, mostrerà sempre fino alla fine dei secoli qualcosa di nuovo e di inaspettato
a chi lo contempli o lo studi.
L'anatomico, il naturalista non lo possono definire che in una sola maniera; e contate le ossa e i
denti e le viscere gli hanno già assegnato da un pezzo il suo posto gerarchico nel gran Museo degli
esseri vivi planetari. Tutt'al più, secondo la scuola filosofica a cui appartiene il naturalista, metterà
l'uomo un poco più vicino alla scimmia o un poco più accanto agli Dei; ma siccome gli Dei non
sono che le scimmie degli uomini, la differenza di posto non viene poi ad esser molto grande.
La cosa cambia di molto, quando invece si vuol dare dell'uomo una definizione psicologica,
umoristica o metafisica, filosofica o satirica. Allora tanti sono i ritratti, quanti sono i pennelli e
quanti i colori di ciascuna tavolozza, e se potessimo raccogliere in una pubblica esposizione tutte
quante le definizioni dell'uomo date dagli uomini di certo davanti a quei ritratti i visitatori
potrebbero domandarsi quale strano serraglio di belve esotiche e nostrali vi sia colà riunito; tanto
poco una faccia somiglierebbe all'altra.
Per conto mio, professore titolare di antropologia e ufficialmente obbligato a studiar l'uomo per di
dentro e per di fuori, costretto ad analizzarlo col microscopio dell'analisi e a contemplarlo col
telescopio della sintesi; oggi mando all'Esposizione dei ritratti dell'Homo sapiens questo mio
acquerello:
L'uomo è l'animale brontolone per eccellenza.
E lo provo.
Il primo atto, con cui egli annunzia la sua comparsa in questo mondo è un guaito. L'uomo nasce
piangendo.
E quando la natura lo costringe a firmare il suo atto di congedo dalla vita, piange o si lamenta.
E fra questi due punti estremi della partenza e dell'arrivo l'uomo si lamenta sempre e poi sempre;
mutando solo il modo di lamentarsi.
Bambino guaisce o piange, fanciullo piange ancora; ma per di più comincia a lamentarsi, perché
non è ancora un giovinetto.
E giovinetto sospira, perché non gli spuntano ancora sul labbro quei desiati peli, che gli diano
diritto di baciar le rosee labbra d'una fanciulla.
E giovane sdegna di piangere, perché le lagrime son dei bambini; ma maledice la vita e commenta
Schopenhauer, o si delizia sorbendo a centellini l'amaro calice delle divine poesie del Leopardi.
Adulto continua a non piangere, perché le lagrime sono una vergogna e una debolezza; ma invidia i
non nati o i morti e rimpiange la beata e inconscia innocenza della fanciullezza e i caldi profumi
della gioventù.
E vecchio torna a piangere come il bambino e si lamenta e maledice la vita e si guarda indietro,
dolente di non aver saputo godere le gioie delle altre età; in sé riunendo tutte le forme del lamento e
tutte le mimiche del dolore: dalle lagrime alla bestemmia, dal singhiozzo alla maledizione.
Dalla culla alla tomba tutto un lamento è la vita, e le tappe del nostro viaggio terrestre son segnate
da tante stazioni, quante sono le forme del pianto.
Guaito senza lagrime.
Pianto con lagrime.
Pianto con singhiozzi.
Pugni stretti rivolti al cielo.
Urli e grida di dolore.
Rimpianti e malinconia.
Lagrime senili.
È dunque il ritratto più somigliante all'originale il mio e spero di averne un premio in una grande
esposizione mondiale.
L'uomo è l'animale brontolone per eccellenza.
Se non che questo brontolamento non è sincero e non è che una pura, una abilissima civetteria della
vita; un artifizio ingegnoso per farsi compassionare e attirare a sé la pietà degli altri e anche di se
stessi.
E ve lo provo subito e facilmente.
Sì, la terra è la valle delle lagrime; sì, l'ideale umano è il nirvana; sì, l'homo natus de muliere, brevi
vivens tempore, repletur multis miseriis. Sì, ogni terra e ogni secolo ha i suoi Schopenhauer e i suoi
Leopardi. Sì, la vita non è che il sogno d'un ombra; ma tutti questi bipedi brontoloni, che
bestemmiano contro la vita dall'alba alla sera, temon la morte, e per quanto il suicidio cresca con la
civiltà, pure è sempre rarissima eccezione.
Non solo l'uomo teme la morte, ma ancora la ritiene il massimo dei mali e l'ha in tale orrore, che ne
ha fatto in ogni tempo la massima delle pene.
E dunque?
O la vita è un male e dobbiamo benedir la morte e desiderarla, come ogni buddista di buona fede.
Ola vita è un bene e allora cessiamo una buona volta di brontolare e asciughiamo queste lagrime
ipocrite; cessiamo da questi lamenti falsi, per prender la vita a braccetto, come una buona e onesta
compagna di viaggio.
Non sarebbe forse il mugolio umano contro la vita una delle forme più oscure e meno studiate
dell'ingratitudine?
La paura della morte non è un sentimento umano ma animale, ma cosmico. È la ribellione d'ogni
vita contro la distruzione; è il grido d'allarme di ciò che è contro ciò che non è. È l'orrore al vuoto,
l'orrore vero, non quello che vedevano i nostri padri ignoranti nel barometro, prima del nostro
Torricelli.
La pianta contro gli ardori del sole rallenta la traspirazione e contro le innondazioni delle piogge
chiude i robinetti d'entrata.
La pianta mutilata medica le ferite e ogni pianta nasconde nella terra le radici dell'esistenza, così
come nell'ovario corazza i germi dell'avvenire.
L'animale debole fugge, l'animale forte mette fuori i denti e gli artigli e i veleni: forme tutte della
paura della morte.
L'uomo, che a volta a volta e secondo i casi è debolissimo e fortissimo, ora fugge ed ora morde, e
chiama la viltà legittima difesa, e incoronando gli eroi, dimostra a se stesso, che la viltà è la regola e
l'eroismo è l'eccezione.
Ma che più?
Lo stesso amore, la più ardente delle nostre passioni; l'amor materno, il più onnipotente degli affetti
umani, non sono che l'orrore alla morte portato al di là della nostra vita. Amare non è che lottare
con tutta la nostra energia, perché la fiaccola della vita riaccenda un'altra fiamma, innanzi che la
nostra sia spenta.
E la vita è una maledizione?
E la morte è il solo contravveleno della vita?
No, bipede implume, tu non sei soltanto l'animale brontolone per eccellenza; sei anche l'animale
ipocrita per eccellenza. Bradipo e gatto in una volta sola, piagnucolone e sornione. Sai pianger
senza lagrime, e i mendicanti, che mostrano sulle strade pubbliche le loro false piaghe e le loro false
sordità non sono che una povera e miserabile copia del l'esposizione mondiale delle disperazioni
sociali, delle paralisi morali, dei lamenti monotoni e eterni dell'uomo, che bestemmia la vita, ma ha
in orrore la morte. Tutti quanti falsi Giobbe e falsi Geremia, falsi pessimisti di una sterile e falsa
filosofia!
Nei vecchi la paura della morte è più grave, è più insistente: talvolta è un'idea fissa, che getta delle
ombre nere sopra ogni ora della vita, che accompagna ogni pensiero. Per moltissimi è il maggior
tormento dell'ultima età.
Conobbi un vecchio arzillo, che non aveva a desiderare né una salute migliore né una borsa più
fornita. Sarebbe stato felice, se non avesse avuto sempre fisso come un chiodo il timore della morte.
Io cercava un giorno di toglierli quel chiodo:
"Ma, caro signore, tutti dobbiamo morire e anche i più giovani possono morire, quando meno se
l'aspettano."
"Sì, sì, questo è vero; ma i giovani possono morire e i vecchi devono morire."
E sospirava profondamente.
Anche i vecchi infelici, che dalla vita non possono aspettarsi né un fiore né un frutto, temono la
morte; non perché con essa cessi la vita, ma perché sembra loro che l'agonia debba essere uno
strazio senza nome, la massima delle torture.
Come medico dell'anima e del corpo io ho studiato questa paura e ho cercato i rimedi per
combatterla. In me son riuscito a guardarla faccia a faccia senza timore: vorrei riuscirvi anche per i
miei coetanei.
E a me sembra che questa viltà (chiamiamola col suo nome) non si possa vincere che in tre diverse
maniere e cioé:
Con la fede,
Col non pensarci mai,
Con la lotta corpo a corpo.
Ognuno, secondo il proprio temperamento e le proprie forze può scegliere l'una o l'altra di queste
vie.
Chi ha una fede sicura, incrollabile in un'altra vita, non ha bisogno dei miei consigli. Egli crede che
la morte non sia che il passaggio ad un mondo migliore, in cui si godranno i frutti delle opere buone
fatte in questa valle di lagrime, ed egli guarda questo passaggio non solo senza sgomento, ma con
gioia.
Felice lui! Dopo aver goduto in terra è sicuro di godersi in eterno le beatitudini del paradiso; di
rivedere i suoi cari, che lo hanno preceduto nell'estremo viaggio.
Ma quanti sono questi fortunatissimo mortali?
È difficile dirlo, perché non fu fatta ancora la statistica dei credenti, dei dubbiosi e dei miscredenti;
ma io credo di non andar molto lunghi dal vero, affermando che sono l'uno per mille.
I più tra i credenti sono semicredenti; quelli cioé, che dopo aver combattuto lungamente fra le
tradizioni religiose e la ragione demolitrice hanno messo al posto della fede un punto
d'interrogazione.
Quel ? anche nella sua forma grafica rappresenta un'ancora: cioè il simbolo della speranza.
Essi non credono e non negano, ma sperano e il loro punto interrogativo è più o meno grande:
tracciato a matita o scolpito nel bronzo: scritto con inchiostro indelebile o con inchiostro d'anilina,
secondo che la loro speranza s'avvicina alla fede o se ne allontana.
Forme tutte dello scettico e fatalista Quien sabe deli Spagnoli, forme vaghe, incerte, crepuscolari
del dubbio, che annuvola il cielo azzurro di più che mezza l'umanità.
Molti pensatori, fra i più onesti, interrogati sulla loro fede, crollano il capo ed alzano le spalle,
dicendo:
La fede afferma troppo; la scienza nega troppo. La fede è troppo cieca ed io adoro i miei occhi. La
scienza è troppo superba ed io odio la superbia, come il più goffo dei peccati mortali.
Dunque?
Dunque, io non credo, ma spero. La speranza è per i credenti una virtù teologale, per me è un
conforto e un atto di modestia. Speriamo. Chi ha il coraggio di affermare brutalmente il nulla al di
là della tomba si faccia innanzi e mi dica, come nacque il mondo e come finirà, mi dica se Newton
credente sia meno grande di Voltaire miscredente, mi dica quando incominciò ad affermarsi l'Io e
quando e come si distrugga, mi dica quanto differisca il sonno dalla morte e quanto si conosca la
trasformazione delle forze, mi dica qual sia la proporzione numerica fra ciò che si sa e ciò che non
si sa; e se costui risponde positivamente a tutte queste domande, io gli concederò il diritto di
piantare al di là della fossa un cartello, su cui sia scritto: Nulla!
Ma se voi già da molti anni avete ucciso la fede con il pugnale della ragione o l'avete tanto
assottigliata con la lima del dubbio, da non lasciarla che semiviva o semimorta, oh allora a
combattere la paura della morte non ci rimane che l'uno o l'altro dei due mezzi, che vi ho indicati,
all'infuori della fede.
Vediamo se e quanto valgano.
Il secondo mezzo è volgare e alla portata di tutti. Non esige senso mistico né dedizione del pensiero
alla fede, non lotta, né coraggio, né studi profondi.
Ce lo insegna il bambino, quando chiude gli occhi davanti al pericolo; ce lo insegna il turco,
quando, non potendo o non osando combattere il nemico, esclama rassegnato:
"Se sta scritto ch'io debba morire, inutile sarà la lotta ed io dovrò soccombere."
Se il mezzo è volgare, non cessa però di essere umano, e siccome la morte è fatale e non v'ha ferrea
volontà né luce di genio, che la possa cancellare dal libro della vita; così io la raccomando alla più
parte dei vecchi d'intelligenza media, di coraggio medio, di media tacca in ogni cosa.
Quando vi si affaccia il pensiero della morte, scacciatelo subito, come fate di una mosca che vi
secca, o di una zanzara che vi ronza all'intorno.
Pensate ad altro. Ricordate l'ora più lieta della vita, o la donna che più vi ha amato; ripensate un
giorno di gloria o un viaggio fortunato.
E se l'ombra nera della morte v'interrompe il lieto ricordo, ricacciatelo nel vuoto, come fareste della
mosca e della zanzara.
È una operazione di arte epicurea, di sana scienza della vita, che esige sulle prime un po' di
pazienza e di fatica; ma che ogni giorno riesce più facile, finché diventa automatica e incosciente,
come il suonare il pianoforte, come il parlare o il camminare.
Non è una lezione di egoismo, che voglio darvi, ma un consiglio di savio epicureismo.
Prima di scacciare il pensiero della morte, prima di cancellarlo per sempre dall'albo della nostra
vita, dovete fare il vostro testamento, soddisfare ai vostri doveri di padre, di marito, di cittadino
della grande repubblica umana; ma poi, pagati i debiti vostri con la società, avete il diritto e il
dovere di pensare a voi, preparandovi un barometro che segni sempre: bello costante.
Peccato originale e non ancora scontato dal cristianesimo fu quello di santificare il dolore,
facendone non solo l'ambiente necessario della vita, ma elevandolo alla santità di una virtù.
No! - L'ho scritto a ventidue anni, lo riscrivo a sessantadue. L'uomo è fatto per il piacere, e quando
questo non offenda la gioia degli altri, è e deve essere lo scopo primo e più alto della vita.
Ogni morale, che non si fondi sul piacere, è falsa e deve cadere. La morale del dolore è cloralio, che
addormenta e inganna; è una cambiale falsa, che non è scontata che dagli imbecilli. Fondata sopra
una menzogna o un'illusione ci istilla nelle vene il virus dell'ipocrisia, e tutta quanta la società con
le sue leggi, con la sua costituzione politica, con i suoi costumi si aggira in una nebbia oscura, che
ci fa vedere ogni cosa sotto un falso aspetto, che ci impone false virtù.
Voi avete pagato tutti i vostri debiti sociali: per tutta la vostra vita avete lavorato per gli altri prima
che per voi. Potete tener alta la testa davanti a tutti. Avete provveduto con il vostro testamento a che
la giustizia sopravviva anche a voi.
Or bene, e chi vi obbliga ormai a tormentarvi col pensiero della morte? Nessuno.
E quel pensiero deve sparire dal nostro cervello, appena compare, con la stessa rapidità, con cui si
chiude un otturatore fotografico di perfettissimo congegno; rimanendo invece sempre aperta l'anima
vostra a ricevere i raggi del sole, i profumi dei fiori, le idealità del cuore e tutte quante le dolci e
care tenerezze dei sentimenti umani, quando vibrano fra il desiderio e la voluttà.
Più d'una volta fui interrogato da qualche vecchio più vecchio di me:
E lei non pensa mai alla morte?
Mai! Io ci ho pensato un paio di volte, cioè quando feci il mio testamento e quando l'ho rifatto, per
migliorarlo.
A che giova pensarci?
Penso alle cose, che posso fare e non fare; penso a ciò che dipende dalla mia volontà e che posso far
meglio o far peggio; secondo lo studio e l'attenzione che vi avrò apportata. Penso alla felicità dei
miei cari, fin dove il mio pensiero e il mio cuore possono avervi influenza; penso alle bellezze della
natura e dell'arte, penso a tutto il pensabile, che può capire nella mia testa... ma alla morte non
penso mai, perché verrà da sé, ch'io il voglia o nol voglia; non penso mai, prché è il più inutile dei
pensieri e non servirebbe che a tormentarmi e a farmi soffrire.
Credetelo a me, che come medico del corpo e dell'anima, ho dovuto nella mia lunga vita medicar
coscienze molte e molte piaghe. - I paurosi della morte, prima di morire, son morti almeno cento,
almeno mille volte; dacché la natura provvida ci occulta quasi sempre l'ultima agonia; mentre la
paura ce la porta innanzi intiera, spaventosa, terribile; per cui vivi moriamo, scontando cento e
mille volte, innanzi l'ora suprema, le tremende torture della vita che se ne va, nolente, incresciosa,
terrorizzata.
Degna delle anime forti è l'ultima via per cui si può sfuggire alla paura della morte, ed è la lotta
corpo a corpo.
L'inevitabile e l'impossibile son cose che le nostre braccia non possono stringere, che le nostre forze
non possono domare. Volerle abbattere o conquistare è puerile vanità o stoltezza senza nome.
A trent'anni noi tutti di mente sana e di cuore robusto dobbiamo aver fatto il bilancio della vita,
dobbiamo aver scritto nella partita delle entrate le gioie possibili e in quella delle uscite i dolori
inevitabili, non che molti dolori probabili; e dobbiamo aver adagiata fra quelle cifre la nostra
attività, per modo che nessuna sorpresa ci assalga, nessun disinganno ci sorprenda.
Fra i dolori inevitabili, quello della morte, il più forte fra tutti, perché senza rimedio, perché
spegnitoio d'ogni energia, d'ogni lavoro, d'ogni gioia.
Ma questa morte noi l'abbiamo guardata faccia a faccia, senza trepidazione, senza paura.
Noi l'abbiamo veduta, non come flagello vendicatore d'un immaginario peccato di Adamo ma come
legge cosmica, che impera su tutti gli esseri vivi, dall'ameba all'uomo. L'abbiamo veduta come la
sola giustissima fra tutte le giustizie della natura, come la severa livellatrice di infusori e di belve, di
abeti e di borracine, di re e di proletari, di geni e di idioti.
E chinando il capo davanti a quella eterna e suprema trionfatrice, che proibisce la superbia ad ogni
creatura viva, che sommerge ad ogni minuto le esistenze tutte dei moscerini e degli uomini nel
grande oceano della vita cosmica, per rinnovellarle e restituirle rifatte e ringiovanite alla sponda
dove sempre sboccia un fiore e germoglia una creatura, abbiam detto:
Ben venga anche la mia morte, quella che mi fa fratello d'ogni cosa viva e che fa palpitare anche in
me le pulsazioni della vita planetaria; ben venga l'ora della restituzione a chi tanto mi ha dato. Di
me non sparirà che la forma; non la materia che è eterna, non la forza che la segue eternamente
compagna. Del mio pensiero, della mia materia vivranno i miei posteri, così come io ho vissuto
della materia e del pensiero dei miei avi.
La morte non è distruzione, ma rinnovamento, la morte non è putredine, ma purificazione. La morte
è il sonno che vien dopo il lavoro; la morte è la pausa del cuore nel tic-tac eterno del pendolo dei
mondi.
La morte non mi fa paura; l'accetto come ho accettato la vita. Essa mi troverà pronto a riceverla,
senza un sospiro di dolore, senza un tremito di paura.
Capitolo Undicesimo
Storia di due vecchi felici
Nihil est otiosa senectute jucundius.
CICERONE
Fra i molti amici, che la fortuna mi ha dati, ne conto due, che visito spesso e con crescente amore,
perché la loro conversazione mi rallegra e mi insegna; ed io li considero come due miei grandi
maestri nell'arte difficilissima della vita.
Vivono in due altitudini molto diverse della gerarchia sociale, ma quanto a felicità sono alla stessa
latitudine.
Se avessi la loro fotografia, ve la presenterei come ornamento del mio modesto libricino e come
delizia ai vostri occhi. Nei loro lineamenti riposati, sereni, tranquilli, nel loro sorriso divenuto
temperamento, voi vedreste il ritratto di due uomini felici. Eppure il ricco ha ottantadue anni, il
povero ne ha ottantotto. Non so quanti altri anni potranno aggiungere a quelli che hanno oggi; di
questo soltanto sono sicurissimo: che cioè la loro felicità durerà quanto la loro vita.
Non potendo presentarvi la loro fotografia, cercherò di tracciarvene a grandi tratti i lineamenti, con
quel povero strumento d'arte che è la penna, e che pur troppo è il solo ch'io sappia maneggiare.
Ipsilonne
Se leggete i miei libri, conoscete già uno di questi due vecchi felici, perché io ho raccontato un
episodio glorioso della sua vita nel mio Testa.
Ora però devo presentarvene il ritratto.
Ipsilonne ha le gambe poco diritte, ma ciò non gli impedisce di camminare speditamente, né gli ha
mai impedito di fare il pescatore sino ad oggi.
È di giusta statura, asciutto di carni e quasi magro. Ha ancora molti capelli e qualche dente e
soprattutto uno stomaco di ferro, che gli permette di digerire ogni cosa e perfino il caciucco, il
formaggio pecorino e i polipi lessi e messi in insalata.
Sua delizia gastronomica sono i peperoni, dei quali preferisce i più forti e quelli che contendono al
corallo le tinte più porporine. Nessun regalo più gradito posso fargli di una dozzina di quei peperoni
di Ceilan o di Spagna, che coltivo con tanto amore nella mia Serenella, per diletto dei miei occhi e
per farne dono agli amici miei, amanti degli aromi piccanti.
Egli chiama nel suo dialetto pevron quei bei corni di porpora e li accarezza con le mani callose e li
nasconde nella sua vecchia giacca, col gesto comico dell'avaro, che nasconde il proprio tesoro.
Fino a questi ultimi anni ha fatto il pescatore e il barcaiuolo, ma ora ha raggiunto il colmo della
felicità, vivendo di rendita.
Una rendita che a un signore non basterebbe per una settimana, ma a lui basta per tutto l'anno. Una
rendita, che gli è doppiamente cara, perché è il frutto di una vita intera dedicata al lavoro e alle
opere buone e frutto della riconoscenza che ha seminato vivendo.
Che bella e gioconda cosa è la spiga, seminata da noi, coltivata col nostro sudore e che ci rammenta
il bene che abbiamo fatto noi, e il bene che ci vogliono gli altri. Chi non ha mangiato di questo
pane, veramente eucaristico, non ha conosciuto una delle gioie più alte concesse all'uomo. Pane
eucaristico, perché in esso è nascosto un Dio: il Dio del bene.
La rendita di cui gode Ipsilonne consta di due cespiti, come direbbe un burocratico della finanza.
Il primo è una pensioncina che gli feci aver io dal Depretis e che il Crispi aumentò e rese vitalizia.
È il premio che il Governo italiano gli ha concesso, per aver salvato la vita di Garibaldi con
pericolo della sua. E questo è il premio di un atto eroico, è il premio dato dalla patria a un suo
cittadino.
L'altro cespite è il tributo di un suo figliuolo, che in America onora il nome italiano con l'onesto
commercio. È il ricorso di un santo affetto, che l'Oceano non ha fatto naufragare, ma ha
raddoppiato. Un vecchio padre può ricevere senza rossore da un figlio a cui diede la vita e che
iniziò all'onestà sicura, al lavoro costante.
Ed ecco come Ipsilonne vive di rendita e non maneggia più le reti e il remo che come dilettante.
Quand'egli il mattino ha preso il caffè, preparato amorosamente dalle mani di una sua figliuola,
mette in bocca una cicca e va sulla spiaggia dove tra i battelli in riparazione e le paranze tirate sulla
riva, tengon convegno sulla molle arena i bambini e i vecchi; la poesia e la gloria della famiglia
umana. I primi giuocano, gli altri fumano o ciccano, e fumando o ciccando, ruminano
deliziosamente le care memorie di una lunga vita.
Ipsilonne è il decano di tutti quei veterani della vita e l'aver salvato la vita a Garibaldi mette intorno
al suo capo come un'aureola di santo.
Io l'ho veduto tante volte nelle giornate fresche dell'inverno distendersi voluttuosamente sulla
tiepida arena e beversi tutta quella delizia di sole, con un'intensa attenzione epicurea; mentre il suo
sguardo si perdeva nell'orizzonte di quel mare sempre azzurro e di cui egli conosce da quasi
novant'anni le bellezze e le ire, gli scherzi e gli sdegni.
Quanta felicità in quella creatura povera e vecchia!
Spesso lo vedevo con la sinistra smuovere dall'una all'altra guancia la sua cicca pizzicante e poi
accarezzarsi il mento più volte, come chi è contento di vivere e trova che la vita è una bella e buona
cosa, quando non vi si mescono i veleni dell'odio e gli assenzi della vanità offesa.
Io ho invidiato spesso le lucertole, quando appianando le quattro zampine sulla sabbia ardente, nel
pieno del sole, la toccano con la pancia beata, bevendo tutto quel calore e tutta quella luce, con gli
occhi socchiusi per la troppa voluttà. Ma la lucertola umana è ancor più felice, perché uomo e
perché pensa e raccoglie nel molle letargo di una sonnolenza meditabonda tutte le memorie del
passato e tutta la coscienza di un presente felice; senza rimpianti, senza desideri e senza noia.
Chi non può esporsi al sole senza un ombrellino o senza un'emicrania, insulta suo padre, il padre di
tutti, ed io lo compiango come un povero infermo.
Chi non ha saputo godersi le delizie inenarrabili di una lucertola, sdraiata sull'arena calda di una
spiaggia, è un mezz'uomo, è un invalido, che io compatisco.
Quando Ipsilonne è stanco di far la lucertola, parla coi suoi coetanei del passato e del presente,
avendo sempre qualche nuovo aneddoto di pesca o di marina da narrare. Ha raccontato già cento
volte la sua impresa garibaldina, ma vi è sempre chi l'ha dimenticata o per cortesia speciale finge di
averla scordata.
Dalla conversazione con i vecchi passa a giuocare con i piccini. I vecchi e i bambini in tutti i tempi
si son sempre intesi e hanno sempre goduto della reciproca compagnia. Dandosi la mano, essi
chiudono quel circolo in cui si muove e si agita tutta la grande famiglia umana. Essi sono il
principio e il fine delle cose; e come col riunire i due opposti elettrodi scocca la scintilla elettrica,
così il vecchio, dando la mano al bambino, ristabilisce l'equilibrio delle opposte forze, e ciò che fu
feconda e ciò che sarà . Il bambino che bacia il vecchio forma uno dei quadri più umani, più
divinamente umani che ci porge la vita. È tutta la storia in ciò che ha di più bello e di più caro.
E i bambini di San Terenzo conoscono il loro vecchio, che li accarezza, che dà loro un frutto o una
tiratina d'orecchi e con cui scherzano e giuocano volentieri.
Le ore dei pasti suonano sempre un po' tardi per il nostro Ipsilonne, perché ha sempre appetito ed è
sempre sicuro di trovare ottimo il vino e squisita la vivanda.
E giunto alla sera, senza essersi mai annoiato, giuoca la sua partita a tresette, ridendo,
schiamazzando e riscaldandosi come un giovanotto alle vicende della fortuna o agli errori del
compagno.
Egli ha anche un piccolo mondo soprannaturale, che consiste nella messa, cui ascolta ogni
domenica, e nella comunione che fa ogni Pasqua. Non ha mai discusso la propria religione, né l'ha
mai lasciata mettere in canzonatura. È questa per lui una bandita, in cui nessuno deve mai penetrare.
Dio per lui è l'indiscutibile, l'assoluto, è il dogma che non si può mettere in dubbio, perché è quello
che è e perché suo padre, suo nonno, e suo bisnonno sono stati cristiani e cattolici, come lui.
Anche la morte è un altro dogma, che non si discute; ma egli non la teme. Quando qualcuno gli
augura di toccare il secolo, risponde sempre a una maniera, crollando il capo e sorridendo:
"Sarà quel che sarà", dice egli "tanto pensarci e non pensarci è lo stesso. Quando il frutto sarà
maturo, cadrà da sé e la morte lo raccoglierà. Per ora sento di esser ancora acerbo. Anche
scrollando l'albero, il frutto non può cadere..."
B. de B.
Ha ottantadue anni, ma è bello ancora.
Porta sul petto e sulle spalle una vera Via crucis di cavalierati, di commende e di gran cordoni ma
cammina sempre diritto e con disinvolta agilità.
Ha tutti i suoi capelli, né si vergogna di averli bianchi, di una bianchezza argentina tanto bella che
mi fa sempre pensare perché Dio non abbia dato ai giovani le chiome bianche, riservando ai vecchi
il colore triste del lutto.
I suoi baffi e il suo pizzo son molto grigi, quasi bianchi come i capelli; ma impiantati bene, come
arbusti vigorosi, ben nutriti e ben coltivati.
Della vecchiaia due sole magagne, l'orecchio un po' duro e le mani un po' tremule; come chi dicesse
due nei in una bella faccia, due macchie nel sole.
Della sordità non si accorge, perché con lui cortesissimi sempre gli amici hanno la cortesia di alzare
un po' la voce; e al tremito venuto a poco a poco non ci bada, perché non gli impedisce né di
scrivere, né di suonare il pianoforte.
Mangia con appetito, e digerisce tutto ciò che mangia; dorme tranquillamente; passeggia, e nelle
feste di famiglia, quando non è al pianoforte, fa ancora qualche giro di valzer, scegliendo la signora
più bella o la signorina più desiderata.
Nessuno al mondo è senza vizi e anche il mio commendatore ha i suoi: fuma dei Virginia e ne fuma
troppi; beve dei cognacchini e ne beve troppi; ma quando io lo rimprovero, mi ride in faccia,
dicendomi: ne ho sempre bevuto e vedete che non mi hanno fatto troppo male.
Ed io devo tacere e chinare il capo.
Questo bel vecchio è stato sempre bellissimo, attraversando la vita con tutte la varie bellezze della
infanzia, dell'adolescenza, della giovinezza e dell'età matura ed ora ha le bellezze della vecchiaia: le
più rare, non le ultime.
Alla bellezza ha sempre avuto compagni la grazia e lo spirito; per cui egli è molto piaciuto alle
donne e queste, naturalmente, son sempre piaciute molto a lui. Da questo accordo perfetto nacque
un'armonia di note deliziose, che come una dolce e cara musica del cuore ha accompagnato sempre
il mio commendatore.
Ebbe rare fortune, ma non fu mai libertino. In amore guarò sempre in alto, serbandosi gentiluomo
con tutte, né mai portando in piazza i propri amori. È questo il vero modo di non sciupar la salute e
di non perder mai la stima di se stesso.
E così la simpatia delle belle signore lo ha accompagnato sempre, e anche oggi ho ragione di
credere, che Eva non è del tutto morta per lui. Se in amore non è più un artista di cartello, è però
sempre un buon dilettante.
Ha viaggiato molto, ha occupato alti posti nella vita consolare e nei negozi delle banche
fortunatissimo; per cui poté farsi da sé un'eccellente posizione nella gerarchia del denaro.
E la adoperò per raccogliere con intelletto d'amore un vero museo di arti belle e di rare curiosità,
che lascia aperto a tutti e di cui per tanti anni fu egli stesso espositore e cicerone.
Amantissimo della buona società, aprì le sue sale a lieti conviti e a feste splendidissime,
raccogliendo il meglio e l'ottimo della città in cui si era stabilito.
Caritatevole e facile soccorritore d'ogni sventura, porse aiuti anche alla scienza: di qui le molte e
alte onoreficienze, di cui fu sempre vago e che gli ornano il petto nei dì solenni.
Adora la musica, nella quale è qualcosa più di un dilettante; e non solo interpreta mirabilmente le
armonie dei grandi maestri ma egli stesso compone e può godere di udir eseguite dalle sue mani
armonie e melodie create da lui.
In tutte le questioni controverse della politica, della religione, della morale egli ha sempre saputo
tenersi lontano dagli eccessi; fossero poi di fanatismi o di sprezzi, di rivoluzione o di reazione.
Credo che quella preziosa e rara lampada del buon senso non gli sia mai caduta di mano per cui,
mutando paesi e costumi e mutando tutte le cose intorno a lui, egli è sempre rimasto lo stesso
gentiluomo, lo stesso galantuomo, lo stesso uomo felice.
Ma la sua felicità è ancor più singolare, perché ha saputo resistere alla sventura. Molti sono felici,
non per merito proprio, ma per merito della fortuna, che ha soffiato sempre in poppa sulla loro
navicella.
Il mio commendatore invece, proprio negli ultimi anni della sua vita, quando più si ha bisogno di
onde tranquille e di cielo sereno, vide travolta la sua barca da una formidabile bufera. Gravi disastri
bancari gli portarono via più di due terzi della propria fortuna: per lui abituato da più di mezzo
secolo alla ricchezza era una vera miseria.
Chi sa quanti altri si sarebbero gettati nell'abisso, rinunziando alla vita, chi sa quanti naufraghi in
tanta procella! Egli invece raccolse le vele, si guardò intorno, e con la calma che non dà che la
forza, si privò del suo Museo, dell'amico suo di cinquant'anni, e si rassegnò ad una nuova e modesta
posizione, senza maledire, senza imprecare, senza piangere.
Egli si mostrò grande davvero, perché il rimaner felici in certi casi della vita è virtù, è quasi
eroismo.
Il mio commendatore aveva raccolto in sé troppi tesori morali, per poter soccombere al naufragio
del denaro. Egli rimase felice anche senza il denaro, prova di grandissima superiorità, di una grande
altezza morale.
A lui son rimasti la salute, il fido affetto di una bella e dolce compagna; a lui la stima degli amici, le
dolcezze della musica, la lettura dei libri prediletti; a lui l'appetito fedele e il sonno tranquillo,
l'agilità dei muscoli e l'allegria costante.
Perché non sarebbe egli ancora felice?
Ed egli lo è, dando a tutti un'alta e grande lezione nel l'arte di vivere; di viver felici a ottantadue
anni, senza egoismo, senza bassezze e senza una grande fortuna.
Capitolo Dodicesimo
Il codice della vecchiaia
Igiene fisica - Igiene morale
Amplectenda est et amanda senectus, plena est voluptatis, si illa scias uti. Gratissima sunt poma
quum fugiunt. Deditos vino potatio extrema delectat. Quod in se iucundissimum hominis voluptas
habet in finem sui differt.
SENECA
Aforismi e pensieri.
1.
Ogni vecchio sano dovrebbe far mettere in un quadro queste sante parole del dottor Reveillé Parise,
che ci ha dato un bellissimo libro sulla vecchiaia [1].
Valutare le forze che rimangono, eccitarle e sostenerle con arte, onde godere della vita il più
possibile, il meglio possibile e il più a lungo possibile.
A raggiungere questo fine valgono questi quattro precetti:
Saper essere vecchio.
Conoscer perfettamente se stesso.
Disporre e regolare convenientemente le abitudini della vita.
Combattere ogni malattia dal suo principio.
2.
Fate il vecchio di buon'ora se volete farlo lungamente.
3.
Anche se siete sani e robusti, anche se l'amore vi serba ancora de' fiori, dichiaratevi vecchi a
sessant'anni.
4.
La decrepitezza è una forma morbosa della vecchiaia: il vecchio sano muore senz'esser mai stato
decrepito.
5.
Il vecchio deve lavorare sempre un poco; non far mai un solo sforzo.
6.
In ordine di pericolo si schierano in questo modo le fatiche del vecchio:
Le amorose [2].
Le muscolari.
Le intellettuali.
7.
Nemico tremendo della vecchiaia è il freddo.
8.
Nemico non meno terribile è il mutamento di clima e di abitudini.
9.
Temete il freddo umido: tenete i piedi caldi, imperciocché vi dico che il catarro ha ucciso più vecchi
di quello che il cannone abbia massacrato soldati.
10.
I vecchi dovrebbero viver sempre in campagna, e anche in città badare moltissimo alla purezza
dell'aria che respirano. L'aria pura, tonica, calda e secca è un vero elisir di lunga vita.
11.
In Italia, credo Bordighera l'ottima fra le stazioni per l'uomo vecchio.
12.
Il vecchio non deve mai escir di casa nei giorni più freddi dell'inverno perché la pneumonite è uno
degli assassini più feroci degli uomini vecchi.
13.
Nessun vecchio (fosse egli il più bigotto degli uomini) deve mangiar di magro.
Anche Erasmo nei suoi ultimi anni aveva ottenuto la dispensa dal papa, perché egli diceva, di avere
l'anima cattolica, ma lo stomaco protestante.
14.
I vecchi devono mangiar pochissimo e il loro cibo deve esser sempre di facile digestione.
15.
Il vino è il balsamo della vecchiaia. Lo hanno detto i proverbi di tutte le nazioni, lo hanno
proclamato i medici d'ogni tempo e Galeno lasciò scritto:
Sane vinum pueris est alienissimum, ita senibus aptissimum.
16.
Il vino conviene meglio ai vecchi magri e di polsi deboli, che agli obesi e a quelli che hanno
tendenza alle congestioni cerebrali.
17.
Non mai bagni freddi, se non ordinati dal medico o usati da lungo tempo.
18.
Mantenete attiva la circolazione capillare della pelle, facendosi mattina e sera frizioni per tutto il
corpo con una spazzola, né troppo molle, né troppo dura.
19.
Due volte alla settimana fatevi fare un massaggio generale.
20.
Nell'inverno e nel sommo dell'estate potete ripetere il massaggio anche tre o quattro volte per
settimana.
21.
Nessun giorno senza una piccola passeggiata e senza un breve lavoro intellettuale.
22.
Non prolungate mai il sonno artificialmente con calmanti delle farmacie. I vecchi hanno
piccolissimo bisogno di dormire.
23.
Combattete la veglia troppo ostinata, facendo un po' più di moto e bevendo un bicchiere di latte
prima di andare a letto.
Se non siete pletorico, potete senza pericolo aggiungere al latte un cucchiaino di vecchio cognac.
24.
Non imitate mai le abitudini di altri vecchi, ma fatevene di proprie calcate sopra la perfetta
conoscenza di voi stessi.
25.
Il vecchio sano si alza molto presto e si corica molto presto.
Se è molto debole si alza molto tardi e va a letto molto presto.
Anche nella giornata sta lungamente sdraiato, per riposare il cuore e per facilitare la circolazione
venosa delle gambe, che spesso hanno vene varicose.
26.
Il vecchio sano, appena alzato, prende una tazza di cioccolatte al latte o all'acqua, secondo i propri
gusti e secondo l'appetito: lo prende solo o in compagnia di un crostin di pane o di un biscotto.
27.
All'infuori di questa piccola colazione, il vecchio non mangia che due volte al giorno, cioè dal
mezzogiorno al tocco e fra le cinque e le sette secondo i gusti e le abitudini.
28.
Il pasto del mezzogiorno deve essere il più forte, leggerissimo quello della sera.
29.
Ogni pasto deve essere accompagnato da acqua pura sul principio e il vino non deve beversi che
sulla fine.
30.
Per pasteggiare ottimo vino è il Chianti di due a quattro anni, o il Bordeaux leggero od anche il
Borgogna.
Con la frutta potete bere un bicchiere di Gattinara, o di Ghemme, o di Sizzano stravecchio.
Nei casi di grande debolezza o di vecchiaia estrema sostituite a questi tre nettari del Piemonte un
bicchiere di Oporto vecchissimo.
31.
Nessun liquore - mai! - Né vermutte prima del pranzo, né chartreuse né benedectine dopo pranzo.
32.
Il caffè o il tè può prendersi una o due volte al giorno, quando non produce la veglia o non eccita
soverchiamente i nervi.
33.
Per rispetto agli eccitanti ognuno deve governarsi da sé. Ai vecchi l'esperienza non può mancare
davvero, e se il grande Zimermann diceva, che a trent'anni ogni uomo deve essere medico di se
stesso, figuratevi come non lo debba essere a sessanta e settanta.
34.
Se avete fumato per tutta la vostra vita, non lasciate di fumare anche da vecchi; ma fumate meno e
tabacco meno forte.
35.
Una cena eccellente consiste in un po' di carne fredda e una buona insalata di lattuga, che ha anche
il merito di conciliare il sonno.
36.
Fate pure una buona siesta dopo il primo pasto e sonnecchiate pure sulla poltrona dopo il secondo,
prima di andare a letto.
37.
A letto abbiate sempre molte coperte e soprattutto tenete bene caldi i piedi.
Nell'inverno la camera da letto sia sempre tiepida, nell'estate sempre fresca, non temendo mai di
tener aperti i vetri e chiuse le persiane.
38.
Quando la tristezza vuol far capolino sul vostro orizzonte, bevete un bicchierino di vino di più,
fregatevi le mani e canticchiate a bassa voce questa giaculatoria:
Oggi è il giorno più giovane che mi rimane a godere. E quanti vorrebbero giungere dov'io son
giunto!
39.
Nella vecchiaia i conti con l'amore, con l'amicizia, con l'ambizione devono essere già tutti saldati.
Non apritene mai di nuovi.
40.
Non pensate mai all'avvenire e rivivete nel vostro passato.
Quanto al presente, considerate ogni giorno come un regalo squisito della provvidenza.
41.
Fate vostra la felicità degli altri. Nella vostra compagna, nei vostri figli, nei vostri nipoti vi è tanta
parte del vostro sangue, della vostra vita; e la loro gioia è e deve essere gioia vostra.
42.
Il poter dir sempre, ogni giorno, fino all'estrema vecchiezza: io posso ancora giovare a
qualcheduno, è tale la contentezza intima e serena, che basta da sola a farci benedire la vita.
43.
Quand'ero giovane, m'avevo fatto una bella e ricca armeria, che era uno dei più cari e dei più belli
ornamenti della mia casa. Avevo una splendida collezione di sdegni, di collere, di ire; avevo un
assortimento di impeti subitanei, di rancori e di risentimenti; ma con i primi capelli bianchi ho
ricominciato a vendere ora uno sdegno ed ora un rancore, cambiandoli in libri e in fiori.
Oggi che son vecchio ho venduto tutta quanta la mia armeria, e mi son provvisto di una grande
quantità di indulgenza, che è come chi dicesse una flanella, che ci difende dai reumatismi del cuore
e dalle nevralgie del pensiero.
Consiglio a voi tutti di fare altrettanto.
Ai giovani la lotta, anche se fiera e tenace; ai vecchi l'indulgenza per gli uomini e per le cose.
Ai giovani abbattere i nemici del bene e del vero; ai giovani combattere per il trionfo del progresso,
della libertà, della giustizia.
Ai vecchi medicare le ferite dei caduti, siano poi d'una parte o dell'altra.
Ai giovani la fede, che apre gli orizzonti dell'avvenire; ai vecchi la carità che calma il dolore da
qualunque parte venga, che medica i feriti e seppellisce i morti.
Ogni umana famiglia è fatta da un uomo e da una donna, e dove manca o l'uno o l'altro di questi due
grandi fattori, l'organismo della famiglia zoppica e s'inferma.
E così è di quell'altra più grande famiglia che è una società umana. In questa devono esservi i
giovani e i vecchi. Senza quelli manca il cuore e mancan le braccia; senza questi vien meno il
cervello e mancano i freni.
Alla grande opera della generazione occorrono un Adamo e una Eva. All'opera grandissima della
civiltà occorrono giovani e vecchi; i due sessi del mondo che pensa, del mondo che lotta.
Capitolo Tredicesimo
Il gerocomio
... et comme l'automne aura conservé la chaleur de l'été, l'hiver conservera la douceur de l'automne.
CHEV. DE BOUFFLERS
S'io fossi milionario, dedicherei gli ultimi anni della mia vita a realizzare un progetto, che non è per
me di quest'oggi, ma di molti anni e che ho accarezzato lungamente nelle ore serene della
meditazione.
Attraverserei l'Oceano, e sbarcato a Nuova York studierei ben bene i diversi climi degli Stati Uniti
per trovarvi una plaga fortunata, dove fondare il gerocomio.
E se anche non mi rimanesse che il tempo di mettere la prima pietra e di vedere rizzare le prime
mura, morrei contento di non esser vissuto invano.
Il gerocomio dovrebbe essere la casa dei vecchi agiati e ricchi, che non avendo una famiglia,
voglion passare allegramente gli ultimi anni della loro vita.
In tutti i paesi civili abbiamo ospizi per i vecchi poveri invalidi al lavoro e ai quali diamo un letto e
quanto basta di pane per non morire.
Ma non abbiamo una casa per i vecchi ricchi, che spesso sono più infelici dei poveri, privi
dell'affetto vigile e fido di una compagna, e guardati ad occhio da servi o da nipoti, che ne
desiderano e ne aspettano con ansia impaziente la morte.
Questa lacuna della nostra civiltà sarà di certo riempita ed io vorrei avere l'ambizione soltanto di
averne suggerito l'idea a qualche miliardario americano; faccia poi il gerocomio per filantropia o
per trovarvi una nuova fonte d'industria.
E il mio gerocomio, chi sa che col tempo non diventi una geropoli, la città dei vecchi.
Il gerocomio deve fondarsi in un paese d'aria mite e asciutta e di temperatura possibilmente
uniforme. Negli Stati Uniti abbiamo tutti i climi del mondo e non sarà molto difficile trovare il
luogo più opportuno per attuare il mio progetto.
Un gran parco con giardini immensi deve circondare il palazzo centrale, e molte casette devono
esser sparse fra gli alberi, di diverse grandezze e di lusso diverso, per adattarsi ai gusti vari e alle
varie fortune dei miei clienti. Son destinate a tutti quelli che non amano fare vita comune nel
palazzo centrale, dove però possono recarsi liberamente per godervi tutti i divertimenti e i giuochi,
che vi si danno e vi si fanno.
L'orario dei pasti, la distribuzione delle occupazioni, tutto l'andamento del gerocomio son fissati da
una commissione degli inquilini nominata da questi a maggioranza di voti.
Questa Commissione forma un vero Consiglio, che si rinnova ogni anno, ma può essere rieletto.
All'infuori di questo corpo direttivo vi è un Direttore Capo, che deve essere medico e psicologo, il
quale ha diritto di veto in tutte quelle disposizioni del Consiglio che potessero nuocere alla salute e
alla felicità degli abitanti del gerocomio.
Il medico direttore è assistito da tre medici specialisti, che hanno studiato specialmente le malattie
dei vecchi e che fanno vita comune con i loro clienti, dei quali studiano, senza importunarli, il
temperamento, le abitudini, le magagne.
Non sono ammessi nel gerocomio né i pazzi, né i paralitici, né i malati di affezioni ributtanti.
Il gerocomio non è un ospedale, ma un palazzo per i vecchi sani, che vogliono finire allegramente i
loro giorni.
Vi regna la più assoluta libertà religiosa e morale, e purché non si offendano i costumi o il pudore,
ognuno è padrone di fare quel che vuole.
Una cappella cattolica, una protestante, una sinagoga, una moschea accolgono i credenti delle
singole religioni.
L'igiene è regolata dal Direttore Capo, come la più importante, perché senza salute non vi può
essere felicità; e i cibi e le bevande e le ore dei pasti son fissati con tutta la sapienza di chi ha
studiato la fisiologia della vecchiaia.
Così è pure il cibo dell'anima.
Una ricchissima biblioteca ha raccolto i capolavori delle più note letterature e specialmente i libri
gai, ottimisti, piacevoli.
I giornali di tutto il mondo, le migliori riviste tengono al corrente delle vicende politiche e del
movimento letterario.
Lo sport più variato offre cavalli, carrozze, giuochi d'ogni sorta, onde conservare al possibile
l'agilità alle membra rigide, la forza ai muscoli stanchi.
È nelle abitudini del gerocomio il fare dei bagni turchi e sottoporsi spesso al massaggio generale.
Ogni giorno i miei clienti con la prima colazione ricevono un bollettino dei divertimenti della
giornata, redatti dal Consiglio presieduto dal Direttore.
Quando nel programma figurano partite di caccia o di pesca o scarrozzate chi vuol prendervi parte
dà in nota il proprio nome, onde tutto sia pronto all'ora fissata.
Il gerocomio ha nel suo vasto territorio un lago, delle foreste quasi vergini, dei fiumi, dei prati; tutto
ciò che si presta alle più svariate forme dello sport, dei giuochi e degli esercizi ad aria aperta.
Gli abitanti del gerocomio possono giuocare tra di loro; ma non vi è una sala da giuoco; né i
proprietari o direttori vi prendono parte.
Tutti quanti i servi sono di sesso debole, cioè giovani e belle fanciulle, prese da tutte le nazioni del
mondo, e che rallegrano con la loro bellezza e le loro grazie i miei clienti.
La musica parla e tace a volontà in tutte le sue forme più svariate, dal concerto ai quartetti,
dall'opera eseguita dai migliori artisti fino all'esercizio di qualunque strumento fatto in camera dai
singoli dilettanti.
I pasti in comune son sempre rallegrati da mille fiori posti sulla tavola e da una musica allegra, di
cui non si vedono gli esecutori.
Quando venti persone domandano per iscritto al Direttore una festa speciale o qualunque
divertimento immaginato da esse possono ottenerlo, quando non sia contrario alla salute o ai
costumi.
Così pure se un oratore vuol fare una o più conferenze, previo avviso dato alla Direzione, trova una
sala e degli uditori.
Il Direttore conferirà ogni mese una medaglia d'oro o d'argento al vecchio che ha immaginato un
nuovo divertimento, una nuova invenzione, che rallegri gli ospiti del gerocomio.
La medaglia costituisce l'Ordine della vecchiaia felice, che si accorda dai clienti a maggioranza di
voti e a voto segreto.
Nel gerocomio sono ammessi i cittadini di tutto il mondo, d'ambo i sessi; purché abbiano compiuto
il sessantesimo anno e non abbiano macchia alcuna sul libro dell'onore.
Le signore non hanno abitazioni speciali, se non quando la domandano.
In caso diverso hanno il loro alloggio in comune nel palazzo centrale, ognuna s'intende nella
propria camera.
Al 31 dicembre tutti gli ospiti del gerocomio tengono un'assemblea generale per nominare il
Direttore del Giornale della vecchiaia felice, che deve per tutto l'anno seguente redigerlo, aiutato da
una commissione di collaboratori e di collaboratrici.
Questo giornale dà conto di quanto avviene nella gran casa dei vecchi, pubblica i programmi delle
feste, dei divertimenti e dà un brevissimo e succoso riassunto delle notizie politiche di tutto il
mondo.
Vi sono nel gerocomio lettori o lettrici addetti alla Biblioteca e che fanno la lettura ad alta voce per
tutti quei vecchi, che per debolezza della vista o per altro difetto non possono leggere da sé.
La disciplina del gerocomio ammette come gran colpa la tristezza e quando un ospite si mostra
malinconico e si dichiara infelice vien accusato al tribunale supremo costituito dal Consiglio
presieduto dal Direttore, e sentite le sue difese, si provvede con mezzi straordinari al suo
ravvedimento, cioè al ritorno all'allegria, che deve essere il pane quotidiano di tutti.
Opportune modificazioni del regime della cucina e specialmente della cantina, speciali letture,
riescono sempre a guarire i miei clienti meno fortunati.
La morte di un cliente non è conosciuta che dai medici, né mai annunziata nel giornale del
gerocomio. Si ignora da tutti dove sia il cimitero, o se il cliente scomparso abbia restituito il suo
corpo alla patria lontana.
Quando i medici riuniti in consulto hanno trovato incurabile la malattia, non si occupano che di
togliere ogni dolore e di occultare il momento fatale alla coscienza del morente.
Nei vecchi sani e robusti è la natura stessa, che compie questa pietosa missione. Dove essa non
basti, soccorre l'arte; e nessuno dei vecchi abitanti del gerocomio passa dalla vita alla morte
attraverso l'agonia.
Questa è proibita, come proibite sono la tristezza, lo scoraggiamento, la malinconia.
L'arte di ben morire fu insegnata nei tempi passati dalla fede.
Domani e sempre deve essere appresa dalla scienza umana, che ha per compito supremo di abolire
il dolore dalle nostre sensazioni.
Appendice
In appendice all'elogio tutto moderno della vecchiezza, l'editore crede utile il riprodurre un elogio
antico, il famoso De Senectute di Cicerone. Quest'opera fu scritta quarantaquattro anni prima di
Cristo, vale a dire diciannove secoli fa (1).
IL CATONE MAGGIORE - DI MARCO TULLIO CICERONE - OVVERO DIALOGO
INTORNO ALLA VECCHIEZZA FRA CATONE, SCIPIONE E LELIO - DEDICATO A TITO
POMPONIO ATTICO
Se la fitta in tuo cor doglia molesta,
O Tito mio, mitigar m'è dato,
Della buon'opra mi darai mercede?
I. - Concedi, Attico, di rivolgermi a te con i medesimi metri, che Ennio poeta, meno eminente per
ricchezze che per animo sensibile alla schietta amicizia, rivolgeva a Tito Quinzio Flamminino,
comunque io menomamente non ti creda la mente giorno e notte così agitata, siccome a quel
personaggio. Sono a me troppo noti il senso e la mitezza tua, portando io ferma opinione che tu
prendesti il soprannome da Atene non, che nel puro tuo accento greco, per l'amenità dei costumi e
la giudiziosa fermezza.
Tuttavia suppongo te dagli stessi casi profondamente commosso, che me pure talvolta tengono
turbato, a confortarci de' quali da noi soli non bastiamo, ed unico sollievo possiamo aspettarlo dal
tempo.
Perciò appunto ho deliberato d'inviarti i miei pensieri intorno alla vecchiezza. Essa, che ormai ne ha
raggiunti e che non sta in poter nostro di sfuggire(2), voglio pormi con ogni studio a rendere meno
tediosa per ambedue, per quanto mi sia nota la moderazione e saviezza con cui sopporti e sei
preparato a sopportare quest'incomodo, al pari di qualsiasi altro.
E venuto nel proposito di tener discorso della vecchiezza, di te mi risovvenne a spronarmi in tale
divisamento, siccome cosa che potrebbe ridondare a vantaggio d'ambedue.
Comporre questo trattato mi riuscì tanto più gradito, non che io m'attenda una panacea universale
contro la molestia della vecchiezza: ma perché sembra a me la via di rendere la presenza di essa più
mite e gioconda.
Laonde non potrà mai abbastanza meritamente encomiarsi la filosofia di far trascorrere a tutti
coloro che sanno farne buon uso, senza dispiaceri l'intero corso della vita.
Ma di ciò a lungo già parlammo altrove e spesse fiate ancora diremo.
Io questo libro intorno alla vecchiaia t'invio: e davvero non parvemi tornasse conto di porre,
siccome fece Aristone di Chio sulle labbra di Titone, questo sermone, avvegnachè, pronunciato da
favolosi personaggi pochi trovasse propensi a credergli da senno. Bensì mi sembrò più a proposito
di farne interlocutore Catone il seniore onde alle sentenze s'aggiungesse peso mercé l'autorità di
tanto nome. - Lelio e Scipione feci ammiratori della amenità con cui Catone trova di accomodarsi
alla vecchiezza, e di sue argute risposte.
Ove ti sembri che egli in questi dialoghi spenda maggior copia di erudizione, che non sia solito
farlo in altri suoi scritti, il merito è tutto delle lettere greche, da quel sommo indefessamente
coltivate negli anni senili. Ma a che giovano parole? Lasciamo a Catone medesimo il vanto di porre
in maggiore luce le massime nostre intorno alla vecchiezza.
II. (<I>Lodi a Catone. Opinioni controverse intorno alla vecchiezza. </I>) - SCIPIONE. Io e Lelio
siamo, o Catone, frequenti volte ammiratori del tuo squisito e profondo sapere in ogni cosa. Ma
tanto più viva è la nostra ammirazione, perché consapevoli che non t'incomoda il peso della
vecchiezza, di cui non pochi uomini sono infastiditi quasi pesasse sul loro dorso il monte Etna.
CATONE. Lelio e Scipione, voi prendete a fare le meraviglie per cosa di lieve conto. A coloro che
entro sé medesimi nulla ponno trovare che li soccorra a condurre gioconda la vita, torna incomoda
ogni età; ma gli uomini che hanno l'animo ricco di energia, non s'infastidiscono facilmente di ciò
che deriva dal necessario ed immutabile ordine della natura.
Pur troppo la vecchiezza è la prima di queste necessità e nonpertanto gli uomini, a forza d'incessanti
desideri, se l'avvicinano più rapidamente. Ma quando vi sono arrivati se ne lagnano, tanta è in essi
incostanza, leggerezza ed ingiustizia. "Ci ha colto, dicono costoro, all'impensata, e più pronta che
non fosse aspettata."
Anzitutto, io dimando, come mai si condussero a fare un calcolo così fallace? Si dica in che modo
una età succeda all'altra e la vecchiezza sembri incalzata più presto dall'adolescenza, che questa non
sia raggiunta dall'infanzia? Al postutto sarebbe sedotto da mera illusione che immaginasse una
vecchiezza più piacevole, per ciò solo che la vita potesse durare ottocento anni anziché ottanta. Per
lunga che sia, in un modo o nell'altro passa l'età, e consumata una volta, allo stolido vecchio non
rimane alcun compenso.
Se mai voi mi tenete in conto di uomo giudizioso, e Dio volesse che io fossi degno della vostra
stima e del nome che porto(3), credete a me che ogni mia scienza è riposta a meditare ed ubbidire,
quasi a Divinità, una eccellente guida, la natura. Ogni periodo della vita, essendo da essa distribuito
con tanto senno, non è a supporsi che, simile a poeta dappoco, abbia studiato con minor diligenza
l'ultimo atto della vita.
Ma siccome cosa fatta capo ha, nella stessa guisa che al chiudersi dell'autunno, le spiche e i baccelli
resi maturi dalla stagione cadono al suolo dagli incurvati rami, giunto l'uomo al tramonto della vita,
le sue forze si logorano ed affievoliscono. Ultima necessità, che il savio accetta senza ribellarsi:
poiché invertere le leggi di natura, non è forse sull'esempio de' Titani, porsi in lotta con Dio?
LELIO. Or dunque, o Catone, ne farai cosa oltremodo gradita, e te ne sono mallevadore anche per
Scipione, se a noi, preparati alla vecchiezza e nella fiducia di arrivarvi, tu additerai ben tosto il
modo di sopportare quella pesante età.
CATONE. Di buon grado il farò, Lelio, qualora siccome lo dici, possa ciò essere ad entrambi.
LELIO. Ci proponiamo seriamente, o Catone, di conoscere da te quel sì lungo cammino che tu già
calcasti, sul quale noi pure dobbiamo passare.
III. - CATONE. Ed io mi accingo alla meglio che potrò. Fra coloro a me pari d'età (gli eguali con
gli eguali, dice un antico proverbio, conversano facilmente insieme) spesse volte m'avvenne udire
lamentanze, le quali da Cajo Salinatore e Spurio Albino, personaggi consolari miei coetanei, erano
biasimate; che fossero, cioè, ormai costretti di astenersi dai piaceri, senza di cui sembrava loro
insipida la vita: né essere tenuti in conto presso loro, da cui per lo passato venivano corteggiati.
Del che, mi sembra, che nel rovesciarne la colpa sulla vecchiezza, fossero costoro fuori di via.
Conciossiaché, se una simile accusa fosse da lei meritata, io pure del pari avrei dovuto subirne gli
effetti, e con me coloro tutti di età più provetta, non pochi dei quali vidi traversare la vecchiezza
senza lagnarsi, né trovare molesto il languore degli ardenti desideri, né essi mai venire a noia ai loro
amici.
Ma per chi attentamente osservi, il peccato non sta nell'età, bensì ne' costumi. L'uomo di modi
gentili e cortesi torna piacevole e gradito anche nella vecchiezza, mentre gli importuni ed esigenti
sono molesti in qualsiasi stadio della vita.
LELIO. Parli ottimamente, o Catone. Ma per avventura non potrebbe taluno farti osservare che in
mezzo alle dovizie, alla copia d'ogni cosa, allo splendore delle tue cariche, ti avviene di sopportare
la vecchiezza più agevolmente, il che non da molti è possibile conseguire?
CATONE. Queste circostanze hanno il loro valore, ma sole non bastano sicuramente. E siccome
narrasi di Temistocle che disputando con cotale serifiese, dal quale venivagli apposto non essere la
di lui gloria merito tutto suo, ma di Atene sua patria, replicò "Non io, per Dio, sarei illustre, per ciò
solo che nativo di Serifo; ma tu neppure saresti chiaro giammai quando pure fosti nato cittadino
ateniese" altrettanto può dirsi della vecchiezza. Poiché nel modo stesso che l'uomo anche filosofo,
travagliato dalla miseria, troverà incomoda l'età senile, del pari l'ignorante, benché circondato dagli
agi a stento saprebbe compiacersene.
Conforti efficacissimi della vecchiaia, o amici, sono le arti e la pratica delle virtù, le quali
coltivando in ogni tempo, anche nella più tarda età sono feconde di stupendi vantaggi, sì per non
venire meno giammai anche nel più remoto periodo della vita (del che è massima l'importanza), e
perché la coscienza pura di rimorsi, e la memoria d'avere operato il bene, sono dolcissima
soddisfazione dell'uomo.
IV. (<I>Encomio al vecchio Quinto Fabio Massimo. </I>)
Io tuttora giovinetto, tenni caro, come mio coetaneo, quel vecchio Q. Fabio Massimo che ricuperò
Taranto. In quel personaggio la gravità era temperata dalla cortesia dei modi, né per vecchiezza
cambiò costume, benché mi legassi con lui, non ancora toccata l'età senile, comunque fossi
abbastanza maturo.
Io era nato da un anno quando otteneva egli il primo suo consolato, e seco lui, allora console per la
quarta volta, io giovinetto e semplice milite marciava alla volta di Capua, e poscia a Taranto.
Quattro anni dopo venni Questore, la quale carica fu da me esercitata durante il consolato di
Tuditano e Cetego nell'anno 549. A quell'epoca, Quinto Fabio già vecchio, propugnava la legge
Cincia che vietava agli avvocati di accettar doni e ricompense. Giunto in avanzata età, con ardore
virile condusse la guerra, e seppe stancare la focosa baldanza d'Annibale con le studiate lentezze.
Di lui egregiamente scrisse Ennio nostro:
Solo coll'indugiar salva fe' Roma:
Spregiò i clamori e vincitore in campo
Gloria n'ebbe sicura e assai maggiore!
Quale non fu la destrezza ed alacrità di quel capitano nel ricuperare Taranto? In mia presenza, a
Salinatore, il quale abbandonata la fortezza s'era ricoverato nella rocca, e seco lui millantavasi
dicendo: "per opera mia, Quinto Fabio, ricuperasti Taranto!" - "Sì, rispose Massimo sorridendo, né
l'avrei ripresa giammai, se tu prima non te l'avesti lasciata toglier di mano".
Né meno perito dimostrossi nelle civili che non fosse nelle belliche faccende: fu nel corso del suo
secondo consolato, e resistendo alla neghittosa inerzia del collega Spurio Carvilio, che egli, come
meglio seppe, fece opposizione a Cajo Flaminio tribuno della plebe, il quale, a scapito dell'autorità
del Senato, favoreggiava la legge di scompartimento per capi al popolo delle picene e galliche terre:
assunto alla dignità di augure, osava dire che i presagi erano propizi a chi operava a pro della
repubblica, avversi sempre per coloro che tentavano di nuocerle.
Non pochi egregi atti mi avvenne di ammirare presso quel personaggio; ma nulla pareggia la
fermezza d'animo che mise a sopportare la morte del figlio suo Marco, giovine di chiara rinomanza
e già consolare. Leggendo l'orazione funebre ormai nota a tutti, che egli medesimo ne scrisse, gli
stessi filosofi ne sembrano assottigliati a meschine proporzioni.
Né grande era solamente al cospetto de' suoi concittadini, ma più commendevole ancora nelle
domestiche pareti. Per eleganza nel dire e sapere, preclaro; nell'archeologia, eruditissimo; profondo
nella scienza degli auguri; nelle lettere, siccome conviensi a cittadino romano; perfettamente colto;
dotato di prestante memoria, nessun particolare gli riusciva nuovo sì delle guerre intestine, che delle
straniere.
Ed io avidamente godeva di conversare con lui, quasi presago di quanto avvenne; mancatomi un
maestro di tanta capacità, non mi fu più possibile di rinvenirne l'eguale.
V. (<I>Placida vita condotta dai vecchi. </I>) - Assai cose dissi di Massimo e più che basti a
convincervi che non avvi motivo di chiamare disagevole una vecchiezza pari alla sua.
Ma non tutti però ponno essere Scipioni, o Fabi per godersi nelle rimembranze di espugnate città, di
battaglie campali o di mare - e di guerre condotte e riportati trionfi. Tranquilla e piacevole trascorre
del pari la vecchiezza in seno alle gentili abitudini d'una vita placida e pura. Così narrasi di Platone
che giunto all'ottantesimo anno si spegnesse scrivendo; di Isocrate che grave di novantaquattro,
componeva il suo libro del Panatenaico, vivendo poscia altri cinque anni. Fu suo maestro Gorgia
Leontino che varcò il centosettesimo anno, senza mai distogliersi dagli intrapresi studi, né
abbandonare le consuete faccende. Richiesto un giorno, come mai sapesse reggersi in così lunga
vita " perché, rispose, la vecchiezza non mi dà finora motivo di essere malcontento". Sublime
risposta, degna di così valentuomo, conciossiaché gli uomini rozzi solamente incolpano l'età senile
di loro melensaggine e de' loro difetti.
Così non la pensò quell'Ennio, a voi già noto:
Pari a destrier che la sudata arena
Correndo, vinse i contrastati allori
Ed or carico d'anni, sta e riposa
paragona la sua vecchiezza a quella d'antico animoso corsiero vincitore: e di lui certamente voi
potete avere qualche memoria. Diecinove anni dopo sua morte vennero al Consolato Tito Flaminio
e Marco Acilio; ed egli, essendo Consoli, per la seconda volta Cepione e Filippo, trapassò, allora
appunto che, compiuti li sessantacinque anni, io mi feci a propugnare la legge Voconia con validi
argomenti e con tutta l'energia de' miei polmoni. Ennio toccava il settantesimo anno, ed in
quell'ultimo stadio, povertà e vecchiezza, che tutti credono noje gravissime, sopportò con tanta
fermezza che quasi sembrava compiacersene.
Ad ogni modo, il tutto ben considerato, trovo quattro motivi per cui sembra infelice questa età.
Il primo, perché distoglie l'uomo dagli affari;
L'altro, perché è accompagnata dalle fisiche infermità;
Il terzo, perché lo priva presso che d'ogni voluttà;
Finalmente, perché confina da vicino con la morte.
Esaminiamo dunque ad una ad una queste accuse per giudicarne la verità.
VI. (<I>La vecchiezza non distoglie l'uomo dai gravi affari. </I>) - Il vecchio è dunque distolto
dall'incumbere agli affari? Ma da quali per Dio? forse da quelli che hanno bisogno di gioventù e
fisico vigore. Ma le forze dei vecchi non sono mai ridotte a tale nullità, che essi non possano
supplire con la mente nel governo delle cose, quando le infermità del corpo hanno affievolita la loro
energia. Era dunque assolutamente inetto quel Quinto Massimo? Inetto, Lucio Paolo tuo genitore, o
Scipione, il quale fu suocero altresi di mio figliuolo, egregia persona? E gli altri vecchi, Fabrizio,
Curio, Coruncanio prestando alla Repubblica l'appoggio del loro autorevole consiglio, forse che
erano buoni da nulla?
Ed Appio Claudio che non solamente era vecchio, ma cieco, quando il Senato mostrossi propenso
alla pace ed all'alleanza con Re Pirro, rimase egli un istante perplesso a biasimarlo con i detti, che
Ennio riferisce ne' seguenti versi:
Senatori, dov'è l'usato senno?
Giudiziosi una volta, or deliranti,
e con altre rampogne dello stesso peso? - A voi quel carme non è cosa nuova. Esiste pure il discorso
dello stesso Appio, da lui declamato diecisette anni dopo il suo secondo consolato, essendone già
passati dieci fra questo e il primo al quale fu eletto dopo essere stato Censore. Tutto ciò prova
quanto ei fosse attempato all'epoca della guerra con Pirro: e tuttavia, come lo attestano i di lui
contemporanei, parlò con meraviglioso vigore.
Nulla dunque provano coloro che affermano essere inetta agli affari la vecchiezza. Simili in questa
loro opinione a chi giudichi ozioso il pilota, conciossiaché mentre i marinai salgono sugli alberi,
alcuni corrono alle sarte lungo i bordi, ed altri vuotano lo scafo dell'acqua, solo sta seduto a poppa
immobile, stringendo nella mano il timone. Egli non si affatica come i giovani certamente, ma
presta opera assai più essenziale e migliore.
Alle grandi imprese non sono qualità necessarie il vigore, la flessibilità delle membra; ma bensì il
senno, la dottrina e l'autorità del comando, doti che la vecchiezza non che scemare, rende complete.
Ed io medesimo che alla volta milite, tribuno, legato, console, sono versato nelle arti della guerra,
forse vi sembro ozioso perché non mi vedete a capitanare un esercito? E che perciò, se nel Senato
mi faccio a proporre ogni fazione militare, e il modo e il tempo d'operare? Io, con lo sguardo teso
sulle puniche frodi, tengo già ordinato il piano della guerra, prima che essa venga bandita a
Cartagine; né cesserò mai di dare l'allarme, finché quella città non veda distrutta. Piaccia agli Dei, o
Scipione, che sia questa la gloria destinata a te avviato sulle orme dell'avo, il quale, passato da
tredici anni, lasciò di sé memoria imperitura.
Noi fummo Consoli assieme, egli però per la seconda volta; e nove anni dopo se ne morì, prima
appunto dell'anno in cui io stesso venni eletto a Censore. Fosse egli vissuto cento anni, non avrebbe
certamente avuto di che pentirsi per sì lunga vecchiezza! Aveva abbandonato il salto, la corsa, il
maneggio del giavellotto e della spada, ma era maestro di esperienza e di senno. - E per tali doti che
appartengono di consueto agli uomini attempati, fu dai maggiori nostri il Senato appellato Consiglio
della Repubblica. Del pari presso gli Spartani fra i vecchi vengono eletti i supremi magistrati, e
perciò appunto col nome di seniori chiamati. Basta il leggere e scorrere le straniere storie, per
rinvenirvi ad ogni tratto esempli di grandi repubbliche poste a soqquadro da giovani, da vecchi
puntellate e reintegrate nella pristina grandezza.
Giace la patria vostra, un dì possente:
Ditemi or voi, perché cadde sì tosto?
È questa la dimanda che Nevio poeta introduce in una delle sue commedie. E fra le altre
osservazioni, sovrasta questa risposta:
Oratori inesperti, stolti, imberbi
Tenner lo Stato e vi dettâr le leggi.
La gioventù pecca per eccessiva temerità; la prudenza appartiene ai vecchi.
VII. (<I>Né memoria né ingegno fanno difetto ai vecchi. </I>) - Si rampognano i vecchi per fugace
memoria. Sia pure, quando fu tarda per natura, o irrugginì per mancanza di esercizio.
Temistocle chiamava a nome tutti i cittadini: tuttavia ch'il crederebbe? nell'età avanzata,
confondeva i nomi, e salutando Aristide lo appellava Lisimaco. Io parimenti conobbi non solamente
coloro che al presente sono ancora in vita, ma i padri ed avi loro. Scorrendo le iscrizioni scolpite sui
loro sepolcri, non lo faccio, come asseriscono taluni, per timore di smarrirne la ricordanza, bensì
perché in cosiffatta guisa rivivo fra i trapassati.
Non mi sovviene di persone attempate che nascosto un tesoro, dimenticassero mai il luogo dove
l'avevano celato. Rimembrano esse con rara precisione ogni loro faccenda, non lasciano cadere in
contumacia l'assegnamento delle comparse nel foro, e tengono nella memoria i nomi de' loro
debitori e creditori. Gran numero di giureconsulti, pontefici, auguri, filosofi, arrivati in età
avanzatissima, conservarono intatta la vasta loro erudizione.
Lo studio e l'alacrità giovano a mantenere vigorosa la mente dei vecchi. E ciò non avviene
solamente per eminenti e chiari personaggi, ma per coloro altresì che vivono privatamente.
Giunto all'ultimo stadio senile, Sofocle componeva tragedie, e perché assorto dalla passione dello
studio era noncurante degli interessi della casa, venne dai figli chiamato a renderne conto ai giudici.
E nella stessa guisa che in Roma sono interdetti coloro che malamente amministrano le loro
sostanze, così da quel tribunale veniva Sofocle dichiarato mentecatto e sospeso dal governo della
famiglia. Narrasi di quel vecchio venerabile, che al cospetto dei giudici prendesse a declamare
l'Edipo a Colono, tragedia di fresco composta, in torno a cui stava tuttora lavorando, e chiedesse
loro se quei versi sembrassero dettati da uno stolido? - E quella recita bastò perché il Tribunale
rievocasse la sentenza.
Or dunque Omero, Esiodo, Simonide, Stesicoro, e gli altri già da me nominati, Isocrate, Gorgia,
Pitagora il principe dei filosofi, Democrito, Platone, Zenocrate, e poscia Zenone, Cleante, e colui
che voi tutti vedevate in Roma, lo stoico Diogene, vennero forse costretti per vecchiezza a
dimettersi dagli studi, ovvero li proseguirono essi nel corso dell'intera vita?
Anche lasciata in disparte la divina occupazione delle lettere, ben io potrei nominarvi non pochi
campagnuoli dell'Agro Sabino miei vicini e famigliari, ai quali punto non garberebbe che in loro
assenza, altri desse mano ad alcun lavoro rurale di qualche importanza, né alla seminagione, né al
raccolto, né al togliere le granaglie dall'aia. E la gelosia di tali faccende che sono di lunga lena mi
desta minor meraviglia, perché non è un uomo per vecchio che sia, il quale non creda di poter
vivere ancora quell'anno. Tuttavia essi incumbono a non pochi lavori, dei quali ben sanno che non
potranno raccogliere il frutto in vita. "È d'uopo piantare alberi che preparino l'ombra ai nostri
nipoti" dice il nostro Cecilio Stazio nella commedia dei Giovinetti coetanei.
E il tremolante agricoltore richiesto per chi mai sudi a tracciare solchi novelli vi risponderà senza
imbarazzo: gli Dei immortali ne permisero di ricevere fecondi e ben coltivati i campi dai nostri
maggiori, affinché fossero da noi tramandati nel medesimo stato ai nostri nipoti.
VIII. (<I>Il conversare con vecchi riesce piacevole</I>). - Quando Stazio Cecilio alludeva alla
previdenza dei vecchi oltre il confine dell'età loro, li avea lasciati parlare più giudiziosamente che
dopo non facesse con i seguenti versi:
Per Giove, se vecchiezza al venir suo
Non traesse altro sconcio, avvene un solo
E questo basta. Per sì lunga etade
Vede assai più, ch'essa veder non brami.
Sia pure, ma scorge altresì non poche delle cose che desidera.
Né i vecchi solamente, ma la gioventù stessa di frequente, si avviene in molti oggetti che
scanserebbe volentieri.
Falsissima però oltre ogni dire è quell'altra sentenza di Cecilio:
Miseri vecchi! Essi lo sanno a prova,
Di farsi coll'età noiosi al mondo.
anziché noiosi, dico io, piacevoli.
Nello stesso modo che ai colti vecchi riesce gradito il conversare con giovani d'ottima indole, per il
diletto che trovano nel rispetto e nella benevolenza della gioventù, del pari i giovinetti accettano
con piacere gli ammaestramenti degli uomini attempati, siccome indirizzo al retto cammino della
virtù. Dal canto mio credo di non essere meno accetto a voi di quanto voi stessi lo siete a me.
Ma procacciate di evitare che la vecchiezza s'intiepidisca nel languore dell'inerzia, tenetela tesa
nelle utili occupazioni e sempre attenta a qualche studio: non però in contraddizione con quelli in
cui si esercitò nei precedenti anni.
Che dire di coloro che non si stancano dal far dovizia di nuove cognizioni? Non aspirò forse Solone
alla palma della poesia? narra egli non aver mai cessato di apprendere cose nuove benché assai
attempato. Non dissimile da lui io già vecchio mi diedi allo studio delle greche lettere e con vera
passione, onde saziare l'ardente sete di farmi profondo in quelle dottrine dalle quali ora attingo
esempi ad ogni tratto. Al pari di Socrate datosi con ostinato proposito allo studio della cetra
(posciaché presso gli antichi frequentissimo era l'esercizio della musica) neppure io dedicandomi
allo studio della letteratura greca, volli essere avaro di fatica.
IX. (<I>Le forze de' vecchi sono di altra specie e si fanno amare dai giovani mercé i loro
ragionamenti.</I>) - Venendo a parlarvi della mancanza di forze, altra delle mende apposte alla
vecchiezza, nella mia gravissima età non m'è venuto mai di invidiare il vigore de' giovani. Io pure,
nel fiore degli anni, pago della mia, non mi sono mai sentito umiliato davanti alla possanza
muscolare del toro e dell'elefante. Il savio è soddisfatto dei mezzi che ha e li impiega tutti ad
ottenere l'intento.
Come si mostrò dappoco e spregevole quel Milione di Crotone, il quale reso cadente per età, allo
spettacolo degli atleti nella palestra, mirando con occhi pieni di lagrime i muscoli del proprio
braccio, - e questi, disse, non valgono più a nulla! - E tu assai meno di essi, vecchio stolido, perché
non ti bastò l'animo di crearti un nome con l'ingegno e quel poco di celebrità te la diedero le spalle e
il nerbo del tuo braccio. Assai diversi di cotestui furono Sesto Elio, Tito Coruncanio che vissero in
epoca anteriore, e Publio Crasso, mercé i quali le leggi a tutela dei cittadini furono poste in vigore e
che fecero prova di maturo senno fino all'ultima età.
Ma, perché dissimularlo? nella vecchiezza pochi sono oratori; mentre a quest'arte non soccorre il
solo ingegno; essa ha bisogno di lena e polmoni. Del resto può essere conservata anche nella
vecchiezza l'armonia della voce; in qual modo poi non saprei spiegarlo. Essa a me medesimo non
venne meno finora, benché molti lustri abbia già contati.
Il discorso dei vecchi è rotondo, placido, maestoso. Con eleganti ed aggraziate frasi, non di rado
fermano essi l'attenzione de' loro uditori. E se le affievolite forze non permettono loro più di
arringare nella Curia, hanno almeno la compiacenza che mercé i consigli dati nelle domestiche
pareti a giovani generosi del calibro de' Leli e de' Scipioni, altri eseguiscano quanto fu da loro
proposto. Questi uomini canuti ponno essi trovar compenso più dolce della affezionata gioventù che
fa loro onorevole corona? Ho motivo di credere Gneo e Publio Scipinone e i tuoi due avi Lucio
Emilio e Publio Africano ebbero vaghezza di vivere nel consorzio di nobili giovani. Ciò prova non
doversi stimare meno felici coloro che sono maestri di dottrina, per ciò solo che consumarono il
vigore con l'età. La fisica debolezza frequenti volte è colpa dei vizi della gioventù, anziché degli
acciacchi della vecchiezza. Una adolescenza disordinata e lasciva rende il corpo snervato e cadente
nell'età senile. Leggesi in Senofonte d'un discorso tenuto dal Re Ciro a vicino a morte, nel quale
afferma di non essersi avveduto che da vecchio le sue facoltà mentali fossero divenute più deboli
che non le avesse in gioventù.
Nella mia fanciullezza ho memoria di Lucio Metello (quattro anni dopo il secondo Consolato venne
eletto sommo Pontefice, e non meno di venti anni più tardi copriva ancora quella dignità) che giunto
all'estrema vecchiezza era robusto al pari di qualsiasi giovane. Nulla vi dirò sul conto mio,
malgrado l'antico uso dei vecchi ai quali si perdona in grazia dell'età.
X. (<I>Personaggi che condussero robusta vecchiezza.</I>) - Nei poemi di Omero avrete
certamente letto di Nestore eterno panegirista de' propri meriti. Toccando egli pressoche
novant'anni, non ebbe a temere, grazie alla schiettezza con cui parlò di sé medesimo, di venir
giudicato ciarlone esagerato e millantatore. Narra Omero che la parola scorrevagli sulle labbra più
dolce del miele, né a condirla di tanta soavità avea mestieri di fisica forza. Tuttavia dalle labbra del
supremo condottiero de' Greci non esce mai il voto che dieci Aiaci sieno da anteporsi a dieci
Nestori. Se questi ei possedesse non dubiterebbe della prossima espugnazione di Troia.
Ma ripiglio il discorso per dirvi che giunto all'anno ottantesimoquarto, vorrei pure sapermene dar
vanto come faceva Ciro; ma non posso dissimularvi che le mie forze sono di gran lunga minori che
non fossero quando milite feci la guerra cartaginese e nella medesima campagna ottenni la carica di
Questore; o Console mi trattenni nella Spagna, e quattr'anni dopo, allorché, Tribuno militare, presi
parte al combattimento presso le Termopili, sotto il Consolato di M. Acilio Glabrio. Malgrado li
gravi sofferti disagi, la vecchiezza, con i lo vedete, non mi snervò completamente, né sono affranto
dalle infermità, e il foro, il tribunale, gli amici, i clienti, gli ospiti non si lagnano certo che io
manchi d'attività.
Non sarò mai per approvare quel vecchio proverbio che dice: non farti vecchio troppo tardi, se vuoi
campar vecchio lungamente. - Preferirei di passare pochi anni nella vecchiezza, che non
avvicinarmela prima del tempo. Ond'è che nessuno venuto da me per affari, ebbe a cogliermi
nell'ozio.
Non crediate però che io mi tenga di robustezza pari alla vostra, siccome voi pure conoscete
certamente di essere meno vigorosi del Centurione Tito Ponzio. Vanta egli per ciò solo un merito
maggiore del vostro? Ponno bastare anche forze moderate, e purché ciascuno faccia né più, né
meno di quanto è capace, non potrà mai essere invidioso d'altri. Narrasi che Milone percorresse lo
stadio Olimpico portando un bue sulle spalle. Sareste voi ambiziosi di questa gloria materiale,
anziché di quella che Pitagora ottenne con il luminoso suo ingegno? Godiamo pure le forze fisiche
finché le abbiamo, ma non rimpiangiamole quando ne abbandonano. Altrimenti avverrebbe che
giovani lamentassimo la puerizia, e fatti adulti faremmo richiamo all'adolescenza già sfuggita.
L'età procede sempre con passo costante, e natura che batte unica e semplice via, e assegna ciò che
spetta ad ogni stagione della vita, comparte all'infante la debilità, ai giovani l'intrepidezza, la
perseveranza all'adulto, lasciando ai vecchi la prudenza e il consiglio. E tu stesso, o Scipione, sei in
grado di darci contezza del nonagenario Massinissa ospite tuo e dell'avo. Di quell'uomo, che postosi
in viaggio a piedi, non prendeva certo una cavalcatura; e se a cavallo, non discendeva per lungo che
fosse il cammino, né per gelo o per pioggia coprivasi il capo: di corpo adusto e muscoloso non
mancò neppure ai doveri ed al carattere di Re.
Laonde l'esercizio e la temperanza giovano ai vecchi per conservare una parte del pristino vigore.
XI. (<I>Il senno supplisce ne' vecchi la fisica debolezza.</I>) - Nella vecchiezza vengono meno le
forze, né vi sarebbe ragione di pretenderne da essa. Per legge è dispensata da ogni atto, dove sia
mestieri vigoria di corpo; nessun obbligo ci corre di fare quelle cose a cui siamo inetti, e nemmeno
di adempirle nella misura che le forze nostre ce lo permetterebbero. Poiché tale è l'imbecillità di
molti vecchi da renderli incapaci d'ogni ufficio, nonché di qualsiasi comune incumbenza sociale.
Ciò però non potrebbe assegnarsi a vizio speciale della vecchiezza, bensì alle infermità inseparabili
dalla umana natura.
Poteva essere più sfinito di forze quel figlio di Publio Scipione Africano, del quale tu sei figlio
adottivo? Poteva la di lui salute essere più vacillante o per meglio dire soffrire infermità più
ostinate? Se le malattie non avessero reso tanto grave la sua debolezza, Roma avrebbe vantato una
gloria di più, poiché al generoso animo del genitore accoppiava una erudizione di gran lunga più
vasta.
Perché dunque far sì gran caso delle infermità de' vecchi, se i giovani medesimi talvolta non ponno
evitarle?
È mestieri, o Lelio o Scipione, avvezzarsi a far resistenza alla vecchiezza, e supplire ai di lei
incomodi con l'alacrità: combatterla, come avviene delle malattie, quando ne siamo assaliti. Aver
giudiziosa cura della salute; attendere a moderati esercizi; di cibo e bevanda prenderne quella
porzione che basti bensì a rifare le forze, non mai a intorpidirle.
Il corpo non solo, ma le morali facoltà educare e soccorrere, poiché a guisa della fiamma che
mancando l'olio si spegne, così queste vengono offuscate dalla vecchiezza. Diversamente dai corpi
snervati dall'eccessivo esercizio e dalla fatica, l'animo è più svegliato quanto più operoso.
Conciossiaché quando il poeta Cecilio ci presenta sulla scena i vecchi stolidi, li sottintende creduli,
smemorati, dissoluti; cattive qualità non appartenenti all'indole dell'età attempata, bensì generate
dall'inerzia, dall'ozio, dalla svogliatezza, che in certi vecchi diventò abitudine.
A quel modo che inverecondia e libidine sono vizi assai più da giovani, che da vecchi, e non per
questo può darsena la taccia ai giovani tutti, sibbene ai malvagi fra essi; del pari non tutti i vecchi,
ma quelli soli di poco cervello si abbandonano alle stolidezze, e smarriscono il retto criterio.
Appio, vecchio e cieco com'era, governava quattro figli già adulti, cinque figlie, un servidorame
assai numeroso, ed una estesa clientela. Con mente svegliatissima attendeva a tutti gli affari, i quali
non soffrirono mai perché fosse tanto attempato.
Non pago di essere capo della famiglia, ei ne esercitava di fatto il potere: temuto dagli schiavi,
rispettato dai liberi. Tutti lo avevano caro, e la di lui casa offriva un modello di costumi, e di ordine
veramente romano. Così la vecchiezza sostiene il decoro, e vale a mantenersi indipendente, se non è
costretta a spogliarsi dell'autorità, e se col senno domina la famiglia fino all'ultimo limite della vita.
È degno di tutta la mia stima quel giovine che la pensa da uomo maturo, non meno del vecchio che
conserva vivacità ed animo giovanile, in esso invecchiando bensì il corpo, l'ingegno reggendosi
sempre vigile e pronto.
Dal canto mio, ora sto componendo il settimo libro di Origene, faccio collezione d'antichi
monumenti, attendo indefessamente a ripulire le orazioni da me pronunciate nelle più celebri cause,
studio sui codici degli Auguri, dei Pontefici, e del diritto civile; faccio altresì quotidiano esercizio di
lettere greche, e giusta l'uso de' pitagorici, onde tenermi pronta la memoria di quanto dissi, ascoltai
e feci nella giornata, tengo nota nella sera. È questa la maniera di affilare l'ingegno, questa la
ginnastica del pensiero. Occupato assiduamente, ottengo di sentire ben poco il bisogno delle forze
del corpo. Non lascio negletti gli amici, di frequente intervengo alle adunanze del Senato; per quelli
e per questo presento memorie profondamente studiate che faccio valere col vigore dell'animo,
anziché con le fisiche forze. Ed ove me ne sentissi incapace, mi riuscirebbe gradito anche lo stesso
letto sul quale starei adagiato, elaborando col pensiero le idee che non bastassi a mandare ad effetto.
Ma grazie al mio sistema di vita, m'è dato di attendervi e trarle a compimento.
In questo modo per coloro che fra gli studi conducono una vita attiva e indefessa, la vecchiezza
viene quasi inosservata, gli anni si accumulano senza avvedersene, e il filo dell'età non si spezza
all'improvviso, ma nell'attrito d'un giorno con l'altro è consumato.
XII. (<I>La vecchiezza distoglie dai piaceri sensuali.</I>) - Terzo difetto si appone alla vecchiezza:
d'essere abbandonata dal gusto dei sensi.
O età doppiamente privilegiata se mercé di essa siamo tratti in salvo da ciò che è fonte di tanti vizi
per la gioventù! E qui, ottimi garzoni, imparate quale fosse l'opinione di Archita di Taranto, filosofo
chiarissimo e primo fra i primi di quella città. A me venne fatto di conoscerla quando tuttora
giovinetto ebbi stanza in quella città con Quinto Massimo.
Diceva quel savio che natura non avea mai percosso gli uomini con flagello peggiore dei godimenti
sensuali. "Da quella sete insaziabile di voluttà sono eccitati senza verecondia e senza freno. Per essa
tradirsi la patria, rovesciarsi le repubbliche, aprirsi perfidi colloqui col nemico. Non scelleraggine,
non misfatto dove non tragga irresistibilmente la passione delle voluttà; stupri, adulteri ed altre
nefandità avere primo, prepotente eccitamento dalla libidine. All'uomo compartisse natura, o per
avventura un Dio, dote nobilissima, l'ingegno, e la concupiscenza bastare da sola a corromperlo ed
ottenebrarlo. L'uomo nel calore della libidine non sente più il freno, ed ogni virtù abbandona
l'animo di coloro che lasciansi dominare da così sozza passione." Soggiungendo poi, onde maggiore
fosse l'evidenza di questa verità, doversi immaginare un uomo arso da quell'ardentissima fiamma.
"Chi mai crederebbe, sotto la brutale contrazione di tanto incubo, potesse diverso desiderio o
pensiero schiudersi la via nella sua mente? Avvisava nulla esservi di più vituperoso ed iniquo della
voluttà la quale se per lungo tempo irrita i sensi dell'uomo, irreparabilmente ne spegne ogni lume
dell'intelletto."
Tale ragionamento tenne Archita con Caio Ponzio Sannito genitore di quello stesso che sbaragliò
l'esercito dei Consoli Publio Postumio, e Tito Vetturio nella battaglia di Caudio. Nearco di Taranto
ospite nostro, e tanto innoltrato nelle grazie del popolo romano, affermò averlo udito da persone già
attempate, e soggiunse essere stato presente a quelle parole l'ateniese Platone, che siccome ho letto,
aveva preso stanza in Taranto sotto il consolato di Lucio Camillo e di Appio Claudio.
Ma a qual fine vengo io a narrarvi tante cose? È mio intento di persuadervi che se non bastasse la
sola ragione e la filosofia a rendere odiosi i piaceri sensuali, teniamo almeno dovere di gratitudine
alla vecchiezza, la quale non ne lascia più desiderare quello che non ne bisogna.
La passione delle voluttà ci toglie il retto criterio, oscura il pensiero, e non associasi mai con la
pratica di qualsiasi virtù.
Io stesso feci cassare dal Senato, otto anni dopo il suo consolato, Lucio Flamminino fratello di
quell'ottimo e valoroso Tito Flamminino, e malgrado il facessi di mala voglia, ne vergai il decreto,
pensando che contro la di lui sfacciata libidine un esempio fosse necessario. Mentre stava Console
in Gallia quell'uomo, fra i vapori d'un banchetto, ammaliato dai vezzeggiamenti d'una cortigiana,
percosse a morte un prigioniero già condannato per capitali delitti. Questo misfatto passò
inosservato alle investigazioni di suo fratello Tito, assunto a Censore poco tempo prima che io vi
fossi chiamato. Ma da me e da Flacco fu considerata imperdonabile così scellerata licenza che
aggravava il disonore della pubblica carica con la privata ignominia.
XIII. (<I>Non disdicono ai vecchi gli onesti godimenti della mensa.</I>) - M'avvenne più volte che
i maggiori miei facessero racconto, siccome di fatto accaduto nella loro età giovanile, che Caio
Fabrizio allorquando stava Legato della repubblica presso il Re Pirro, facesse meraviglie di quanto
gli narrò il tessalo Cinea di certo ateniese, il quale tenevasi in conto di filosofo(4) ed affermava la
voluttà servire d'incitamento a tutte le azioni dell'uomo. Marco Curio e Tito Coruncanio, all'udire
codesta sentenza, fecero voti che Re Pirro e i Sanniti accettassero per vera quella dottrina nella
certezza di poterli vincere più facilmente resi imbelli per sì brutale passione.
Contemporaneo di Marco Curio e cinque anni prima che questi venisse al Consolato, Publio Decio,
console per la quarta volta, faceva sagrificio della propria vita alla Repubblica. Era questo Curio
amicissimo di Fabricio e di Coruncanio; ed essi, così il costume di sua vita che l'eroico atto di
Decio considerando, avvisavano esservi certamente alcun che di specie più bella e nobile che per
spontanea attrattiva si fa appetire: ciò che ogni uomo dabbene, posta in non cale la voluttà,
dovrebbe fare studio di conseguire.
Ma ormai fu detto più che basti de' piaceri sensuali, il che torna in lode più che in biasimo della
vecchiezza, se per essa si ammorza la scintilla delle emozioni carnali.
Non ghiotta di squisite vivande, di sontuose mense imbandite e di tazze ricolme, nemmeno soggiace
all'ebbrezza, alle affannose veglie, agli agitati sogni.
Ma se pure in qualche modo è forza compatire al fascino delle voluttà, arduo non poco essendo
combattere il solletico de' sensi (dal divo Platone chiamato esca del male, essendone gli uomini
accalappiati come i pesci all'amo), basti che i vecchi s'astengano dalle disordinate gozzoviglie senza
vietar loro i modesti passatempi, e i temperati banchetti.
Caio Duillio figlio di Marco, che primo vinse in battaglia navale i Cartaginesi, io, tuttora
adolescente, vidi più d'una volta far ritorno da cena lietamente fra lo splendore di abbaglianti
doppieri e i suoni armoniosi; unico fra i privati cittadini che si regalasse con tanta magnificenza, la
gloria delle sue gesta scusando questa licenza.
E senza parlarvi d'altri, non poss'io di me stesso intrattenervi che sempre vissi in festose brigate?
Sotto la mia questura vennero istituiti consorzi d'uomini per liete adunanze nei giorni sacri ai riti di
Cibele. In mezzo a questi gioviali convegni si banchettava, ma senza varcare i limiti della
temperanza, sebbene non potesse ammutolire lo slancio vivace naturale alla gioventù.
Con la matura età però ogni atto si compone a più placidi e pacati modi. Il diletto di questi
banchetti, assai meno stava risposto nei godimenti della gola, che nella qualità degli amici e del
piacevole conversare. Più esattamente dei Greci, gli avi nostri, dal convivere degli amici a mensa, il
nome di convito derivarono. Coloro invece, appellando sodalizi di bevande e di cibi questi
convegni, mostrarono dare la preminenza alla parte materiale, che avrebbero dovuto tenere in
infimo pregio.
XIV. (<I>Gozzoviglie di Catone.</I>) - Per diletto di conversare, amo talora presentarmi ai conviti
prima dell'ora fissata e partirmene dopo; e non siedo soltanto fra i miei coetanei che ormai sono
assai diradati; mi va a genio anche la compagnia dei giovani dell'età vostra e di voi. E ne tengo
debito alla vecchiezza, che di tanto mi accrebbe il gusto del conversare quanto m'ha scemato quello
della bottiglia e de' manicaretti.
Che se taluni sono ghiotti di questi piaceri sensuali (affinché io non sembri troppo austero
avversario delle voluttà verso le quali per avventura sta nell'uomo una tendenza naturale) mi asterrò
dall'affermare che per essere ormai vecchi sia loro mancata ogni sensibilità.
Piace anche a me, credetelo, la presidenza della mensa introdotta dai nostri maggiori e i brindisi che
il capo della tavola innalza fra le ricolme tazze, purché, siccome Senofonte ne apprende nel suo
Simposio, queste sieno di piccola forma adattata per deliberare il vino; mi piace la fresca aura nella
state, e nel verno godo al tepore del sole, o di fiamma vivace, li quali gusti di frequente mi prendo
nella mia villa Sabina. Ivi convito ogni giorni i vicini a cena e vi sediamo fino a notte inoltrata
passando il tempo in giocosi discorsi sopra vari argomenti.
Che lo stimolo sensuale, non si faccia sentire con molta vivacità nei vecchi, lo credo. Tuttavia
l'astinenza non debbe costare ad essi molta fatica. La privazione d'una cosa non più desiderata,
cessa d'essere molesta.
Sofocle richiesto da taluno già in età avanzata perché non si prendesse i piaceri di Venere "Dio me
ne guardi", rispose, "di piena volontà li sfuggo, siccome da tiranno dispotico e sfrenato". Per verità
coloro che sono ghiotti di questi diletti, ne trovano spiacevole e molesta la privazione; quelli poi
che a sazietà ne gustarono, sono assai più paghi di averli abbandonati, che di goderne. Siccome la
pena dell'astinenza non è sentita da chi non appetisce, preferisco la mancanza del desiderio al
possesso.
I giovani certamente trovano mercato più facile e spontaneo di certe voluttà; ma anzitutto,
diciamolo pure, sono questi piaceri riprovevoli. - Se poi la vecchiezza non può goder degli altri a
profusione, non le manca mezzo tuttavia di gustarli con moderazione. L'attore Turpio Ambivio
diletta certamente assai più coloro che siedono ai primi posti, ma ponno averne piacere anche gli
spettatori collocati ai secondi.
Del pari la gioventù assapora i piaceri più spensieratamente perché vi si abbandona con maggiore
intimità, ma i vecchi hanno mezzo di esserne soddisfatti anche tenendosi a moderata distanza da
essi, perché sentono bisogni più limitati. Contiamo forse per poco che l'animo nostro, scosso il
dominio delle sozze passioni, quali sono la libidine, l'ambizione, l'invidia, l'odio, possa vivere in
pace, e per così dire, a sé medesimo? Soccorsa dal pascolo dello studio e della dottrina, la
vecchiezza nella placida sua acquiescenza, può apprestarsi momenti piacevolissimi.
Non vidimo noi Caio Gallo amicissimo del padre tuo, o Scipione, uscir vita quasi senza
avvedersene, tanto fervore metteva negli studi dell'astronomia? Oh quante volte fu sorpreso
dall'aurora dopo essersi posto allo studio nella sera precedente! Quante volte, la notte sopraggiunse
intanto ad un lavoro da lui incominciato nel mattino! Come godeva quell'ottimo nel predirci assai
prima che non fossero visibili, gli eclissi del sole e della luna?
Che dirò io degli studi meno severi dove però è necessario un pronto ingegno? Con quanto diletto
Nevio ci declamava le imprese della guerra cartaginese! Quanta compiacenza Plauto sentiva delle
sue commedie il Truculento e il Pseudolo?
Sei anni prima della mia nascita, Livio Andronico, già fatto vecchio, non scriveva forse una
tragedia sotto il consolato di Centone e di Tuditano? Tuttavia io era già fatto adulto che egli stava
ancora in vita. Che dirò di P. Licinio Crasso autore d'un commento sul diritto civile e pontificio? O
degli scritti di Publio Scipione(5), il quale ai nostri giorni noi tutti abbiamo salutato Pontefice
massimo?
Questi personaggi che io passai a rassegna, benché carichi d'anni, non cessarono mai di proseguire
con ardore i loro studi. E quel Marco Cetego, chiamato da Ennio con tanto criterio anima della Dea
Suadal(6), benché giunto in età avanzatissima, non vidimo noi ostinatamente immerso nelle
profonde sue meditazioni intorno al ben dire?
Che valgono mai, diciamolo schiettamente, i godimenti della mensa, dei dadi e del bordello a
paragone di quelle morali soddisfazioni? Mercé di codesti studi, viene creata una dottrina che grado
per grado crescente, arriva a sublime stadio, a misura del senno e dell'ingegno di chi la possiede.
Assai giudiziosa massima fu dunque quella scritta da Solone, in alcuno de' suoi versi, che cioè,
dall'invecchiare, ogni giorno apprendeva qualche cosa, nel che la voluttà provata dall'animo suo era
maggiore di qualsiasi altra.
XV. (<I>L'agricoltura nobile passatempo de' vecchi.</I>) - Vengo ora ai piaceri dell'agricoltura, la
passione dei quali è per me indicibile; prestandosi essi così bene anche alla vecchiezza, senza
digradare le cure dell'uomo dotto.
Gli agricoltori sono intenti al lavoro della terra, la quale non è mai ribelle alla mano dell'uomo, e
rende con usura, talora più, talora meno, ma quasi sempre generosamente, li semi deposti nel suo
seno. La terra non mi porge piacere per i soli frutti che produce, altresì per il vigore e per le
proprietà della sua natura.
Nei di lei solchi squarciati dall'aratro e ricchi di sostanze fermentatrici accoglie lo sparso seme che
asconde nel seno delle infrante glebe (da cui l'arte poscia inventava l'erpicazione). Il seme dagli
ardori solari riscaldato e reso fecondo, s'inturgida, e ne spunta fuori una verde, sottile erbetta, le
tenere fibre della quale traggono nutrimento dalle di lei radici; a misura che invigorisce s'innalza, e
rizzata sul nodoso stelo, quasi pudibonda, fa velo ai semi nei calici non per anco dischiusi. Questi
apronsi allo spiccare de' grani, che simmetricamente distribuiti, alla voracità dei piccoli uccelli
trovano scudo nei gusci delle spiche.
E se mi trattenessi a parlarvi intorno alla piantagione, al nascimento, allo sviluppo della vite, ciò
farei non per altro, che non sono mai pago di far conoscere la pace e i placidi passatempi di questa
mia senile età. Ma troppo lungo sarebbe il discorrere della forza vitale d'ogni produzione terrestre,
la quale dal granello del fico e dall'acino della vite fino ai minutissimi semi di tutti i vegetabili,
infinite propagini e rami fa nascere. Chi può non ammirare e dilettarsi alla vista delle piante di
radice vigorosa, degli arboscelli, de' tralci, degli allievi innestati? La vite per indole propria
flessibilissima, che priva di sostegni, giace prostrata al suolo, meravigliosamente si drizza sui propri
capreoli, i quali a guisa di mano afferrano tutto ciò che sta loro vicino. Guidato dall'arte sua,
l'agricoltore le tronca con il ferro i tralci parassiti che serpeggianti e molteplici spinge per ogni lato,
onde impedire che essa, per lussureggianti rami, inselvatichisca e prodigati facciansi insipidi i di lei
succhi. All'aprire della primavera spunta la gemma sulle articolazioni dei rami lasciati al tronco, e
da essa nasce l'uva, che alimentata dai calori del sole e dai sali della terra, da principio appare
agresta al palato e poscia maturando acquista dolcezza, e avvolta ne' rigogliosi pampini se ne fa
velo contro i raggi solari, senza perdere il beneficio della tepida temperatura. Non avvi albero che
meglio della vite produca frutto più saporito, e leggiadro allo sguardo. Io non solo apprezzo
altamente l'utilità di essa, ma eziandio mi diletta la di lei coltivazione, e i vari sistemi di regolarla,
l'ordine delle spalliere, l'intrecciamento delle propaggini, il modo di moltiplicarle, la separazione
dei tralci parassiti, e l'immissione sotterra di quelli che voglionsi far germogliare.
Dirò io dell'irrigazione, della canalizzazione degli scoli, e della concimatura dei terreni
mirabilmente idonea a fomentare la fecondità del suolo?
Appunto perciò sembrommi pregio dell'opera tener separato discorso di essa nel libro che
appositamente scrissi intorno alle cose agrarie, benché Esiodo, per altro sì dotto, il quale trattò della
coltura dei campi, non abbia nemmeno fatto parola degli ingrassi, che sono primo elemento di
fertilità. Omero però, che vari secoli visse prima di Esiodo, molto a proposito descrive Laerte, il
quale onde confortarsi della dolorosa assenza del figlio Ulisse, sta rivolgendo e concimando l'orto.
Attendere all'agricoltura non diletta solamente mercé la educazione delle messi, delle praterie, delle
vigne e degli alberi, ma torna oltremodo piacevole per tutto ciò che spetta ai frutteti, agli ortaggi, al
pascolo dei greggi, alla cura degli alveari, alla infinita varietà dei fiori. Al piacere che porgono le
piantagioni si può aggiungere quello dell'innesto, invenzione che onora i progressi dell'agricoltore.
XVI. (<I>Generali romani coltivatori della terra.</I>) - Potrei farvi passare a rassegna altri non
pochi passatempi campestri, se non mi avvedessi d'essermi su questo argomento già troppo
dilungato. Voi però mi sarete indulgenti per tale prolissità in grazia del profondo studio che feci
intorno all'agricoltura, e della naturale tendenza dei vecchi alla loquacità, con che risparmio
l'accusa, che io dissimuli i peccati della vecchiezza onde farvela assaporare siccome scevra di
mende e perfetta.
Gli ultimi anni trascorse nella vita campestre Marco Curio, il trionfatore de' Sanniti, de' Sabini e di
Pirro, ed io, mentre rivolgo gli sguardi alla sua villa, la quale è vicina alla mia, non mi stanco mai di
ammirare, sì la frugalità di quell'uomo, che l'austerità dei tempi passati. Sedeva egli modesto
davanti al focolare, quando venuti gli ambasciadori di Sannio ad offrirgli in dono una riguardevole
somma in oro, Curio la respinse dicendo: non tenersi da lui in pregio il possesso di quelle ricchezze,
bensì l'impero sopra coloro che le possedevano. - Un animo di tal tempra non bastava forse a
rendere contenta di per sé la propria vecchiezza?
Ma ripigliando il discorso delle cose campestri i senatori d'allora, o per meglio dire i vecchi,
tenevano dimora nel contado. Lucio Quinzio Cincinnato stava conducendo l'aratro, quando un
messo venne ad annunziargli essere egli innalzato alla Dittatura: e fu appunto per suo comando che
Caio Servilio Aala mastro della cavalleria, tolse di vita Spurio Mevio il quale cospirava a farsi Re.
Dalle loro ville, quel Marco Curio e i Senatori venivano al Senato; e da quel costume di abitare i
campi ne venne poi nome di Cursori ai messi incaricati di recare ai Senatori la lettera d'invito.
Or dunque di che mai si potrebbe lamentare l'esistenza di questi vecchi che presero piacere
all'agricoltura? È mia opinione che di più beata non se ne possa immaginare, non solo per il
giovamento alla salute dell'uomo, ma per le distrazioni che porge, per l'abbondanza e dovizia d'ogni
cosa atta al vitto nostro, non che ai riti degli Dei. Verso le quali voluttà da molti appetite perché non
disoneste, io non mi dimostrai troppo severo. Grazie poi alle cure di esperto e diligente padrone, li
granai, la cantina e le stalle contengono in abbondanza vino, olio, ed ogni derrata; avvi copia di
maiali, capretti, agnelli e pollami.
L'orto dei legumi fornisce di camangiari sussidiari la loro cucina, e quando la stagione dei raccolti è
chiusa, non mancano l'uccellazione e la caccia.
Accennerò io brevemente li prati sempre verdi, li simmetrici filari d'alberi, la leggiadra disposizione
dei vigneti, e i fecondi uliveti? Nulla può paragonarsi a campo ben coltivato per la ricchezza dei
frutti e per il lussureggiante aspetto; la vecchiezza medesima anziché distogliersene, se ne trova
eccitata e sedotta.
Dove, meglio che in villa, il cadente vecchio può ristorarsi al vivido raggio solare, alla allegra
fiamma del focolare; o nell'estiva stagione, al rezzo amico, o nel bagno di acque salubri?
Abbia pur vanto la gioventù nell'armeggiare, nel guidare destrieri, nel maneggio del giavellotto e
della clava, sia pure agilissima alla corsa ed al nuoto. Fra i vari giuochi resta sempre a noi vecchi il
passatempo dei dati e della trottola. Ambedue questi giuochi sapranno spassarci; ma non sono
necessari alla vecchiezza; non le mancano passatempi piacevoli anche priva di essi.
XVII. (<I>Re agricoltori dell'antico evo.</I>) - Senofonte scrittore di tante ottime cose, delle quali
io attenta lettura vi raccomando, nel suo libro appellato Economico, intorno al governo domestico,
porta al cielo l'agricoltura: e siccome uomo che alla regale maestà non reputava indecorosa la
pratica di essa, ivi introduce Socrate a narrare a Critobulo, di Lisandro spartano personaggio di
preclaro ingegno venuto in Sardi, quel messo della lega greca, per offrire presenti a Ciro il Minore
re de' Persiani, rinomato per prestanti virtù e glorioso impero. Questo monarca che adoperava con
l'ambasciadore modi urbani e cortesi nei pubblici affari, un giorno prese a mostrargli il proprio
giardino chiuso da ben contesta siepe, dove stavano leggiadri filari di bellissimi alberi. Lodava
Lisandro la superba altezza di essi con leggiadria allineati, a spazi equidistanti, il terreno
perfettamente purgato e il soave olezzo de' fiori "non sì forte meravigliandosi (esclamò) di tanta
precisione, che della solerzia e maestria degli autori ed esecutori di sì egregio disegno". - "Io stesso
qui tutto disposi, soggiunse Ciro, mio l'ordine, mia la distribuzione, e non pochi di tali alberi con le
mani mie io stesso piantai." Allora lo spartano mirando le agili forme del Re, la porpora e la tiara
d'oro e di gemme contesta, disse: "A buon dritto, Ciro, godi fama d'uomo felice, poiché posto in
così alto grado basti a raccogliere tanta virtù".
E diletti di questa specie sono anche ai vecchi permessi, i quali nell'età che raggiunsero non
vengono assolutamente distolti dall'attendere ad altre occupazioni, e specialmente all'agricoltura,
che non disdice nemmanco all'età più avanzata.
È noto che Marco Valerio Corvino visse fino a cent'anni, avendo consumato quasi intero il corso di
sua vita nella coltivazione dei campi. Venne egli per sei volte al consolato, con intervallo di
quarantasei anni fa il primo e l'ultimo. Quel periodo di nove lustri, a cui i maggiori nostri
assegnavano il principio della vecchiezza, fu per esso non interrotto seguito di magistrature; e così
l'ultimo stadio di sua vita passava egli più dolce del medio, possedendo maggior autorità mentre il
suo lavoro era di gran lunga minore.
Altro eminente pregio della vecchiezza è riposto nella considerazione che la circonda. Quanta mai
non fu quella di Lucio Cecilio Metello, e d'Attilio Celatino, per unico elogio del quale basterebbe
l'iscrizione posta al suo nome sopra una tavola di bronzo: "te saluta primo cittadino di Roma il
popolo romano a gran maggioranza di voti".
È noto l'epitaffio, che fu scolpito sulla sua tomba: veniva tenuto in conto d'uomo preclaro e fu vera
giustizia resa a lui che aveva guadagnata unanime in suo favore la fama. Quanta eminenza in quel
Publio Crasso negli ultimi tempi insignito del sommo Sacerdozio; in Marco Lepido a lui succeduto
nella stessa dignità! Che non direi io di Paulo, dell'Africano e di Massimo, de' quali altre fiate vi
tenni parola! L'autorità di essi non era riposta unicamente nel merito delle loro dottrine, ma
rivelavasi dall'ossequio con cui ogni loro cenno veniva accolto.
In somma laddove è tenuta in onore la vecchiezza frutta considerazione di gran lunga maggiore che
tutti assieme non valgano i piaceri della gioventù.
XVIII. (<I>Catone nelle sue lodi ai vecchi intende di quelli preclari per le loro azioni.</I>) - Ma in
ogni discorso da me intorno alla vecchiezza tenuto, non sia per isfuggirvi di mente che io di quella
soltanto intendo parlare con lode, la quale discende da una gioventù bene allevata. Ond'è che poi
trovai concorde con me la pubblica opinione, quando reputai meritevole di commiserazione quella
vecchiezza che può sostenersi in credito unicamente mercé la millanteria delle parole. Non bastano
le rughe della fronte, non i bianchi capelli per rendere di repente vulnerabile un vecchio; soltanto
nell'ultimo periodo l'età raccoglie i tardi frutti d'una vita costantemente onesta.
Aggiungi certi riguardi che sebbene di lieve conto e volgari, sono accolti siccome testimonianze
onorevoli in società: valga il dire essere salutato dai più; desiderato dai conoscenti; vedersi concessa
la destra sulla via e ceduto il posto nei teatri; l'alzarsi altrui al proprio cospetto; la numerosa
clientela da cui il vecchio è accompagnato al foro, e ricondotto a casa.
Si narra che lo spartano Lisandro da me dianzi accennato, solesse dire, essere Sparta onorevole
asilo dei vecchi; e in nessun luogo tributarsi maggior ossequio e tenersi in maggior pregio l'età. A
tal proposito, mi sovviene di talun uomo attempato una volta intervenuto ai giuochi dell'anfiteatro
in Atene, senza che alcuno de' suoi concittadini si movesse a fargli posto. Senonché arrivato ai
distinti sedili riservati agli ambasciatori spartani, questi rispettosi si alzarono, e lo fecero sedere in
mezzo a loro. In quel momento l'intera assemblea, avendo fatto plauso a tale atto, soggiunse uno di
essi "conoscere gli Ateniesi ciò che fosse generoso a farsi, ma non saperlo fare".
Vanta il Senato di Roma non poche pregevoli istituzioni, ma fra le altre merita particolare menzione
quella che il seniore abbia la priorità della parola. Ond'è che gli stessi Auguri, quando sono vecchi
non solo precedono coloro che tengono il posto d'onore, ma altresì quelli insigniti di carica
eminente. É dunque malinteso il paragone fra i piaceri sensuali e le compiacenze derivanti dalla
conseguita considerazione. - Coloro che seppero maggiore e splendido profitto ritrarne, sembrammi
avere essi recitata abilmente la loro parte nella commedia dell'età, e non a guisa di attori inesperti,
giunto l'atto ultimo, essersi con mal garbo ritirati dalla scena.
Ma vecchi non mancano queruli, stizzosi, sofistici, e se osserviamo minutamente, anche avari; il
quale vizio più nei costumi, che nella vecchiezza è riposto.
Le sofisticherie e i difetti testé accennati, se non ponno appieno giustificarsi, trovano tuttavia
qualche scusa. La vecchiezza di sovente sospetta di essere schernita e teme gl'inganni; poiché
all'uomo quanto più debole è, tornano più sensibili le offese. Nell'esercizio degli onesti costumi, e
delle savie dottrine sta l'unica via di mitigarle, siccome tuttodì nella vita impariamo, o il teatro ce ne
porge lezioni. Tale è la scena dei due fratelli negli Adelfi di Terenzio, dove tanto sono aspri i modi
dell'uno, quanto gentile è il tratto dell'altro. E così vanno le cose. In quella guisa che non tutto il
vino inacetisce, non sempre l'età sotto il cumulo degli anni, è fatta triste e noiosa. Piacemi bensì ne'
vecchi la severa maestà; ma siccome ogni altra cosa, mi va a genio moderata e senza spiacevole
durezza.
Dell'avarizia poi negli anni senili, non giunsi mai a indovinare lo scopo. Può essere più stolto il
divisamento di accumulare la copia delle provvigioni per un viaggio dove la meta è tanto vicina?
XIX. (<I>Noncuranza della morte. - Teorie dei materialisti. Ragionamenti sull'immortalità
dell'anima.</I>) - Resta una quarta causa che più delle altre questa misera età conturba e tormenta,
voglio dire la vicinanza della morte, che certamente non può tardar molto a battere alla porta della
vecchiezza.
Ben poco sarebbe da compiangere quel vecchio che passata una lunga vita, non gli bastasse l'animo
di disprezzare la morte! Della quale, o non debbe tener conto, se l'anima interamente si spegne, o
desiderarla se per essa, sciolta dai terreni legami, spazia nell'eternità. Certamente fuori di questo
dilemma, non avvi altra via.
Perché dunque temere, se morto, o avrò finito d'essere sensibile, o ben anco posso andare alla volta
della felicità?
Infatti non è forse presuntuoso quell'uomo, per quanto giovine sia, il quale nel mattino vantasi di
sapere che sarà tuttora vivente la sera? Poiché nella giovanile età più frequenti sono che nella nostra
i pericoli della vita. I giovinetti vengono colti più facilmente dalle malattie; le soffrono più gravi, e
ne risanano con maggior difficoltà. Laonde assai pochi fra essi arrivano alla vecchiezza. E volesse
pure Iddio che molti la toccassero, chè gli affari della repubblica procederebbero con regola
migliore. Il senno, la ragione, la fermezza essendo consueto retaggio degli uomini attempati, se
questi mancassero, cadrebbe nel disordine ogni buon governo civile.
Ma ritorno all'idea della morte imminente. - Perché far carico alla vecchiezza d'un funesto
accidente, comune alla stessa adolescenza? La perdita dall'ottimo figlio mio, quella de' tuoi fratelli
che avevano la prospettiva de' primi onori, è pur troppo la prova, o Scipione, che la morte non
rispetta differenza d'età.
Ma la speranza di lunga vita che risplende al giovinetto, manca al vecchio. - Speranza malintesa,
dicono taluni. Calcola da sconsigliato chi tiene per vero ciò che è falso, e per certo ciò che non è. -
Certamente, osservo, il vecchio non può sperar nulla; trovasi però a migliori condizioni del
giovinetto perché già ottenne ciò che l'altro aspetta tuttora. Questi anela di vivere la lunga età, che
dall'altro fu già vissuta.
Del resto puossi ella, Dio buono! chiamar lunga l'umana vita? Mi si conceda pure la vita più
durevole che mai si possa immaginare. Vivrò gli anni di Argantonio Re di Tartesso il quale,
secondo la storia, regnò ottant'anni e centoventi ne visse.
Tuttavia non conviene, a mia opinione, stabilire siccome regola generale ciò che è meramente
effetto del caso. Per l'uomo che arrivi a quell'estremo termine, tutto il tempo trascorso, è zero; non
d'altro gli si tien conto fuorché del frutto di sue virtù, e buone azioni.
Sfuggono le ore, i giorni, i mesi, gli anni, non più ritorna il tempo passato e l'avvenire è ignoto.
Ciascuno ha dovere di essere pago della durata della propria vita. Nella stessa guisa che poco
importa se l'attore rimane sulla scena fino al termine della commedia, bastando per fargli plauso che
reciti bene quando si mostra agli spettatori; così pure il saggio non ha bisogno di vivere fino
all'ultimo termine dell'età affinché ottengano approvazione le proprie azioni. Per breve che sia la
vita è sempre lunga abbastanza per chi sa vivere bene e onestamente. E perché arriva ad un'età
avanzata, l'uomo non ha diritto di lagnarsene più dell'agricoltore, il quale lamenti perché dopo la
florida primavera e la state, succedono l'autunno e il rigido verno. La prima è immagine della
gioventù e i venturi frutti prepara; nell'altre stagioni poi si colgono e vengono assaporati. Il prezioso
frutto della vecchiezza è dunque riposto, soffrite che io lo ripeta, nella memoria delle frequenti e
nobili imprese operate.
Dovendo, parmi, accogliersi in buona parte tutto ciò che avviene secondo l'ordine di natura, avvi
mai cosa più ad essa consentanea che gli uomini d'età più remota sieno da morte colpiti, quando i
giovani medesimi soccombono ripugnante per essi la stessa natura?
Laonde il morire dei giovani rassomiglia a fiamma sommersa all'improvviso nella piena dell'acque,
e invece la vita manca nei vecchi, siccome fuoco, consumata l'esca, di per sé a poco a poco si
estingue.
In quella guisa che è d'uopo adoperare la forza per divellere dal ramo il frutto ancora acerbo, il
quale se fosse arrivato a maturanza cadrebbe da sé, così nella gioventù è violento il disgiungersi
della vita, e ne' vecchi avviene per maturità.
Del quale pensiero essendomi fatta piacevole abitudine, quanto più m'innoltro verso il limite della
terrena carriera, mi sembra quasi di ravvisare la spiaggia, ed arrivare in porto tranquillo, dopo lunga
e procellosa navigazione.
XX. (<I>Dispregio della morte per forza di ragionamento.</I>) - Tutte le età hanno un termine
determinato, ma quello della vecchiezza è incerto. La sopporta onorevolmente quel vecchio, che
senza lasciarsi sgomentare dal pensiero della prossima fine non dismette le funzioni del proprio
stato. Da ciò dipende che la vecchiezza sia anche più intrepida e ferma della gioventù.
Tale era appunto l'opinione di Solone, quando richiesto dal tiranno Pisistrato dove mai trovasse la
forza di resistergli con tanta energia, narrasi, gli rispondesse: nella vecchiezza!
Merita preferenza sopra ogni altro, il fine della vita, se arrivi in quel punto in cui sono tuttora intatte
le facoltà della mente e del corpo. Allora natura da sé scompone il proprio lavoro, con facilità pari a
quella con cui l'artefice disgiunse i membri della nave o della macchina già prima costrutta.
Le saldature fatte di fresco si sconnettono a stento; se logorate dal tempo, a scomporle basta lieve
scossa. Laonde a questo fugace avanzo di vita, né debbono i vecchi afferrarsi troppo tenacemente,
né abbandonarlo da spensierati; e pensò con giudizio Pitagora, facendo divieto all'uomo di disertare
dalla guardia della vita senza comando del generale, cioè di Dio. Mostravasi filosofo, siccome era
infatti, Solone dicendo che alla sua tomba non voleva mancasse né dolore, né il pianto degli amici.
Tante care memorie studiavasi quel saggio di lasciare di sé!
Non credo che meglio la pensi Ennio con i seguenti versi:
La vana pompa di singulti e pianto
Risparmiate, miei cari, al cener mio
considerando essere superfluo il rimpianto a que' nomi che passano all'immortalità.
Il senso della morte, se avvenne alcuno, dura un istante tanto più nei vecchi. Morti che siamo una
volta, ogni sensibilità è spenta: o se nol fosse, abbiamo di che esserne lieti. I giovani debbono
meditarvi di buon'ora per avvezzarsi a non darsi pensiero della morte, perché chi non impara ad
addomesticarsi con questo pensiero, non può passare tranquillamente i giorni.
Certa è la morte, incerto se verrà a sorprenderci anche in questo medesimo giorno. L'uomo che
trema ad ogni istante di vedersene colto, può egli mai conservare l'animo imperturbato? Né è d'uopo
di molte parole a dimostrarlo.
Basti di rammentare quel Giunio Bruto che morì sul campo per la libertà della patria; i due Deci che
si scagliavano di carriera contro le spade nemiche; Attilio Regolo che andò incontro al supplizio,
anziché tradire la data fede; i Scipioni, che ambedue chiusero il varco ai Cartaginesi col proprio
cadavere; l'avo tuo Lucio Paulo, che lavò col sangue la macchia del temerario collega nella
vergognosa rotta di Canne; Marco Marcello, alle cui spoglie mortali lo stesso ferocissimo nemico
non rifiutò gli onori della sepoltura. Che più? Se le stesse nostre legioni (come dettai nel libro delle
Origini) con lieto e intrepido animo coprirono quei posti di combattimento da cui sapevano perduta
ogni speranza di ritorno? E questa morte adunque, la quale da giovinetti e da uomini ignoranti e
rozzi non è temuta, dovrà sgomentare l'animo del vecchio assennato?
Fu sempre in me ferma l'opinione, che dalla sazietà d'ogni cosa si arrivi alla sazietà della vita.
Vediamo i fanciulli: amano certi semplici giuochi; se ne curano essi quando fatti giovinetti? E i
passatempi di costoro non vengono forse a noia nell'età virile? Alla sua volta questa si compiace di
tali esercizi da cui distogliesi al vecchiezza. Né a questa estrema età mancano pure godimenti che le
si attagliano. Ma nello stesso modo con qui vengono meno le sensazioni gustate nei precedenti
stadi, spengonsi quelle della vecchiezza. Scema il diletto con l'uso: e la sazietà della vita ferma il
punto immutabile della morte.
XXI. (<I>Opinione di alcuni sommi pagani sull'immortalità dell'anima.</I>) - Non troverei fuori di
luogo che da voi venissi dimandato cosa ne pensi della morte, io, la quale avendo così vicina,
dovrei guardarla in viso meglio di chicchessia.
E sono per credere, Lelio e Scipione miei, che gli illustri vostri genitori vivono; ma un'altra vita,
quella sola che vera si può appellare.
Finché restiamo vincolati da questi corporei legami, siamo schiavi delle passioni e cieco strumento
della necessità.
È l'anima d'origine celeste, scesa dalle superne sfere ad abitare la materia, asilo poco degno
dell'indole sua eterna e sublime. Senza dubbio quell'incommensurabile soffio dagli Dei immortali
veniva inspirato negli umani petti a guardia del mondo, affinché l'uomo, l'ordine dei celesti corpi
contemplando, lo imitasse con pari costanza ed armonia nella vita. Né questa opinione s'ingenerò in
me mercé la sola forza della discussione e la guida della ragione, ma altresì dietro l'autorità e la
mente superiore di filosofi eminenti.
É fama che Pitagora e i suoi proseliti di recente stabiliti in Italia (dal che a quella scuola ne venne il
nome di italiana) non dubitassero menomamente che l'anima fosse un'emanazione della Divinità. Ed
all'appoggio di tale loro dottrina adducevano i ragionamenti che sull'immortalità dell'anima, aveva
tenuto Socrate nell'ultime ore della vita, quel Socrate che dall'Oracolo delfico era stato giudicato
sapientissimo.
Ma che vale il dire? Sono convinto e in me medesimo sento che un ente dove si raccoglie tanta
prontezza di concetto, tanta reminescenza del passato, tanto discernimento del futuro, tante arti,
tanta scienza, tanti ritrovamenti, un ente ricco di sì grandi prerogative, non può essere cosa mortale.
L'anima agitandosi incessantemente, senza che il moto abbia principio poiché questo moto è
inerente all'anima stessa, per identica ragione neppure debbe aver fine, perché non è possibile che
l'anima si spogli della propria natura. Ed essendo questa semplice né commista d'alcun ché
eterogeneo e dissimile, perciò appunto l'anima è indivisibile. Se dunque non può essere divisa,
neppure può cessare di essere ciò che è e morire.
L'argomento capitale che nell'uomo la scienza preceda la nascita, fondato sulla maravigliosa facilità
con cui i fanciulli imparano le cose più ardue e concepiscono rapidamente svariatissime nozioni,
conduce a supporre che non sieno nuove le impressioni che ricevono, ma semplicemente in loro si
venga rinfrescando e riordinando la memoria di esse. - Tali sono li argomenti di Platone.
XXII. (<I>Argomenti degli antichi intorno all'immortalità dell'anima.</I>) - Senofonte così
introduce a parlare Ciro il maggiore negli ultimi momenti del viver suo:
"Non vogliate pensare, o figli miei dilettissimi, che nel lasciare questo mondo, io cessi di essere in
mezzo a voi e rientri nel nulla. Anche nel corso della mia vita non fu mai da voi veduta l'anima mia,
tuttoché quanto fu da me operato fosse per voi argomento di credere che essa abitasse questo corpo.
Persuadetevi della di lei esistenza anche se vi è invisibile.
"Per verità sarebbero inutili gli onori resi alle mute ceneri dei trapassati, se alla nostra pietà non
venissero chiesti dal voto delle anime di essi, cui torna dolce di vedere conservata la propria
memoria.
"Non crederò mai che l'esistenza dell'anima sia vincolata al corpo, e che spengasi nell'uscirne, e
molto meno che inerte rimanga nel disgiungersi dall'inerte materia. Bensì che sciolta una volta dalla
sostanza corporea, l'anima ritorni alla limpidezza e semplicità primitiva. In allora soltanto scintillerà
il lampo della suprema intelligenza.
"E siccome in morte la natura dell'uomo cade in dissoluzione, ed ogni di lei elemento vediamo
ritornare alla sua origine, ed ogni cosa ridursi ai principi da cui derivò: l'anima sola sì nell'atto di
vestire che d'abbandonare la fragile spoglia terrena, sfugge ai nostri sensi.
"Osservate la morte; nulla più del sonno le rassomiglia. E tuttavia dormendo l'anima palesa la
propria divina essenza, a tale punto che nella libertà dei sogni talora udiamo predire l'avvenire. Da
ciò è permesso di immaginare cosa sia per divenire una essenza così sottile disciolta da ogni terreno
legame. Se dunque l'anima è aspettata da tanto destino, venerate la mia quale partecipe della
divinità. Se poi perisse con il corpo, voi però devoti agli Dei, che presiedono a così mirabile
prodigio, non cessate di serbarmi pia ed onorata memoria."
XXIII. (<I>Profondo convincimento di Catone nell'aspettare una vita migliore.</I>) - Così parlava
Ciro vicino a morte. Ma ritornando al nostro discorso, nessuno potrà farmi persuaso, o Scipione,
che il padre tuo Paulo, e i tuoi due avi Paulo ed Africano, o il padre dell'Africano o suo zio, non che
altri molti personaggi chiarissimi, sieno venuti a capo di tante imprese meritevoli della memoria dei
secoli venturi, se non stimolati dalla fiducia di appartenere per mezzo dell'anima alla posterità.
O pensi tu forse (per dire qualche cosa in mia lode, all'uso de' vecchi) che mi sarei addossate tante
fatiche e di notte e di giorno, e in città ed al campo, se avessi creduto che la gloria mia dovesse
passare assieme alla vita?
Non era egli assai miglior partito, senza disagi e opposizione, questa brevissima età trascorrere
nella tranquilla pace d'un ozio beato?
Ma, ignoro in qual modo, l'anima sublimandosi, miri sempre alla posterità: quasi che discostandosi
dalla terrena vita fosse per arrivare all'immortalità, la quale se non fosse essenza dell'anima, non
sarebbero massimamente gli sforzi dell'uomo al conseguimento d'immortale gloria rivolti.
E perché credete voi che i sapienti incontrino la morte con pacata anima, mentre viene ricevuta con
ribrezzo dagli idioti? Perché i primi vedendo di più e di lontano, sentono di approssimarsi ad un più
lieto soggiorno, e gli altri all'incontro, ottusi come sono, nulla sanno prevedere.
E per verità me accende vivissimo desiderio di trovarmi in compagnia dei vostri maggiori, in vita
tanto da me rispettati ed amati; e non solo con i miei coetanei, ma altresì con quei savi, delle cui
azioni io medesimo ho udito, e dissi e scrissi ne' miei diari. Lieto dunque vado inoltrandomi alla
volta dell'altra vita, né soffrirei certamente per parte di chicchessia un tentativo di ritardarmene il
passaggio, siccome avveniva di Pelia.
Sono preparato a ricusare la mano d'un Dio ove fosse meco tanto liberale di farmi retrocedere
all'infanzia: perché non ama ritornare alle riprese chi, già percorso lo stadio, ha quasi toccato il
pallio.
Parliamo schiettamente: l'uomo nella sua vita non ha piaceri disgiunti da incomodi; e seppure ne ha,
o presto se ne sazia, o presto ne trova il fine. Io però di essa non mi lagno siccome ciò fanno molti
ed anche dotti; e non voglio pentirmi d'avere vissuto, poiché vissi in sì fatta guisa da non credermi
inutilmente nato: e parto da queste mortali spoglie come da asilo ospitale, prestatomi dalla natura
nel mio pellegrinaggio, e non per stabile soggiorno.
Oh felicissimo giorno quando entrerò in quel consesso di spiriti divini e partirò da questa umana
moltitudine e da questo mondo corrotto! Non solamente mi recherò incontro a quei sommi che
dianzi vi accennai, ma al mio figliuolo Catone, incomparabile per ingegno e per affetto. Io stesso ne
raccolsi le preziose ceneri quando a lui incumbeva di prestarmi quest'estremo uffizio! Ma
quell'animo gentile di certo non si allontanò da me, né ha cessato d'amarmi, e salì in quella dimora
dove aspetta la mia venuta. E se è sembrato a voi che venisse da me sopportata con fermezza la mia
sciagura, fu perché trassi conforto dal pensiero di doverlo raggiungere in breve.
Per queste ragioni tutte che meco, o Lelio, o Scipione, avete passato a rassegna, non è grave la
vecchiezza, bensì lieve e gioconda.
Se per credere che l'anima degli uomini sia immortale, io m'inganno, ciò faccio di piena mia
volontà, né finché vivo mi distoglierò da un'illusione che tanto mi piace. Se poi con la morte, giusta
l'opinione di superficiali filosofi, si spegnerà ogni mio senso, allora non mi avverrà certamente di
udire le loro derisioni, e quando pure giudicassero rettamente coloro che non prestano fede
all'immortalità dell'anima, non avvi di che rammaricarsi che l'uomo finisca a tempo opportuno.
Come avviene d'ogni terrena cosa, l'umana vita trova il suo compimento, che appunto nella
vecchiezza è riposto. Quest'ultimo atto (così avviene anche nella commedia) non debbe recitarsi con
stanchezza, e meno ancora lasciarne scorgere la sazietà.
Io queste cose vi dissi sulla vecchiezza, la quale voi pure per la Dio grazia raggiungerete, affinché,
dalla stessa vostra esperienza ammaestrati, questi miei precetti possiate utilmente praticare.
Note
CAPITOLO 4
[1] De natura rerum. Lib. III. Ecco la traduzione italiana, del Rapisardi:
Ma allor che il corpo de l'etade affranto
Perde il forte vigore, e illanguidite
Vacillano le membra, il senno zoppica,
Intartaglia la lingua, si fa labile
La memoria, e così tutte ad un'ora
Sceman le forze e mancano.
CAPITOLO 5
[1] Physiologie du gout.
CAPITOLO 6
[1] Mantegazza, Fisionomia e mimica.
CAPITOLO 12
[1] Traité de la vieillesse. Paris, 1853.
[2] Nel breve giro della mia esperienza conosco cinque vecchi morti fra le braccia di una donna e
morti vergognosamente, perché la donna era una femmina vendereccia. Molti di questi casi
rimangono celati dal pudore dei superstiti, amici o parenti che sieno; ma sono molto più frequenti di
quel che si crede.
APPENDICE
(1) Ci siamo giovati della traduzione del dottor Michele Battaglia, pubblicata a Milano nel 1866.
(2) Cicerone aveva toccato il suo sessantaduesimo anno e Attico entrava nel suo
sessantacinquesimo.
(3) Fu soprannominato Catone dall'antica parola sabina Catus adoperata anche da Orazio in senso di
avvedutissimo.
(4) Epicuro.
(5) Soprannominato Nasica, quegli che fece trucidare Tiberio Gracco.
(6) Così era appellato il genio dell'eloquenza persuadente.
Bibliografia
CICERONE. De senectute.
MARSILIO FICINO. Trattato sopra la prolungazione della vita.
BACONE. Historia vitae et mortis.
EUSEBIO VALLI. Quadro di un'opera sopra la vecchiezza. Livorno, 1795.
LUIGI CORNARO. Trattato della vita sobria. Venezia, 1743.
Histoire des personnes qui ont veçu plusieurs siecles, etc. Tiré d'Arnauld de Villeneuve. Paris,
1716.
REVEILLÉ-PARISE. Traité de la vieillesse hygiénique médicale et philosophique. Paris, 1853.
FLOURENS. De la longévité humaine et de la quantité de vie sur le globe. Ediz. 4.a Paris, 1860.
HUFELAND. L'art de prolonger la vie, ou la Macrobiotique. Nouvelle é dition française augmentée
de notes par le Dr. J. Pellagot. Paris, 1874.
RAY LANKESTER. On comparative longevity in man and the lower animals. London, 1870. -
Opera premiata.
RICHARDSON. Long life, and how to reach it. Filadelfia, 1879. (Nella collezione degli American
Health Primers).
DE SAINT MARTIN. Moyens faciles et éprouvés, dont Monsieur de l'Orme premier médecin et
ordinarie de trois nos Rois et Ambassadeur à Clèves pour le Due de Nevers, s'est servi pour vivre
près de cent ans. Paris.
TURCK. La vieillesse considérée comme maladie, et les moyens de la combattre. Ediz. 3a Paris,
1869.
GEORGE MURRAY HUMPHRY. Old age. The results of informations received respecting nearly
nine hundred persons who had attained the age of eighty years, including seventy four centenarians.
Cambridge, 1889.
G. ANDRE. L'hygiène des vieillards. Paris, 1890.
LUBBOCK. Le bonheur de vivre. Traduit sur la XX edition anglaise. Paris, 1891.
MANTEGAZZA. L'arte di campar vecchi. Almanacco igienico. Anno XX, 1885.
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